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In considerazione di ciò il Consiglio, visto il contributo dell’Ufficio studi, propone le considerazioni che seguono

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Nota in data 17 settembre 2005 del Ministro della giustizia, con la quale trasmette, per il parere, copia del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei ministri il 9 settembre 2005, concernente: “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”.

(Deliberazione del 9 febbraio 2006)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 9 febbraio 2006, ha approvato, il seguente parere:

«Con nota del 17 settembre 2005 il Ministro della giustizia ha trasmesso al Consiglio superiore della magistratura, per il parere, copia del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei ministri il 9 settembre 2005, concernente “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore”.

Il disegno di legge si compone di 14 articoli ed incide con significative innovazioni su plurimi aspetti della disciplina connessa alle intercettazioni telefoniche ed ambientali che danno vita ad una proposta di modifica che incide in profondità non soltanto sugli aspetti propriamente processuali, ma anche su questioni di natura ordinamentale e organizzativa. Tali innovazioni, poi, ove entrassero in vigore, avrebbero come conseguenza una rilevante trasformazione dei metodi di investigazione e dei rapporti tra i soggetti che a vario titolo sono attori delle investigazioni e del procedimento o ne sono a qualsiasi titolo interessati.

In considerazione di ciò il Consiglio, visto il contributo dell’Ufficio studi, propone le considerazioni che seguono.

1. Le principali innovazioni contenute nel testo normativo.

Le innovazioni al regime complessivo delle intercettazioni sono numerose e assai articolate, per cui può essere utile riassumerle sinteticamente secondo il loro oggetto principale:

A) L’introduzione di limiti all’inizio ed alla prosecuzione delle attività di intercettazione.

a.1 - Il primo limite consiste nella riduzione del novero dei soggetti che possono essere destinatari diretti di attività di intercettazione (art. 4, comma 3). In particolare, per la quasi totalità dei delitti è possibile sottoporre ad indagine esclusivamente le utenze delle persone indagate. Tale limite viene meno solo nei procedimenti per “reati gravi e gravissimi” e per quelli commessi comunemente per mezzo del telefono (minacce telefoniche, etc.), che ancora consentirebbero l’intercettazione delle utenze di persone non indagate.

a.2 – Il secondo limite viene introdotto grazie alla riduzione dei presupposti in fatto che consentono il ricorso allo strumento della intercettazione. Ciò avviene sia mediante la previsione (art. 4, comma 2) che non è possibile “estendere” le intercettazioni a nuove utenze se non sono state previamente esperite attività di indagine che consentano di acquisire elementi probatori di provenienza diversa dalle sole conversazioni intercettate, sia grazie alla limitazione (art. 3) delle c.d. intercettazioni ambientali mediante l’estensione anche al di fuori dei luoghi di privata dimora del requisito della flagranza, nel senso che occorre che sia motivabile la fondata convinzione che nei luoghi ove si intende procedere all’ascolto si stia svolgendo l’attività criminosa. Anche nel caso di quest’ultima limitazione, fanno eccezione i reati considerati di particolare gravità (dal terrorismo ai fatti di criminalità organizzata ai reati indicati nella lettera “a” del comma 2 dell’art. 407 c.p.p.), per i quali le intercettazioni delle conversazioni tra presenti sono possibili anche là dove manchi il requisito della flagranza.

a.3 - A proposito della differenziazione della disciplina a seconda delle tipologie di reato, va ricordato che l’art. 4, comma 3, prevede una disciplina generale in ordine alla consistenza degli indizi che debbono sussistere al momento del decreto di autorizzazione: essa richiama il comma 1- bis dell’art. 267 c.p.p., che recita: “nella valutazione dei gravi indizi di reato si applica l’art. 203”.

Diversamente, il successivo comma 6 introduce un nuovo comma dell’art. 267 c.p.p., il comma 3- bis, che prevede che in caso di procedimenti per reati in materia di terrorismo, criminalità organizzata e minacce a mezzo telefono le intercettazioni possono essere autorizzate senza la

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presenza di indizi gravi, e cioè “in base alla sussistenza di sufficienti indizi, valutati ai sensi dell’art. 273”.

a.4 - Un terzo limite è rappresentato da un rafforzamento dell’obbligo di motivazione da parte del magistrato. Sebbene tale disposizione sia contenuta nell’art. 4, comma 2, che modifica la disciplina fissata dal comma 1 dell’art. 267 c.p.p. con riferimento alle intercettazioni telefoniche, la relazione incomprensibilmente sembra riferirsi ai casi di intercettazioni tra presenti disciplinati dal precedente art. 3, dove invece non è contenuta alcuna nuova disposizione specifica in tema di motivazione.

Inoltre, merita osservare che il medesimo passo della relazione si caratterizza per un passaggio particolarmente forte là dove aggiunge “(in tal modo) costringendo il pubblico ministero e il giudice a dare un’ampia spiegazione ….”.

a.5 - Un ulteriore limite è costituito dalla introduzione di termini massimi di durata delle intercettazioni assai contenuti (art. 4, comma 5). Modificando il comma 3 dell’art. 267 c.p.p., si prevede che in via generale le intercettazioni abbiano durata non superiore a 15 giorni, prorogabili in pari misura più volte, ma con il tetto massimo di tre mesi. Anche in questo caso viene prevista una eccezione alla norma generale: i limiti non operano per i reati indicati nel successivo comma 3- bis; in tal caso, infatti, la durata delle attività è prevista nella misura di 40 giorni, prorogabili per giorni 20 anche più volte e senza tetti massimi.

B) L’introduzione di nuovi limiti di utilizzabilità.

Con le modifiche apportate dagli articoli 9 e 10 all’art. 270 e all’art. 271 c.p.p. vengono ampliate le ipotesi di non utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, anche in questo caso con significative eccezioni, e, forse in modo ancora più significativo, si prevede che il divieto operi anche nella ipotesi in cui il giudice dia al fatto di reato una qualificazione diversa e che non avrebbe consentito le attività di intercettazione.

C) L’introduzione di più rigorose formalità e l’introduzione di garanzie per i terzi.

Plurime sono le disposizioni che introducono formalità più rigorose e rigide. Il riferimento è alla tenuta dei registri (art. 4, comma 8), alle forme di gestione, deposito e custodia dei verbali e delle stesse registrazioni (art. 5), nonché alla introduzione di una udienza in cui vengono selezionate le sole risultanze rilevanti (art. 5, commi 8-10). Va poi ricordata la prima parte dell’art. 8, che per i verbali e i supporti delle intercettazioni prevede la custodia in un apposito archivio riservato e il divieto di allegazione dei medesimi al fascicolo processuale.

L’art. 6, a sua volta, introduce nel codice di rito l’art. 268-bis, che, con l’eccezione dei procedimenti riguardanti alcuni reati, prevede che il pubblico ministero avvisi delle avvenute intercettazioni le persone non indagate, così messe in grado di interloquire e di richieder la distruzione delle conversazioni “manifestamente irrilevanti”. La medesima logica è seguita dall’art. 11 per l’ipotesi che il pubblico ministero proceda a richiesta di archiviazione in un procedimento nel corso del quale non ha dato avviso delle avvenute intercettazioni alle persone diverse dagli indagati.

D) L’ampliamento dei divieti di pubblicazione e l’inasprimento delle forme dirette o indirette di sanzione.

Mentre l’art.1 introduce nuove ipotesi di astensione per il giudice (art. 36, comma 1, c.p.p.) e il pubblico ministero (art. 53 c.p.p.) titolari del procedimento o del processo che abbiano rilasciato dichiarazioni riferite allo stesso o risultino indagati per il reato previsto dall’art. 326 c.p., l’art.2 amplia i casi in cui è vietata la pubblicazione di atti di indagine, ancorché non più coperti da segreto, e prevede la trasmissione al titolare dell’azione disciplinare di tutte le violazioni in ipotesi ascrivibili ad un magistrato.

Inoltre, l’art. 12 prevede un inasprimento del trattamento sanzionatorio riferito alle violazioni previste dagli articoli 326 o 684 c.p. e l’art. 14, a sua volta, introduce una specifica forma di

“responsabilità degli enti”.

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2. Gli altri disegni di legge depositati in Parlamento

In Parlamento sono presenti numerosi disegni e proposte di legge che hanno per oggetto interventi di modifica della normativa in materia di intercettazioni e traffico telefonici.

Soltanto una parte di essi, tuttavia, si occupa degli aspetti affrontati dal disegno di legge governativo. Alcuni, infatti, hanno come oggetto principale le modifiche della disciplina delle intercettazioni destinate alla ricerca dei latitanti (si tratta del breve disegno di legge n. 3397, presentato al Senato il 20 aprile 2005 e della proposta di legge C/6024 “Modifiche all’art. 295 del codice di procedura penale, in materia di intercettazioni per la ricerca del latitante, e all’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico”, presentata alla Camera il 5-5-2005) oppure della armonizzazione della disciplina delle intercettazioni con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n.3 e la conseguente modifica dell’art.68 della Costituzione in tema di garanzie dei membri del Parlamento (disegno di legge n. 489, presentato al Senato il 17 luglio 2001). Sul punto merita segnalare che le citate proposte di legge sembrano nei fatti superate a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 140 del 30 giugno 2003, ed in particolare dalla disciplina contenuta nell’art.6.

Altri ancora hanno ad oggetto la previsione di forme periodiche di comunicazione al Parlamento circa l’impiego su base nazionale dello strumento delle intercettazioni (il riferimento è alle proposte di legge n. 1447, presentata al Senato il 29 maggio 2002, e n. 2856, presentata alla Camera dei deputati il 12 giugno 2002, nonché alla proposta di legge n. 3145 “Norme in materia di informazione sulle intercettazioni di comunicazioni”, presentata alla Camera dei deputati l’11 settembre 2002.

A sua volta, la proposta di legge n. 3077, presentata il 25 luglio 2002 alla Camera dei deputati si propone di istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche.

Merita altresì segnalare che alcune delle proposte di modifica complessivamente presente in Parlamento appaiano superate in alcune loro parti, in specie per quanto riguarda la raccolta delle informazioni sul traffico telefonico e la conservazione dei dati e dei supporti, dalla normativa introdotta dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 in tema di protezione dei dati personali, così come modificato recentemente dal decreto legge 27 luglio 2005, n.144, convertito con legge 31 luglio 2005, n. 155 (normativa sulla quale il Consiglio ha espresso un proprio parere con deliberazione in data 30 luglio 2005).

Passando adesso ad un sintetico esame dei disegni e delle proposte di legge che hanno come oggetto gli aspetti affrontati dal disegno di legge governativo n. 3612, possiamo evidenziare che, quanto ai presupposti delle intercettazioni, soltanto la proposta di legge n. 569 “Modifiche in materia di intercettazioni telefoniche, di segreto e di pubblicazione di atti del procedimento penale”, presentata al Senato il 1° agosto 2001, interviene sul catalogo dei reati che consentono tale attività d’indagine, anche se con esclusioni assai meno significative rispetto al disegno di legge governativo. Gli altri disegni e proposte di legge, sempre con riferimento ai presupposti ed alle modalità delle intercettazioni, o rafforzano il concetto di “gravi indizi” (la citata proposta n. 569) oppure contengono limitazioni al numero e alla durata delle proroghe (iniziative n. 489 e 569, citate), anche se talvolta solo con riferimento alle intercettazioni ambientali (come nel disegno di legge S/3389 “Modifiche alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, comunicato alla presidenza del Senato il 14 aprile 2005).

Venendo agli aspetti concernenti in modo diretto la tutela della privacy delle persone soggette ad indagine e, più in particolare, dei soggetti estranei alla vicenda processuale, tre sembrano essere gli elementi di novità principali: la previsione di un archivio riservato in cui custodire i c.d. “brogliacci”, i supporti ed i risultati delle intercettazioni (il riferimento è alle iniziative nn. 489, 569 e 3389, citate, nonché alla proposta di legge n. 6079 “Modifiche alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni”, presentata alla Camera dei deputati il 15 settembre 2005); la introduzione di una specifica udienza camerale volta alla esclusione dagli atti di tutte le conversazioni non rilevanti (iniziative nn. 489 e 3389), con la precisazione che, secondo il disegno di legge S/3389, il pubblico ministero è tenuto a selezionare il

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materiale rilevante e a non utilizzare gli elementi che sono privi di interesse per le indagini e per gli atti da compiere; infine, l’introduzione di una nuova fattispecie criminosa che sanziona i comportamenti di diffusione non legittima delle intercettazioni e dei loro risultati (iniziative nn.

3389, 6079 e 489, quest’ultima distinguendo due ipotesi: una di pericolo e una di danno, la seconda delle quali a carico dei responsabili degli organi di informazione).

3. La ratio del disegno di legge n. 3612.

Secondo quanto emerge dalla parte iniziale della relazione di accompagnamento, lo scopo del provvedimento è in via generale individuato nel “rafforzamento delle garanzie di imparzialità e trasparenza”, nonché nella attuazione dei principi del giusto processo ai sensi dell’art.111 della Costituzione “anche in questa fase di ricerca della prova penale”. In particolare, poi, si segnalano le finalità di “tutela della riservatezza dei cittadini” e di inasprimento del regime sanzionatorio per l’utilizzo improprio dei dati raccolti.

La lettura del prosieguo della relazione e, in specie, la selezione che ivi viene fatta degli articoli del testo più rilevanti, consente di individuare gli obiettivi che sembrano assumere priorità per il Governo. Secondo l’ordine seguito dalla relazione, è dunque possibile individuare: la riduzione del novero delle persone le cui utenze possono essere oggetto di intercettazione (art. 4, comma 3); il rafforzamento dei presupposti indiziari che giustificano il ricorso alle attività di intercettazione (art. 4, comma 2); la limitazione delle intercettazioni delle conversazioni tra presenti, e cioè ambientali (art. 3); l’anticipazione e il rafforzamento del contraddittorio con i soggetti interessati dalle operazioni (articoli 5, 6 e 11); l’ampliamento dei limiti alla pubblicazione dei risultati (art. 2); l’inasprimento del complessivo regime sanzionatorio (art. 8) e l’introduzione di nuove forme di obbligo del magistrato di astenersi dalle indagini o dal processo (art. 1).

Già sulla base di questa prima ricognizione è possibile affermare che il legislatore ha inteso intervenire su due direttrici fondamentali: la prima è costituita dalla riduzione dei casi e delle forme in cui le intercettazioni possono essere praticate e dal restringimento delle modalità di utilizzo dei risultati; la seconda può rinvenirsi nell’incremento delle forme di garanzia soggettiva per le persone interessate dalle attività di intercettazione, con inasprimento dei divieti e delle limitazioni alla pubblicità e con inasprimento delle forme di sanzione per le ipotesi di utilizzo non corretto dei risultati.

4. Le osservazioni del Consiglio.

Osserva preliminarmente il Consiglio che in via generale appare senz’altro condivisibile la sottolineatura delle esigenze di un utilizzo equilibrato di strumenti invasivi di investigazione quali sono le intercettazioni telefoniche e “ambientali”. Tali esigenze costituiscono motivo di riflessione sia attorno alle ragioni del costante aumento del numero di utenze che vengono intercettate per disposizione della magistratura sia delle soluzioni più opportune per ridurre al massimo le forme di utilizzo improprio o illecito dei risultati delle intercettazioni. Proprio partendo dalla constatazione dell’esistenza di esigenze condivisibili, occorre adesso affrontare in modo non superficiale le prospettazioni poste alla base dell’intervento normativo, quale premessa delle soluzioni poi in concreto adottate dall’articolato.

4.a - In primo luogo vengono le ragioni che portano al restringimento dei casi in cui il magistrato può ricorrere allo strumento delle intercettazioni.

Il numero delle intercettazioni telefoniche è certamente assai elevato, anche se paragonato a quello rilevabile nelle altre democrazie avanzate (con le specificazioni che innanzi si vedranno).

Va però chiarito che assai spesso le indagini richiedono nel corso del tempo l’intercettazione di plurime utenze riferibili alla medesima persona o allo stesso gruppo di persone, anche per contrastare le cautele poste in essere soprattutto nella criminalità organizzata, ad esempio attraverso il cambio vorticoso delle schede di telefonia mobile. Così come altrettanto spesso si dà corso ad intercettazioni di utenze che si rivelano presto di scarso impiego e vengono abbandonate.

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Presupposto di una riforma ben bilanciata dovrebbe poi essere l’individuazione delle ragioni che hanno portato al crescente ricorso a tale strumento di investigazione. A questo proposito sembra al Consiglio che due caratteristiche del nostro paese vengano a sommarsi: i livelli delle forme associative e comunque organizzate dei fenomeni criminali e le caratteristiche del rito processuale.

Non sembra necessario spendere molte parole per richiamare non solo la diffusione e la gravità dei fenomeni legati alla criminalità mafiosa e la diffusione di altre forme di illegalità organizzata (quali le frodi economiche e correlati fenomeni corruttivi), con le inevitabili difficoltà di svolgere investigazioni utili e di raccogliere dichiarazioni genuine di testimoni e persone coinvolte nei fatti. Tale situazione è sconosciuta agli altri Paesi di democrazia avanzata e ha portato il legislatore a individuare specifiche ipotesi di reato (ad esempio il delitto previsto dall’art. 416 bis c.p.) e specifici strumenti di indagine, non a caso divenuti modello dell’intervento contro la criminalità organizzata a livello mondiale.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, è opportuno il riferimento alla disciplina dell’utilizzo della prova dichiarativa, quale si è venuto modellando nel tempo a seguito dei vari interventi riformatori. La transizione del processo penale italiano dal modello inquisitorio a quello (tendenzialmente) accusatorio non può certo dirsi conclusa, né appare risolta dall’introduzione del principio del “giusto processo” in Costituzione. Il modello accusatorio, infatti, non si fonda soltanto sulla regola (pur essenziale) del pieno contraddittorio, con conseguente limite all’utilizzo probatorio degli atti di indagine, ma si basa su un complesso sistema di regole e di equilibri che mirano a rendere efficace lo strumento processuale, bilanciando le limitazioni introdotte dalle regole formali di ammissibilità e utilizzabilità. In particolare, i sistemi accusatori tradizionali a fronte del principio della formazione della prova in dibattimento prevedono forme di efficacia del processo che impongono obblighi di lealtà verso la giustizia da parte dei difensori e delle persone private (a partire dall’obbligo di verità per l’imputato che decide di rispondere), nonché strumenti di impulso e di conservazione della prova dichiarativa. Tali strumenti non sono patrimonio del rito penale italiano, così che i principi di prova acquisiti nella fase delle indagini non offrono alcuna garanzia di effettività in sede processuale.

Ecco, dunque, che il sommarsi della debolezza degli strumenti processuali alla forza delle associazioni criminali e alla complessità dei fenomeni criminosi costituiscono le premesse per un ampio ricorso da parte della magistratura allo strumento delle intercettazioni. E, si noti, ben maggiori di quelle autorizzate dai magistrati sono le richieste di ricorso a tale strumento di indagine e di prova da parte delle diverse forze di polizia, che assai spesso ritengono di non possedere risorse umane e dotazioni tradizionali sufficienti per fronteggiare il numero e la complessità dei possibili reati su cui dovrebbero investigare.

Ciò detto, appare evidente al Consiglio superiore che occorrerebbe procedere con molta attenzione ad analisi comparative su scala internazionale circa la rilevanza del ricorso alle intercettazioni. Se è vero, infatti, che pochissimi paesi europei devono fronteggiare una criminalità organizzata endemica e diffusa come quella italiana, ben si comprende che un mero confronto circa il numero di utenze intercettate appare fuorviante. Lo stesso dicasi con riferimento ad altre forme criminose, come la corruzione, che assumono nel nostro paese connotati non episodici e che presentano dimensioni e diffusione certo non invidiabili.

Ma vi è un altro elemento che deve essere considerato e che pone la situazione italiana in posizione non facilmente comparabile con altri paesi. A differenza di quanto avviene altrove, infatti, nessuna autorità pubblica, neppure i servizi di sicurezza, sono autorizzati dalla legge italiana ad effettuare a propria discrezione attività di intercettazione delle comunicazioni telefoniche o tra presenti. Il che significa che tutte le attività di intercettazione debbono passare al vaglio della magistratura, anche le attività aventi finalità di prevenzione e di sicurezza, non svolte nell’ambito di una investigazione penale e non utilizzabili in sede processuale. Non è così in altri paesi di democrazia avanzata, come la Francia, il Regno Unito o gli Stati Uniti, i quali prevedono secondo diverse modalità la possibilità per gli apparati di sicurezza di procedere alle attività di intercettazione e di ascolto senza che sia necessaria un’autorizzazione giurisdizionale nei termini da

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noi conosciuta, e ciò anche nell’evenienza che i risultati delle attività di ascolto possano essere a certe condizioni veicolati anche in sede processuale. Tali osservazioni servono a dire che una parte delle utenze intercettate su autorizzazione della magistratura italiana non rispondono a scopi processuali e che tale differenza, unita ai diversi regimi processuali, impone di valutare con prudenza le analisi comparative fondate su dati esclusivamente quantitativi.

Nel complesso, dunque, l’esigenza di limitare mediante nuove disposizioni di legge il ricorso allo strumento delle intercettazioni non può esser fatta derivare da una sua supposta dimensione patologica.

Merita poi attenta considerazione il fatto che le limitazioni introdotte dal disegno di legge sulla base di tali argomenti non operano per alcune tipologie di reati, considerate dal legislatore particolarmente gravi. Seguendo la logica delle scelte operate in altri recenti provvedimenti normativi, anche in questo caso si tratta dei reati connotati da particolare violenza (cui si aggiungono quelli commessi tipicamente a mezzo del telefono), mentre restano soggette alle nuove limitazioni, che pertanto escludono la possibilità di intercettazione, fattispecie criminose che pure sono comunemente considerate di particolare allarme sociale o risultano potenzialmente strumentali alle forme di criminalità organizzata. In un certo senso, dunque, anche il disegno di legge in esame sembra porsi nel solco della politica del “doppio binario” processuale che il Consiglio ha già avuto modo di valutare criticamente in rapporto ai valori costituzionali.

4.b – I riflessi sulla disciplina processuale di possibili abusi nell’utilizzo e nella diffusione delle intercettazioni telefoniche.

Premesso che appare non corretto affrontare questo aspetto come se costituisse una ulteriore, seppure indiretta, ragione di limitazione della possibilità stessa di procedere alle attività di intercettazione, il Consiglio ritiene necessario osservare, in via preliminare, che in nessun caso il timore di una possibile impropria diffusione dei risultati delle intercettazioni può giustificare l’adozione di regole che ostacolano o limitano il pieno e necessario utilizzo processuale di quei risultati. Ne consegue che dovrebbe essere valutato con grande prudenza ogni provvedimento volto ad espungere dagli atti una parte delle conversazioni oppure a limitare in via generale il loro impiego nel corpo di richieste del pubblico ministero e dei provvedimenti del giudice. Ciò, ovviamente, non significa che il legislatore non possa fornire indicazioni o stabilire regole volte ad escludere ogni forma impropria di utilizzo degli atti del procedimento o del processo, così che sono certamente ammissibili interventi preventivi, quali la cancellazione delle conversazioni non rilevanti, soprattutto se coinvolgono fatti o persone estranei alla vicenda processuale.

Sotto questo profilo potrebbero valutarsi diverse ipotesi, tra cui una più rigorosa disciplina del contraddittorio per la valutazione della rilevanza delle conversazioni intercettate, anche con riferimento alle fasi del procedimento, che tenda a rivalutare l’impianto originario del codice procedurale, che ne prevedeva l’effettuazione nella fase delle indagini.

Lo stesso dicasi per forme dissuasive, quali l’inasprimento delle sanzioni per chi viola tali regole.

Nell’ambito di tali osservazioni, il Consiglio ritiene infine opportuno segnalare come le soluzioni adottate dal disegno di legge appaiano talvolta eccessivamente rigide e irragionevolmente sbilanciate sul versante della tutela dei diritti di riservatezza. Tali caratteristiche delle regole procedimentali possono comportare non ragionevoli ostacoli all’efficacia stessa delle intercettazioni, aspetto questo che sarà in seguito affrontato in modo più specifico. Non può essere, infine, omessa una considerazione sulla circostanza che l’introduzione di nuove e pesanti formalità attuative comporta per i magistrati e per l’intero ufficio oneri scarsamente compatibili con la limitatezza delle risorse e con la possibilità di una efficace gestione del procedimento e dell’ufficio nel suo complesso. La tradizionale tendenza del nostro legislatore a non farsi carico delle ricadute sulla operatività del servizio provocate dalle regole di nuova introduzione trova oggi un limite nella lettura moderna dell’art. 97 e nel disposto dell’art. 111 della Costituzione, disposizione quest’ultima che mira ad un corretto bilanciamento fra le esigenze del “giusto processo” e quella di “ragionevole durata” del processo, secondo una impostazione che il Presidente della Repubblica ha fatto propria

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nella nota del 20 gennaio 2006 con cui ha inviato alle Camere il testo di legge in tema di modifiche del regime delle impugnazioni.

Fornito così il quadro complessivo delle principali innovazioni, ritiene il Consiglio di dover procedere ad un esame degli aspetti di maggiore complessità o criticità della normativa contenuta nel disegno di legge, anche in questo caso articolando l’analisi secondo argomenti omogenei nei termini seguenti.

5. I presupposti e le caratteristiche delle attività di intercettazione (artt. 3 e 4)

5.1 - L’art. 3 del disegno di legge modifica il secondo comma dell’art. 266 c.p.p.. Va evidenziato subito che, a seguito della mancata modifica del primo comma, per le intercettazioni rimane sostanzialmente immutato l’ambito applicativo; esse restano così generalmente consentite nei procedimenti relativi ai delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell' ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, nei delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nei delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope, in quelli concernenti le armi e le sostanze esplosive, in quelli di contrabbando, nei reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono, nei delitti riguardanti la pedopornografia.

Diversamente, a seguito della riscrittura del secondo comma si determina un sensibile mutamento dei limiti di ammissibilità delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti.

Ed infatti, viene modificata la norma attualmente vigente che consente sempre l'intercettazione di comunicazioni tra presenti in tutti i procedimenti riguardanti i reati summenzionati, subordinandola alla sussistenza del fondato motivo di ritenere che si stia svolgendo l'attività criminosa solo allorquando la ricerca della prova debba avvenire nei luoghi di privata dimora o assimilati indicati dall'art. 614 c.p.. Il richiamo ai luoghi indicati dall’art. 614 verrebbe ora eliminato, così che il fondato motivo di sospetto di flagranza viene richiesto in modo ampio e generalizzato per tutti i casi tipizzati dal primo comma. Questo nuovo regime limitativo, di ordine generale, non si applica in tutte le ipotesi relative ai procedimenti per reati di criminalità organizzata o terrorismo, di pedopornografia e di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile; per tali reati viene così prevista la possibilità indiscriminata di intercettazione ambientale anche nei luoghi privati indicati dall’art. 614, senza cioè richiedere il fondato motivo di ritenere che in quei luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa.

Per effetto della modifica sembra prendere corpo, pertanto, un regime normativo “a doppio binario” relativo ai limiti di ammissibilità delle intercettazioni ambientali, di talchè, per alcune tipologie di reati si restringe il campo applicativo del mezzo di ricerca della prova ai casi di effettivo e concreto sospetto della flagranza, e per altre si allarga a dismisura la praticabilità dell’intercettazione, sganciandola sia dal concetto di flagranza che dalla natura dei luoghi in cui essa possa eseguirsi.

Ciò posto, è da osservare che, se la scelta in questione comporta una maggiore incisività dello strumento di ricerca della prova per i reati che la stessa opinione pubblica internazionale giudica di particolare gravità, risulta per contro ristretta in modo sensibile l’efficacia dello strumento medesimo in relazione alle figure criminose contemplate nell’art. 266, primo comma, c.p.p., che certamente contemplano anche ipotesi di grande rilievo.

A tale proposito appare necessario sottolineare la inevitabile molteplicità degli elementi che debbono essere presi in considerazione dal legislatore per valutare il punto di bilanciamento fra la tutela del diritto della persona alla riservatezza e la necessità di ricorrere a strumenti d’indagine e di prova invasivi. Accanto ai livelli di pena e di violenza delle condotte, che certo connotano le ipotesi più gravi richiamate dall’art. 3 in esame, il legislatore dovrebbe tenere in debita considerazione altri elementi, quali l’offensività dei fatti rispetto agli interessi collettivi, il rilievo della ricaduta dei reati sul tessuto sociale e sulle istituzioni, le difficoltà di acquisizione degli elementi probatori. Sotto questo profilo appare, dunque, opportuno un ripensamento delle soluzioni adottate dal disegno di legge che escludono in via generale il ricorso alle attività di intercettazione nei procedimenti per

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fattispecie criminose di grande rilievo sociale che l’esperienza dimostra essere accertabili in molti casi soltanto ricorrendo a quelle attività. Sotto questo profilo può dirsi smentito lo stesso assunto della relazione introduttiva che fa leva, pure a fronte del mutato quadro, sulla “inalterata funzionalità dello strumento”, cosa che, alla luce di quanto osservato, non pare invece garantita.

Parimenti, anche se sotto profilo diverso, avrebbe meritato maggiore attenzione nella relazione di accompagnamento la scelta di allargare l’utilizzo delle intercettazioni ambientali per i delitti di maggiore gravità. Pur comprendendosi le ragioni di tale intervento, più opportunamente il legislatore avrebbe dovuto farsi carico di una più approfondita motivazione dell’adeguatezza costituzionale del punto di equilibrio individuato in concreto tra le tutele accordate dall’art.15 ai diritti individuali e l’ampiezza delle possibilità di ricorso agli strumenti di intercettazione.

Sembra, nel contempo, che l’intervento legislativo abbia anche smarrito un’occasione utile per una compiuta definizione del concetto di luogo di privata dimora mutuato, per relationem, dall’art. 614 c.p. Gli orientamenti spesso ondivaghi della giurisprudenza avevano evidenziato a tale proposito l’esigenza di porre dei punti di arresto interpretativo (si pensi, in proposito, ad esempio, agli orientamenti in tema di bagno di un locale pubblico, su cui, v. Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2003; di abitacolo di una autovettura, su cui, tra le altre, v. Sez. VI, 18 febbraio 2003 e Sez. VI, 22 gennaio 2001).

5.2 - L’art. 4 del disegno di legge modifica variamente l’art. 267 c.p.p.. Nel primo comma, oltre a prevedersi, come fa la norma oggi in vigore, che l'autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione è data con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini, si precisa che detta indispensabilità deve evincersi non soltanto dal contenuto dell’intercettazione ma anche da altri elementi che il provvedimento autorizzatorio deve “espressamente ed analiticamente” indicare. È altresì richiesto che l’autorizzazione rivesta i caratteri della contestualità, non ammettendo la possibilità di successivi interventi modificativi o sostitutivi. Gli stessi caratteri sono richiesti al decreto motivato di urgenza emesso dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 267, comma 2, c.p.p..

Viene quindi introdotto, attraverso il nuovo comma 1-ter, il limite soggettivo della sottoponibilità ad intercettazione del solo indagato, fatta eccezione per alcuni reati di enorme allarme sociale previsti dagli artt. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., 407, comma 2, lett. a) c.p.p., 600 ter c.p. e 600 quinquies c.p., oltre che per i reati di ingiuria, minaccia, molestia a mezzo telefono, per i quali, invece, l’intercettazione resta possibile anche per i non indagati.

Orbene, è del tutto evidente che dette restrizioni alle possibilità operative delle intercettazioni, per quanto possano essere funzionali rispetto all’obbiettivo della maggiore tutela della privacy soprattutto dei non indagati, si pongono come totalmente disfunzionali rispetto al raggiungimento dell’obbiettivo dell’incisività delle indagini, essendo stati aperti varchi di assoluta inefficienza dell’intero strumento di ricerca della prova. Va evidenziata a tale proposito la non ragionevolezza di alcuni limiti per come vengono introdotti, quali l’assoluta esclusione dell’ascolto su utenze di persone non indagate; tale regola non solo premia la fittizia intestazione a terzi delle utenze fisse e mobili di pertinenza di un indagato, ma agevola da parte dell’indagato stesso l’elusione delle possibili intercettazioni mediante l’utilizzo di utenze effettivamente riferibili a persone fisiche o giuridiche diverse. E non sfugge che non mancavano nel sistema processualpenale accorgimenti, già più che sufficienti, volti a tutelare le persone che, pur non essendo indagate, venivano coinvolte dalle intercettazioni, sicché al loro inconsapevole interessamento soccorrevano rimedi già operativi, quali ad esempio quello previsto all’art. 270 c.p.p..

Ne consegue che la scelta legislativa in esame, volendo rafforzare la tutela di interessi comunque tutelati in altra e, a giudizio del Consiglio, non meno efficace maniera, finisce con l’indebolire oltremodo lo strumento processuale dell’intercettazione, con la conseguenza di orientarlo troppo verso la difesa della riservatezza e troppo poco verso il raggiungimento dei suoi obbiettivi primari e naturali, quello cioè di dare concreta attuazione al principio fissato nell’art. 112 della Costituzione e quello dell’effettività della ricerca della prova al fine di reprimere dei reati e di prevenirne altri. Al riguardo, se è vero che le modalità di bilanciamento degli interessi in gioco sono

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rimesse al legislatore, non può evitarsi di rilevare che si è in presenza di uno sbilanciamento, che potrebbe non apparire ragionevole, anche sulla base dell’orientamento più volte manifestato dalla Corte costituzionale in tale materia.

Nel medesimo senso sembra, inoltre, dirigersi la introduzione di un limite massimo della durata dei periodi di intercettazione. Per il vigente comma 3 dell’art. 267 c.p.p. la durata delle attività non può superare i quindici giorni, esse possono essere prorogate dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di quindici giorni, sempre che ne permangano i presupposti.

Diversamente, per effetto della modifica legislativa la durata massima derivante dalle proroghe non può superare i tre mesi. Si tratta di un periodo di tempo che non trova specifica giustificazione e che non appare rispettoso delle specifiche esigenze di indagine, risultando così irragionevolmente uniforme rispetto alla varietà dei reati e irragionevolmente rigido.

Parimenti appare eccessivamente limitativa e non giustificabile in maniera convincente l’introduzione dei caratteri della non modificabilità e della non sostituibilità in via successiva del decreto motivato di autorizzazione, visto che essa finisce con l’avere un’indubbia ricaduta in negativo sui poteri del Tribunale del riesame, al quale la stessa Cassazione ha finora riservato la possibilità di emendare, in sede di giudizio di riesame dell’ordinanza coercitiva, il vizio di motivazione del decreto di autorizzazione dell’intercettazione, salvi, naturalmente, i casi in cui quest’ultimo sia totalmente sfornito di motivazione o ne abbia una meramente apparente o di stile (in tal senso vedasi, tra le altre, Sez. VI, 11 maggio 2005, n. 232041, Longoni,; Sez. V, 5 luglio 2004, n. 230021, Inastasi; Sez. III, 8 novembre 2002, n. 223197, Bosch,; Sez. V, 7 dicembre 1999, n. 215528, Molinari). Tale restrizione degli ordinari poteri di intervento del Tribunale del riesame appare in contrasto con le finalità e le caratteristiche di tale giudice, per giunta privato anche di qualsiasi possibilità di un intervento rescindente.

5.3 - Il comma 8 dell’art. 4 del disegno di legge, inoltre, abroga formalmente l’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella l. 203 del 1991, per i reati di criminalità organizzata o di minaccia con il mezzo del telefono.

In sostanza, la modifica si limita a richiamare le regole fondamentali previste da detta norma, che era nata in veste espressamente derogatrice rispetto all’art. 267 c.p.p., riportandole nell’alveo di quest’ultimo articolo. Con scelta che appare condivisibile, si ribadisce che per detti reati, cui si aggiungono quelli di terrorismo, l’intercettazione può protrarsi per 40 giorni ed essere prorogata per periodi successivi di 20 giorni, senza la fissazione di alcun tetto massimo diverso dalla conclusione delle indagini. La deroga alla norma codicistica continua, così, ad estrinsecarsi nel fatto che le intercettazioni possono essere autorizzate in presenza di sufficienti indizi di colpevolezza e possono essere disposte quando siano necessarie e non solo allorché siano assolutamente indispensabili. Per le intercettazioni ambientali la norma prevede che esse possono essere autorizzate a prescindere dal fondato motivo di ritenere che nei luoghi previsti dall’art. 614 c.p. si stia svolgendo l’attività criminosa. Inoltre l’esecuzione delle operazioni può essere compiuta non necessariamente da ufficiali di p.g. ma anche da agenti. Tale ultima disposizione appare al Consiglio condivisibile e opportuna, ma questa valutazione impone di segnalare come la diversa regola introdotta in via generale non solo appare non necessaria e poco convincente sul piano dei principi, ma comporterà per gli uffici e per le forze di polizia rilevanti problemi organizzativi e serie difficoltà operative, come può dedursi dalla non compatibilità fra le dotazioni di personale a disposizione delle sezioni di polizia giudiziaria, e più in generale messo a disposizione dai servizi territoriali, e la previsione normativa che impegna in modo assai più significativo il personale con qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria.

6. Le forme e le modalità delle attività di intercettazione (artt.5, 6, 8.comma 1 e 13)

6.1 - L’art. 5 apporta significative modifiche alla disciplina dettata dall’art. 268 c.p.p., con riguardo alle modalità esecutive delle operazioni di intercettazione ed agli adempimenti successivi all’ espletamento delle stesse operazioni, posti a carico della polizia giudiziaria e del pubblico ministero; viene altresì ridisegnata la procedura di acquisizione al fascicolo processuale degli esiti

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delle operazioni di captazione, con la previsione di uno specifico procedimento camerale aperto al contraddittorio delle parti.

Tanto premesso, appare opportuno procedere separatamente all’analisi delle modifiche apportate alle diverse disposizioni contenute nell’art. 268 c.p.p..

a) Resta immodificato l’obbligo di redazione dei verbali relativi alle operazioni di intercettazione, mentre viene introdotta una specifica previsione relativa alle modalità di custodia dei verbali e dei supporti relativi alle registrazioni; infatti, i verbali ed i supporti contenenti le registrazioni devono ora essere custoditi nell’archivio riservato di cui al novellato art. 269 c.p.p.;

l’art. 8 del disegno di legge n. 3612, interpolando l’art. 269, comma 1, c.p.p., prevede infatti l’istituzione di un archivio riservato tenuto presso l’ufficio del pubblico ministero che ha disposto l’intercettazione, “con divieto di allegazione anche solo parziale al fascicolo”. Tale ultima disposizione sembra orientata a ridurre i rischi di diffusione di notizie e di contenuti delle attività di intercettazione, ma appare eccessivamente condizionata dall’attualità. Il divieto generale di allegazione anche al fascicolo del pubblico ministero costituirà certamente fonte di gravi difficoltà operative per il magistrato e di incertezze interpretative con riferimento, ad esempio, agli atti urgenti ed ai provvedimenti interlocutori che presuppongono l’esame e l’utilizzo dei risultati delle intercettazioni e che possono richiedere l’inoltro di questi al giudice delle indagini preliminari ed ai successivi giudici di controllo. A tale proposito il Consiglio ritiene opportuno dare atto della circostanza che è ormai patrimonio largamente diffuso dei magistrati inquirenti la consapevolezza della opportunità di non includere nelle richieste di provvedimenti cautelari i risultati delle intercettazioni che non siano pertinenti e quelli che senza alcuna rilevanza probatoria chiamino in causa terze persone, così come dimostrano anche i documenti presenti agli atti della pratica consiliare e provenienti da esponenti della giurisdizione (cfr. nota del Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma in data 9 giugno 2004 e 3 agosto 2005).

b) Le disposizioni relative alla redazione dei verbali, che nell’impianto originario del codice di rito penale erano contenute nell’art. 89, comma 1, disp. att. c.p.p., sono state inserite nel secondo comma dell’art. 268 c.p.p.. Oltre alle indicazioni già previste, il legislatore richiede oggi che nel verbale siano altresì “annotati cronologicamente, per ogni comunicazione intercettata, i riferimenti temporali della comunicazione e quelli relativi all’ascolto”.

La voce relativa alla annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione dell’intercettazione si arricchisce di contenuto: viene ora richiesto l’inserimento nel verbale di dati che appaiono certamente utili per la migliore contestualizzazione delle comunicazioni intercettate e, quindi, per la valutazione del materiale probatorio così ottenuto. E’ rimasta la previsione della trascrizione sommaria del contenuto delle comunicazioni intercettate (il c.d. brogliaccio d’ascolto);

si tratta di materiale di consultazione intrinsecamente provvisorio ed interlocutorio, oggetto della complessa procedura giurisdizionale di acquisizione e stralcio prevista dai commi 8 e 9 dell’art. 268 c.p.p. (infra, § h), i).

c) Il novellato comma 3 accorpa le disposizioni originariamente ripartite nei commi 3 e 3 bis.

Con riguardo all’utilizzazione di impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria viene ora espressamente previsto che l’insufficienza o l’inidoneità degli impianti installati nella Procura della Repubblica sia attestata dal funzionario responsabile del servizio di intercettazione.

Sul punto, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità aveva ripetutamente affermato che l’accertamento della carenza o inidoneità degli impianti installati presso gli uffici della procura della Repubblica è di competenza del PM; e che la mancata allegazione di una certificazione in merito non costituisce motivo di inutilizzabilità del decreto di intercettazione emesso dall’organo inquirente, ex art. 268, comma 3 c.p.p., ove la ragione delle carenze degli impianti risulti indicata nella parte motiva del decreto medesimo (vedi Cass. Sez. Un., 26 novembre 2003 n. 919, Gatto;

Cass. sez. VI, 16 giugno 2005 n. 28521, Ciaramitaro).

d) La disciplina relativa alla trasmissione dei verbali al PM ed al successivo deposito in segreteria resta sostanzialmente invariata; viene, peraltro, prevista espressamente la possibilità che l’eventuale proroga del tempo di deposito sia disposta dal giudice “su istanza delle parti, tenuto

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conto del loro numero, nonché del numero e della complessità delle intercettazioni”. L’espresso riferimento alla “istanza delle parti” rappresenta evidentemente una anticipazione dell’apertura del contraddittorio, che connota la seguente fase giurisdizionale di acquisizione e stralcio delle conversazioni.

e) Non vengono apportate modifiche alla disciplina di autorizzazione al ritardato deposito, se non per quanto concerne il dies ad quem: il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardare il deposito dei verbali “non oltre la data di emissione di avviso della conclusione delle indagini preliminari”, e non più sino alla chiusura delle indagini stesse, come originariamente previsto.

La modifica implica che l’avviso di deposito all’indagato circa l’espletamento di operazioni di intercettazione non possa tardare oltre il momento di emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.. Il legislatore sembra voler dare piena effettività alla discovery di cui all’art. 415 bis c.p.p.; sono stati, infatti, contingentati i tempi per il ritardato deposito dell’avviso ex art. 268, comma 5, c.p.p., al fine evidente di evitare che la documentazione relativa alle indagini depositata ex art. 415 bis, comma 2, c.p.p. risultasse incompleta, proprio con riguardo all’avviso di espletamento delle operazioni di intercettazione.

f) Il comma 6 dell’art. 268 c.p.p. specifica il catalogo delle facoltà già assegnate ai difensori delle parti, dal primo periodo del testo previgente; viene, infatti, precisato che i difensori hanno facoltà di prendere visione “dei verbali e dei decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione”. In questa fase, è vietato il rilascio di copia dei verbali, dei supporti e dei decreti.

g) Viene sancito il divieto di disporre lo stralcio delle registrazioni e dei relativi verbali prima del deposito dei verbali delle registrazioni previsto dal comma 4 dell’art. 268, c.p.p.; la norma tutela il diritto delle parti a conoscere l’esito delle operazioni di captazione espletate.

h) I commi 8 e 9, che qui si analizzano unitariamente, disciplinano la procedura giurisdizionale di selezione dei colloqui e delle comunicazioni rilevanti che debbano refluire nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 comma 1, c.p.p.), disposizioni precedentemente contenute nella seconda parte del comma 6 e nel comma 7. Il legislatore prevede ora la celebrazione di una specifica udienza camerale, nel rispetto delle forme di cui all’art. 127 c.p.p..

La modifica appare rilevante sotto diversi profili. In primo luogo si osserva che il richiamo espresso alla disciplina dell’udienza in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p. sancisce il diritto delle parti, oltre che dei loro difensori, di partecipare al procedimento. Oltre a ciò, la nuova disciplina sembra espressamente finalizzata a privilegiare una acquisizione del materiale conoscitivo, prodotto della attività di captazione, anteriormente alla fase processuale e nell’ambito della specifica udienza camerale sopra richiamata. La riforma tratteggia, invero, una competenza funzionale del giudice delle indagini preliminari rispetto alla acquisizione delle conversazioni e dei flussi di comunicazioni, che porta ad escludere l’esperibilità della procedura nel corso dell’udienza preliminare.

Come si vede, il legislatore inserisce nella fase delle indagini preliminari una ulteriore ipotesi di contraddittorio anticipato sulla prova. L’evenienza suscita più di una perplessità: da un lato, l’apertura del contraddittorio sulla acquisizione delle conversazioni in una fase del procedimento in cui l’imputazione è ancora fluida, non sembra in concreto mettere le parti in condizione di esercitare efficacemente il diritto di difesa; ed il medesimo ordine di considerazioni porta a ritenere che lo stesso GIP, chiamato a selezionare le trascrizioni da inserire nel fascicolo per il dibattimento, ovvero da stralciare, non possa in assenza dell’intero fascicolo del pubblico ministero possedere l’adeguato bagaglio conoscitivo; dall’altro, la previsione di una udienza camerale, a fissazione necessaria, per il caso in cui siano state autorizzate operazioni di intercettazioni aggrava sensibilmente, sul piano funzionale, gli incombenti a carico della cancelleria e dello stesso ufficio del giudice delle indagini preliminari. Come già accennato, si introducono obblighi e adempimenti che risultano scarsamente compatibili con le risorse a disposizione degli uffici giudiziari e che comporteranno un aggravio di complessità ed un inevitabile allungamento dei tempi del

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procedimento. E’ questa circostanza che non certo priva di rilievo e che meriterebbe più attenta considerazione da parte del legislatore.

i) L’ultimo comma dell’art. 268 c.p.p. non contiene modifiche sostanziali rispetto alla disciplina previgente dettata dal comma 8.

6.2 - L’art. 6 disciplina l’avviso a persone non indagate. Tale disposizione inserisce nel codice di rito penale l’art. 268-bis, rubricato: Avviso a persone non indagate. A mente di tale disposizione, il pubblico ministero dà avviso con piego chiuso raccomandato dell’avvenuto deposito di cui all’art.

268 comma 4, c.p.p., nonché di ogni eventuale provvedimento di stralcio delle registrazioni, “ai soggetti diversi da quelli nei confronti dei quali si procede, che non risultino indagati in procedimenti connessi o collegati”.

Si tratta di un inedito strumento processuale volto ad offrire migliore tutela al diritto alla riservatezza dei cittadini non indagati che abbiano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione e che, per tale ragione, risultino indicati nei verbali di esecuzione delle operazioni e coinvolti nelle registrazioni. La regola soffre una eccezione, qualora si proceda per i gravi reati richiamati nell’art. 407, comma 2, lett a), c.p.p. nonché per i delitti ex art. 600-ter (pornografia minorile) e 600-quinquies c.p. (sfruttamento della prostituzione minorile). Il legislatore ha individuato così un punto di bilanciamento rispetto alle esigenze di funzionalità dello strumento operativo delle intercettazioni, con riferimento alla azione di contrasto e repressione delle più gravi forme di reato. I soggetti destinatari dell’avviso possono richiedere l’eventuale distruzione delle intercettazioni delle comunicazioni telefoniche stralciate in quanto manifestamente irrilevanti ai fini investigativi.

6.3 - L’art. 8, comma 1, introduce modifiche all’art. 269 c.p.p. Come si è visto analizzando il novellato art. 268, comma 1, c.p.p., i verbali ed i supporti contenenti le registrazioni devono ora essere custoditi nell’archivio riservato previsto dall’art. 269, comma 1, c.p.p., come novellato dall’art. 8 del disegno di legge in esame. Il nuovo archivio riservato va tenuto presso l’ufficio del pubblico ministero che ha disposto l’intercettazione, “con divieto di allegazione anche solo parziale al fascicolo”. Stabilisce ora l’art. 269, comma 2, che le registrazioni, conservate fino al passaggio in giudicato della sentenza, siano distrutte con le forme già previste dal comma 3 del medesimo articolo. Il legislatore, al fine di prevenire divulgazioni indebite del materiale provento di intercettazione, non solo ha previsto l’istituzione di un apposito “archivio riservato”, ma ha altresì sancito un generalizzato obbligo di distruzione dei supporti contenenti le registrazioni, una volta venute meno, con il passaggio in giudicato della sentenza, immediate esigenze afferenti allo svolgimento del processo. La disciplina ora richiamata suscita invero perplessità. Sul piano processuale si osserva il mancato coordinamento della novella con l’istituto della revisione, che presuppone la possibilità di una nuova lettura del materiale probatorio acquisito al fascicolo processuale. La generalizzata previsione di un obbligo di distruzione delle registrazioni sembra, invero, ostacolare la valutazione dell’incidenza di eventuali nuove prove sull’insieme di “quelle già valutate”, secondo quanto previsto dall’art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p.. Né va dimenticato che la distruzione dei supporti ancorata all’esito del singolo processo non tiene in debito conto la possibilità che le intercettazioni abbiano rilevanza in procedimento diverso e che tale rilevanza venga accertata solo in un secondo tempo; tali elementi assumono oggi un rilievo particolare ove si consideri che attraverso il ricorso ai riti alternativi il singolo procedimento può avere tempi di definizione relativamente brevi.

Infine, appare evidente che le modifiche introdotte all’art. 269 c.p.p. si risolvono in mere norme di salvaguardia, di natura emergenziale e scarsamente meditate, rispetto agli obblighi di segretezza già previsti dal codice di rito.

6.4 - L’art. 13 introduce modifiche all’art. 89 disp. att. c.p.p. Con riferimento alle modifiche apportate dal disegno di legge in esame all’art. 89 disp. att. c.p.p., si rimanda a quanto sopra rilevato analizzando il novellato art. 268, comma 2, c.p.p..

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7 - Le forme di pubblicità e i limiti di utilizzazione delle intercettazioni (art. 8, comma 2, 9, 10 e 11)

7.1 - L’art. 8, secondo comma, del disegno di legge governativo prevede una serie di modifiche alla legge n. 47 dell’8 febbraio 1948 (cd legge sulla stampa) volte a marcare più incisivamente il dovere di rettifica nei casi previsti dalla legge.

La lettera a) prevede l’introduzione delle parole “senza commento” accanto al dovere di pubblicazione delle dichiarazioni e delle rettifiche di cui al comma 1 dell’art. 8 della legge sulla stampa. La previsione mira, evidentemente a far sì che le rettifiche e le dichiarazioni vengano pubblicate dai quotidiani in modo asettico per conferire ad esse maggior risalto. Tuttavia va fatto notare che una limitazione di tal genere viola, con tutta evidenza, l’art. 21 della Costituzione, laddove aggiunge un condizionamento alla libertà di espressione, e quindi anche di commento, che non trova spazio nel nostro ordinamento costituzionale. Peraltro deve aggiungersi che si tratterebbe di una previsione in gran parte eludibile se solo si pensa alla possibilità di collocare in modo, anche solo, graficamente distinto dalla rettifica il commento della redazione.

La lettera b) prevede solo un adattamento della norma di cui all’art. 8 della legge sulla stampa, che disciplina appunto le risposte e le rettifiche, alle trasmissioni radiofoniche e televisive, nonché ai siti informatici.

La lettera c) invece prevede la possibilità di far provvedere, su richiesta della persona offesa, il direttore o l’autore, per la stampa non periodica, alla pubblicazione a loro cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto di rilievo penale. La pubblicazione in rettifica deve, inoltre, essere effettuata entro sette giorni dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata.

In tale caso sembrano sovrapporsi vari piani, quello strettamente penalistico con quello della correzione delle pubblicazioni disciplinato dall’art. 8 della legge sulla stampa. I riferimenti, infatti, alla “persona offesa” ed alla “reputazione” sembrano presupporre un accertamento penale conseguente alla commissione di un reato, mentre il contesto nel quale si iscrive la norma attiene, più propriamente, ad un dovere di corretto esercizio della professione con rilievo pubblicistico. A causa della segnalata sovrapposizione di piani potrebbe quindi facilmente determinarsi una confusione applicativa che potrebbe riverberarsi sul terreno giudiziario.

Infine, la lettera e) prevede che della procedura di rettifica possa avvalersi anche l’autore dell’offesa, qualora il direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva o delle trasmissioni informatiche o telematiche non pubblichino la smentita o la rettifica richiesta. Inoltre dell’avvenuta violazione dell’obbligo di pubblicazione l’offeso dà notizia al titolare del potere disciplinare che, verificata la violazione e sentito il responsabile, ne ordina la sospensione dall’attività fino a tre mesi.

Anche in questo caso, impropriamente, si fa riferimento a una “offesa” dell’autore e altrettanto impropriamente si attribuisce all’offeso la facoltà di dare notizia al titolare dell’azione disciplinare della pretesa violazione dell’obbligo di rettifica.

Deve, peraltro, evidenziarsi che una violazione dell’obbligo presupporrebbe il previo accertamento di quest’ultimo che dovrebbe essere affidato a un giudice.

7.2 - L’art. 9 del disegno di legge governativo modifica l’art. 270 del codice di procedura penale ed amplia l’area dell’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, mediante una tecnica di identificazione specifica dei delitti per il cui accertamento giudiziale l’utilizzabilità sarebbe ancora consentita. L’indicazione nominativa delle fattispecie di reato per le quali l’utilizzazione è possibile oltre i confini del procedimento originario, restringe significativamente l’ambito dell’utilizzabilità rispetto alla disciplina vigente che – come è noto – ancora l’utilizzazione alla circostanza che le intercettazioni siano indispensabili all’accertamento di un delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza.

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Si tratta, all’evidenza, di una scelta estremamente rischiosa, perché può condurre ad escludere irrazionalmente delitti, anche particolarmente gravi, sfuggiti alla ricognizione, dalla possibilità di accertamento mediante l’uso di esiti di intercettazioni disposte altrove.

7.3 - L’art. 10 del disegno di legge modifica l’art. 271 c.p.p. nella parte che disciplina i divieti di utilizzazione delle intercettazioni. Si prevede, al primo comma, la integrazione delle ipotesi in cui i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati attraverso l’ampliamento anche ai casi in cui non siano state osservate le disposizioni di cui ai commi 6, 7 e 8 dell’art. 268 c.p.p.

Viene in tal modo estesa l’inutilizzabilità anche a violazioni minori ed esclusivamente formali della legge processuale, più volte ritenute irrilevanti dalla giurisprudenza, anche a Sezioni Unite, della Corte di cassazione. L’attuale disciplina prevede, infatti, l’inutilizzabilità processuale delle intercettazioni nei casi di violazione dell’articolo 267 c.p.p. (presupposti e forme del provvedimento) e di mancata osservanza dei commi 1 e 3 dell’art. 268 c.p.p. che attengono a profili esecutivi delle intercettazioni, come la redazione del verbale delle operazioni, oppure alle modalità esecutive delle operazioni captative che, per la legge, devono di regola svolgersi per mezzo degli impianti installati presso la Procura della Repubblica. L’intento di ampliare, oltre il ragionevole, le ipotesi di inutilizzabilità rischia di determinare forti ricadute sull’esercizio e l’efficacia dell’azione giudiziaria e, nel contempo, un aumento delle impugnazioni per pure violazioni formali della fase successiva all’esecuzione delle intercettazioni. A ben guardare i commi 6, 7 e 8 dell’art. 268 c.p.p.

disciplinano una cadenza di adempimenti formali che riguardano gli avvisi e le operazioni di trascrizione delle intercettazioni, nonché l’estrazione di copie delle trascrizioni, tutte attività, in definitiva, che attengono ad una fase indipendente e successiva all’acquisizione delle comunicazioni intercettate e che non interferiscono con la legittimità e genuinità dei suoi contenuti. Prevedere, quindi, che dalla inosservanza di un qualunque adempimento formale debba dipendere l’utilizzabilità del materiale informativo raccolto a fini di indagine, indipendentemente dalla sussistenza di un vizio genetico dell’atto, è da valutare con estrema perplessità, soprattutto nei casi in cui l’irregolarità non comporta l’elusione del contraddittorio oppure il venir meno dei presupposti essenziali delle intercettazioni, né la compressione dei diritti di libertà della persona.

La disposizione, peraltro, è sospetta di incostituzionalità, nella misura in cui frustra, in sostanza, i fini del mezzo di ricerca della prova, e per ciò stesso l’attuazione della giurisdizione penale, assicurata, secondo la giurisprudenza costituzionale, dall’art. 112 Cost. Infatti, l’esasperata e irrazionale sistemazione che vorrebbe inficiati i risultati di un’intercettazione per il solo mancato adempimento di formalità del tutto secondarie rispetto al fine di garanzia delle libertà sacrificate con l’intrusione nella vita privata costituita dalla captazione delle conversazioni o comunicazioni private, potrebbe condurre, nell’ambito dello stesso processo contro più soggetti, a ritenere utilizzabili, o non, nei confronti di questo o quell’imputato, i risultati dell’intercettazione, secondo che per l’uno le formalità siano state soddisfatte e per l’altro non lo siano state, mentre il contenuto della conversazione è un fatto oggettivo, eguale per entrambi gli imputati. Con la conseguenza che dei due o più correi alcuni verrebbero condannati e altri assolti in riferimento a circostanze del tutto occasionali nell’ambito di attività di intercettazione in sé legittime e corrette. Viceversa l’utilizzazione dei risultati di un’intercettazione può essere razionalmente esclusa solo in riferimento a circostanze di ordine oggettivo, che riguardino vizi connessi al fatto storico dell’operazione, non a fatti di carattere soggettivo, estranei alla ritualità del mezzo di ricerca della prova.

Il secondo comma dell’art. 10 prevede, inoltre, che non possono essere utilizzate le intercettazioni nell’ipotesi in cui la qualificazione giuridica del fatto ritenuto dal giudice all’udienza preliminare o al dibattimento non corrisponda ai limiti di ammissibilità richiesti dall’articolo 266 c.p.p.. Si tratta di un’insidiosa forma di inutilizzabilità. Parrebbe, infatti, apparentemente corretta l’esclusione dell’utilizzazione a fronte di una decisione giudiziale di ridimensionamento dell’ipotesi accusatoria al di qua dei limiti di ammissibilità ex art. 266 c.p.p.

Tuttavia resta aperto il problema dei rimedi per il P.M. in caso di valutazione erronea del giudice. E se all’errore del g.u.p. può porsi riparo con una certa facilità, non altrettanto sembra

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possa farsi per quello del giudice dibattimentale in caso di inutilizzabilità delle intercettazioni come prove. Certo, vi è la possibilità di un “recupero” nei successivi gradi di impugnazione, anche se per il giudizio di cassazione l’ipotesi di annullamento con rinvio per rinnovata valutazione delle prove (comprese le intercettazioni non potute utilizzare), allungherebbe notevolmente e senza alcuna ragione i tempi del processo, con palese violazione del principio di ragionevole durata.

7.4 - L’art. 11 del disegno di legge in esame prevede l’integrazione dell’art. 408 c.p.p., che disciplina la richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, con l’inserimento di un obbligo di avviso alle parti ed ai soggetti diversi da quelli nei confronti dei quali si procede, che non risultino essere indagati in procedimenti connessi o collegati, dell’avvenuta intercettazione di conversazioni e comunicazioni telefoniche, o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche concernenti apparecchi o utenze ad essi intestati. L’avviso, peraltro, contiene la mera notizia dell’avvenuta intercettazione, la durata e il numero della utenza intercettata. Di detto materiale raccolto non può, nel caso sopra previsto, essere presa visione o rilasciata copia.

Per la verità la norma prevede alcune eccezioni alla regola, per i reati di cui all’art. 407, comma 2 lettera a) e 600 ter e 600 quinques c.p., e tuttavia di essa sfugge la ratio ispiratrice. Salvo rappresentare una norma di generale cautela nell’uso delle conversazioni, che però appesantisce ulteriormente di adempimenti gli uffici giudiziari già oberati di molte attività non sempre indispensabili. Va, peraltro, notato che non sembra esservi conseguenza alcuna in caso di omissione del prescritto avviso.

8. I casi di astensione, il regime delle pubblicazioni e il trattamento sanzionatorio delle violazioni (artt.1, 2, 12 e 14)

Il disegno di legge in questione, oltre a modificare gli articoli da 266 a 271 del codice di procedura penale e l’art. 89 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie dello stesso codice, che disciplinano la materia delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché l’art. 408 c.p.p., opera ulteriori modifiche sulla pubblicità degli atti processuali, sull’astensione del giudice e la sostituzione del pubblico ministero, sulla responsabilità penale per i reati di cui agli artt.

326 e 684 c.p. ed in tema di responsabilità degli enti.

8.1 - La modifica apportata dall’art. 1 del disegno di legge agli artt. 36 e 53 del codice di procedura penale, secondo quanto risulta dalla relazione di accompagnamento, intende rafforzare l’imparzialità dell’autorità giudiziaria nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, con l’introduzione di uno specifico obbligo di astensione per il giudice che rilascia dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli e di sostituzione del pubblico ministero in tali casi da parte del Procuratore della Repubblica o del Procuratore generale, così come nell’ipotesi in cui il P.M. risulti indagato del reato ex art. 326 c.p..

Analizzando separatamente le due modifiche, quella relativa all’art. 36 si presenta in termini molto netti, essendo così formulata: “se ha pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli”.

La disposizione, infatti, è così applicabile non solo a quelle situazioni che possono comportare la vera e propria violazione di un dovere di riserbo del magistrato (ed evidentemente pure a situazioni che attingono a livello di rilievo penale), ma anche a qualsiasi attività dichiarativa lecita, purché svoltasi pubblicamente.

In pratica, la norma è formulata in termini assoluti, non lasciando spazio neppure alle ipotesi in cui vi può essere un giustificato motivo nel rilascio della dichiarazione, dovuto ad esigenze di corretta informazione dell’opinione pubblica sul procedimento, anche in presenza di notizie che compromettono il prestigio e la credibilità del magistrato.

A parere del Consiglio si è in presenza di una disposizione che risolve in maniera asistematica e non convincente il complesso tema del rapporto fra obbligo di riservatezza del magistrato e tutela del di lui diritto di espressione del pensiero, diritto che è oggetto di specifica tutela costituzionale. Si tratta di argomento delicatissimo, su cui il legislatore delegato ha assunto

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specifiche determinazioni dando attuazione ai principi relativi alla materia disciplinare contenuti nella legge delega 20 luglio 2005, n.150.

Nel parere reso dal C.S.M. nella seduta del 18 gennaio 2006 sull’anzidetto decreto delegato è stato affermato che “…è diritto di ciascun magistrato difendere il proprio prestigio e la propria credibilità in presenza di denigrazioni diffamatorie che attengano all’esercizio delle funzioni giudiziarie al fine di garantire una corretta e compiuta informazione ai cittadini (…) Meriterebbe quindi uno spazio la possibilità di fornire precisazioni e correzioni, fatto salvo evidentemente il segreto d’ufficio, al fine di ristabilire la verità dei fatti. In altre parole, ferma restando la affermazione dell’obbligo di riserbo del magistrato, sarebbe opportuna una formulazione più attenta delle disposizioni, che tenga conto delle contrapposte esigenze della riservatezza e della corretta informazione del pubblico”.

Anche alla luce di tali considerazioni può affermarsi ora che la disposizione contenuta nell’art. 1 del disegno di legge in esame avrebbe il significato di determinare una ricaduta della condotta del magistrato addirittura sul procedimento, imponendogli uno specifico obbligo di astensione che, se violato, darebbe luogo ad un illecito disciplinare previsto dal decreto delegato ora ricordato.

L’assolutezza del principio introdotto dal disegno di legge determinerebbe per il magistrato la sostanziale impossibilità di opporre alcuna replica in termini di corretta informazione anche nei riguardi di notizie denigratorie sulla sua condotta nel procedimento o sulla gestione dell’ufficio, perché questo determinerebbe automaticamente l’obbligo di astenersi. Più in generale, poi, essa si risolverebbe in una non ragionevole forma di limitazione dell’esercizio del diritto assicurato dall’art. 21 della Costituzione anche ai magistrati.

Tale effetto sembrerebbe poi essere addirittura incongruo rispetto alla ratio della norma, che è quella appunto di garantire e rafforzare il buon andamento dell’attività giurisdizionale, anche in funzione dell’espressa imparzialità dell’autorità giudiziaria, perché un’attività dichiarativa volta a riparare una non corretta informazione su un procedimento non appare indebolire minimamente il buon andamento di un processo o l’imparzialità del giudice, ma è anzi ripristinatoria di questi corretti principi eventualmente lesi e di conseguenza non deve comportare un obbligo di astensione da parte del giudice.

In termini di ricaduta nell’assetto ordinamentale, la norma incentiva evidentemente la possibilità di sostituzione del giudice; infatti, in caso di accoglimento della dichiarazione di astensione scattano le disposizioni di cui agli artt. 42 e 43 c.p.p.

Con la prima in particolare, oltre ad inibire la possibilità del giudice di compimento di atti del procedimento, si prevede che nel provvedimento di accoglimento si stabilisca se ed in quali parti gli atti precedentemente compiuti dal giudice astenutosi conservino efficacia al fine di evitare un’integrale rinnovazione di tutti gli atti procedimentali compiuti; col secondo, invece, si individua il meccanismo della sostituzione del magistrato per il quale sia stata accolta l’astensione, facendo rinvio alle norme di ordinamento giudiziario ed in particolare al sistema tabellare che deve prevedere l’indicazione dei giudici subentranti agli astenuti.

E’ indubbio che la norma determina una sottrazione del procedimento al giudice naturale, inteso come giudice originario, cui spettava la decisione del processo e, così, introduce un’ennesima ipotesi di successiva attribuzione del processo in un sistema già costellato di numerose fattispecie d’incompatibilità che richiedono al procedimento di trasmigrare da un giudice ad un altro. Sembra quindi ragionevole porre un qualche dubbio di legittimità costituzionale della disposizione con riferimento ai principi fissati dall’art. 25 della Costituzione, così come letti e affermati dallo stesso giudice delle leggi in plurime decisioni.

8.2 - La stessa ratio della modifica dell’art. 36 sta alla base di quella dell’art. 53 c.p.p., che accorda al Procuratore della Repubblica o al Procuratore generale (a quest’ultimo in un caso prestabilito) l’obbligo (e non la facoltà come viene indicato nella relazione1) di sostituire il pubblico ministero

1 E’ assolutamente pacifico in dottrina, come, peraltro, desumibile dalla lettera della norma, che la sostituzione non è subordinata a valutazioni discrezionali in presenza delle condizioni che determinerebbero l’obbligo di astensione; in tal

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