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La musica popolare in Italia tra arte e politica

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Filosofia

TESI DI LAUREA

LA MUSICA POPOLARE IN ITALIA TRA ARTE E POLITICA

RELATORE

Prof. Fabio Dei

CONTRORELATORE

Dr. Antonio Fanelli

CANDIDATA

Ilaria Savini

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Indice generale

Ringraziamenti...3

Introduzione...7

Capitolo 1...16

1.1 Gramsci e il folklore...16

1.2 De Martino legge Gramsci...33

1.3 Gianni Bosio. L'intellettuale rovesciato...43

Capitolo 2...53

2.1 Roberto Leydi e il Nuovo Canzoniere Italiano...53

2.2 Dalla rivista NCI al Nuovo Canzoniere spettacoli. Dalla carta stampata alla musica. I primi spettacoli...67

2.3 Bella Ciao. Uno spettacolo di svolta...76

2.4 Folk Festival 1. Un primo momento di riflessione sull'attività del NCI. Rottura con Leydi...88

2.5 Ci ragiono e canto. La collaborazione con Dario Fo...100

2.6 Nel frattempo Roberto Leydi. Sentite buona gente...107

Capitolo 3...117

3.1 NCI seconda serie. Ancora su musica popolare e teatro...117

3.2 Il folk revival italiano secondo Roberto Leydi. Una nuova presa di posizione sul NCI...134

3.3 Sandra Mantovani, la ricerca sul “ricalco” e il problema dello stile...140

3.4 Il NCI dopo la morte di Bosio. La terza serie della rivista...146

3.5 La musica popolare. Rivista...160

3.6 Il Dibattito sul folk a “Canzonissima”...164

3.7 Autocritica nel NCI. Gli ultimi spettacoli e la crisi...190

3.8 Carpitella...196

Capitolo 4...207

4.1 Chi è Giovanna Marini...207

4.2 Fra estetica e politica...235

4.3 Conclusioni...267

Bibliografia...277

Filmografia...285

Discografia...286

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Ringraziamenti

Gli anni ormai lontani in cui ho frequentato l’università sono stati per me divisi fra la filosofia e la musica: seguivo assiduamente i corsi a Pisa, con interesse, curiosità e spesso un vago senso di inadeguatezza; contemporaneamente cercavo di capire come funzionava il mio strumento, la voce, studiando canto privatamente a Firenze e misurandomi con generi musicali diversi in una ricerca che ancora non è finita.

Com’è normale a vent’anni nel frattempo cercavo di capire cosa volevo fare da grande: mi chiedevo come conciliare tutti gli interessi che avevo ed in particolare quello per la musica (e l’arte in generale) e quello per la politica, intesa come capacità di comprendere la realtà, analizzarla e compiere delle azioni per modificarla. Studiare la filosofia forse mi è servito proprio per acquisire degli strumenti per provare a tenere insieme queste cose.

Negli anni dell’università ho iniziato anche ad interessarmi in modo più approfondito alla musica popolare, che in qualche modo aveva sempre fatto parte della mia vita fin da bambina, grazie ai miei genitori che la ascoltavano e che soprattutto cantavano molto per me (e con me). La musica ha poi preso sempre più spazio nella mia vita, diventando a poco un lavoro, e la musica popolare in particolare ha avuto un ruolo sempre più importante (pur senza mai diventare totalizzante). L’università così è diventata un pensiero sempre più piccolo e sempre più lontano nel vortice di tutte le altre cose da cui ero presa quotidianamente che mi sembravano (e mi sembrano) belle e piene di senso; un pensiero piccolo, lontano, ma al tempo stesso presente e ricorrente: scrivere la tesi e dare anche formalmente una conclusione a un percorso formativo che era stato sicuramente importante. Quando pensavo alla tesi che avrei voluto scrivere mi dicevo che avrei voluto “sfruttare questa opportunità” per trovare delle risposte a delle domande che mi ponevo lavorando sui repertori di tradizione orale italiani e anche per parlare del rapporto profondo che penso ci sia (o ci debba essere) fra occuparsi di arte-cultura e dare un contribuito per migliorare la vita delle persone. Tenere insieme queste cose è quello che cerco di fare nel mio lavoro ed in questo senso la tesi nasce direttamente da esso.

La prima docente con cui ho parlato di questo progetto è stata Paola Bora e a lei va il mio primo ringraziamento per il modo in cui mi accolse, per aver sostenuto la mia idea e per avermi indirizzata verso il professor Fabio Dei che purtroppo non avevo avuto la fortuna di incontrare durante il mio percorso universitario.

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costretta a sospendere il mio lavoro per un periodo, nel 2014. Ringrazio quindi la cisti epidermoide congenita alla corda vocale sinistra per “aver deciso” di infiammarsi facendo in modo che potessi riprendere in mano questa idea e cominciare effettivamente a lavorarci. Scrivere e pensare questa tesi è stata per una bellissima esperienza e sarebbe stato davvero un peccato se non avessi mai trovato questo tempo, quindi è proprio il caso di dire che non tutto il male vien per nuocere.

Ringrazio tantissimo il professor Fabio Dei e il dottor Antonio Fanelli per aver sostenuto questa idea, per avermi aiutato a definirla e a darle una forma, per i consigli e i suggerimenti e, infine, per la pazienza e il rispetto dei miei tempi così dilatati.

Ringrazio anche le segreterie dell’università che rapidissimamente hanno risolto alcuni piccoli problemi burocratici dimostrando una efficienza che mi ha davvero stupita.

Ringrazio l’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino per avermi permesso di accedere al suo prezioso archivio nonché per tutte le cose che ho potuto imparare frequentandolo e avendo la fortuna di poter partecipare attivamente a molte sue iniziative dal 2004 fino ad oggi.

Ringrazio infinitamente Giovanna Marini per l’intervista che mi ha concesso nel novembre del 2014 e per tutto il suo meraviglioso, preziosissimo lavoro.

Ringrazio anche Bruna Montorsi e Giovanna Ponsano per aver risposto tempestivamente alle mie piccole interviste via e-mail.

Un ringraziamento speciale lo devo poi a Francesca Breschi. Ho incontrato Francesca per la prima volta nel 2006, in occasione di un suo seminario sul canto polifonico nella tradizione orale che mi aprì veramente nuovi orizzonti. In quel seminario, ad esempio, sentii parlare per la prima volta di Ernesto De Martino, ascoltai per la prima volta dei canti polifonici sardi e corsi, sentii per la prima volta dire da qualcuno che per cantare bene la musica popolare bisogna avere tantissima tecnica (e non esserne privi, come qualcuno sostiene) e che quindi la direzione che stavo percorrendo (studiare canto lirico e poi cantare di tutto, specialmente musica popolare) aveva un suo senso. Francesca è un mio punto riferimento da anni, ho imparato tantissimo da lei attraverso i tanti suoi seminari che ho seguito e poi anche nelle occasioni in cui ho avuto la fortuna di lavorare con lei. La ringrazio quindi per tutti gli stimoli che mi ha dato (questa tesi ne è intrisa), per la preziosa intervista che mi ha concesso nel novembre del 2018 e per la disponibilità con la quale ha risposto a tutte le mie domande anche nei giorni successivi, fra le mille cose che sempre ha da fare.

Ringrazio Simone e Alessandro, miei compagni nel gruppo Vincanto, perché questa tesi è chiaramente legata in modo strettissimo al lavoro che abbiamo fatto e che facciamo insieme dal 2003. La tesi nasce anche dalle nostre comuni domande, dalle nostre riflessioni, dalle nostre litigate, dai problemi che ci siamo posti elaborando una didattica legata alla musica popolare,

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dagli incontri che abbiamo fatto facendo concerti o organizzando eventi, dalle idee che ci siamo scambiati, dalla ricerca di un nostro stile per la riproposta. Questa tesi è anche un po’ loro e per loro.

Simone poi lo ringrazio anche per essere sempre stato disponibile negli ultimi tempi a sostituirmi sul lavoro o a fare da solo cose che avremmo dovuto fare insieme, senza mai farmelo pesare, mentre io mi dedicavo alla conclusione di questa tesi.

Ringrazio Anna e Lindita perché è stato bellissimo ed inaspettato negli ultimi tempi potermi confrontare con qualcun altro nella condizione di essere in procinto di laurearsi; mi è servito come stimolo e incoraggiamento.

Ringrazio Irene per l’energia speciale con la quale mi ha sostenuta, che mi è arrivata tutta e nel profondo.

Ringrazio Cecilia e la sua famiglia per gli anni in cui abbiamo studiato insieme, la pazienza, le merende, le chiacchierate.

Ringrazio Laura perché delle tante persone incontrate all’università solo poche sono ancora oggi nella mia vita e una è lei.

Ringrazio Tascia per esserci sempre, per tutto il suo buonsenso, amore e incoraggiamento specialmente nei momenti di crisi.

Ringrazio Elena-Me perché abbiamo condiviso una parte importante del nostro percorso formativo ben al di là della scuola e dell’università (che pure abbiamo frequentato insieme) e perché ancora oggi continuiamo a imparare l’una dall’altra anche vivendo fisicamente lontanissime.

La mia “carriera universitaria” è stata messa più volte completamente in stand by ed è quindi durata molto tempo. Tante persone mi hanno incoraggiato e sostenuto, anche con idee, spunti e consigli. Ringrazio quindi sinceramente tutti quelli che hanno avuto voglia di ascoltarmi e confrontarsi con me, di dirmi la loro sulla tesi e di insistere perché finissi, ma ringrazio anche quelli che mi hanno detto “comunque se non finisci va bene lo stesso perché fai delle cose bellissime”.

Ringrazio tutti i miei allievi per tutte le cose che mi hanno dato la possibilità di imparare insegnando (anche sugli argomenti trattati in questo lavoro) nonché per la pazienza comprensiva e affettuosa che hanno avuto negli ultimi tempi, quando sono stata forse meno presente.

Ringrazio la mia famiglia per avermi aiutata a diventare quella che sono, dandomi tutti gli strumenti per seguire la mia strada liberamente. Per tutto il suo supporto e amore.

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tutto il peggio di me. Due dei libri da cui è partita questa ricerca sono stati un suo regalo di compleanno, tanti anni fa, ed il solo fatto di averli nella libreria è stato un primo stimolo a cominciare. Molte delle cose che ho scritto hanno preso una forma nella mia testa mentre ne parlavo con lui che è poi stato anche il mio primo lettore. Il suo sostegno è stato per me il più prezioso.

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Introduzione

L’espressione “musica popolare” è stata ed è tutt’ora oggetto di un grande dibattito. È quindi senz’altro sconsigliabile usarla con troppa disinvoltura. Questa espressione è per forza di cose sempre legata anche all’idea di “popolo”, a sua volta mutevole e problematica.

Il pregio di questa denominazione è quello di essere molto inclusiva ed è insieme il suo principale difetto: “musica popolare” è un’espressione che può indicare troppe cose e che rischia di confondere, non definendo un campo d’indagine preciso. La compositrice e ricercatrice Giovanna Marini, ad esempio, se le viene chiesto cos’è per lei la “musica popolare”, precisa subito che questa denominazione è troppo generica e che preferisce invece parlare di “musica di tradizione orale” o di “musica pastorale, contadina”, includendo alcune manifestazioni e non altre e dando già di fatto una definizione. Tutto sommato, però, pur tenendo ferma la consapevolezza che si tratta di un termine che può essere ambiguo, non si può ignorare che nel contesto culturale italiano l’espressione “musica popolare” abbia una denotazione sufficientemente identificativa. Anche termini diversi, come “folk”, “musica tradizionale” e “folk revival”, risultano al loro volta problematici, essendo stati oggetto di altrettante discussioni, ma rimangono in definitiva anch’essi piuttosto identificativi, pur con sfumature diverse.

In Italia la riflessione e il lavoro sulla musica popolare sono stati fortemente condizionati e, almeno fino agli anni ottanta del secolo scorso, sostanzialmente indirizzati dalle considerazioni espresse in proposito da Antonio Gramsci che, come viene ricostruito nel primo capitolo di questo lavoro, in alcune pagine dei suoi Quaderni del carcere definiva il popolo come «l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita» e il folklore come la «concezione del mondo» di questa parte della società (Gramsci 1975, p. 2312). Il “popolo”, cioè, non era identificato ad esempio con tutti gli abitanti di una nazione, ma in base ad una divisione in classi sociali.

Questa tesi cerca di ricostruire il dibattito fra coloro che si sono occupati di musica popolare in Italia in questo specifico senso (e la denominazione “musica popolare” è in questo caso è ancor più appropriata proprio in quanto generica, perché in effetti questi soggetti non si limitarono all’ambito della musica di tradizione orale o “contadina”, ma cercarono di occuparsi anche di espressioni più contemporanee e “urbane”), cercando di approfondire in particolare due aspetti: il valore politico dello studio e della riproposta dei repertori popolari e la riflessione sulle modalità della riproposta stessa. Le due tematiche sono chiaramente intrecciate, perché la modalità di esecuzione di un brano, il contesto dove viene eseguito, le scelte interpretative, ecc., contribuiscono sempre a definire il

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senso che si vuole dare ad un’operazione. La riscoperta della musica popolare in Italia è stata collegata ad un dibattito di ampio respiro (fra musicisti, intellettuali, organizzatori, ricercatori, ecc.) su quale ruolo essa avrebbe potuto avere come mezzo per valorizzare la cultura delle classi che (in questa visione) la esprimevano, nel quadro di una concezione che assegnava alla cultura un ruolo da protagonista nella lotta per l’emancipazione politica. Come evidenzia Antonio Fanelli, citando in proposito anche Giovanna Marini, il collegamento fra la musica “tradizionale” (vista come «una sorta di baluardo dell’alterità più radicale ed ostinata») e la protesta politica è stato una specificità tutta italiana, dato che in altri paesi era soprattutto la popular music che rappresentava in modo condiviso le «istanze di protesta e cambiamento» (Fanelli 2017, p. 13).

Goffredo Plastino nell’introduzione al volume da lui curato La musica folk. Storie protagonisti e

documenti del revival italiano, osserva che il paradigma del folk revival in Italia, così come ci viene

presentato dagli avvenimenti e dai personaggi ai quali «la letteratura specialistica italiana ha fatto riferimento con maggiore frequenza e regolarità» (Plastino 2016, p. 23), è quello di

un movimento durato più o meno vent’anni, attivo soprattutto a Milano, Roma e Napoli, o che comunque aveva in queste città i propri centri propulsivi; che ha espresso o coinvolto una serie di forti e riconoscibili personalità (etnomusicologi, cantanti, musicisti, ecc.); con un tasso piuttosto alto di conflittualità interna; con produzioni musicali e discussioni teoriche per lo più oscillanti tra il “ricalco” e la libera interpretazione della “musica popolare”; impegnato nel complesso a difendere il “vero” folk dalla commercializzazione; e con una solida presenza sul mercato musicale nazionale. Così viene descritto e analizzato, in chiave più o meno positiva, nei testi che se ne sono occupati (ibid., p. 26).

Plastino rileva come la narrazione di questo “movimento”, basata soprattutto sugli scritti di alcuni protagonisti di quel tipo di revival, sia in realtà tendenzialmente autoreferenziale ed escluda «molte attività, produzioni musicali ed esperienze» (ivi). I limiti di questo modello storiografico, per Plastino, sono dunque il suo approccio tendente ad escludere in modo discutibile una parte di fenomeni e avvenimenti che invece avrebbero potuto pienamente rientrare nella categoria del “folk”, o del “folk revival”, o della “musica popolare” (per usare il termine più generico possibile) e la sua iteratività, cioè il modo in cui i principali esponenti di questa “scuola di pensiero” tendevano a ripetere gli stessi temi, gli stessi argomenti (talvolta anche espressi proprio con le stesse parole, autocitandosi in una sorta di loop). Questa ciclicità secondo Plastino «si può spiegare considerando il modello come l’esito di una teoria autologica: l’elaborazione teorico-storiografica del folk revival italiano è parte del medesimo revival» (ibid., p. 28) o meglio: «Gli studiosi e gli ideologi del folk revival fanno il revival. Che ne siano coinvolti come esperti a vario titolo è noto: stabiliscono o

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rafforzano le tendenze intellettuali che ne influenzano l’analisi» (ivi). In sostanza il fatto che ad occuparsi del folk revival italiano siano stati soprattutto operatori culturali e musicisti che erano a pieno titolo dentro il movimento ha fatto sì che il dibattito diventasse molto autoreferenziale e chiuso su se stesso, escludendo completamente chi ne era al di fuori anche se si occupava in qualche modo di musica popolare.

Le osservazioni di Plastino sull’autoreferenzialità escludente della storiografia legata al folk revival sono sicuramente molto condivisibili (e credo confermate da questa tesi). D’altra parte uno degli aspetti che questo lavoro cerca di mettere in evidenza (senza pretesa di grande originalità) è proprio il fatto che l’interesse per la riscoperta e la riproposta della musica popolare in Italia dal secondo dopoguerra in poi sia scaturito e sia stato sempre accompagnato da una grande riflessione teorica e da un grande dibattito sul senso delle operazioni che venivano messe in atto. Non si è trattato del lavoro di “semplici” musicisti o appassionati che hanno scoperto e appunto

revivalizzato, cioè ridato nuova vita, a un repertorio che tendeva ad essere dimenticato, ma

dell’opera di intellettuali che si sono interessati anche alla musica (in veste di teorici, organizzatori, esecutori e autori) o di musicisti che convergendo su questo tipo di repertorio hanno poi sviluppato

anche una profonda riflessione teorica su aspetti che non necessariamente sarebbero stati collegati

ad esso.

La definizione di folklore data da Gramsci come concezione del mondo delle classi subalterne e la sua riflessione sul ruolo della cultura e degli intellettuali sono il punto di partenza di questa tesi che cerca di ricostruire i riferimenti ideologici che animarono il lavoro di alcune figure chiave di questa stagione, andando a costituire la cornice teorica nella quale esse inserirono il loro agire. Ernesto De Martino è la seconda figura di rilievo che incontriamo: la sua riflessione è analizzata nei suoi aspetti di continuità e di discontinuità con quella di Gramsci, soprattutto attraverso alcuni articoli scritti fra la fine degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta. La tesi cerca anche di mettere in evidenza il modo militante in cui De Martino declinava la sua vocazione di studioso e il suo tentativo di essere un intellettuale vicino alle classi oggetto dei suoi studi.

Gramsci vedeva il folklore come legato all’espressione di una subalternità culturale e quindi come qualcosa da superare, ma al tempo stesso come una materia che gli intellettuali avrebbero dovuto conoscere e studiare in profondità, da usare come trampolino per una spinta propulsiva che contribuisse alla nascita di una nuova cultura generata dalle classi non egemoni stesse, integrando il meglio della cultura borghese. La definizione di folklore come concezione del mondo delle classi

subalterne, che quindi lo identificava come l’espressione di una precisa classe sociale, insieme al

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eredità gramsciana raccolta in seguito da De Martino e soprattutto da Gianni Bosio (intellettuale, editore, organizzatore di cultura, animatore del gruppo Nuovo Canzoniere Italiano-NCI). De Martino accoglieva la definizione di folklore data da Gramsci, ma mostrava come in esso fossero già presenti importanti elementi progressivi, cioè messaggi di emancipazione e non solo di rassegnazione e sottomissione (anche Gramsci parla di questi aspetti, ma in modo marginale e in testi che probabilmente De Martino non conosceva). In De Martino l’arretratezza poteva configurarsi addirittura come una forma di resistenza. Sarà Bosio a compiere un passo ulteriore teorizzando l’importanza dello studio e della riscoperta del folklore nella sua totalità in quanto tutto espressione di una cultura “altra” rispetto a quella delle classi egemoni e ad essa oppositiva. Secondo Bosio questa immensa cultura non era mai stata veramente valorizzata e compresa nella sua alterità, prima di tutto perché non era mai stata espressione di una classe egemone e poi perché era essenzialmente orale, quindi non veniva riconosciuta da chi pensava alla cultura come qualcosa da trovare solo nei libri. Da qui l’idea di “restituire” alle classi non egemoni la loro cultura proprio nel momento in cui, con l’abbandono delle campagne e la diffusione dei mass media, sembrava inevitabile che i legami con essa venissero recisi; in questa visione il folklore stava scomparendo (pareva) a vantaggio di un’altra cultura preconfezionata dalle classi al potere che oltretutto si configurava come un prodotto da comprare, innescando un meccanismo nel quale essere consumatori di prodotti culturali significava anche assimilare sempre più dei messaggi che andavano a rafforzare l’egemonia politica di chi dalla vendita di questi prodotti traeva un profitto. Oggi la corrispondenza fra una determinata classe sociale e un determinato tipo di cultura sembra superata (lo è sicuramente, ad esempio, se definiamo una classe sociale in base al reddito). Questo naturalmente si riflette anche sul problema di identificare e caratterizzare la musica popolare se continuiamo ad adottare la definizione di Gramsci: «con lo sviluppo delle industrie culturali il quadro si è enormemente complicato e le stratificazioni sociali si sono sovrapposte e frammiste alle nuove linee di frattura simbolica tra i generi musicali e loro fruitori», spiega Antonio Fanelli (Fanelli 2017, p. 13). Si discute molto su quanto questa divisione avesse senso di esistere anche in passato: negli anni sessanta e settanta del secolo scorso un gruppo di intellettuali pensava di aver individuato nella musica popolare (dando maggiore rilievo a quella con contenuti protestatari) una musica espressione delle classi subalterne; grazie al magnetofono la registrava, ci ragionava sopra, la rielaborava e la riproponeva a quella stessa classe, ma nel frattempo la suddetta nel suo insieme sembrava molto più interessata al Festival di San Remo e a “Canzonissima”. Di conseguenza la musica popolare diventava musica che finiva per identificare soprattutto una élite di intellettuali. Come osserva Fabio Dei, riferendosi al periodo in cui era studente all’università di Siena, «per le pratiche di distinzione giocate sul terreno dei consumi culturali, il genere folk era l’ideale,

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consentendo una duplice demarcazione. Da un lato, nei confronti delle forme “alte” della cultura egemonica, alle quali non avevamo accesso e che potevamo dunque considerare politicamente regressive […]; dall’altro, il folk ci demarcava nei confronti dell’industria culturale, della massificazione televisiva, che diveniva tipico oggetto di “disgusto”» (Dei 2002, p. 11). «Paradossalmente» conclude Dei, «la poetica della cultura popolare era una scelta altamente esclusiva ed elitista» (ivi), fatta da una generazione che si era nutrita di una modernità conquistata a fatica dai propri genitori per poi ripudiarla in favore di un apparentemente più “nobile” passato.

Questo paradosso chiaramente esisteva e veniva già esplicitamente denunciato da qualcuno, non restando invisibile, come si cerca di mostrare nella tesi, nemmeno all’interno del NCI (e dintorni) e diventando a sua volta oggetto di riflessione.

Per poter apprezzare il valore del folklore (nell’accezione di Bosio) era necessaria una distanza culturale da esso, una fase anche di rigetto e rifiuto in favore di una cultura ritenuta più “alta” che poi consentisse di rivalutare anche il folklore stesso (cfr. Dei 2002). Forse peraltro questa è una delle chiavi per leggere anche la tensione interna agli scritti di Gramsci fra la nozione di folklore come qualcosa da estirpare e il grande interesse da lui dimostrato per esso: in effetti Gramsci “aveva studiato abbastanza” per mettere fra sé e il folklore una distanza sufficiente anche ad apprezzarlo da una prospettiva che possiamo definire antropologica, pur riconoscendo anche gli aspetti che in esso erano manifestazione di una subalternità politica e culturale. Attraverso la ricostruzione di Cesare Bermani possiamo vedere come Gramsci cercasse di stimolare la presa di coscienza dell’importanza di possedere un’istruzione negli operai che frequentava e come fosse davvero interessato ai loro problemi e alle loro visioni del mondo. Le due cose, cioè un interesse di tipo più antropologico e un’azione che miri a dare un contributo per una forma di emancipazione politica, non si escludono necessariamente a vicenda; sicuramente non si escludevano nel pensiero e nell’opera di Gramsci, di De Martino, di Gianni Bosio e del suo entourage.

Indipendentemente dagli esiti che il lavoro avviato da Bosio ha poi avuto e dalle contraddizioni che possiamo a posteriori rilevarvi (ma che spesso furono anche già allora colte alimentando un dibattito sempre molto acceso) può essere interessante provare a dare una lettura di esso che tenga come focus la riflessione sul senso politico delle attività culturali e il contributo che la musica popolare (intesa nella particolare accezione che essa ha avuto per il NCI) poteva portare.

Il contributo dato dal lavoro avviato da Gianni Bosio, dal Nuovo Canzoniere Italiano e dall’Istituto Ernesto De Martino per lo studio e la riscoperta della musica popolare italiana è stato chiaramente importantissimo anche perché potessero successivamente affermarsi modi più “scientifici” e meno militanti di approcciarsi alla materia. Quindi, per tutte le influenze che ha

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avuto, seguire il filo del dibattito che questa tesi cerca almeno in parte di ricostruire è fondamentale anche per capire come viene pensata ed eseguita la musica popolare oggi in Italia. Tuttavia la cosa che forse resta più attuale di questo dibattito è non tanto quello che può dirci sulla musica popolare in sé, ma, soprattutto, l’idea che essa fosse una importante espressione culturale e che lavorare per una sua maggiore diffusione e riscoperta fosse un’operazione politica di fondamentale importanza (politica prima di tutto perché culturale). Dal punto di osservazione adottato in questa tesi, quindi, il fatto che questo dibattito non si sia occupato di una parte del revival che al di fuori di esso certamente esisteva non è particolarmente rilevante se non nella misura in cui questa stessa autoreferenzialità aiuta invece a capire ancora meglio le posizioni che in esso venivano sostenute e la visione del mondo ad esse correlata. È indubbio che Gianni Bosio e suoi collaboratori vedessero la musica popolare come coincidente con la parte di essa che interessava loro, che concepissero il loro modo di revivalizzarla come l’unico giusto (benché su quale questo modo dovesse essere ci fosse chiaramente una grande discussione) e che considerassero tutto il resto al massimo come contrappunto dialettico; d’altra parte non si può comprendere a fondo questa pagina di storia della cultura italiana se in essa si cerca solo un approfondimento teorico esaustivo sulla musica popolare di questo paese. Essa infatti fu soprattutto il tentativo di dare un contributo all’emancipazione politica di una parte della società attraverso una operazione culturale. Per cui, se sicuramente si capisce poco della musica popolare italiana e della relativa storiografia senza avere presente questo contesto, è ormai evidente che da un altro punto di vista un approfondimento serio sulla musica popolare stessa debba necessariamente passare anche per vie diverse (cosa peraltro che veniva già sostenuta all’epoca da Carpitella e che risulta oggi ovvia anche grazie alle strade che lui stesso ha contribuito ad aprire).

Questa tesi si basa soprattutto su fonti interne o vicine al NCI perché tenta di ricostruire specificamente il dibattito al suo interno (e nelle immediate vicinanze) sul significato essenzialmente politico dell’occuparsi della musica e della cultura popolare. Anche parlando di Gramsci i riferimenti principali sono non a caso testi di Cesare Bermani e Mimmo Boninelli, due figure molto importanti nel Nuovo Canzoniere Italiano. Questa scelta mira sia a mostrare come il lavoro del gruppo (ricerca, editoria, produzione discografica e di spettacoli) affondasse le sue radici e traesse le sue motivazioni profonde dalla riflessione di un pensatore così importante, sia a mettere in evidenza il modo particolare in cui Gramsci fu letto dal gruppo: particolare perché molto diverso da altri modi in cui fu letto specialmente nei partiti della sinistra (soprattutto per quello che riguarda il ruolo della cultura e degli intellettuali).

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l’omonimo gruppo Nuovo Canzoniere Italiano, all’interno del quale si discusse moltissimo su quali dovessero essere le più corrette modalità di riproposta, proprio per rendere più evidente (ed insieme più efficace) il significato politico di un lavoro che voleva essere “al servizio della classe”. Leydi era una figura vicina al mondo dello spettacolo (come focus di interessi e frequentazioni) ed ebbe probabilmente un ruolo molto importante per dare una spinta alla nascita del gruppo musicale e alle successive produzioni teatrali. Il suo sodalizio con il NCI però presto si ruppe: la tesi cerca di mostrare come le motivazioni alla base di questa frattura fossero più sfumate di quello che sembra (almeno sulla carta), ricostruendo le posizioni di Bosio e Leydi negli scritti di quegli anni.

Seguendo sempre il filo della riflessione fra valore politico del lavoro e modalità di riproposta, il secondo capitolo si occupa dei principali spettacoli del NCI (usando come fonte soprattutto la rivista omonima): Pietà l’è morta (aprile 1964), Bella Ciao (giugno 1964), Ci ragiono e canto (1966) e, successivamente, Sentite buona gente (1967), spettacolo curato da Leydi dopo il suo allontanamento dal NCI (in questo caso usando come fonte soprattutto il libro di Domenico Ferraro

Roberto Leydi e il “Sentite Buona gente”). Intorno a tutti gli spettacoli ci fu un dibattito molto

acceso e significativo: Cosa bisognava cantare? Come bisognava cantare? Era più giusto utilizzare una modalità di riproposta simile a quella degli “informatori” o invece era più interessante dare una nuova lettura dei brani? Era giusto affiancare ai brani popolari nuove composizioni? Aveva senso mettere in scena gli “autentici cantori popolari”? Aveva senso far cantare i canti popolari da interpreti borghesi? Aveva senso mischiare le due cose? E soprattutto: Che senso aveva “revivalizzare” questi repertori? E così via litigando. In generale la tesi nelle discussioni cerca di mettere in evidenza forse più i punti di contatto che non i punti di rottura, pur provando ad evidenziare gli aspetti realmente problematici.

Il terzo capitolo continua a seguire questo filo soprattutto nella seconda serie della rivista NCI. Questa seconda serie fu di soli due numeri (datati 1970 e 1972) entrambi caratterizzati da una forte riflessione sul rapporto fra riproposta e teatro (con dettagliati resoconti anche su manifestazioni contemporanee del teatro popolare), dal momento che la modalità teatrale si stava affermando come probabilmente la più incisiva per il revival. Successivamente, in primo piano continua ad esserci il NCI (gruppo e rivista, in questo caso la terza serie, pubblicata fra l’aprile del 1975 il marzo del 1977), ma, specialmente per gli anni successivi alla morte di Bosio, avvenuta improvvisamente nel 1971, viene dato conto anche di una parte del dibattito svoltosi altrove. Gli autori degli scritti presi in esame, però, sono sempre riconducibili in qualche modo al NCI, cioè avevano avuto almeno in passato un legame importante con esso e tutto sommato continuavano a considerarlo un interlocutore. Ad esempio: la rivista “La musica popolare” era diretta dall’ex Cantacronache ed ex NCI Michele L. Straniero, Diego Carpitella aveva avuto molti rapporti con il gruppo e lo stesso vale

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naturalmente per quanto riguarda Roberto Leydi e Sandra Mantovani.

Nel terzo capitolo viene riportato e analizzato abbastanza dettagliatamente anche il dibattito sull’ingresso del folk nella trasmissione televisiva “Canzonissima” perché nell’ambito di tale dibattito emergono molte riflessioni su «quale rapporto la “cultura altra” debba intrattenere con la società di massa» (Tomatis 2016, p. 270). Questa discussione è interessante perché diventa l’occasione per analizzare e discutere molti punti problematici, soprattutto riguardo al rapporto fra musica popolare, media e industria discografica, senza contare che quando si parla di riproposta è chiaro che la scelta del contesto dove si svolge l’esibizione non è mai neutra, ma condiziona sempre moltissimo la tipologia stessa dell’esecuzione, le scelte stilistiche e quindi il significato da attribuirvi (come fu ampiamente sottolineato da molti nel dibattito in proposito). Le domande intorno alle quali ruotò questo dibattito restano per molti versi attuali: Come eliminare la contraddizione fra l’esprimere dei contenuti protestatari e l’esprimerli attraverso supporti la vendita dei quali favorisce proprio il sistema che si voleva criticare? Come mantenere la propria indipendenza artistica ed ideologica? Come riuscire a non trasformarsi in un “prodotto” (magari consumato da persone “di sinistra”)? Queste domande ritornano in modo autocritico e problematico anche sulle pagine della rivista NCI (prima, durante e dopo il dibattito sul folk a “Canzonissima”) e in altre riflessioni in particolare di Ivan Della Mea.

Questa parte della storia si chiude intorno al 1977, quando le attività nel NCI sostanzialmente si diradano fino (quasi) a scomparire. A restare, pur tra mille difficoltà economiche e gestionali, fu l’Istituto Ernesto De Martino, che tutt’oggi custodisce un prezioso archivio con una buona parte dei materiali frutto delle ricerche degli operatori che gravitavano intorno al NCI (e non solo) e continua la sua opera di razionalizzazione, ricerca e diffusione.

Il quarto ed ultimo capitolo arriva fino ai giorni nostri soffermandosi però solo sulla figura di Giovanna Marini, anche se un serio lavoro su una musicista così poliedrica richiederebbe naturalmente molto più spazio e approfondimento. Seguendo il filo conduttore che caratterizza questa tesi, anche nell’opera di Marini viene preso in esame e approfondito in particolare l’aspetto della ricerca di un equilibrio fra estetica e politica, attraverso una ricostruzione della sua formazione, del suo particolare modo di stare nelle fila del NCI, delle strade che ha scelto di seguire dopo la disgregazione del gruppo, delle soluzioni che ha trovato per portare avanti un suo discorso musicale nuovo ma nutrito sia da uno studio approfondito della musica di tradizione orale italiana che dalla sua formazione di musicista classica. Come emerge molto bene anche dalla testimonianza di Francesca Breschi (cantante e sua collaboratrice da trent’anni), in Giovanna Marini etica ed estetica cercano sempre di fondersi e il suo lavoro risulta sempre profondamente politico.

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tradizione orale italiana; la tesi cerca di mostrare come anche questo aspetto si possa leggere in chiave politica (per il semplice fatto che è un grande lavoro culturale, per il suo oggetto specifico e, infine, per le ricadute di vario tipo che ha avuto).

In generale, in tutte le discussioni che si tenta di ricostruire in questa tesi la tendenza è quella di soffermarsi più sui punti di contatto che su quelli di rottura; anche nel caso di Giovanna Marini il tentativo è quello di dimostrare come l’insieme del suo lavoro (composizione, ricerca, didattica, interpretazione in concerto, ecc.) si possa leggere nell’ottica di un’assimilazione e di un superamento di molti nodi tematici e punti problematici messi in luce dal NCI (e dintorni).

Naturalmente quella di Giovanna Marini non è l’unica “soluzione” possibile, ma il suo lavoro sembra davvero riuscire a superare molte contraddizioni senza aggirarle, in una sorta di felice sintesi, e ha ancora tanto da dire, a chi lo voglia ascoltare.

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Capitolo 1

1.1 Gramsci e il folklore

Nel secondo dopoguerra nasceva in Italia «una ricerca etnologica e folklorica certamente legata a metodi e strumenti della tradizione precedente, ma di segno progressista e legata al movimento operaio, e da questo legame caratterizzata anche nelle sue istituzioni scientifiche e culturali» (Clemente et al., 1976, p. 20). In questa fase venne a configurarsi un ambito di studio definibile come “cultura delle classi subalterne” (cfr. ibid. p. 21) che affondava le sue radici nell'antifascismo e che crebbe in relazione alla situazione politica degli anni cinquanta. La ricerca folklorica assumeva una valenza politica, alcuni etnologi iniziavano a pensare che il loro lavoro potesse avere un peso nella battaglia per l'emancipazione delle classi subalterne ed iniziavano ad essere studiosi con presenza militante a fianco delle classi oggetto dei loro studi.

Questo tipo di studioso non era più solo un semplice osservatore ma diventava una presenza attiva, connotata da un «impegno sociale della ricerca e orientamento teorico in tensione verso il marxismo», per citare ancora Pietro Clemente (ibid. p. 23), seppur con scarsi o problematici legami con i partiti della sinistra.

Uno degli elementi che contribuirono a determinare questo quadro fu la pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci. Già nel 1944 cominciò la pubblicazione delle Lettere dal carcere, sul primo numero del periodico del partito comunista “La rinascita”, mentre la prima edizione dei

Quaderni del carcere uscì per Einaudi fra il 1948 e il 1951, in sei volumi organizzati per criteri

tematici. Maria Grazia Meoni (crf. Clemente et al., 1976, p. 40) sottolinea come la pubblicazione fosse iniziata “non casualmente” a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948, che videro la sconfitta del Fronte Democratico Popolare.

Alcune pagine dei Quaderni toccavano esplicitamente il tema del folklore e della cultura popolare. Il riferimento più immediato è alle Osservazioni sul Folklore. Si tratta di un piccolo scritto, contenuto in un quaderno datato dai curatori 1935 e intitolato in questo modo dallo stesso Gramsci, pubblicato la prima volta nel 1950 in Letteratura e vita nazionale (il quinto dei sei volumi); in esso Gramsci dà la sua definizione di folklore:

Si può dire che fin ora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento “pittoresco” (in realtà fin ora è stato solo raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione e la classificazione di tale

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materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell'erudizione, né con ciò si misconosce l'importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe studiarlo invece come

“concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anche essa perlopiù implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiali” (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono succedute nello sviluppo storico. […] il

folclore può essere capito solo come un riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, sebbene certe concezioni proprie del folclore si prolunghino anche dopo che le condizioni siano (o sembrino) modificate o diano luogo a combinazioni bizzarre (Gramsci 1975, pp. 2311 e 2312, corsivo mio).

Il folklore è definito come la concezione del mondo e della vita delle classi subalterne. Questa definizione ha un carattere decisamente relazionale: il folklore si connota in contrapposizione, benché spesso non consapevole, alla concezione del mondo delle classi egemoni.

Questo modo di definire il folklore naturalmente non è il solo possibile. Il termine è stato inventato da William John Thoms, che nel 1846 lo identificava nei “manners, customs, observances, superstitions, ballads, proverbs, etc. of the olden time” (cfr. Dei 2002, p. 21 e anche Cirese 1971 pp. 62 e 63) dandogli quindi una connotazione di tipo temporale. In base a questa definizione ciò che caratterizza il folklore sarebbe soprattutto la sua collocazione temporale in un'epoca passata e i fatti classificabili come folklorici riscontrabili nel presente sarebbero solo dei residui dei “vecchi tempi”. Del resto anche Gramsci, nel tentativo di precisare meglio il carattere del folklore e la sua inevitabile non organicità, dal momento che «il popolo (cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo» (Gramsci 1975, p. 2312), ne parla come di un «agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati» (ivi), mantenendo in qualche modo l'idea che nel folklore sopravvivano dei relitti del passato.

La definizione di folklore ha inevitabilmente a che fare con quella di “popolo”, che a sua volta è stata declinata in modi molto diversi a seconda dei periodi storici e delle correnti di pensiero, ma che, come sostiene Cirese, si definisce sempre per opposizione e contrapposizione, fin dal romanticismo e dal positivismo. Le contrapposizioni possono essere verticali, se si definiscono come popolo gli abitanti di un'intera nazione o regione, od orizzontali, se invece si utilizzano

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differenti categorie sociali (individuabili con diversi criteri come il reddito, il grado di alfabetizzazione, la mentalità ecc.) all'interno di una stessa società; in questo secondo caso la “popolarità” di un fenomeno non può che essere individuata nella relazione «di differenza o di contrasto rispetto ad altri fatti culturali coesistenti e compresenti all'interno dello stesso organismo sociale» (Cirese 1971, p. 25).

La definizione gramsciana di popolo come “insieme delle classi subalterne”, da cui consegue la sua definizione di folklore, si colloca nettamente sul terreno sociale, come rileva Cirese, in modo che «l'opposizione taglia orizzontalmente le società (nazioni, regioni, ecc.) in “classi” dominanti e “classi” dominate» (ibid. p. 27).

In apertura alle Osservazioni sul folklore Gramsci riflette su una discussione fra Giovanni Crocioni e Raffaele Ciampini (due intellettuali che fra le altre cose si occuparono molto di folklore e cultura popolare) a proposito della ripartizione del materiale folklorico. Crocioni in un suo testo del 1928 critica la ripartizione data da Giuseppe Pitrè nel 1887 nella Premessa alla Bibliografia

delle tradizioni popolari, proponendo una sua ripartizione in quattro sezioni: arte, letteratura,

scienza, morale del popolo, ripartizione a sua volta criticata da Ciampini perché non esaustiva. Gramsci riporta le critiche mosse da Ciampini a Crocioni su “Fiera letteraria” del 30 dicembre 1928, tra cui «E che vuole dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché allora non parlare <anche> di una religione del popolo?». Dopo aver dato la sua definizione di folklore Gramsci torna su queste domande riflettendo sulla “religione del popolo” e sulla “morale del popolo”. Anche in questo caso la “popolarità” si connota per differenza e Gramsci sostiene che sicuramente esistono una “religione di popolo” diversa da quella degli intellettuali e delle gerarchie ecclesiastiche e una “morale del popolo” diversa da quella ufficiale, spesso connesse fra di loro. Entrambe hanno la caratteristica non essere organicamente strutturate, anche se, sottolinea Gramsci, tutte le religioni benché strutturate sono “folclore” rispetto al “pensiero moderno”. Qui “folclore” sembra avere un'accezione negativa, nella misura in cui ciò che è inscrivibile in tale ambito è sempre non organizzato e non organico. La morale del popolo è anch'essa per sua natura frammentaria e non organica, e tuttavia può contenere al suo interno non solo aspetti conservativi e reazionari ma anche elementi innovativi e progressivi, sostiene Gramsci. A questo punto dello scritto, entrando nella polemica fra Ciampini e Crocioni sull'insegnamento del folklore nelle scuole, Gramsci esprime su di esso alcuni giudizi che faranno in seguito discutere a lungo e che vale la pena di riportare:

[L]o Stato non è agnostico ma ha una sua concezione della vita e ha il dovere di diffonderla, educando le masse nazionali. Ma questa attività formativa dello Stato, che si esprime, oltre che

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nell'attività politica generale, specialmente nella scuola, non si svolge sul niente e dal niente: in realtà essa è in concorrenza e in contraddittorio con altre concezioni esplicite e implicite e fra queste non delle minori e meno tenaci è il folclore, che pertanto deve essere “superato”. Conoscere il “folclore” significa pertanto per l'insegnante conoscere quali altre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni più giovani per estirparle e sostituirle con concezioni ritenute superiori. Dalle scuole elementari alle […] Cattedre di agricoltura, in realtà, il folclore era già sistematicamente battuto in breccia: l'insegnamento del folclore agli insegnanti dovrebbe rafforzare ancor più questo lavoro sistematico. È certo che per raggiungere il fine occorrerebbe mutare lo spirito delle ricerche folcloristiche oltre che approfondirle ed estenderle. Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così

l'insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra cultura moderna e cultura popolare o folclore.

Un'attività di questo genere, fatta in profondità, corrisponderebbe nel piano intellettuale a ciò che è stata la Riforma nel paesi protestanti (Gramsci 1975, p. 2314, corsivo mio).

Ciò che viene auspicato in questa celebre pagina gramsciana non è la sostituzione del folklore (in quanto concezione del mondo e della vita delle classi subalterne) alla cultura egemone, ma il suo “superamento”, la sua estirpazione a favore di “concezioni ritenute superiori”. Il folklore va preso sul serio e studiato approfonditamente, ma solo per essere sostituito da “una nuova cultura nelle grandi masse”, facendo sparire il distacco e la contrapposizione necessari per connotarlo.

Cesare Bermani, nel saggio Letteratura e vita nazionale. Le «Osservazioni sul folclore» (contenuto in Bermani 2007, pp. 57-85), ha mostrato come la riflessione gramsciana sul folklore debba molto a quella di Giovanni Crocioni, nel libro del quale sono già presenti molti elementi che ritroveremo in Gramsci. In particolare già Crocioni, nel suo Problemi fondamentali del folklore con

due lezioni su «Il folklore e il D'Annunzio» (1928), sosteneva come ci fosse una grande differenza

fra l'utilizzare il senso comune come un punto di partenza inevitabile per la formazione dei discenti e il volerne perpetuare gli elementi di subalternità.

Per Bermani lo studio del folklore ha un ruolo centrale e determinante nella prospettiva della riforma intellettuale e morale così come è ipotizzata da Gramsci, ma

è nella consapevolezza dell'importanza di questi studi per una trasformazione socialista della società, nella consapevolezza della loro rilevanza politica, che sta il suo apporto originale. L'importanza delle Osservazioni sul folclore deriva più dalla loro collocazione nell'impianto metodologico generale del pensiero di Gramsci che da quanto se ne può desumere da una loro lettura isolata dal contesto generale dell'opera gramsciana (Bermani 2007, p.74).

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Gramsci infatti non si è occupato di folklore solo nelle brevi pagine delle Osservazioni sul

Folclore. Giovanni Mimmo Boninelli in un testo uscito nel 2007 ed intitolato Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci, ripercorre tutta la produzione carceraria e

precarceraria di Gramsci alla ricerca dei riferimenti in qualche modo collegabili al folklore.

Ciò che emerge dalla ricerca di Boninelli è che le Osservazioni sul folclore di Gramsci si configurano come «l'esito di quel lavoro su documenti, esempi, esperienze di vita, osservazioni, momenti di confronto ecc. presenti in tutto l'arco della sua biografia» (Boninelli 2007, p. 12).

Dal libro di Boninelli è evidente che Gramsci si fosse sempre interessato di folklore e che la sua stessa immaginazione, il suo stesso “retroterra culturale” ne fossero imbevuti. Gramsci nei suoi articoli cita disinvoltamente fiabe, novelle, canti, solitamente per fare metafore e paragoni, spesso in chiave ironica.

Nella nota conclusiva al suo libro Mimmo Boninelli afferma

L'ipotesi iniziale che le Osservazioni sul “Folklore” potessero avere alle spalle una conoscenza non superficiale né contingente della materia ha trovato abbondante conferma nell'analisi sistematica del corpus degli scritti gramsciani. […] Il lavoro filologico e storico su proverbi, canti, “storie” ecc. segnala un'attenzione non limitata alla pura registrazione del fatto folclorico, ma si configura anche come indagine critica e abbozzo di riflessione teorica. Nei Quaderni e nelle Lettere del carcere compaiono numerosi richiami a manifestazioni folcloriche: anche qui proverbi, storie e fiabe, espressività religiose e teatrali, canti popolari. Quei “frammenti indigesti” su cui elaborare una riflessione teorica (Boninelli 2007, p. 177).

Questo interesse così diffuso in Gramsci per la cultura delle classi subalterne (prendendo la definizione di cultura che dà Cirese in Cultura egemonica e culture subalterne, cfr. Cirese 1971 p. 17) potrebbe apparentemente stridere con il giudizio che ci dà del folklore nella parte conclusiva delle Osservazioni. Il tono con cui Gramsci si esprime in vari passi citati da Boninelli sembra suggerire un profondo rispetto, una curiosità talvolta quasi etnografica che stride un po' con l'idea che il folklore sia solo qualcosa da “estirpare”.

Il punto è che se guardiamo ai fatti folklorici con una sorta di distaccato compiacimento romantico, con l'atteggiamento del ricercatore archeologo che scava con la paura di veder scomparire il reperto, non ci interesserà mutare lo stato di cose che genera quel determinato fenomeno, quella determinata credenza ecc.. Quello che invece vuole “estirpare” Gramsci è il folklore come conseguenza della subalternità, a partire dal mutare lo stato di cose che lo genera, senza il minimo rimpianto per “il bel tempo che fu”. Questo probabilmente non significa che Gramsci non fosse consapevole del valore della cultura (orale) delle classi “subalterne” nella sua

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alterità. Il modo in cui se ne interessò per tutta la vita dimostra che per lui quel mondo aveva una grande importanza.

Come osserva Fabio Dei

Gramsci non parla mai di “folklore” quando si inoltra nei dettagli etnografici della vita popolare o nelle forme espressive radicate nel mondo locale della Sardegna. Ma è chiaro che si sta riferendo a qualcosa di molto simile a un concetto di cultura che noi chiamiamo antropologico, inteso come radicamento in un mondo locale di significati. Questa sembra anzi per Gramsci la base di ogni autentica cultura, inclusa quella “alta” (Dei 2008, p. 452)1.

In molte lettere Gramsci fa esplicito rifermento ai costumi sardi, come ad esempio gli abiti tipici, le ricette di cucina, le fiabe, le canzoni e le credenze, che dimostra di conoscere molto bene, chiedendo spesso notizie specifiche in proposito ai familiari. Scrive ad esempio alla madre dal carcere, in una lettera del 3 Ottobre 1927:

Quando ti capita mandami qualcheduna delle canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti Di Pirisi Pirione di Bolotana e se fanno, per qualche festa, le gare poetiche, scrivimi quali temi vengono cantati. La festa di S. Costantino a Sedilo e di S. Palmerio, le fanno ancora e come riescono? La festa di S. Isidoro riesce ancora grande? Lasciano portare in giro la bandiera dei quattro mori e ci sono ancora i capitani che si vestono da antichi miliziani? Sai che queste cose mi hanno sempre interessato molto; perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu né coa (citato in Boninelli 2007, p. 34).

Spesso Gramsci rimarca anche l'importanza del dialetto, ad esempio in una lettera alla sorella Teresina dove insiste perché lo lasci parlare ai suoi bambini senza mortificarli.

È significativa la frequenza con la quale Gramsci cita fiabe, novelle e racconti di episodi della sua infanzia, sia negli articoli di giornale che nelle lettere dal carcere; ci tiene a scriverne alcune al figlio Delio, come per voler colmare con le lettere il vuoto di qualcosa di importante che gli avrebbe trasmesso oralmente trovandosi nella condizione di poterlo fare. Gramsci traduce e invia alla sorella Teresina alcune novelle dei fratelli Grimm per dare “un contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli nipoti” (lettera del 18 gennaio 1932, cfr. Boninelli 2007, p. 104), inoltre lavora sulla traduzione di altre novelle, e, consapevole del loro valore didattico, le rielabora per adattarle meglio ai lettori alle quali sono rivolte, secolarizzandole o rendendone più coerenti con il diverso ambiente le situazioni descritte.

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Il tema dell'importanza della cultura delle classi subalterne si intreccia negli scritti di Gramsci con quello della cultura “in generale” e del rapporto fra cultura e politica, fra intellettuali e classi non egemoni.

Cesare Bermani ricostruisce, in un saggio intitolato Antonio Gramsci e il dibattito su

“culturismo e anticulturismo", scritto negli anni settanta e pubblicato nel 2007 (v. Bermani 2007, p.

39-56), come Gramsci fosse al corrente e avesse seguito il dibattito svoltosi nel Partito Socialista Italiano «prima, durante e a seguito del IV Congresso della Federazione Giovanile Socialista Italiana, tenutosi a Bologna dal 20 al 23 settembre 1912» (ibid. p.39). L’oggetto della discussione era la formazione dei giovani e nello specifico se nell’ambito di questa fosse più importante l'azione pratica (posizione sostenuta in particolare da Amadeo Bordiga) o la formazione culturale (questa era la posizione tra gli altri di Angelo Tasca e Guido Casciani). Bermani ricostruisce il dibattito usando le mozioni presentate dai due orientamenti (firmate da Bordiga e Casciani) e gli articoli usciti su “L'Avanguardia” (dove il dibattito era iniziato anche prima) e su “L'Unità” (rivista) nel mese di ottobre 1912.

L'orientamento “culturista”, come veniva definito, sosteneva che il compito della federazione giovanile (ma poi il discorso si estendeva anche al di là dei giovani a tutti i socialisti) fosse principalmente la preparazione culturale, sostenendo che «non basta volere, cioè avere fede e desiderio di bene, per potere: è necessario anche sapere. […] [L]a fede e l'entusiasmo che pretendono di tradursi nella realtà, saltando a piè pari la fase del sapere, non conducono che agli spropositi più grossolani, e attraverso questi spropositi all'inaridimento appunto di ogni entusiasmo e alla fine di ogni fede. […] Ogni grande trasformazione sociale è effetto di un grande sforzo di pensiero oltreché di un grande sforzo morale» (Salvemini 1912. Citato in Bermani 2007 p. 49).

L'orientamento così detto “anticulturista”, invece, anteponeva la necessità dell'azione pratica allo studio, perché la scuola avrebbe avuto la tendenza a diffondere una visione del mondo funzionale a difendere il potere della classe egemone di cui era espressione e non avrebbe posto in alcun modo le basi per un cambiamento rivoluzionario. «La democrazia dice al popolo: sei sfruttato perché ignorante, studia, educati, liberati dal prete e sarai libero; il socialismo dice al proletariato: sei ignorante e vile perché sei sfruttato, sei sfruttato perché chini la testa al giogo: rivoltati, e sarai libero, e potrai allora diventare civile» (Bordiga 1912, citato in Bermani 2007 p. 45).

La ricostruzione di Cesare Bermani fornisce ampi passi degli interventi di Bordiga a difesa della posizione “anticulturista” e di quelli di Salvemini, Tasca ed altri a sostegno di quella “culturista”: si capisce che il dibattito fu molto approfondito e che il tema era molto sentito (al congresso fu votata la mozione Bordiga, ma il dibattito non per questo si fermò, anzi).

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esplicito nei Quaderni (Gramsci 1975, Vol. 2, p.1112, paragrafo 26). Secondo Bermani

vi è d'altra parte un passo dei Quaderni del carcere che pone in luce, oltre l'importanza che ebbe per Gramsci la riflessione su quella polemica del lontano 1912, il modo con il quale egli si atteggia nei riguardi della controversia e in particolare a proposito delle posizioni allora assunte da Bordiga e Salvemini (Bermani 2007, p. 54)

e cita questa nota pagina dei Quaderni del carcere, intitolata Passaggio dal sapere al comprendere

al sentire e viceversa dal sentire al comprendere al sapere:

L'elemento popolare “sente”, ma non comprende né sa; l'elemento intellettuale “sa” ma non comprende e specialmente non sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall'altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, tutt'altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo o la demagogia appassionata. L'errore dell'intellettuale consiste nel credere che si possa

sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che

l'intellettuale possa essere tale se distinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione del mondo, scientificamente elaborata, il “sapere”. Se l'intellettuale non comprende e non sente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramente burocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo organico): se il rapporto fra gli intellettuali e popolo-massa, fra dirigenti e diretti, fra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente ma in modo vivente), allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali fra governanti e governati, fra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d'insieme che sola è la forza sociale, si crea il “blocco storico”.

Gramsci, secondo le testimonianze che abbiamo, tentava di essere un intellettuale di questo tipo. Al libro di Cesare Bermani Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria sono allegati due cd di testimonianze orali su Gramsci, i testi delle quali sono integralmente trascritti all'interno del volume. Molte delle persone intervistate parlano del rapporto di Gramsci con la cultura e l'immagine che emerge è assolutamente coerente con il passo gramsciano citato. Troviamo un Gramsci giornalista che consegnava gli articoli al tipografo all'ultimo momento perché durante il pomeriggio riceveva molte persone e amava parlare con tutte, un uomo che voleva sapere cosa

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pensavano gli operai, che li cercava per parlare con loro. Gramsci credeva davvero nella possibilità

di crescita intellettuale degli operai, anche attraverso l'attribuzione ad essi di responsabilità sempre maggiori all'interno dei consigli di fabbrica o del partito (prendendosi per questo talvolta anche le critiche di coloro che lo giudicavano troppo ingenuo ed ottimista).

Ecco alcune delle molte significative testimonianze orali riportate da Bermani:

Maurizio Garino: I consigli di fabbrica avevano aperto agli operai delle grandi speranze. La tesi di Gramsci: «Noi costruiamo i consigli di fabbrica perché la classe operaia impari ad amministrare e a dirigere le proprie fabbriche, la propria produzione». Ogni reparto deve nominare un cosiddetto commissario, che appartenesse a un gruppo omogeneo della produzione, di modo che in mancanza di una direzione padronale sapesse dirigere la produzione del proprio reparto. Poi questi commissari, attraverso un'intensa cultura politica, comprendessero il grande valore di una società basata sui produttori stessi, all'infuori di ogni forma burocratica. Insomma, il consiglio di fabbrica era anche un organo di cultura. [reg. Mimma Palesu Quercioli, Torino, 1976] (Bermani 2007, p. 297).

Andrea Viglongo: Lui era contro alla cultura delle università popolari, contro la cultura quantitativa, di acquisizione di concetti, lui voleva avere della gente che sapesse pensare, che sapesse ragionare, che fosse stimolata dalla cultura a sviluppare dei pensieri. […]. Noi2 dovevamo

ciascuno pensare sempre a migliorare la nostra capacità di pensare, di esprimerci: l'autoeducazione, in una parola. La cultura è conquista del pensiero. Non interessa niente di avere tante nozioni, interessa saper studiare, saper pensare, saper cercare. Sapere svolgere un tema in tutta l'ampiezza possibile, intendendo per ampiezza la profondità, cioè l'introspettiva, cioè la capacità di cercare in se stessi la verità. […] Gramsci era vocato all'insegnamento. Era un uomo nato per insegnare, era un uomo che cercava il rapporto umano e sentiva il bisogno di portare gli altri al suo livello. Era proprio un bisogno sentito. [reg. di Cesare Bermani, Torino, 1 giugno 1967] (ibid., p. 289).

Battista Santhià: Ma la cosa che rimaneva più impressa a questi operai […] era la dimostrazione della sua conoscenza acquisita nel processo produttivo della fabbrica. Per loro questa era una cosa... perché l'operaio, quando parla con un intellettuale che conosce che cosa è la fabbrica, si appassiona… e allora dà un giudizio diverso degli altri intellettuali. [reg. Mimma Palesu Quercioli, Torino 1976] (ibid., p. 299).

Teresa Noce: Bordiga appariva il dirigente del partito, Gramsci aveva questa azione di educatore… [reg. Cesare Bermani, Milano, 7 Giugno 1967] (ivi).

Cesare Bermani ricostruisce anche il rapporto fra Gramsci e il Proletkult (nel saggio Breve storia

2 Viglongo si riferisce ai membri del “Club di vita morale” definito nella stessa conversazione “una formazione nata

spontaneamente tra un gruppetto di amici” che aveva come “capo riconosciuto” e fondatore Gramsci e della quale facevano parte anche Attilio Carena e Carlo Boccadoro.

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del Proletkul't italiano, contenuto nel volume già citato pp. 121-155).

Il Proletkult fu un organismo fondato in Unione Sovietica nel 1917 con lo scopo, secondo le formulazioni teoriche dell'intellettuale e fondatore Aleksandr Bogdanov, di sradicare la cultura borghese in favore di una nuova cultura, fornendo le basi per una vera arte proletaria, cioè un'arte creata dai proletari per i proletari, alternativa alla cultura borghese. Il Proletkult organizzò circoli artistici e letterari, centri di educazione per gli operai, istituì in tutto il paese corsi e seminari nei quali si insegnava a leggere ai lavoratori e li si incoraggiava a scrivere lavori teatrali, romanzi e poesie. L'organizzazione fu abolita dopo che Lenin ebbe condannato il “bogdanovismo” nel 1923.

Bermani mostra come «l'adesione di Gramsci alle tesi proletkultiste fosse negli anni 1920-22 pressoché totale» (Bermani 2007, p.124) e per rafforzare questa affermazione cita un articolo del 14 giugno 1920, uscito sull'edizione piemontese di “Avanti!” in cui Gramsci parlando della rivoluzione proletaria afferma:

La rivoluzione proletaria non può che essere una rivoluzione totale. Poiché essa consiste nell'instaurazione dei nuovi modi di lavoro, dei nuovi modi di produzione e di distribuzioni che sono propri della classe operaia quale si è venuta determinando storicamente nello svolgimento del processo capitalistico – essa suppone anche la formazione di un nuovo costume, di una nuova psicologia, di nuovi modi di sentire, di pensare, di vivere che devono essere propri della classe operaia, che dovranno essere creati dalla classe operaia, che diventeranno “dominanti” coll'avvento della classe operaia a classe dominante. La rivoluzione proletaria è essenzialmente liberazione di forze produttive già esistenti in seno alla società borghese: ma se queste forze possono essere identificate nel campo economico e nel campo politico, è possibile già da oggi identificare gli elementi che sviluppandosi porteranno alla creazione di una civiltà (di una cultura) proletaria?

Esistono già elementi per un'arte, per una filosofia, per una morale (per un costume) propri della classe operaia? Il problema deve essere posto e deve essere risolto: il proletariato accanto al problema della conquista del potere intellettuale, deve, come ha pensato ad organizzarsi per la politica e per l'economia, pensare anche ad organizzarsi per una cultura. In queste organizzazioni,

se ancora non sarà possibile (come non è possibile per l'economia e per la politica, prima che sia spezzato il sistema di dominazione borghese) ottenere risultati positivi di creazione, deve però essere possibile impostare le questioni fondamentali e delineare i tratti più caratteristici dello sviluppo della nuova civiltà. […]. Nella fase della sua pienezza di vita storica autonoma, la classe

operaia sarà caratterizzata anche da una sua originale concezione del mondo, di cui fino da oggi è possibile delineare qualcuno dei suoi tratti fondamentali.» (ibid., pp.124 e125, corsivo mio).

E (se servisse un riferimento ancora più esplicito al proletkulturismo e un collegamento ancora più evidente con i suoi “contenuti”) su “L'Ordine Nuovo” del 12 Giugno 1920, in un lungo articolo

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intitolato Il proletkult russo e firmato “Un compagno Russo”, si leggeva:

Sollevare il proletariato da questo basso livello intellettuale, dargli anche nella cultura una funzione produttrice, creativa, questa è l'idea direttiva che informa tutta l'azione del Proletkult. Gli operai riusciranno a conquistare completamente il potere e cioè anche il potere intellettuale oltre che quello politico ed economico, soltanto quando saranno essi stessi tecnici ed ingegneri, quando saranno riusciti a creare opere d'arte grandi e magnifiche, quando saranno riusciti a crearsi una propria concezione della vita […]. Soltanto la comprensione e il desiderio degli operai di un livellamento della giustizia sociale e di un'equa distribuzione dei beni può rinnovare la coltura e portarla ad una nuova fortuna. Tutto il superfluo deve essere distrutto, tutto ciò che è degno di considerazione deve essere accessibile a tutti gli uomini.

Gramsci nel 1921 fu quindi tra i fondatori, a Torino, dell'Istituto di Cultura Proletaria (ICP), “Sezione del Prolet-Cult internazionale di Mosca”.

Si legge nel Manifesto dell'Istituto di Cultura Proletaria, pubblicato sull'Ordine Nuovo del 6 Gennaio 1921, steso da Zino Zini ma secondo Bermani fortemente ispirato da Gramsci:

[L]'Istituto di Cultura proletaria non vuole, come hanno fatto e tuttora fanno molte fallaci Istituzioni, emanazioni spurie del pseudo interesse borghese per le classi inferiori, travasare in modo assolutamente passivo ed inerte nelle menti dei lavoratori in dosi saggiamente calcolate le più comuni cognizioni della scienza o i prodotti classici della poesia. […] Abilitare la rozza, ingenua e pur possente anima del lavoratore moderno alla comprensione della vita spirituale e alla valutazione dei suoi prodotti per un lato e preparare dall'altro il risveglio di tutte le forze creatrici che esistono allo stato latente nelle masse per l'avvento di una civiltà nuova: tale è lo scopo che si propone il nostro Istituto di Coltura (Bermani 2007, p. 128).

Nella sua breve vita l'Istituto di Cultura Proletaria organizzò conferenze su vari temi (come Dante, il ruolo degli intellettuali, l'esistenza o meno di una cultura proletaria), concerti di musica classica di buon livello, concerti di musica popolare, un corso di pronto soccorso gratuito in quindici lezioni (perché, come ricorda Teresa Noce, «i fascisti picchiavano, ammazzavano, ferivano e i dottori non ci curavano e ci denunciavano», cfr. ibid., p. 143), una scuola sindacale, visite guidate a musei e mostre. Dopo la visita guidata al Museo di Arte antica e di Arte Applicata di Torino (la prima uscita che venne organizzata e alla quale parteciparono pare circa un centinaio di persone), “L'Ordine Nuovo” offrì premi in denaro e libri ai primi venti che avessero mandato le loro impressioni sulla visita al museo in forma di relazione scritta o di nuova produzione artistica.

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