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La musica popolare. Eleonora Rocconi (Università di Pavia)

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Academic year: 2022

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La ‘musica popolare’

Eleonora Rocconi (Università di Pavia)

Nel campo degli studi musicologici, l’etichetta popular music (che può essere tradotta in italiano, seppur con un calco che non ne rende tutte le sfumature, con l'espressione ‘musica popolare’) è un umbrella term—per usare una terminologia cara al mondo anglosassone—che racchiude una grande varietà di generi accomunati da un’ampia fruizione e accessibilità da parte del pubblico, ma che resta di difficile e controversa definizione. L’aggettivo è stato di volta in volta utilizzato, in riferimento a un certo repertorio, per indicarne l’ampio consumo, la distribuzione di massa resa possibile dalle nuove tecnologie, i legami con determinati gruppi sociali o più in generale per distinguere, nell’ambito della grande tripartizione dei generi musicali, tale categoria dalla cosiddetta ‘musica colta’ (detta anche ‘classica’) e da quella ‘folk’, di altrettanto problematica definizione1. Al di là dell’ampio dibattito teorico—mai sopito—su queste classificazioni, da alcuni anni tutte e tre queste categorie hanno acquisito pari dignità nell’ambito della ricerca accademica e sono state storicizzate.

Tecnicamente è forse l’etichetta ‘folk’ (che rimanda più direttamente ai concetti di ‘tradizione’,

‘trasmissione orale’ e ‘anonimato’, ed è oggetto di studio dell’etnomusicologia) a poter essere utilizzata in modo più pertinente quando, con riferimento all’antichità classica, parliamo di musiche legate a contesti non istituzionali e facenti parte di un ‘sommerso’ che non ha passato il vaglio della canonizzazione ufficiale2. Tuttavia, per uniformità con l’approccio generale di questo progetto, continuerò qui ad utilizzare la dicitura ‘popolare’, la cui applicazione al mondo antico ha recentemente avviato un filone molto promettente di studi3, pur consapevole che in ambito più strettamente musicologico tale etichetta può veicolare significati anche piuttosto diversi.

1. Multimedialità e canonizzazioni

La fruizione orale della ‘letteratura’ greca più antica (soprattutto nel caso di epica, melica e teatro) era indissolubilmente legata al medium musicale che, grazie alla natura melodica dell’accento della lingua greca4 e al profondo radicamento delle componenti ritmiche nella prosodia del testo5, ne agevolava la memorizzazione e la rapida diffusione anche in luoghi geograficamente lontani (musicisti e poeti erano inseriti in una cultura della mobilità), garantendo una pervasività trasversale anche dal punto di vista sociale. Si pensi alla figura di Demodoco nell’Odissea, aedo di corte nella reggia di Alcinoo che si esibisce sia nell’ufficialità della sala del trono, cantando episodi della guerra di Troia che fungono da autorevole modello di comportamento per l’élite guerriera (Odissea 8, vv.

62-75 e 471-531), sia in uno spazio aperto di fronte alla platea allargata dei Feaci attorniato da danzatori muti, in tal caso scegliendo un tema più ‘popolare’ (con riferimento all’ampia e variegata utenza del contesto cittadino) e ‘leggero’ come gli intrighi amorosi di Ares e Afrodite (Odissea 8, vv.

250-269).

Al momento della selezione che in età ellenistica, grazie alla scrittura, ha permesso di preservare i repertori poetici del passato e li ha proiettati fino a noi, il codice musicale che tanta

1 Grove Music Online, s.v. ‘popular music’ (Hamm, Walser, Warwick e Hiroshi Garrett 2014).

2 La categoria di ‘sommerso’ riprende la definizione di Rossi 2000, poi ripresa e articolata nel lavoro dei suoi allievi (Colesanti e Giordano 2014; Colesanti e Lulli 2016).

3 Oltre agli studi dell’ideatore e curatore di questo repertorio (Lelli 2014 e 2016), si veda anche Grig 2016.

4 Grazie al quale ad accento acuto (/) corrispondeva una elevazione nell’intonazione della voce di circa una quinta (come specifica Dionigi di Alicarnasso, Sulla composizione delle parole 11, 73 ss.), ad accento grave (\) un ritorno alla tonalità originaria, mentre nelle sillabe su cui vi era l’accento circonflesso (/\) l’intonazione saliva per poi ridiscendere (Devine e Stephens 1994, 172-173). L’autore che, nel IV sec. a.C., descrive la naturale melodia del parlato è il teorico musicale Aristosseno di Taranto, Elementi di armonia 13, 8 ss. Da Rios. Una sintesi sull’importanza di questa caratteristica della lingua greca antica per la composizione e memorizzazione delle melodie che accompagnavano la versificazione poetica è in Rocconi 2016a, 12-14.

5 Le componenti metriche, vale a dire l’alternanza di sillabe lunghe e brevi del testo, costituivano la base ritmica delle partiture musicali, pur se il ritmo della melodia poteva occasionalmente variare la durata di base delle quantità sillabiche (Rocconi 2008).

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importanza aveva avuto nella performance originaria ha cessato la sua funzione e non è stato

‘registrato’6. Quelle forme musicali che, a livello di contenuto, non erano ritenute degne di essere salvaguardate e che mancavano di autorialità sono, perciò, cadute nell’oblio o trapelate solo indirettamente grazie a una trasmissione fortuita7. Allo stesso tempo, venendo a mancare, nel medium scritto, l’immediatezza dell’ascolto da parte di un pubblico in un’occasione specifica (ciò che, nella famosa formulazione di Luigi Enrico Rossi, aveva determinato la canonizzazione dei generi secondo

‘leggi non scritte’)8, si è venuta a generare una progressiva e crescente distanza tra ‘letterario’ e

‘popolare’ grazie a una sempre più netta diversificazione dei circuiti di fruizione dei repertori poetici (da un lato l’erudizione alessandrina che utilizza ormai con regolarità la scrittura, nel cui ambito poesia e musica appaiono ormai separate; dall’altro forme di intrattenimento spettacolare che continuano ad essere affidate all’oralità, nelle quali la musica gioca un ruolo sempre più preponderante). Parallelamente, anche nel mondo romano si verifica un fenomeno simile: mentre nei carmina più antichi il legame della parola con il canto è indissolubile (carmen da cano = “io canto”)9, la poesia colta di età repubblicana e soprattutto imperiale perde, nella gran parte dei casi, la resa melodica10, laddove invece i contesti spettacolari – legati soprattutto al teatro – moltiplicano e diversificano le occasioni di performance musicale.

Ma quali sono stati i criteri per l’esclusione di un determinato repertorio poetico-musicale dalla canonizzazione ufficiale? Vi è stata consapevolezza, da parte degli antichi, di una categoria popolare o folklorica ben prima della diffusione della scrittura? E, soprattutto, siamo noi oggi in grado di identificarne le tracce?

2. Tracce (e influenze) di un sommerso musicale popolare

Esclusa, per il côté antico, la possibilità di interpretare l’aggettivo ‘popolare’ in senso sociale (l’espressione pandēmos mousikē, “musica popolare”, citata in un frammento di Aristosseno di Taranto si riferisce all’ampio consenso, in termini di pubblico, dei nuovi stili musicali)11, le tracce della sopravvivenza di un sommerso musicale vanno ricercate nelle pieghe di testi autoriali che ne conservano, più o meno consapevolmente, la memoria. Che si parli – seguendo Bakhtin – di

‘interpenetrazione’ tra alta e bassa cultura12 o – parafrasando Yatromanolakis – di ‘interdiscorsività’

tra i generi13, la confluenza di toni e generi diversi nei testi poetici (un tempo rivestiti di musica) giunti sino a noi è innegabile. È questo l’aspetto che, meglio di altri, può guidarci nel tentativo di identificare le sopravvivenze di un repertorio spesso anonimo, diffuso e trasmesso oralmente nonché costantemente sottoposto a rielaborazioni a seconda dell’occasione e del contesto performativo (per un elenco completo dei criteri empirici utili a identificare la categoria – artificiosa, ma utile – dei cosiddetti carmina popularia, vd. Neri 2003 e qui: Neri, Poesia popolare.)14.

6 Sul concetto di ‘registrazione’ della performance antica (nello specifico del genere teatrale) si vedano Montana 2016 e Rocconi 2016a.

7 Il controllo istituzionale fu fattore determinante nella selezione dei testi antichi trasmessi sino a noi: su questi argomenti si vedano Ercolani 2014, 14 ss., e Nicolai 2014, 36.

8 Rossi 1971.

9 Ad es. il carmen Saliare, antica forma musicale religiosa intonata da sacerdoti detti Salii, o i carmina convivalia, i canti intonati a convivio. Su carmen si veda il recente contributo di Pierre 2016.

10 Rossi 1998.

11 Aristosseno fr. 124 Wehrli. Va sottolineato che il contesto in cui appare l’espressione le conferisce un senso dispregiativo («anche noi, dice Aristosseno, da quando i teatri si sono imbarbariti e questa musica popolare – cioè “che piace a tutti” – è andata incontro a una grave degenerazione, siamo rimasti in pochi tra noi a ricordare com’era un tempo la musica»). Stessa cosa si può dell’aggettivo philanthrōpos, riferito allo stile della cosiddetta ‘Nuova Musica’ in Pseudo- Plutarco Sulla musica 12, 1135c-d: τὸν φιλάνθρωπον καὶ θεματικὸν νῦν ὀνομαζόμενον τρόπον, «quello che ora viene definito stile popolare e mercenario». Sui damōmata citati da Stesicoro in un frammento dell’Orestea (fr. 212) con un probabile senso affine ai significati appena menzionati di pandēmos e philanthrōpos (relativo cioè alla fruizione dei canti da parte di un ampio pubblico), si veda Neri in questo volume.

12 Bakhtin 1981.

13 Yatromanolakis 2009.

14 Cf. anche Palmisciano 2003.

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2.1. Una definitiva conferma della piena consapevolezza e riconoscibilità, da parte degli antichi, della pluralità e trasversalità degli stili musicali impiegati dai compositori si legge già in un passo delle Rane di Aristofane (405 a.C.), una commedia in cui l’autore parla in modo esplicito delle modalità performative tipiche del linguaggio teatrale contemporaneo. Durante l’agone nell’Ade tra Eschilo ed Euripide, rappresentati come antagonisti per conquistare il giudizio favorevole di Dioniso che riporterà in vita quello che egli ritiene essere stato il miglior poeta, i due personaggi sulla scena si confrontano sui rispettivi stili dei canti sia solistici (monōidiai) che corali (melē). La possibilità che, a teatro, le musiche di scena si basassero sulla riproduzione, imitazione o allusione ai generi musicali più in voga dell’epoca (inni cultuali, canti matrimoniali, melodie da simposio, etc.), scelti in base alla loro pertinenza al contesto scenico (si vedano, ad es., il grande inno a Zeus che realizza la parodo dell’Agamennone di Eschilo, l’imeneo intonato per il matrimonio tra Trigeo e Opora nel finale della Pace di Aristofane, il simposio immaginario delle Vespe dello stesso autore, e via dicendo), è confermata da un vivace alterco tra i due tragediografi. Durante tale confronto, Euripide è criticato proprio per aver preso ispirazione da modelli musicali descritti come non consoni allo stile tragico, che ben potremmo etichettare come ‘popolari’:

«Invece lui (sc. Euripide) prende il suo miele dappertutto: canti da puttane, canzoni di Meleto, motivetti per aulo della Caria, compianti funebri, arie di danza. Adesso si vedrà:

portatemi la lira. Del resto, che bisogno c’è della lira per lui? Dov’è la ragazza che suona gli ostraka? Vieni, Musa di Euripide: questi canti sono fatti per il tuo accompagnamento»15.

L’inappropriatezza per il contesto tragico (in cui si muovono personaggi di rango elevato, quali dèi ed eroi)16 delle forme musicali citate in questi versi era, a quanto pare, confermata dalla messa in scena. La cosiddetta Musa di Euripide che gli spettatori vedevano qui apparire richiamava, con ogni probabilità, le etère che, con musiche e danze nonché prestazioni sessuali, erano solite allietare le serate dei partecipanti a simposio17: le aulētrides, le suonatrici di aulo, e le altre professioniste, per i costi delle quali la città di Atene aveva addirittura fissato un tetto massimo di spesa di due dracme (Aristotele La costituzione degli Ateniesi 50.2)18. Questa resa scenica ben si sposa con la menzione dei “canti di prostitute” (pornōidiōn, congettura di Meineke, probabile conio aristofaneo da pornē,

“prostituta” + ōidē, “canto”) citati all’inizio della lista sopra citata19, che comprende carmi conviviali (skolia) e arie strumentali per aulo (aulēmata) dall’evidente sapore esotico: la Caria era una regione dell’Asia Minore la cui menzione poteva alludere non solo, genericamente, a qualcosa di ‘barbaro’, ma anche al fatto che i Cari, spesso arruolati come soldati mercenari, proverbialmente indicavano cose di poco o nessun valore20. La successiva allusione ai compianti funebri, thrēnoi, trova un riscontro nella “Musa (= musica) Caria” citata da Platone in Leggi 7, 800e, intonata da cori che partecipavano ai funerali dietro compenso economico21.

Più in generale, l’opposizione aulo vs lira utilizzata da Aristofane, un cliché in questo particolare periodo storico22, pare qui veicolare un’opposizione tra strumenti e forme musicali ‘basse’

15 Aristofane Rane vv. 1301-1307 (trad. Del Corno 19922, leggermente modificata),

16 Ben diversi dai personaggi della commedia, come chiarirà molti decenni più tardi Aristotele nella Poetica.

17 Borthwick 1994, 78; De Simone 2008.

18 Sull’argomento si veda Rocconi 2006.

19 Ripresi poi nell’immagine delle «dodici posizioni di Cirene» (famosa prostituta dell’epoca, cf. Rane vv. 1327-1328), espressione che allude alla varietà – poco edificante – di stili Euripide utilizzerebbe, secondo Eschilo, nella sua musica.

20 Vd. Sofocle fr. 540, dove Karikos (“cario, della Caria”) è sinonimo di eutelēs (“a buon mercato, di poco pregio, privo di valore”). Per il proverbio «giurare sulla testa d’un Cario» si veda Euripide Ciclope v. 654.

21 Sull’associazione tra Caria e lamenti funebri si veda anche Ateneo I sofisti a banchetto 4, 174f (trad. Citelli 2001): «I Fenici… usavano degli auli simili a dei pifferi (gingroi), lunghi una spanna e dal suono acuto e lamentoso. Se ne servivano anche le genti della Caria nei lamenti funebri».

22 Wilson 1999 e 2004.

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e ‘volgari’ da un lato23, ‘elevate’ e ‘dignitose’ dall’altro: nella frase «che bisogno c’è della lira per Euripide?» vi è infatti un riferimento puntuale all’utilizzo dello strumento a corda da parte di Eschilo durante i precedenti vv. 1281-1297. Qui il rimando alla grande tradizione della melica citarodica – di cui il poeta si era proclamato erede24 – si concretizza nell’uso ripetuto dell’onomatopea che riproduce lo strimpellio sulle corde (phlattothrattophlattothrat), trasformando (o, per meglio dire,

‘declassando’) di fatto il canto eschileo in un centone parodico che, nel rovesciamento comico, pare un canto di lavoro – e come tale viene interpretato25.

È interessante notare come alcuni esempi nei drammi euripidei superstiti sembrino fornire un’esemplificazione di quel che Aristofane rimprovera ad Euripide in questi versi. L’Elettra – tragedia rappresentata in una data compresa tra il 424 e il 415 a.C., che mette in scena il mito argivo della vendetta di Oreste e sorella nei confronti della propria madre, assassina del loro padre Agamennone – presenta elementi della trama che possono far supporre l’uso, da parte di Euripide, di elementi musicali ‘popolareggianti’ simili a quelli citati nelle Rane26. Una delle particolarità di questo dramma è infatti l’introduzione di un personaggio del tutto assente nel mito tradizionale, il contadino sposo della protagonista, inserito dal poeta quale rappresentante di una fascia sociale ‘bassa’ ma tratteggiato in maniera moralmente positiva, allo scopo di polemizzare contro l’identificazione dell’eugeneia con le origini aristocratiche. Proprio alla fine del prologo, dopo che il contadino è uscito di scena e che Oreste, giunto nei pressi di Argo, si è nascosto per l’arrivo inaspettato di una donna, compare Elettra con un’anfora sul capo, diretta alla fonte per prendere l’acqua: nel compiere questo gesto, il personaggio canta una monodia (vv. 112-166) al termine della quale il coro farà poi il suo ingresso sulla scena. Non possediamo le note su cui era intonato il canto di Elettra, ma è alquanto verosimile che esso si ispirasse a forme conosciute di canti di lavoro, come le melodie intonate dalle donne che si recavano a raccogliere l’acqua alla fonte, un topos diffusissimo in tutte le tradizioni popolari. Diversamente dalla maggior parte dei work songs di natura corale (vd. infra), questo tipo di canto è solitamente monodico, ha carattere narrativo e forma strofica, come La bella la va al fosso, la famosa ballata tipica del Nord Italia. Non essendo funzionale ad alcun gesto lavorativo di tipo meccanico, il ritmo di queste ballate è necessariamente meno regolare e ripetitivo di quello utilizzato nei canti di lavoro di tipo corale o amebaico (dove vi è, cioè, un solista che dà il ritmo al coro), mentre l’elemento narrativo è giustificato dal fatto che il viaggio alla fonte era uno dei rari momenti in cui la donna usciva di casa e potevano verificarsi eventi o incontri di vario genere, poi stilizzati nel canto.

Se si analizza l’aria di Elettra dal punto di vista strutturale e ritmico, la monodia appare articolata in due triadi strofiche (del tipo strofe-mesodo-antistrofe), con un refrain – elemento tipico della poesia popolare – all’inizio della prima strofe e della prima antistrofe. L’uso del ritmo anapestico nel ritornello è funzionale all’incedere dei passi di Elettra: il testo del refrain («Affretta il passo, è l’ora.

Cammina, cammina, e piangi. Povera me, povera», trad. Albini e Faggi 19893) indica che la donna si sta affrettando, mentre la presenza di fenomeni come lo iato e le pause ritmiche conferisce alle parole di Elettra un effetto staccato, interpretabile come espressione dell’affanno con cui la donna cerca di allungare il passo27. Non mancano espressioni di lamento: anche il lessico oscilla tra forme colloquiali ed espressioni proprie del lamento funebre (interiezioni e esclamazioni), nel ritornello come nel resto del canto.

23 Aristotele, nella Politica, definisce l’arte auletica non degna di essere praticata da uomini liberi ma «roba a pagamento»

(ergasian … thētikōretan, Pol. 8, 1341b, trad. Laurenti 19952).

24 Cf. vv. 1281-1282 (dove parla Euripide, riferendosi al suo avversario): «Aspetta, prima sta’ a sentire un’altra fila di canti, confezionata con le sue arie per la cetra (ek tōn kitharōidikōn nomōn)». Sull’allusione, in questo passo, alla tradizione citarodica del passato si veda Montana 2009.

25 Cf. vv. 1296-1297 (dove a parlare è Dioniso, dopo la parodia di un canto eschileo da parte di Euripide): «Cos’è questo phlattothrat? Le hai raccolta a Maratona o in quale altro posto questi canti da facchino?» (himoniostrophou melē, alla lettera “i canti di chi tira la corda al pozzo”).

26 Queste considerazioni sull’Elettra riproducono, con le opportune modifiche, quelle già espresse in un mio precedente lavoro (Rocconi 2016b).

27 Per un’analisi metrica puntuale e dettagliata di questo canto si veda De Poli 2012, 130-132.

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La caratteristica più evidente di questa monodia pare quindi essere una commistione di generi poetico-musicali differenti tra loro, che comprendono anche forme popolari (o ‘popolareggianti’, nella loro riproduzione tragica) come i canti di lavoro28. Una connotazione in tal senso del personaggio di Elettra è senza dubbio funzionale all’introduzione, da parte di Euripide, di una categoria e ambiente sociale che contrastino con la natura eroica e aristocratica della casata degli Atridi e la sviliscano moralmente. Inoltre, da un punto di vista strettamente drammaturgico, essa risulta essenziale al ricongiungimento tra Elettra e Oreste (Elettra esce di casa per andare a prendere l’acqua e, così facendo, viene vista dal fratello, con cui successivamente si riunirà e potrà quindi mettere in atto la vendetta a lungo agognata). Il predominante carattere trenodico e patetico del brano rimanda invece a forme liriche più auliche o autoriali, adeguate al genere tragico e allo statuto, pur sempre nobile, del personaggio29.

Sempre in contesto euripideo, un’altra tipologia di canto di lavoro – in questo caso corale – è identificabile nel Ciclope (ca. 408 a.C.), opera appartenente al genere del dramma satiresco che, grazie alla presenza di un coro formato da satiri, poteva facilmente presentare situazioni sceniche legate al mondo agreste (e quindi, più in generale, ‘popolare’). In una delle scene finali, in cui Odisseo cerca di convincere i satiri ad aiutarlo nell’impresa di accecare il gigante con il tizzone ardente, il coro dimostra tutta la sua codardia rifiutando un coinvolgimento diretto nell’azione e costringendo l’eroe ad avvalersi dei soli compagni per realizzarla. Pur non partecipando attivamente, i satiri – non appena Odisseo entra nella caverna – accolgono però il suo invito ad incitare i Greci intonando un canto che, avendo la funzione di agevolare ciò che sta avvenendo nello spazio retroscenico, avrà con tutta probabilità ricordato al pubblico musiche che, nella quotidianità del mondo greco, accompagnavano movimenti lavorativi ritmicamente regolari come quelli dei rematori o di chi tirava una corda per spostare un peso:

ODISSEO: «Devo ricorrere ai miei amici. Ma se non hai forza fisica, almeno incita i miei compagni, così li incoraggiamo con le tue esortazioni».

CORO: «Farò così: alla mia pelle ci tengo! E, grazie al mio canto, si bruci il Ciclope.

Su, su! (Iō, Iō) A tutta forza, da bravi, spingete, sbrigatevi, bruciate la pupilla della belva che mangia gli ospiti.

Affumicatelo, oh, bruciatelo, oh, il pastore dell’Etna.

Girate, tirate, ma attenti, che pazzo di dolore Non compia un atto di follia».30

Grazie ad alcune testimonianze indirette sappiamo che, nei canti che accompagnavano la rematura, il ritmo era sempre coordinato da un keleustēs (“colui che incalza, che dà il tempo”), il quale dava il ritmo ai vogatori, e da un triēraulēs (“auleta delle triremi”, vd. Polluce 1, 96), che con il suono dello strumento ad ancia, ben udibile in spazi aperti, ne cadenzava il movimento. Questo specifico canto di lavoro – che, come altri della stessa tipologia, aveva la funzione di coordinare un lavoro di gruppo –

28 Karanika 2014, 91-96.

29 Una mescolanza simile di generi diversi si riscontra anche nella monodia di Ione nell’omonima tragedia (vv. 112-183), il cosiddetto ‘inno alla scopa’ intonato dal protagonista mentre spazza le scale del tempio di Apollo con un ramoscello di alloro, che mescola elementi tipici dell’inno cletico a forme – almeno nel tema – ‘popolareggianti’ (De Poli 2012, 132- 135198

30 Euripide Ciclope vv. 650-662 (trad. Pozzoli 2004). Il ritmo di questo corale infra-episodico è sostanzialmente eolo- coriambico, con interruzioni ritmiche realizzate da sequenze docmiache e cretiche che esprimono i comandi con cui i satiri incitano i Greci all’azione (v. 657, 2 docmi: «spingete, sbrigatevi, bruciate la pupilla»; v. 659, 2 cretici:

«affumicatelo, oh, bruciatelo, oh»: v. 661, 2 docmi: «girate, tirate ...»). Per un’analisi metrica dettagliata si veda Cerbo 2015 (87, 99, 105 e 117), la quale negli ultimi versi identifica una interessante reiterazione – in una forma ‘accorciata’

dall’acefalia, in un caso, dalla catalessi dall’altro – delle stesse forme metriche utilizzate nella sezione iniziale del canto,

“quasi a significare la ‘fatica’ per lo sforzo esercitato dai satiri… nel canto!” (87).

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seguiva solitamente lo schema dell’alternanza solista-coro31, come confermano le parole dello storico Duride di Samo (IV-III sec. a.C.) citate da Plutarco (Vita di Alcibiade 32, 2): «A questi particolari Duride di Samo … ne aggiunge altri: Crisogono, vincitore dei giochi Pitici, dava il ritmo ai vogatori suonando l’aulos, mentre l’attore tragico Callippide faceva il capovoga (keleuein): entrambi sfoggiavano il chitone a pieghe dritte, vesti di stoffa fine e altri orpelli da agone teatrale». E ancora Longo Sofista (III sec. d.C.) nel romanzo Dafni e Cloe: «… come sono soliti fare i marinai, per ingannare la fatica, cosi anch’essi facevano nel sollevare i remi. Uno di loro, incaricato di dare la cadenza (keleustēs), intonava canzoni marinaresche, e gli altri, come un coro all’unisono (homophōnōs) e a tempo con la voce di lui, rispondevano con un grido» (3, 21, trad. Pattoni 2014).

Una chiara allusione a un canto di rematura è riscontrabile proprio nelle Rane di Aristofane.

Alla fine del prologo Dioniso, in viaggio per l’Ade, sta attraversando lo Stige sulla barca di Caronte, remando su suo ordine: al v. 209 un coro di rane inizia a cantare un astrophon che dà il tempo ai movimenti di rematura («non appena ti metti a spingere», lo informa Caronte, «sentirai degli splendidi canti»). La comicità della scena sta proprio nel fatto che il dio (la cui inettitudine come rematore pare aver avuto un precedente nei Tassiarchi di Eupoli, 427 a.C.)32 non riesce a star dietro al tempo ritmato dalle rane che, grazie al meccanismo dell’inversione comica, assumono il ruolo proprio del keleustēs.

Presto il canto si trasforma in una sorta di agone lirico tra queste e il dio: Dioniso risponde al preludio in versi giambici intonati dal coro (vv. 209-220) mantenendo inizialmente il medesimo ritmo e lamentandosi per la velocità del tempo (v. 221 ss.), per poi passare al v. 250 allo stesso ritmo trocaico usato dalle rane dal v. 228 a seguire, riprendendo anche il famoso grido onomatopeico degli animali (brekekekex koax koax) e proclamandosi, infine, vincitore (vv. 264-267). In questa scena la discontinuità del ritmo fornito alla vogatura deforma quella che doveva essere la caratteristica più distintiva di questi canti, cioè la loro regolarità, mentre a livello di lessico e contenuto i versi intonati dal coro, pieni di riferimenti e invocazioni a divinità musicali, mantengono un registro ‘alto’33, dando ancora una volta dimostrazione di quella particolare commistione di generi e stili diversificati di cui i poeti antichi si servivano nelle loro composizioni musicali.

La natura performativa e ‘multivocale’ del linguaggio teatrale antico, soprattutto comico, presenta quindi molte testimonianze di sopravvivenze riconducibili alla (ampia e variegata) categoria del popolare34. Se ne possono rilevare tipologie interessanti anche in un’altra opera di Aristofane, Le donne all’assemblea (391 a.C.), un testo che segna il definitivo passaggio dalla forma della commedia antica a quella di mezzo: dei 1183 versi di cui si compone l’opera, infatti, solo 150 sono lirici, mentre alcune sezioni corali non sono più neppure incluse nel testo composto dall’autore e a noi tramandato (ne rimane la sola indicazione chorou, sc. melos, “canto del coro”). Nella parte conclusiva della commedia, che illustra le conseguenze dell’istituzione di un governo proto-comunista in un’Atene utopicamente controllata dalle donne, si identificano ben tre scene che paiono ispirarsi a modelli musicali non codificati dalla tradizione letteraria ufficiale: l’agone lirico tra una donna anziana e una giovane per contendersi i favori sessuali di un ragazzo (vv. 893-923), il canto del giovane comasta che cammina per strada con una fiaccola in mano (vv. 938-941 = 942-945), infine la serenata o paraklausithyron (lett. “pianto davanti alla porta dell’amata”, vv. 960-975) che il ragazzo intona per la giovane, impaziente di aprire la porta ma costretta a cedere il posto alla vecchia. È soprattutto nel primo di questi esempi che gli studiosi hanno ravvisato indizi di un’ispirazione all’ambito popolare:

l’asimmetria delle corrispondenze strofiche tra le due contendenti pare infatti riflettere la libertà tipica

31 Nel caso del Ciclope il ruolo del keleustēs poteva essere realizzato dal corifeo.

32 Cf. Wilson 1974, 250-252 e 1976, 318.

33 Un’analisi puntuale di questo canto è in Rocconi 2007.

34 Un ulteriore esempio di canto di lavoro che accompagna un movimento ritmicamente regolare si riscontra nella Pace di Aristofane (421 a.C.), dove i due momenti della estrazione della dea Pace – rappresentata da una statua – dalla grotta in cui è tenuta prigioniera si diversificano ritmicamente proprio in base alla funzione pratica del canto nell’accompagnare il movimento (vv. 459-472 ~ 486-499: anapesti realizzati da sillabe lunghe quando la statua della dea è in fondo alla grotta, e i movimenti per tirare la corda sono ampi e lenti; vv. 512-519: giambi, più dinamici e veloci, quando la statua è ormai vicino all’apertura della grotta e i movimenti debbono essere più limitati e ravvicinati). Per un’analisi di questo canto di lavoro (per il quale si riscontra un parallelo etnografico nei canti dei tonnaroti siciliani) si veda Rocconi 2016b.

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delle forme estemporanee di canto a contrasto, in cui due antagonisti solitamente si alternano seguendo un preciso schema di domanda e risposta, secondo un modello comune a contesti popolari di vario tipo (ad esempio pastorale, vd. infra) ma diffuso anche nel simposio aristocratico35, a riprova del fatto che certi meccanismi improvvisativi erano trasversali a vari ambiti culturali e, presi di per sé, non si possono considerare cifre distintive di uno specifico contesto.

La scena è la seguente36: al v. 877 appare un’anziana donna che manifesta l’intenzione di cantare “una piccola melodia ionica” (v. 883, melydrion … ti tōn Iōnikōn, dove “ionico” è sinonimo di “sensuale”)37. Prima che questa inizi a cantare, una ragazza si affaccia alla finestra e dice di voler gareggiare con lei (v. 887, egō … antaisomai, «e io … canterò in risposta»). La vecchia raccoglie la sfida, chiede all’auleta di eseguire l’accompagnamento alla melodia (v. 892, prosaulēson melos)38 e comincia così a cantare:

VECCHIA I: «Se qualcuno vuol godere, venga a letto insieme a me.

L’arte è ignota alle ragazze, 895 sono esperte le mature.

Come me non c’è chi ami Fedelmente il suo diletto:

quelle volano da un altro».

RAGAZZA: «Non far gara con le giovani: 900

il piacere sta di casa fra le cosce tenerelle,

ha il suo fiore in punta ai seni;

e tu, vecchia, ti dipingi e strappi i peli,

ma è la morte che ti cura». 905 VECCHIA I: «Possa rompersi il tuo buco,

vada in mille pezzi il letto quando hai voglia di chiavare.

Fra le braccia avrai un serpente,

quando giochi con la bocca». 910 RAGAZZA: «Ahimè, cosa mi succede?

Il mio amore non arriva, qui da sola son rimasta;

e mia madre se n’è andata!

Il resto non c’è nessun bisogno di dirlo.

Ma ti supplico, nonnetta, 915

per te chiama il Dirittone, e con lui datti piacere».

VECCHIA I: «Già ti prude, poverina, come suole nella Ionia».

35 Cf. l’Inno omerico ad Hermes 55-56 (il soggetto è, appunto, Hermes che suona la lira appena costruita): «…

cimentandosi nell’improvvisare, così come i giovani, in festa, durante i banchetti, si sfidano con strofe pungenti» (trad.

Càssola 1994). Nelle Vespe di Aristofane, al v. 1244 compare – con riferimento al simposio – il verbo antaidō, termine tecnico per indicare lo scambio lirico estemporaneo. Su questi argomenti si veda Palumbo Stracca 1996.

36 Nell’analisi di questa scena seguo l’interpretazione di Vetta 1981.

37 Platone comico (fr. 71 K.-A.) cita un’etera che suona il trigōnon e canta una canzone ionica a simposio.

38 Prosauleō significa “accompagnare all’unisono” (Ps.-Aristotele Problemi 19, 39; Polluce 4, 83).

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RAGAZZA: «E tu vuoi fare il Lambda, come a Lesbo. 920 Ma le mie gioie, non puoi

rubarmele: questo è il mio tempo, non lo rovini, né me lo toglierai»39.

L’amebeo ha una struttura astrofica, nella quale è però possibile riscontrare alcune corrispondenze tematiche e strutturali. A partire dal v. 911 è la ragazza a diventare proponente, secondo un’inversione dei ruoli testimoniata in contesti similmente ispirati a modelli estemporanei (in Teocrito, Idillio 5, 80, è il capraio Comata, che era stato inizialmente sfidato dal pastore Lacone, ad assumere il ruolo di proponente nell’improvvisazione). Il primo intervento della vecchia (vv. 893-899) ha una precisa risposta ai vv. 900-905, con uno schema ritmico quasi identico (la replica della ragazza è più breve di un solo verso): al tema dell’esperienza della donna matura, la giovane risponde citando la propria tenerezza e voluttà. La serie successiva di versi cantati dalla donna più anziana (vv. 906-910) sembra non avere una risposta immediata ai vv. 911ss., quando la giovane diventa proponente intonando versi che lamentano l’abbandono da parte dell’amato («Ahimè… il mio amore non arriva»). Ma se consideriamo il v. 914 come un’interruzione nella quale la ragazza allude all’ampia riconoscibilità, da parte dell’uditorio, del canto – presumibilmente tradizionale – che ella ha appena accennato («il resto non c’è nessun bisogno di dirlo»), l’allusione sessuale dei vv. 915-917 («Ma ti supplico, nonnetta …») può essere interpretata come la reazione al malaugurio lanciato dalla vecchia nella strofe precedente (vv. 906-910: «Possa rompersi il tuo buco …»). Ai vv. 918-919 la vecchia fa una nuova proposta (il riferimento etnico alla Ionia), ottenendo un’immediata risposta dalla ragazza (il riferimento etnico a Lesbo). A questo punto, avendo mancato di rispondere a tono al canto tradizionale che la ragazza aveva intonato ai vv. 911-913, l’anziana ha evidentemente perso la gara:

per questo motivo interrompe l’esibizione e torna alla modalità recitata (trimetri giambici), ricordando però alla propria avversaria il diritto di prelazione che le spetta di diritto grazie alla nuova legge cittadina (v. 924 ss.: «Canta finché vuoi, guarda pure fuori come una gatta: nessuno verrà da te, prima ci sono io …»)40.

Se questi rimandi puntuali tradiscono una intenzionale costruzione a tavolino dell’agone lirico da parte dell’autore, l’imperfezione delle corrispondenze metriche e strutturali pare voler simulare l’estemporaneità e l’imprevedibilità delle gare musicali che fungono da modello, fornendoci informazioni preziose su una prassi performativa che, all’epoca, doveva essere alquanto comune. Lo schema della sfida canora tra due contendenti, in cui uno propone un tema e l’altro fornisce la risposta, completando o variando il tema introdotto dal proponente, avrà una lunga fortuna sia in ambito colto (cristallizzandosi in un genere letterario – la poesia bucolica – che eserciterà la sua influenza, a più riprese, su varie tradizioni culturali) che nella pratica folklorica, persistendo in forme ‘vive’ come le sfide in ottava rima che ancora oggi si lanciano i poeti contadini dell’Italia centrale. In tale ambito le contaminazioni tra colto e popolare, scrittura e oralità si fondono, dando vita a un fenomeno poetico- musicale quanto mai originale e complesso.

2.2. L’agone bucolico (boukoliasmos), elevato a genere letterario da Teocrito, affonda le sue radici nell’estemporaneità delle gare tra pastori, come alcune fonti antiche, pur in maniera

39 Aristofane Le donne all’assemblea vv. 893-923. La distribuzione dei versi (basata sull’identificazione di alcune equivalenze tra proposte e risposte, vd. infra) e la traduzione seguono Vetta 1989.

40 Le donne all’assemblea vv. 617-618 (cf. vv. 1015-1020): «accanto alle donne belle e raffinate sederanno le brutte e rozze; chi avrà desiderio di possedere una bella, dovrà prima soddisfare la brutta che sarà presso di lei».

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confusa, ancora ricordano41. Dopo il pioneristico lavoro di Merkelbach42, molti studiosi negli ultimi decenni hanno riconosciuto l’influsso esercitato da varie tipologie di musiche di ambito popolare sulla produzione letteraria di questo autore (canti d’amore e di lavoro, gare canore tra pastori, lamenti, etc.)43. Negli Idilli, il simbolismo musicale di alcune espressioni poetiche44 nonché le numerose citazioni di strumenti tipici del mondo pastorale (syrinx e auli) ricordano costantemente al lettore la performance originaria che fa da modello al componimento scritto, rinforzando l’illusione di realismo perseguita dal poeta45. Nonostante l’uso dell’esametro, che sostituisce i versi lirici, molti sono gli elementi tipici degli scambi improvvisati tra due contendenti, secondo lo schema a ‘botta e risposta’

già esemplificato in Aristofane: il caso più eclatante è quello dell’Idillio 5, che riproduce la gara di canto tra il capraio Comata e il pastore Lacone (per il quale vedi qui: Neri, La poesia popolare).

Nella ripresa di questo modello da parte di Virgilio, che nelle Bucoliche presenta numerosi esempi di competizioni canore in ambito rustico46, l’artificiosità della costruzione letteraria pare intensificarsi, con conseguente perdita di realismo. Paradigmatica è l’Ecloga 3, che mette in scena la gara tra i pastori Dameta e Menalca incorporando e sintetizzando vari elementi del modello teocriteo (vd. Idilli 5, 6, 8 e 9): la sfida formale (vv. 28-29), la presenza di un giudice (v. 50), la posta in gioco pattuita prima della gara (vv. 29-43) e il fitto scambio di distici in forma alternata (vv. 60-107, cf. v.

28: vicissim; v. 59: alternis dicetis).47 Ma il poeta latino modifica alcuni dettagli importanti: oltre a non esserci un vero vincitore tra i due contendenti, la fruizione di questa poesia è esplicitamente mediata da un testo scritto (v. 85: lectori vestro) e indirizzata ad un circolo ristretto ed esclusivo di lettori, come dimostrano chiaramente i riferimenti a Pollione, amico e protettore di Virgilio (vv. 84- 88), e a due poeti suoi antagonisti, Bavio e Mevio (v. 90). Ogni parvenza di realismo scompare e resta solo una patina ‘rusticheggiante’ data da alcuni accorgimenti stilistici, come l’espressione cuium pecus, che suscitò la critica degli Antibucolica di Numitorio48, e la menzione delle ninfe Camene – la cui fonte era situata appena fuori la Porta Capena a Roma – invocate come divinità ispiratrici dei canti alterni in sostituzione delle più auliche Muse (v. 59: «vi alternerete nel canto: amano i versi alterni le Camene»). Virgilio, inoltre, rinforza il modello culturale teocriteo costruendo un locus amoenus sostanzialmente immaginario, destinato ad una fama duratura in ambito letterario:

l’Arcadia, regione montuosa greca divenuta – proprio grazie a lui – luogo idealizzato di vita pastorale e idilliaca (ma per cui è storicamente attestata una solida tradizione musicale, non solo nelle zone rurali ma anche urbane)49.

41 Ateneo Sofisti a banchetto 14, 619a-b: «C’era poi anche un canto per quelli che conducono le greggi al pascolo, ed era chiamato “pastorale” (boukoliasmos). Fu Diomo, un pastore greco della Sicilia, il primo a comporre un canto di questo genere: ne parla Epicarmo nell’Alcioneo e nell’Odisseo naufrago». In realtà Diomo è più probabilmente una figura mitica da identificare con il padre di Alcioneo, che dà il titolo al dramma di Epicarmo qui ricordato: la volontà della fonte di identificare un prōtos heuretēs per così dire ‘popolare’ per questa forma letteraria è comunque indicativa di una vaga reminescenza del passato.

42 Merkelbach 1956.

43 Serrao 1971 e 1975; Rossi 1971b; Pretagostini 1992 e 2009; Lelli 2017. Contra Gutzwiller 2006, secondo cui l’ambientazione pastorale di questi scambi amebei si può interpretare come un ulteriore elemento di fiction introdotto da Teocrito allo scopo di rafforzare la figura simbolica del poeta-pastore, che vive una vita di piacevole ozio e stabilisce l’ordine nel pascolo grazie alla musica, fornendo così un modello ai membri della classe dirigente ellenistica.

44 Idilli 5, 28-29 («te che ti vanti di battere il rivale, vespa ronzante contro una cicala!») e 5, 136-137 («alle gazze, Lacone, è vietato sfidare l’usignolo»).

45 Cf. Barker 2010. Per la connotazione rustica della syrinx si veda già Platone Repubblica 3, 399d.

46 Karakis 2011.

47 Nell’Ecloga 5, i canti alterni di Mopso e Menalca non sono improvvisati: il canto di Mopso è stato precedentemente scritto «sulla corteccia di un verde faggio» (vv. 13-15,), mentre il canto di Menalca è già stato eseguito in un’altra occasione (Ecl. 5.55: «… e già in precedenza Stimicone mi lodò il tuo canto»).

48 Elio Donato Vita di Virgilio 43: «Dimmi, Dameta, cuium pecus, è latino corretto? No, è [il latino del] nostro Egone, è così che si parla in campagna». È però possibile che l’espressione fosse arrivata a Virgilio attraverso la mediazione della commedia (così Clausen 1994, 93; Adams 2007, 378).

49 Sull’Arcadia letteraria si veda Johnston and Papaioannou 2013. Per le tradizioni musicali dell’Arcadia storica cf. Polibio 4, 20, che riprende un frammento di Aristosseno riferito da Pseudo-Plutarco Sulla musica 32, 1142e, in cui gli abitanti di Mantinea sono lodati per il valore da essi attribuito alla musica nel processo educativo.

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L’enfasi posta dal poeta sulla finzione dell’estemporaneità del canto, cui egli esplicitamente e costantemente allude nel testo, si mescola con un elevato livello di stilizzazione letteraria, generando un’intensificazione della tecnica drammatica che ‘mima’ l’azione, come se assistessimo ad una scena teatrale (al punto che, secondo la Vita di Virgilio, le Eclogae ebbero nell’antichità un successo tale da essere recitate, forse addirittura ‘cantate’ in teatro)50. Tutto questo allontana l’ipotesi che Virgilio, come Teocrito, si ispirasse a modelli reali di poesia popolare. Curiosamente, però, questi artifici letterari, forse anche grazie all’eccesso di simulazione di una vera performance, hanno prodotto un fenomeno alquanto straordinario.

A partire dal Medioevo, infatti, questo mondo bucolico immaginario ha infatti assunto un ruolo paradigmatico nei confronti della tradizione folklorica ‘viva’. Nell’area dell’Italia centrale che si colloca tra Lazio, Toscana ed Abruzzo, è possibile ancora oggi trovare improvvisatori – i cosiddetti poeti a braccio – che, durante le feste di paese, si sfidano cantando contrasti in ottava rima51. La pratica popolare dell’ottava rima cantata ha una lunga e duratura tradizione nella cultura italiana e si basa sull’improvvisazione di stanze di otto endecasillabi che presentano una rima del tipo ABABABCC. Ciascun cantore deve rispondere usando l’ultima rima dell’avversario (CDCDCDEE), ma anche contrastando dal punto di vista tematico – con un certo grado di aggressività verbale – la performance precedente secondo contrapposizioni tematiche dicotomiche (ad es. città vs campagna).

I versi sono intonati su un ampio recitativo melismatico, con cadenze alla fine di ogni verso più o meno estese a seconda delle esigenze dell’esecutore52: il primo verso, che ripete l’ultimo del contendente, è di solito il più lungo per dare il tempo all’improvvisatore di concepire i versi successivi. Questa forma poetica ha avuto origine tra tardo 1200 e inizio 1300, ma stile e lingua sono stati fortemente influenzati dalla letteratura epica cinquecentesca che ha avuto grande successo tra la popolazione illetterata proprio grazie alla diffusione orale. Molti di questi poeti sono (o erano) pastori, la cui attività è testimoniata a partire dalla fine del ’50053. Sappiamo che essi, oltre ad utilizzare la tecnica improvvisativa sopra menzionata (che, attraverso il parallelismo etnografico, può ben esemplificare alcuni meccanismi del canto a contrasto di epoca antica), imparavano a memoria i versi dei grandi poeti latini e italiani (Virgilio, Ovidio, Dante, Ariosto e Tasso), scambiandosi i loro testi quando si incontravano nelle stazioni di posta lungo le rotte della transumanza. Questi cosiddetti ‘libri di pellicceria’ (così chiamati perché tenuti dai pastori nelle loro borse) servivano come base per l’esercizio poetico, ma anche come repertori di temi e citazioni da inserire, all’occorrenza, durante le improvvisazioni. Qui di seguito possiamo leggere il contrasto tra il contadino Riccardo Colotti e il portuale Angelo Pezzi, eseguito nel 1931 nel Teatro Etrusco di Tarquinia di fronte a un ampio pubblico54. In questi versi di apertura, il portuale inserisce una (ipotetica) identificazione del suo contendente con Omero, utilizzando anche l’immagine – tipicamente classica – dell’ispirazione divina del poeta:

PEZZI «Bramo saper da te, vate, il motivo A Perché lanciata a me hai canora sfida B A me che verso te mai fu cattivo A Come fu un tempo con Buglione, Armida B Ma se tu fossi Omero, quell’Argivo A O Febo stesso nel tuo cuor si annida B

50 Vita di Virgilio 26: Bucolica eo successu edidit ut in scaena quoque per cantores crebro pronuntiarentur (su cui si vedano Breed 2006, 156, e Höschele 2013, 46ss.: si noti che il verbo cantare in latino significa anche “leggere ad alta voce”). Più in generale sulla performance della poesia virgiliana nell’antichità, si vedano le testimonianze raccolte in Ziolkowski e Putnam 2008, 162-177, e Panayotakis 2008.

51 Kezich 1986. Sulla vitalità di tale tradizione si veda il documentario intitolato “La Memoria Cantata”

(https://www.youtube.com/watch?v=W7Gfo1QDSYU), che si concentra sulla vita e le memorie di quattro poeti estemporanei del nord del Lazio.

52 Agamennone 1986, spec. 180ss.

53 Kezich 1999, 149.

54 Kezich 1986, 75-76.

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Tanto sotto il mio verso duro assai C

Rustico cantatore piomberai». C

COLOTTI «Primo luogo il motivo tu lo sai C

Quindi non serve ch'io rifacci accento D

Secondo è che poeta tu ti fai C

Mentr’io campione più di te mi sento D

E se del detto mio ne dubbierai C

Dimostra tutto quanto il tuo ardimento D Ch’io t’attendo qual toro alla pastura E Che l’incontro dell’altro poco cura E [...] ».

Il rapporto di questi poeti con i modelli della letteratura classica è discusso da Nello Innocenti, un anziano pastore di Palestrina (località vicina a Roma), durante un’intervista con l’antropologo Giovanni Kezich:

«… da giovanotto ho studiato la mitologia, l’Eneide, l’Ovidio. Quando mi trovavo a fare qualche duello, dovevo essere preparato a cantare, sennò mi incastravano. Allora si cercava di non rimanere incastrato, e allora io ero uno di quelli più bravi. In queste gare si vinceva quando uno ne sa più dell'altro. Per esempio quando io ho cantato l’Eneide a Riano perché ho vinto? Perché quello s’era dimenticato una tappa, se no lui sapeva canta' quanto me se non meglio di me»55.

Tra le più sorprendenti caratteristiche di questo repertorio vi è la totale mancanza di barriere tra le categorie di colto e popolare, ma anche tra le pratiche di scrittura e oralità. Intorno al 1850, un poeta- pastore di nome Angelo Felice Maccheroni da Leonessa, un villaggio vicino a Rieti, mette per iscritto un poema intitolato La Pastoral Siringa, in sette canti e circa 500 ottave56. Quest’opera descrive tutti i movimenti stagionali della transumanza nell’Agro Romano, l’area geografica rurale che circonda la città di Roma, e la dura vita dei pastori dell’epoca (Pastoral Siringa 63):

«In questo tempo che l’armento figlia Prova ciascun pastore fastidio e doglia.

Mangiar latte non può, per cui sbadiglia, Della ricotta invano ancor s’invoglia Deve la spesa, che da lor si piglia, Sette giorni bastar, voglia o non voglia, Ma il pane asciutto sol non so se vaglia Un corpo sostener, che ognor travaglia».

La Pastoral Siringa ha avuto un grande e duraturo successo57. Il suo autore si inserisce esplicitamente nel filone della grande tradizione bucolica di cui è erede, rinforzando – attraverso reminescenze classiche e invocazioni poetiche – il mito ‘letterario’ del poeta-pastore (Pastoral Siringa 1):

«Nume del Citeron dall’alto poggio

55 Kezich 1986, 57-59. L’espressione “cantare l’Eneide” non indica necessariamente una citazione letterale del poema, quanto il fatto che i poeti – ai quali veniva assegnato un tema desunto da quello specifico contesto letterario – debbono sintetizzarne l’argomento nella propria improvvisazione: vince chi, nel farlo, è più preciso e conciso.

56 Kezich 1999.

57 Ma fu anche duramente attaccata dalla comunità del suo autore per la cruda (e non sempre edificante) descrizione del mestiere pastorale, a tal punto che Maccaroni dovette pubblicare scuse ufficiali in versi.

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Trasmetti a me della tua luce un saggio Per ridir quanto accadde in Piedelpoggio E di Leonessa in questo e in qual villaggio;

Come i pastor lungi dal proprio alloggio Passano i mesi in loco ermo e selvaggio Come partire, e poi tornar li veggio, E di amor vaneggiar com’io vaneggio».

La straordinaria mescolanza di tradizioni musicali popolari e influssi letterari colti di cui è testimone la pratica dell’ottava rima in tutte le sue declinazioni, difficili da definire con le categorie classificatorie di ‘colto’ e ‘popolare’, ci ha portato lontano rispetto al punto da cui eravamo partiti. Ci può, però, aiutare a capire come la vitalità della tradizione musicale popolare greca e latina, pur sommersa e nascosta da numerosi artifici e contaminazioni colte al momento della sua ‘registrazione’

attraverso la scrittura, abbia continuato a esercitare la sua influenza su diversi aspetti della cultura e non sia perciò irrimediabilmente perduta.

3. Qualche riflessione conclusiva

È esistita, quindi, una categoria di ‘musica popolare’ nel mondo antico? Non solo gli esempi sopra discussi portano a pensare di sì, ma ci rendono ottimisti sulla possibilità di trovarne indizi concreti nella tradizione letteraria ufficiale.

La peculiare inclusività del processo compositivo tipico degli antichi poeti-musici, che traevano ispirazione da diversi generi e caratteristiche della musica ‘viva’ contemporanea (incluse le composizioni non autoriali) riappropriandosi, allo stesso tempo, della tradizione ‘colta’ del passato, rende difficile e rischioso rubricare un determinato repertorio sotto l’etichetta ‘popolare’ e mette in evidenza la distanza che separa le rigide classificazioni moderne dall’approccio antico. Un grande aiuto ad affrontare tali questioni è fornito dall’etnomusicologia: il confronto con tradizioni culturali differenti ancora vive ed operanti, nelle quali il rapporto tra la parola poetica e la musica è molto stretto e la scrittura gioca un ruolo marginale, può suggerire idee e metodi nuovi e originali58, in grado di integrare quelli filologici più tradizionali, al fine di comprendere un po’ più da vicino la dimensione sonora dei ‘testi’ classici e i loro antichi contesti di fruizione.

58 L’etnologia ed antropologia hanno dato prova di grande efficacia interpretativa relativamente ad altri repertori poetici antichi: si pensi al ruolo avuto dall’epica balcanica negli studi di Parry (1928) e Lord (1960) sulla formularità omerica (a proposito degli aspetti più strettamente musicali di questo confronto si veda Franklin 2004).

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