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I sacchetti bio monouso e l'iva

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I sacchetti bio monouso e l'IVA

di Massimo Pipino

Pubblicato il 27 gennaio 2018

a inizio anno ha fatto molto scalpore la normativa che impone l’uso a pagamento di sacchetti bio monouso per acquisto di alimenti freschi al supermercato; oggi proviamo a vedere quali riflessi (magari infinitesimali) sul calcolo dell’IVA ha questa operazione

Come noto l‘articolo 9-bis del Decreto Legge 20 giugno 2017, n. 91, recante “Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno”, convertito in Legge 3 agosto 2017, n. 123, ha introdotto nell’ordinamento italiano un, piuttosto abborracciato, provvedimento il cui presupposto si trova nella Direttiva (UE) 2015/720 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2015, che modifica la Direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero.

Non è certamente la prima volta che il legislatore italiano interviene in materia: infatti già il Decreto Legge n. 397/1988, convertito in Legge n. 475/1988, prevedeva la tassazione dei sacchetti non biodegradabili. Successivamente il legislatore è intervenuto con il Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e con la Legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007). Più precisamente la Legge n. 296/2006 ai commi 1129 e 1130 prevedeva:

un programma sperimentale per la riduzione della commercializzazione di sacchi per l’asporto merci non biodegradabili;

il divieto della loro vendita a partire dal 1° gennaio 2010 (successivamente prorogato al 1°

gennaio 2011).

Tuttavia la mancata precisazione da parte del legislatore dello standard tecnico in base al quale individuare i sacchetti biodegradabili ha mantenuto il provvedimento in uno stato di incertezza giuridica sino a quando il Decreto Legge n. 2/2012, convertito in Legge n. 28/2012 ha provveduto a fornire la precisazione dello standard tecnico per l’individuazione dei sacchetti biodegradabili e compostabili in sostanza adottando quanto previsto dallo standard UNI EN 13432-2002.

Lo stesso Decreto Legge n. 2/2012 ha inoltre previsto la proroga dell’entrata in vigore del divieto per talune tipologie di shopper, ossia shopper monouso conformi alla 13432 e shopper riutilizzabili con determinati spessori, il rinvio ad un D.M. interministeriale per l’individuazione di ulteriori specifiche tecniche, l’imposizione di percentuali minime di plastica riciclata per i sacchetti riutilizzabili non conformi alla 13432 e la previsione di sanzioni pecuniarie.

Devono però essere fatte le seguenti osservazioni: originariamente il Decreto Legge n. 2/2012 prevedeva l’entrata in vigore delle sanzioni a partire dal 31 luglio 2012, successivamente, con il Decreto Legge n. 179/2012, si è subordinata l’entrata in vigore delle sanzioni a decorrere dal sessantesimo giorno dall’emanazione del predetto D.M. interministeriale, “notificato secondo il diritto dell’Unione europea”. Tale decreto, il D.M. 18 marzo 2013, n. 67447 prevedeva:

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a) l’individuazione degli shopper commercializzabili (articolo 2, comma 1) ovvero: gli shopper conformi alla 13432; gli shopper riutilizzabili con precisi spessori e % di plastica riciclata; gli shopper “in carta, in tessuti di fibre naturali, in fibre di poliammide e in materiali diversi dai polimeri”;

b) l’informazione ai consumatori (articolo 3): precisazione delle diciture che devono riportare i sacchetti, es., per i monouso, “Sacco biodegradabile e compostabile conforme alla norma UNI EN 13432:2002. Sacco utilizzabile per la raccolta dei rifiuti organici”;

c) le sanzioni facendo esplicito rinvio alle sanzioni pecuniarie del Decreto Legge n. 2/2012.

La notifica del D.M. 18 marzo 2013 all’UE (articolo 6): è avvenuta in data 12 marzo 2013.

Tuttavia il D.M. ha subordinato l’entrata in vigore di tutta la citata normativa alla conclusione con esito favorevole della procedura di notifica ai sensi della Direttiva 98/34/CE (c.d. TRIS). Il periodo di attesa della conclusione della procedura di notifica è terminato il 13 settembre del 2013, tuttavia vi è incertezza sull’avvenuta conclusione positiva di tale notifica, e quindi sulla vigenza del Decreto Ministeriale.

La Commissione non si è opposta a tale D.M., è rimasta silente, e parallelamente ha adottato, il 4 novembre 2013, una proposta di Direttiva sulla riduzione delle cosiddette “lightweight plastic carrier bags”. L’incertezza di cui sopra si è riflessa anche sull’applicazione delle sanzioni, e in particolare sulla loro vigenza o meno. Con la Legge n. 116/2014 (articolo 11, comma 2 bis), di conversione del Decreto Legge n. 91/2014 (c.d. competitività) sono definitivamente entrate in vigore, a far data dal 21 agosto 2014, le sanzioni. Con la norma in parola il legislatore ha inteso sancire l’immediata applicabilità delle predette sanzioni, senza più subordinarla (come invece disposto in un primo momento) all’adozione di ulteriori norme o decreti (viene eliminato dal comma 4, articolo 2, del Decreto Legge n. 2/2012 l’inciso “A decorrere dal sessantesimo giorno dall’emanazione dei decreti di natura non Regolamentare” adottati da MATTM e MISE).

Con l’entrata in vigore della Legge n. 123/2017 (Decreto Mezzogiorno) vengono introdotte importanti novità, in recepimento della Direttiva Comunitaria 2015/720. La nuova disciplina prevede, a partire dal 1° gennaio 2018, che tutte le borse per la spesa, quindi anche i sacchetti leggeri ed ultraleggeri (compresi quelli che devono essere utilizzati per i prodotti ortofrutticoli) devono essere biodegradabili e compostabili ed inoltre che vengano distribuiti esclusivamente a pagamento, con l’indicazione della voce distinta in scontrino o fattura.

Vediamo però cosa effettivamente viene previsto dalla norma italiana e che cosa veniva previsto dalla Direttiva Comunitaria.

I punti che ci interessano, sono il comma 2 dell’articolo 9-bis (il contenuto del comma 1 è sostanzialmente tecnico e relativo alle caratteristiche identificative dei sacchetti) secondo cui:

“Le borse di plastica di cui al comma 1 non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite”, ed il comma 5 dello stesso articolo 9-bis secondo cui “Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”.

Salta subito all’occhio la differenza tra il dettato normativo italiano, che stabilisce rigidamente un’imposizione di costo, e si sottolinea il concetto di costo a carico del consumatore visto che il corrispettivo dei sacchetti deve essere registrato in fattura o scontrino, e quanto invece viene

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previsto dalla Direttiva comunitaria, che al punto 11 della premessa così recita: “Le misure che devono essere adottate dagli Stati membri possono prevedere l’uso di strumenti economici come la fissazione del prezzo, imposte e prelievi … e di restrizioni alla commercializzazione, come i divieti in deroga all’articolo 18 della direttiva 94/62/CE, purché tali restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie”. Inoltre va sottolineato che il punto 14 delle stesse premesse prevede che “Gli Stati membri possono utilizzare liberamente i proventi generati dalle misure adottate in virtù della direttiva 94/62/CE allo scopo di realizzare una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero”.

Inoltre la Direttiva europea non prevede in modo esplicito alcun tipo di quadro sanzionatorio in caso di inadempienza fatto salvo il generico riconoscimento agli agli Stati membri dell’Unione della possibilità di adottare “le misure necessarie per conseguire sul loro territorio una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero.

Tali misure possono comprendere il ricorso a obiettivi di riduzione a livello nazionale, il mantenimento o l’introduzione di strumenti economici nonché restrizioni alla commercializzazione in deroga all’articolo 18, purché dette restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie”, contrariamente a quanto previsto dal legislatore italiano che non si è fatto scrupolo di prevedere un pesante quadro sanzionatorio a carico dei soggetti interessati dalle norme in parola (sostanzialmente le attività di distribuzione e rivendita di generi alimentari, organizzate o meno): “4-bis.

La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 226-bis e 226-ter è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 25.000 euro. 4-ter. La sanzione amministrativa di cui al comma 4-bis è aumentata fino al quadruplo del massimo se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure un valore di queste ultime superiore al 10 per cento del fatturato del trasgressore, nonché in caso di utilizzo di diciture o altri mezzi elusivi degli obblighi di cui agli articoli 226-bis e 226-ter. 4-quater. Le sanzioni di cui ai commi 4-bis e 4- ter sono applicate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa, fermo restando quanto previsto dall’articolo 13 della citata legge n. 689 del 1981”.

Da quanto esposto si possono trarre le seguenti considerazioni:

1) l’imposizione di un costo obbligatorio a carico del consumatore non è in alcun modo previsto dalla norma europea di cui l‘articolo 9-bis del Decreto Legge 20 giugno 2017, n. 91 rappresenta l’adozione nell’ordinamento italiano;

2) considerato che la norma non prevede il “prezzo” che deve essere addebitato al cliente, la quantificazione del corrispettivo è a discrezione del singolo commerciante;

3) l’obbligo non interessa le borse in carta/tessuti di fibre naturali/poliammide o in materiali diversi da polimeri;

4) i proventi generati dalla cessione dei sacchetti per l’imballaggio di prodotti freschi, così come previsti dal dettato dell‘articolo 9-bis del Decreto Legge 20 giugno 2017, n. 91, non rappresentano in alcun modo il risultato di un tributo fiscale ma il corrispettivo della cessione di un bene, tant’è vero che devono essere assoggettati ad IVA;

5) considerando il fatto che il prezzo di vendita della singola borsa dovrà risultare dallo scontrino o fattura di vendita, con “indicazione distinta della voce” e con applicazione dell’aliquota IVA del 22% (ma su questo approfondiremo il problema nel prosieguo del lavoro), occorrerà provvedere

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ad adeguare il registratore di cassa, inserendo un “apposito reparto” per l’operazione di addebito delle borse, dal momento che la normativa richiede l’indicazione della voce distinta;

6) la previsione di un quadro sanzionatorio va oltre a quanto previsto da parte della Direttiva UE che si limita a riconoscere agli Stati membri la possibilità di “adottare le misure necessarie per conseguire sul loro territorio una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Tali misure possono comprendere il ricorso a obiettivi di riduzione a livello nazionale, il mantenimento o l’introduzione di strumenti economici nonché restrizioni alla commercializzazione in deroga all’articolo 18, purché dette restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie”;

7) è fondamentale che le attività che utilizzano le tipologie di borse menzionate nella norma in commento all’interno dei propri esercizi si accertino di acquistare dai propri fornitori articoli conformi alle vigenti normative.

Dalle considerazioni appena esposte derivano, a loro volta, alcune altre riflessioni: in considerazione del fatto che, come più sopra precisato, le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite e che la legge (ambientale) indica che si tratta di una vera e propria

“vendita”, si delinea il problema di identificare la corretta aliquota da applicare alle cessioni sia quello relativo al perimetro di applicazione della norma.

Da più parti si è indicata l’aliquota del 22%. Ma le cose stanno proprio così?

Non è detto: in quanto l’articolo 12 del D.P.R. n. 633/1972 prevede che “Il trasporto, la posa in opera, l’imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale. Se la cessione o prestazione principale è soggetta all’imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie imponibili concorrono a formarne la base imponibile”.

In parole povere: le prestazioni di cessione (dei sacchetti nel nostro caso) accessorie ad una cessione di beni seguono l’aliquota della cessione principale e se vendo, ad esempio, delle

“mele”, ed unitamente a loro anche la borsa per contenerle, la borsa seguirà l’aliquota delle mele. Senza contare che se, in quanto rivenditore di prodotti alimentari, procedo alla

“ventilazione dei corrispettivi”, ai sensi dell’articolo 24, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, non indicherò sullo scontrino fiscale l’aliquota del sacchetto (che costituisce merce da rivendere dal 1° gennaio 2018).

Nemmeno per quanto riguarda il perimetro di applicazione dell’articolo 9-bis mancano i problemi: il contadino che vende la propria produzione al mercato è soggetto alla norma in parola e quale aliquota IVA dovrà gestire per la cessione dei sacchetti.

Restiamo in attesa di un documento di prassi dell’Agenzia delle Entrate deprecando l’ennesima

“trovata” del legislatore fiscale inserita in modo del tutto surrettizio in una disposizione relativa a tutt’altra materia senza tenere conto di quelle che possono essere le conseguenze in un ambito, quello fiscale, ed IVA, in particolare in cui è molto difficile modificare qualche aspetto senza vedersi manifestare conseguenze in settori anche assai lontani da quello in cui si è deciso

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di incidere.

27 gennaio 2018 Massimo Pipino

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