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Il danno alla vita di relazione: il "primo equivoco" ed i suoi difetti Per Premessa S ULLA NETTA DISTINZIONE TRA DANNO BIOLOGICO E DANNO PATRIMONIALE

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S

ULLA NETTA DISTINZIONE TRA DANNO BIOLOGICO E DANNO PATRIMONIALE

Ugo Dal Lago* Avv. Massimo Ghirini**

Premessa

Per comprendere appieno la natura del danno biologico (o danno alla salute) e distinguerlo adeguatamente dal danno patrimoniale da lucro cessante occorre ripercorrere sia pure sommariamente l'iter giurisprudenziale e dottrinario che ha condotto alla individuazione e delimitazione di tale tipo di danno e della sua risarcibilità.

Per ragioni connesse alla sede di questo intervento non ci si dilungherà né sulla distinzione tra capacità lavorativa generica e specifica (che pure ha fatto da madre all'equivoco che ci sta occupando), né sull'inquadramento del danno biologico in termini di danno patrimoniale, non patrimoniale o extrapatrimoniale: problema questo epistemologico, che invece è al contempo padre e figlio dello stesso equivoco.

Per maggiore chiarezza si parlerà di danno a contenuto economico con riferimento al lucro cessante; di danno non economico riferendosi al danno biologico ed ai suoi "parenti" stretti: infatti il concetto di patrimonialità (e, per converso, di non patrimonialità) è oramai talmente ampio (o ristretto) e comunque controverso, che si corre altrimenti il rischio di attizzare il fuoco dell'equivoco, anziché spegnerlo.

Il danno alla vita di relazione: il "primo equivoco" ed i suoi difetti

I primi accenni alla risarcibilità di un danno ulteriore rispetto a quello "classico" patrimoniale (scomposto nelle due voci di danno emergente in senso stretto e di lucro cessante) risalgono, nel nostro sistema giuridico, al 24 febbraio 1931 allorché per la prima volta in una sentenza della Corte d'Appello di Milano si cita il "danno alla vita di relazione".

Tale voce di danno (antesignana storica del danno biologico) è stata oggetto di svariate valutazioni, che conviene ripercorrere sommariamente. Il danno alla vita di relazione è nato come danno patrimoniale. Tale affermazione non deve sorprendere: per giustificare la risarcibilità di una voce di danno siffatta in un'epoca in cui il risarcimento era inderogabilmente legato allo schema della deminutio patrimonii intesa in senso stretto (come si riteneva imponesse il combinato disposto degli artt. 2043, 2056, 2059 e 1223 C.C.) si cercava di ricondurre nel genus del danno patrimoniale e, quindi, del lucro cessante anche i danni che a rigore non concretavano una lesione del patrimonio:

danni che pure la coscienza sociale imponeva di considerare risarcibili.

Basterà infatti ricordare che ancora nel 1979 il prof. Adriano De Cupis, nel suo pregevole inquadramento dogmatico del "Danno", scriveva a questo proposito di “danni patrimoniali indiretti”, cioè di danni che hanno riflessi sul patrimonio dei soggetti giuridici, pur senza causare una immediata deminutio patrimoni.

Anche nei primi anni ottanta vi era chi non ammetteva la risarcibilità di diritti o interessi che non avessero un contenuto materialmente economico, tale da consentirne la immediata traduzione in termini monetari (ciò, ovvio, al di fuori del caso dei danni morali ex art. 2059 C.C.), seguendo il principio secondo cui “il guadagno è il parametro del danno alla persona”.

E' proprio in ragione dello sforzo interpretativo, teso a consentire il risarcimento almeno parziale di danni che a rigore non colpivano il patrimonio, che si qualificava il danno alla vita di relazione

* Avvocato Giurista, Vicenza

** Avvocato giurista, Vicenza

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come un "danno alla capacità di concorrenza" (Gentile, Il danno alla vita di relazione, Resp. Civ. e Prev., 1940, 161; ed anche Cass. 6.6.87 n. 4956).

Il “danno alla vita di relazione” si sarebbe in altri termini verificato quando gli effetti permanenti di una lesione, attraverso la diminuzione della capacità di relazioni sociali, avrebbero proporzionalmente ridotto la possibilità del soggetto leso di essere “concorrenziale” nel mercato del lavoro, anche oltre i confini della sua ordinaria produttività.

Solo seguendo questo schema il danno alla vita di relazione avrebbe assunto una connotazione

“patrimoniale” assimilabile al lucro cessante, tale da consentirne la liquidazione anche applicando le categorie dogmatiche in auge all'epoca.

Questa ricostruzione teoretica, del tutto apprezzabile nel cercare di coniugare Diritto (risarcibilità dei soli danni patrimoniali) e Giustizia (tutti "sentivano" che anche i danni "non patrimoniali" e comunque "non morali" dovevano essere in qualche modo oggetto di riparazione) era in realtà chiaramente artificiosa, come risultava poi con chiarezza all'atto dell'applicazione pratica dell'istituto giuridico testé delineato.

Ed invero tale voce di danno, pur se ricondotta forzatamente nell'ambito del danno patrimoniale da lucro cessante, veniva poi:

a) da un lato liquidata in via equitativa, senza alcuna connessione diretta con il reddito del soggetto leso (e non ci sarebbe stato altro modo);

b) mentre dall'altro si accettava la prova dalla sussistenza del danno a mezzo di presunzioni semplici", che peraltro venivano quasi a coincidere con il fatto notorio, ditalchè era l'autore dell'illecito che doveva (ammesso che ciò fosse in qualche maniera possibile) provarne l'insussistenza (cfr. Monetti e Pellegrino in F.I., 1974, V, 159).

Tale equivoco vistoso all'occhio odierno divenne ancor più manifesto con il progressivo riconoscimento di alcune ulteriori voci di danno: in specie del "danno estetico" e del "danno alla vita sessuale".

Se infatti per il primo era astrattamente possibile parlare di danno alla capacità concorrenziale (uno sfregio od una mutilazione possono in astratto compromettere le opportunità relazionali, essenziali alla ricerca di un lavoro od alla sua pratica attuazione), per il secondo era ed è assolutamente impraticabile la strada della patrimonialità in senso stretto.

In buona sostanza se tali tipi di danno venivano considerati come patrimoniali è unicamente perché altrimenti non sarebbero stati risarcibili.

In effetti quello che si è definito equivoco (come vedremo meglio in seguito) è determinato dalla mancanza di una teorizzazione compiuta del “fenomeno” danno - risarcimento: la contrastata e spezzettata evoluzione di matrice quasi esclusivamente giurisprudenziale del diritto della responsabilità civile non ha infatti mai consentito una adeguata elaborazione giurisprudenziale;

ancor più che in altri settori il diritto vivente qui sorpassa l'evoluzione teoretica.

La sentenza del tribunale di Genova del 25.5.74: La prima vera distinzione (e l'equivoco liquidativo)

La successiva boa su cui indirizzare la nostra rotta verso la soluzione del quesito, è la famosa sentenza del Tribunale di Genova del 25.5.1974, Rocca contro Ferrarese e S.A.I. (Giurisprudenza it., 1975, 1, 2, 54), fonte di accese dispute dottrinali.

Con questa sentenza si focalizza per la prima volta non in assoluto, ma con una compiuta motivazione teoretica un risarcimento del danno completamente svincolato dal requisito della patrimonialità: la lesione all'individuo è risarcita in sé e per sé senza alcun aggancio al lucro cessante.

In pratica con tale sentenza si abbandona per la prima volta la strada della patrimonialità dell'interesse (rectius: diritto) leso (Carnelutti), ammettendo in astratto la risarcibilità della lesione di un diritto che pur essendo certamente ed assolutamente primario ed inviolabile (la salute) non è certo suscettibile di immediata traduzione in termini monetari.

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Secondo i giudici di Genova è infatti necessario "dare rilievo al danno fisico in sé considerato e di valutare a parte l'eventuale incidenza di esso sulla capacità di lavoro guadagno" (Tribunale Genova, 25.5.74, cit.).

In buona sostanza già alle radici della storia del danno biologico ci si è resi conto che lo stesso è

"cosa" completamente autonoma rispetto al danno patrimoniale ed in specie dal danno patrimoniale da lucro cessante, anche se per entrambe le voci di danno la riparazione ha necessariamente natura pecuniaria: "La sua riduzione in termini monetari suscita due distinti ordini di questioni, a seconda che il danno consista nella sola menomazione fisica oppure se esso sia di entità o caratteristiche tali da limitare realmente l'attività lavorativa del soggetto riducendone di conseguenza la capacità di guadagno. Sul primo aspetto identificato si deve innanzi tutto osservare che una lesione permanente la quale riguardi solo lo stato di salute della persona dovrà essere valutata e quindi liquidata in termini esattamente uguali per tutte le persone, salvo tener conto delle rispettive età. E' evidente infatti che se il danno fisico non influisce minimamente sull'attività lavorativa del leso (e quindi sul relativo reddito) esso sarà identico per tutti, mentre l'unica variabile di cui si dovrà tener conto sarà costituita dall'età dell'infortunato, cioè dalla probabile quantità di tempo durante la quale questi dovrà vivere con quella certa menomazione; l'entità della somma evidentemente diminuirà con l'aumentare dell'età." (Trib. Genova, testé citata).

Già da questi accenni risulta dunque evidente che il danno biologico è ben altro rispetto al lucro cessante ed anzi nasce in netta contrapposizione a quest'ultimo.

Tale significativa e profonda intuizione non è stata forse portata a compimento in quella occasione sotto un unico aspetto: nell'indicare il criterio per procedere alla liquidazione del danno biologico il Tribunale di Genova fece infatti riferimento al reddito medio nazionale, offrendo così il destro al perpetuarsi dell'equivoco lucro cessante - danno biologico.

Risulta infatti improprio (almeno a posteriori e con l'esperienza nel frattempo acquisita) utilizzare uno strumento a carattere precipuamente patrimoniale come il reddito medio, per liquidare un risarcimento che a priori si afferma non patrimoniale.

Ai fini che qui interessano è irrilevante l'abbondante polemica che in seguito (ed ancor oggi) ha tentato di definire il danno biologico come patrimoniale, non patrimoniale o come certi genus:

quello che qui rileva è che il danno biologico (patrimoniale o non patrimoniale che sia) fin dalla sua prima formulazione è comunque diverso dal danno da lucro cessante.

La sovrapposizione del danno biologico con le diverse figure di danno:

l'equivoco ontologico

Senza appesantire questa sintetica relazione con un "carico" di precedenti giurisprudenziali di certo ben noti a tutti, va ancora ricordato qual è stata la successiva evoluzione del problema in esame: evoluzione che vede anzitutto la Giurisprudenza di merito, seguita poi da quella di legittimità, indirizzata ad ammettere la risarcibilità del danno biologico nei termini inizialmente tracciati dal Tribunale di Genova.

Il meccanismo di liquidazione di tale voce di danno (che ha incontrato ed incontra talune differenze, anche pesanti, unicamente con riferimento ai parametri di calcolo) è rimasto sostanzialmente immutato fin dalle origini: se una lesione produce effetti permanenti, questi sono quantificati con l'ausilio determinante del medico legale in una percentuale sul totale, fatta cento l'integrità biologica assoluta. Tale dato percentuale viene poi rapportato ad un'unità di misura (pensione sociale, punto medio, tabelle etc.) ed adeguato alla durata probabile della vita del leso.

Se nello studio della casistica giurisprudenziale sono riscontrabili differenze sostanziali, è agevole constatare che esse si sono verificate nella liquidazione delle voci di danno indicate in precedenza, quali antesignane del danno biologico.

Riassumendo (e, per forza di cose, anche generalizzando) possiamo affermare che in un primo momento, perdurando appieno l'equivoco sul loro carattere patrimoniale, le voci di danno che hanno di fatto costituito l'antecedente logico del danno alla salute sono state liquidate a parte, capitalizzando alcune somme che andavano a sommarsi a quanto liquidato a titolo di danno biologico.

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Solo successivamente re melius perpensa si è fatta strada l'opinione, fondata e condivisibile, che il danno alla vita di relazione, quello estetico, quello sessuale, ecc. dovessero rientrare, nei termini in cui venivano presi in considerazione, nell'ambito del danno biologico e, quindi, non certo quali danni patrimoniali ma proprio per il loro carattere di non patrimonialità in senso stretto, in quanto

"diversi" dal lucro cessante.

In presenza di un'ipotesi di danno biologico, che per il suo manifestarsi è in grado di incidere su qualcuno di detti aspetti della dimensione dell'individuo, il parametro base per la sua quantificazione viene adeguatamente maggiorato, ad esempio prendendo a base del calcolo il quadruplo anziché il triplo della pensione sociale (cfr. ex pluribus Cass. 5.9.88 n. 5033 in Giur. lt., 1989, 1, 1, 1178 per il "danno alla vita di relazione" e Cass. 2.7.91, n.7262 in F.I., 1992, 1, 803 per il "danno estetico").

La stessa sorte è toccata ad altre voci di danno (sempre a contenuto non riferibile al lucro cessante) quale il "danno alla serenità familiare".

Tale danno consiste nella lesione del diritto dell'individuo garantito dall'art. 29 della Carta Costituzionale ad esprimere la propria personalità nell'ambito dell'istituzione familiare.

Anche tale voce di danno, originariamente riconosciuto e liquidato in via autonoma, è stato poi in Giurisprudenza ricompreso nel danno biologico, come gli altri già citati.

Va da sé che tale "ricomprensione" parte sempre dall'indefettibile presupposto che tali "voci di danno" sono considerate "assorbite" solo se ed in quanto costituiscano danno diverso dal lucro cessante.

E' appena il caso di rammentare l'esempio scolastico della fotomodella che rimanga sfregiata: in tale ipotesi il "danno estetico" avrà due distinte dimensioni: quella "biologica" e quella

"patrimoniale", che dovranno essere oggetto di liquidazioni ben separate.

La cosiddetta "omnicomprensività” del danno b1ologico

In questo quadro normativo si è inserita, con tutta l'autorevolezza dei Giudici delle Leggi, la ormai celeberrima sentenza 184/86 della Corte Costituzionale.

Com'è ben noto la Corte nella motivazione di tale sentenza ha posto una netta distinzione tra danno evento e danno conseguenza.

In particolare vi si legge "Per poter distinguere il danno biologico dai danni morali subiectivi, ecc. come dai danni patrimoniali in senso stretto, occorre chiarire la struttura del fatto realizzativo della menomazione dell'integrità bio-psichica del soggetto offeso.

Ed a tal fine va premessa la distinzione tra evento dannoso o pericoloso, al quale appartiene il danno biologico, e danno conseguenza, al quale appartengono il danno morale subiettivo ed il danno patrimoniale.

Vale, infatti, distinguere da un canto il fatto costitutivo dell'illecito civile extracontrattuale e dall'altro, le conseguenze, in senso proprio, dannose del “fatto stesso”.

In sostanza, per la Corte Costituzionale, il danno biologico assume una rilevanza autonoma e totalmente distinta da qualsiasi altra componente di danno: come perdita dell'integrità corporea dell'individuo, che si concreta al momento stesso della lesione, il danno biologico diviene assimilabile in un certo senso al danno emergente e di certo non al lucro cessante.

Le conseguenze successive della menomazione psicofisica sulla vita dell'individuo rilevano quindi semmai per la determinazione in concreto della liquidazione del risarcimento, che ha pur sempre funzione riparatoria; e non certo per la determinazione dell'entità del danno stesso.

Al di là delle polemiche che tale inquadramento ha suscitato (nel momento in cui ha mutuato categorie forse più vicine al diritto penale che non a quello civile) ne residua incontrovertibilmente che il danno biologico così come configurato dalla citata sentenza 184/86 della Corte Costituzionale costituisce un'entità giuridica assolutamente diversa sul piano ontologico dal danno patrimoniale da lucro cessante.

La Corte richiama in proposito la categoria del "danno materiale": e da ciò deriva che il danno biologico (nella configurazione da Essa voluta) è ontologicamente unico e si concreta di per se

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stesso già nella menomazione fisica o psichica (danno evento) senza alcuna attenzione per i riflessi successivi (danni conseguenza).

Ed invero così recita la motivazione della citata sentenza 184/86: "L'interpretazione giudiziaria ha già iniziato la revisione di alcune nozioni tradizionali; dall'esperienza giudiziaria sono nati il danno alla vita di relazione, il danno alla sfera sessuale, il danno estetico non concretamente incidente sulla capacità di guadagno, ecc. e sono state prese in considerazione, ad esempio, le ipotesi di piccole invalidità permanenti non influenti sul reddito del soggetto nonché quelle relative a periodi di malattia temporanea durante i quali il lavoratore ha continuato a percepire l'intera retribuzione".

Da ciò consegue che il fatto e la lesione che costituiscono il danno biologico "non vanno in alcun modo confusi con l'eventuale presenza, in concreto, di danni patrimoniali od economici, conseguenti al fatto od alla lesione ora specificati".

La Giurisprudenza comunque non ha dimenticato che, pur partendo da tale concetto, l'equità impone di non considerare in maniera identica, puramente tabellare, il risarcimento del danno biologico: se tutti i danni venissero considerati e risarciti in eguale maniera, utilizzando come unici parametri l'età e le percentuali di invalidità, si perverrebbe ad un'ingiustizia di fatto.

Difatti se è pur vero che il danno biologico è omnicomprensivo, esso lo è nel senso che come lesione dell'integrità psicofisica dell'individuo ha come oggetto (e devono essere quindi valutate ai fini della liquidazione) tutte le limitazioni che la lesione - malattia crea all'individuo nello svolgimento delle sue normali attività.

Quelle che un tempo costituivano autonome voci di danno sono quindi divenute (o dovrebbero esserlo) parametri per definire, a parità di danno, quale deve essere effettivamente l'entità del risarcimento: è ovvio che, ad esempio, una lesione ai legamenti che inibisce l'esercizio di un'attività sportiva dovrà essere valutata diversamente in un soggetto sedentario rispetto ad un praticante attività agonistica dilettantistica; ma questo non è altro che applicare il "danno alla vita di relazione"

come parametro del danno biologico.

Ciò posto è evidente che si può parlare al limite di centralità del danno biologico e non certo di omnicomprensività: anche aderendo all'impostazione della Corte Costituzionale il danno biologico un'entità definita e distinta dalle altre voci, soprattutto da quelle a contenuto patrimoniale in senso tradizionale.

Conclusioni

A questo punto tutti gli strumenti esegetici necessari e sufficienti per rispondere alla domanda circa la vigente "permanenza" del diritto al risarcimento del danno da lucro cessante sono stati raccolti.

Riassumendo per sintesi e chiarezza possiamo ben dire:

a) che sul piano storico si è via via riscontrato uno "sviluppo progressivo" del danno biologico attraverso la configurazione di varie voci di danno "specifiche";

b) che tali voci dapprima configurate come vari aspetti del lucro cessante ai fini di giustificarne giuridicamente la liquidazione sono state poi riconosciute come species di danno extra patrimoniale o patrimoniale, ma diverse dal lucro cessante;

c) che la Giurisprudenza di merito a partire dal 1974 ha ammesso la liquidazione di un danno

"svincolato" da quelli che si ritenevano i limiti imposti dall'art. 2043 C.C., dapprima con la creazione della categoria del danno extrapatrimoniale, poi con l'ampliamento dello stesso concetto di patrimonialità;

d) che le varie voci di danno inizialmente riconosciute in via autonoma attraverso la riconfigurazione della patrimonialità, sono state poi ricondotte nell'alveo del danno biologico, questo nel contempo mater et filius di tutte le voci di danno che hanno come antesignano il danno alla vita di relazione;

e) che la Corte Costituzionale, nella sua "summa" opera di controllo dell'operato della Dottrina e dei Giudici sia di merito che di legittimità, ha parzialmente riconfigurato ex post il danno

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biologico, introducendo (rectius: reintroducendo) il concetto di danno evento, distinguendolo dal danno conseguenza

Muovendo da questi indefettibili presupposti la risposta alla domanda odierna viene da sola ed è non meno categorica che chiara: il danno biologico non può mai "conglobare" anche il danno da lucro cessante, essendo da questo ben distinto sia sul piano sostanziale che su quello concettuale.

Il lucro cessante, infatti, rappresenta la perdita sicura di un introito economico che si sarebbe in futuro verificato a favore del soggetto danneggiato; mentre il danno biologico assume comunque l'aspetto di perdita di uno "status", di tutte o di alcune qualità della vita in precedenza godute dal soggetto.

E valga il vero.

A) Riguardando il problema sulla scorta dell'interpretazione storica è agevole riscontrare come le varie voci di danno riconosciute precedentemente alla "nascita" del danno biologico e poi confluite nel danno biologico stesso, hanno tutte contenuto non economico.

E' difatti il danno alla vita di relazione, il danno sessuale, il danno estetico, il danno alla serenità familiare etc. non hanno in se stessi alcun contenuto economico; al più alcuni di essi possono avere effetti riflessi sul piano economico (segnatamente il danno alla vita di relazione e quello estetico);

ma allora si tratterà di due "danni" diversi, separatamente risarcibili.

A titolo di esempio il danno biologico costituito da uno sfregio, ove comporti anche una perdita di guadagno (come nel già citato esempio della fotomodella) potrà causare: a) un riflesso sul piano personale (rapporti con i terzi, autostima etc.) che costituisce lesione di un diritto a contenuto non economico, ma che è assolutamente distinto dal lucro cessante; b) un altro riflesso sul piano economico per la conseguente risoluzione e/o mancata stipula di contratti di lavoro.

Entrambe le ipotesi costituiscono lesioni (ingiuste) di diritti, che il disposto dell'art. 2043 C.C.

impone di riparare: né è giuridicamente possibile escludere una voce a favore dell'altra.

Argomentare diversamente sostenendo la risarcibilità del solo danno biologico comporterebbe oltretutto una interpretazione dell'art. 2043 C.C. in violazione del precetto costituzionale di uguaglianza: id est trattare allo stesso modo situazioni di fatto diverse.

B) Anche ed a maggior ragione seguendo l'impostazione della Corte Costituzionale che suddivide i danni nelle due categorie del danno evento e del danno conseguenza assolutamente impossibile ricondurre il lucro cessante sub specie del danno biologico.

E difatti il lucro cessante rientra al pari del danno morale a pieno titolo tra i danni conseguenza (ed, anzi, ne è l'esempio tipico) ossia tra quei danni che sono eventi a sé stanti, connessi causalmente con il fatto ingiusto, id est con l'azione lesiva e l'evento da essa prodotto.

Il danno biologico, invece, costituisce un'ipotesi di danno evento in senso stretto, rapportabile semmai alla categoria del danno emergente; esso configura una menomazione in sé e per sé considerata del bene salute e del correlativo diritto. In danno biologico in buona sostanza è una vera e propria deminutio patrimonio, ma riguarda un bene non economico; basti pensare che tale deminutio viene espressa in percentuale sulla totale integrità fisica precedente alla lesione.

Va da sé che la lesione del bene salute, in quanto evento, comporterà a sua volta delle conseguenze (danni conseguenza) che potranno esse stesse avere valenza economica (id est lucro cessante) o meno.

In realtà se una menomazione fisica pregiudica la possibilità di guadagno si avrà il "danno conseguenza" da lucro cessante; se dalla stessa lesione deriva l'impossibilità per il danneggiato di interagire normalmente con il proprio ambiente sociale (c.d. danno alla vita di relazione) si avrà un ulteriore e diverso danno conseguenza, che, seguendo gli insegnamenti della Giurisprudenza, dovrà essere adeguatamente valutato al momento della liquidazione del danno biologico.

C) Ciò posto in linea generale occorre verificare quali siano gli effetti pratici delle affermazioni teoretiche testé precisate: al quale riguardo 'l'esperienza dei casi limite meglio di ogni altra fa emergere i problemi nella loro chiarezza.

E così in tema di risarcibilità del lucro cessante i problemi possono sorgere:

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1. ove il soggetto non sia percettore di reddito (ad es.: casalinga);

2. nei casi delle c.d. "piccole invalidità" o del lavoratore dipendente, che percepisca comunque la retribuzione. Vediamoli.

1) E' evidente che si tratta di un falso problema: nel caso della casalinga vi è un danno da lucro cessante, ma esso è pur sempre distinto dal danno biologico; invero se per compiere le usuali attività domestiche il danneggiato (o, per lui i suoi conviventi) dopo ed a causa della lesione è costretto a rivolgersi a terzi che prestano la loro opera a titolo oneroso, ci sarà semmai un danno emergente, anche se futuro (c.d. spese future) e questo dovrà ovviamente essere oggetto di liquidazione e di risarcimento.

Se, invece, la menomazione costringerà il soggetto-danneggiato ad impiegare maggior tempo nelle attività domestiche, restringendogli lo spazio in precedenza dedicato alle altre sue attività, ovvero costringerà i familiari conviventi a prestare la loro opera in luogo del leso, tutto ciò dovrà essere tenuto in debito conto dal Giudice all'atto della liquidazione. Ed invero, trattandosi di prestazione d'opera per cui esiste comunque un prezzo di mercato (basta fare riferimento alla paga oraria delle colf) sarà agevolmente possibile quantificare le conseguenze economiche del danno sulla base del reddito figurativo (in questo senso, da ultimo, Cass. Civ. 15.11.96 n. 1001 5).

E se il soggetto non percettore di reddito è uno studente e la menomazione gli inibisce lo svolgimento in tutto od in parte di qualsiasi attività lavorativa proficua, si appalesa in tutta la sua gravità l'estrema ingiustizia dell'orientamento che vorrebbe escludere in toto la risarcibilità del danno da lucro cessante.

E difatti se è pur vero che il soggetto leso non è allo stato produttore di reddito è altrettanto innegabile tanto da costituire fatto notorio che nel futuro più o meno immediato, a seconda dell'età del leso, questi un reddito avrebbe sicuramente prodotto. Ed il fatto che sia stato posto da altri nella

"condizione" di non poterlo produrre evidenzia ancor più l'ingiustizia colossale dell'orientamento

"cinico" qui decisamente criticato.

Si può dunque senz'altro affermare al di là di "ogni ragionevole dubbio"- che se la menomazione subita da un soggetto giovane non ancora produttore di reddito è tale da inibirgli totalmente o parzialmente lo svolgimento di una futura attività lavorativa (e così anche se la renderà, con certezza, più gravosa) il danno da lucro cessante dovrà essergli risarcito, ricorrendo a criteri liquidativi attestati sulle ben note presunzioni probabilistiche. E così se gli studi del danneggiato fanno intendere con ragionevole grado di probabilità (ad es.: scuole tecnico/professionali) quale sarebbe stata la futura "carriera" del soggetto, la liquidazione del danno potrà essere quella derivante dal calcolo della relativa retribuzione "normale" per quella mancata carriera, ricorrendo ai parametri del contratto collettivo vigente.

In mancanza dovrà soccorrere il criterio fissato proprio a questo scopo dall'art. 4 della L. 990/69, che fissa appunto il criterio per la determinazione del reddito figurativo (in via equitativa, ossia ai sensi dell'art. 1226 C.C.) quando non sia altrimenti possibile rilevarlo (sul punto è particolarmente illuminante la sent. del Tribunale di Savona n. 481 del 3.8.1995 in Giur. Civ., 1996, 560).

Si tratta in buona sostanza (come si legge nella motivazione della sentenza testé citata) di

"riconoscere, allorché ne ricorrano i presupposti, l'esistenza di un lucro cessante, valutabile in via equitativa, anche a quei soggetti che, non potendo addurre una effettiva diminuzione del proprio guadagno, vedano tuttavia compromessa la propria capacità di produrre reddito".

Si badi bene che non si sta parlando di "capacità lavorativa generica o specifica", ma di liquidazione in via equitativa di un danno di cui non si può provare il concreto ammontare, ma di cui si è provata l'esistenza per cui il legislatore ha già indicato i parametri all'art. 4 della miniriforma.

2) Qui il problema è diverso.

In particolare si vuol fare riferimento a quelle invalidità che, pur non impedendo l'esercizio dell'attività lavorativa, la rendono più gravosa o impediscono promozioni o progressioni di carriera.

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In questo caso il problema più gravoso non è certo dato dalla risarcibilità del lucro cessante, ma è costituito dalla prova della ripercussione del danno biologico subito in ambito lavorativo e, quindi, strettamente economico.

E' di tutta evidenza infatti che se si tratta di un libero professionista e l'invalidità ancorché piccola importa una diminuzione delle ore lavorative e quindi (ed in via diretta) del guadagno, la prova sarà agevole.

Se invece l'invalidità colpisce il lavoratore dipendente non sarà possibile fornire una prova diretta dell'incidenza della patologia sul guadagno, salvo il caso (nella pratica raro) del danneggiato che debba rinunciare agli straordinari.

In tutti gli altri casi diviene fondamentale il ruolo del medico legale, l'unico che possa definire a priori, sulla base dei caratteri della menomazione, l'incidenza sulla maggiore "fatica" necessaria a fornire la stessa prestazione lavorativa.

Qualora questa "fatica" sia quantificabile non si vede perché essa non debba essere compensata in termini monetari, postochè si tratta pur sempre di energie che l'individuo spende oltre a quanto normalmente necessario, senza un corrispondente aumento retributivo da parte del datore di lavoro.

Nel caso della perdita delle possibilità di promozione o di progressione di carriera, la difficoltà sarà quella di fornire la prova della possibilità concreta (rectius: probabilità) di promozione - progressione.

Ma una volta che tale prova sia fornita non si vede come non possa essere riconosciuto il risarcimento del relativo danno, quantificato nella differenza tra la retribuzione effettivamente percepita e quella che il soggetto avrebbe potuto ottenere ove gli fosse stato consentito di raggiungere per effetto del semplice trascorrere del tempo la mancata promozione - progressione.

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