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Beni ecclesiastici e loro finalità nel Codice di diritto canonico

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Academic year: 2022

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Beni ecclesiastici e loro finalità nel Codice di diritto canonico

Introduzione

Il Libro V del Codice di diritto canonico intitolato I beni temporali della Chiesa (cann. 1254-1310) indica chiaramente che la Chiesa cattolica ha il diritto nativo di possedere e usare i beni per realizzare i propri fini ecclesiali attraverso le molte persone giuridiche poste sotto la suprema autorità del Romano Pontefice.

Come manifesta il primo canone del Libro, il diritto della Chiesa ai beni è legato al fatto che essa possiede i fini propri da raggiungere (can. 1254 §1), per i quali sono necessari anche i beni temporali. Similmente quando il can. 1260 esprime il diritto nativo della Chiesa di esigere dai fedeli ciò di cui ha bisogno, il regolamento dichiara che essa esercita questo potere solo quanto è necessario per le finalità sue proprie.

L’espressione «fini propri» può essere a volte sostituita da quella analoga di

«missione». Il diritto patrimoniale della Chiesa deriva dalla missione che essa deve svolgere nel mondo, ossia la missione salvifica ricevuta dal Signore stesso. La liceità del possesso dei beni temporali della Chiesa è collegata immediatamente al raggiungimento dei suoi fini propri e se i beni non servono a dette finalità, il loro possesso non è giustificato. Come manifesta il Concilio Vaticano II, la Chiesa si serve «delle cose temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede», anzi essa «rinunzierà all’esercizio di taluni diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che per il loro uso è messa in dubbio la sincerità della sua testimonianza» (Gaudium et Spes 76).

Il can. 1254 §2 mette in risalto i fini dei beni posseduti dalla Chiesa soprattutto quelli propri. Sono principalmente: ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri1. Il fine specificato nel §2, la carità, in modo peculiare verso i poveri, occupava storicamente e occupa ancora oggi il posto principale tra detti fini. L’opzione preferenziale per i poveri è uno dei temi scottanti che occupa un posto rilevante nel magistero conciliare2 e post-conciliare sia per la Chiesa intera che per le persone consacrate. Il Codice non soltanto parla del diritto della Chiesa di esigere dai fedeli i beni necessari ma anche chiaramente dei fini per i quali sono destinati tali beni.

Il Codice di diritto canonico indica i diversi principi che dirigono una corretta amministrazione dei beni. Dal punto di vista pratico, senza la capacità economica di ciascun ente nella Chiesa, non sarebbe possibile mantenere in vita i diversi enti né le attività apostoliche che esercitano nelle proprie istituzioni. Allo stesso momento, nel mondo odierno, senza una retta e giusta amministrazione dei beni è impossibile portare una credibilità del messaggio della Chiesa e gli errori in questo campo, infatti,

1 Nel Codice vigente, nel Libro II, il can. 222 §1 parla esplicitamente dell’«obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa» ed elenca, come esempi, gli stessi elementi: «il culto divino, le opere di apostolato e di carità e l’onesto sostentamento dei ministri». Il canone parla non solo dei chierici ma anche degli altri ministri, includendo le persone consacrate e i laici che offrono il loro servizio alla Chiesa.

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possono recare (anzi in realtà hanno recato) gravi disagi nelle chiese particolari e negli Istituti di vita consacrata.

1. Beni degli Istituti di vita consacrata

Nella Chiesa, sono considerati «ecclesiastici» solo i beni che appartengono alle persone giuridiche pubbliche (can. 1257 §1) che sono ordinati «ad un fine corrispondente alla missione della Chiesa» (can. 114 §1) «per compiere il proprio compito affidato in vista del bene pubblico a nome della Chiesa» (can. 116 §1).

Secondo il can. 634 §1, non solo Istituti religiosi in quanto tali ma anche le loro province e case sono definite persone giuridiche pubbliche ipso iure, perciò i beni temporali posseduti da tutti questi enti sono considerati «beni ecclesiastici» e retti dalle disposizioni dei canoni sui beni temporali della Chiesa, a meno che non sia espressamente disposto altro (can. 635 §1).

Sebbene i beni temporali degli Istituti siano definiti «ecclesiastici», come viene affermato nel can. 1256, essi appartengono agli Istituti stessi come a persona giuridica che legittimamente li possiede e non ad un’altra autorità superiore nella Chiesa, ad esempio, la Chiesa particolare nel caso dell’Istituto di diritto diocesano.

Sono amministrati e alienati con la propria capacità e sotto la propria direzione e responsabilità con la libertà di giudicare circa la qualità e la quantità dei beni che sono necessari per fini propri, come una manifestazione del governo interno degli Istituti che godono di giusta autonomia di vita (can. 586 §1).

Come insegna il Vaticano II, la vita consacrata è inseparabilmente unita al mistero della Chiesa e appartiene alla sua vita e alla sua santità (Lumen Gentium 44;

can. 574 §1) e il decreto conciliare riconosce che gli Istituti hanno diritto di possedere tutti i beni necessari per la vita temporale e per le opere da compiere (Perfectae caritatis 13). Seguendo la logica del Concilio, gli Istituti hanno il diritto di possedere e amministrare i beni temporali dato che essi partecipano alla missione della Chiesa. I beni degli Istituti e il loro uso vanno perciò compresi entro i fini e le necessità della Chiesa che si limita a possedere e a usare tutti i mezzi necessari e a servirsi «delle cose temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede» (Gaudium et Spes 76).

Rispettando, poi, il forte orientamento del Vaticano II, ogni Istituto deve realizzare il proprio fine basandosi fedelmente sul progetto e le intenzioni dei fondatori (Perfectae caritatis 2). La giusta autonomia di governo riconosciuta nel can.

586 §1 comprende l’amministrazione dei beni temporali come parte del governo. La necessità o non necessità di beni temporali per il raggiungimento dei fini propri è da valutarsi in modo concreto e sebbene molto dipenderà anche dalla sensibilità dei vari Superiori e ufficiali nelle decisioni concrete, non ci può essere altro criterio per gli Istituti di vita consacrata oltre il carisma della fondazione di ciascun Istituto.

Quest’orientamento esige che ogni Istituto debba stabilire norme per l’amministrazione dei beni, inclusa la prassi collettiva della povertà evangelica, che riflettano il proprio carisma della fondazione. Il can. 635 §2 afferma che la povertà propria dell’Istituto deve essere «favorita, tutelata e manifestata» mediante le norme circa l’uso e l’amministrazione. Il diritto proprio di ciascun Istituto, perciò, deve

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esprimere non solo il limite dell’uso e dell’amministrazione dei beni, ma anche il diritto alla povertà secondo l’ideale dei fondatori. Il criterio chiave per stabilire le norme per l’amministrazione dei beni nel diritto proprio dovrebbe essere la comprensione della povertà evangelica da parte dell’Istituto come fine proprio, non in primo luogo l’efficienza di un’amministrazione rigorosa dei beni o l’efficacia dell’apostolato.

Il documento Ripartire da Cristo indica che le Costituzioni di ciascun Istituto sono «sempre aperte a nuove e più impegnative interpretazioni» e che il senso dinamico della spiritualità offre l’occasione di approfondire una spiritualità più ecclesiale e comunitaria e più generosa nelle scelte apostoliche (n. 20). Quando la comprensione del carisma si approfondisce, si scoprono sempre nuove possibilità di attuazione (n. 31).

2. Difficoltà sperimentate

La Chiesa, fin dai primi tempi, ha ricevuto molti beni temporali dai fedeli, per rispondere alle molteplici necessità che essa incontra sia al suo interno sia all’esterno.

Ciò che vale è l’intenzione per cui i beni sono stati offerti alla Chiesa e il perché essa li possieda, cioè, la finalità soprannaturale – la salvezza dell’anima (can. 1752). La difficoltà nel campo di amministrazione deriva proprio dall’esistenza di una normativa canonica che si basa su fattori propriamente ecclesiali, cioè le esigenze spirituali e pastorali nella Chiesa richiedono uno stile speciale di vita e di apostolato.

Mentre le norme canoniche si devono preoccupare, come abbiamo visto sopra, di salvaguardare le finalità dei beni offerti, gli amministratori, in realtà, sono costretti a occuparsi di norme tecniche, dinanzi ai diversi soggetti coinvolti nella gestione dei beni.

Anche all’interno della vita consacrata, una questione principale concerne il rapporto tra l’ideale della povertà evangelica professata e la difficoltà di rinunciare ai beni materiali nel portare avanti la vita e le opere. Gli Istituti possono possedere e amministrare i beni, perché essi partecipano ai fini propri della Chiesa. Ma da quando si comincia a incrementare la quantità dei beni nell’Istituto, spesso ci si pone seriamente il problema in che modo sia possibile mantenere e proteggere i beni posseduti sia per il sostentamento dei membri sia per la loro missione efficace. La questione spirituale può facilmente diventare trasformarsi in questione tecnica e si perde l’equilibrio.

Il Codice di diritto canonico non offre una definizione quantitativa per l’amministrazione e l’alienazione, ma si limita a regolamentare la prassi con un criterio finalistico. Per risolvere alcuni problemi, si potrebbe auspicare un elenco di atti concreti che richiedono un’attenzione speciale e le procedure necessarie, ad esempio gli atti di amministrazione straordinaria, ma l’economia moderna non permetterebbe un tale atteggiamento di determinazione dettagliata a causa della complessità delle attività coinvolte oggi rispetto a quelle di altri tempi. Non sarebbe nemmeno possibile elencare, a livello di diritto universale, tutte le categorie di atti straordinari, quando si sperimentano negli atti economici veloci cambiamenti di natura e di modalità prima inimmaginabili.

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Alla fine la gestione economica, sebbene non sia l’unico campo dell’organizzazione nella Chiesa, è quello che chiede un’attenzione speciale, perché in diversi luoghi e a diversi livelli soffre la mancanza di esperti. Nel mondo economico odierno, la Chiesa ha bisogno di esperti della gestione materiale e di pastori che capiscono l’urgenza in questo campo. La Chiesa, infatti, non è più un’eccezione negli affari economici nel mondo e non può chiedere più indulgenza o tolleranza davanti alla legislazione civile, anzi la trasparenza nell’amministrazione dei beni materiali è una parte importante per garantire la credibilità del messaggio evangelico al mondo che soffre diversi modi di ingiustizie e nuove povertà.

3. La risposta del Codice

Allo scopo di preservare il patrimonio ecclesiastico in vista dei fini propri, il Codice impone alcune formalità nel seguire le procedure richieste e nell’adoperare organi assistenti per trovare le migliori vie ed evitare errori e abusi negli atti di amministrazione e di alienazione. Nel Codice in ogni situazione è prevista la presenza di un governo che può portare i beni affidati alla realizzazione delle finalità proprie a ogni livello e categoria, prevedendo un Superiore per le persone e un amministratore circa i beni.

Certamente si deve riconoscere che le norme in totale del Libro sui beni temporali non sono numerose e sono generali in quanto promulgate per la Chiesa intera. La legislazione ecclesiale si limita a regolare solo alcuni aspetti più rilevanti e a dettare una serie di principi, e del resto rinvia o canonizza il diritto civile nel trattamento degli affari economici. Nel Codice del 1983, inoltre, quasi tutti i canoni del Libro V hanno quelli corrispondenti nel Codice del 1917, il che significa che abbiamo una tradizione secolare e sicura della Chiesa sulla materia in questione e, allo stesso momento, stiamo vivendo sui principi validi almeno da cento anni (certamente ancora di più) per rispondere alle esigenze del mondo economico odierno.

Abbiamo perciò bisogno di due elementi che forse esigono un’innovazione nella struttura giuridica e nella mentalità delle persone coinvolte: primo, utilizzare bene quel poco che esiste nell’ordinamento canonico nell’amministrazione dei beni, e secondo, formare i membri capaci dentro l’Istituto e imparare a collaborare con i fedeli competenti nell’insegnamento sociale della Chiesa e delle leggi civili.

Ovviamente, una norma non produce la realtà spirituale; tuttavia senza una struttura giuridica, lo spirito dell’Istituto e le sue sane tradizioni corrono il rischio di sparire.

a) Canoni per proteggere i fini

Diversi canoni del Libro V fanno riferimento alla protezione dei beni. Il can.

1281, trattando gli atti di amministrazione straordinaria, prescrive che gli amministratori, per porre atti che oltrepassano i fini e le misure dell’amministrazione ordinaria (§1), devono prima ottenere il permesso scritto dall’Ordinario3; tali atti

3 Ci sono degli atti che si pongono in una diversa categoria dal punto di vista del fine e ad un diverso livello della misura, e sono considerati un’amministrazione straordinaria e l’atto richiede una procedura particolare nell’ordinamento canonico. Il Card. De Paolis, leggendo cautamente la lettera dei canoni che adoperano l’espressione «finem (fines) et modum», osserva che

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devono inoltre essere stabiliti negli statuti (§2). In tal modo, quando l’atto risponde alle finalità e al servizio che la persona giuridica deve prestare in base ai suoi statuti, l’amministrazione è ritenuta ordinaria. Per gli Istituti religiosi, essendo il diritto proprio a determinare gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione a norma del can. 638 §1, spetta ad essi prevedere in concreto chi sia il Superiore competente che dà il permesso richiesto4.

Ogni persona giuridica, come un Istituto religioso o una casa religiosa con opera propria, ha un patrimonio o capitale stabile. Alcuni beni si considerano indispensabili per natura propria, nel senso che, senza tali beni, la persona giuridica non avrebbe i mezzi necessari per raggiungere i propri fini, ad esempio l’edificio di una scuola o una biblioteca in un’università. Il can. 1291 parla di «patrimonio stabile» per l’atto di alienazione e indica la necessità che vi sia un’assegnazione positiva di tali beni. Questi beni sono parte del patrimonio stabile o da mantenere o da non alienare, secondo la natura e le finalità della persona giuridica e richiedono una procedura particolare per la loro alienazione.

Il Codice non proibisce l’alienazione, ma stabilisce come alienare i beni che servivano una volta per una testimonianza religiosa, chiede di decidere a chi trasferire la proprietà o evidenziare per quale motivo l’Istituto lascia l’amministrazione dei beni ecclesiastici. Il can. 1292, inoltre, affida alla Conferenza episcopale di ciascuna nazione o regione la determinazione delle somme oltre le quali si richiede la licenza di un’autorità per l’alienazione. La somma massima viene recepita da parte della Santa Sede per alienazione dei beni posseduti dagli Istituti religiosi. Secondo il can.

638 §3, spetta invece all’autorità interna fissare la somma minima, oltre la quale si richiede la licenza dell’autorità interna dell’Istituto.

L’alienazione dei beni ecclesiastici, infatti, richiede una giusta causa e il Codice elenca, oltre la necessità urgente o l’utilità palese, «la pietà, la carità o altra grave ragione pastorale» e si offrono alcune norme che intendono garantire e proteggere le finalità degli atti di alienazione dei beni ecclesiastici (cann. 1293-1294)5.

Il rispetto della volontà di coloro che donano i beni alla Chiesa o dei benefattori e dei fondatori ha un’importanza particolare nell’ordinamento canonico, ad esempio, il can. 1300 sulle pie volontà6. Le loro volontà devono essere rispettate con la massima attenzione e precisione, perché offrendo i beni alla Chiesa, i fedeli cercano di adempiere i propri doveri; di onorare Dio, di praticare la carità fraterna e

l’amministrazione può essere straordinaria in riferimento sia ai fini sia alla misura. Secondo l’autore, quando l’atto risponde alle finalità e al servizio che l’Istituto deve prestare in base al diritto proprio, l’amministrazione si considera ordinaria. Cf. V.DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, Bologna 1996, 146-148.

4 Inoltre il can. 1284, §2, 6°, dichiara che uno dei compiti principali degli amministratori è quello di impiegare il denaro eccedente le spese per le finalità della Chiesa o dell’Istituto.

5 A proposito dell’amministrazione e dell’alienazione, le Costituzioni, quale Codice fondamentale, dovrebbero dare direttive di carattere generale e di principio, lasciando gli elementi mutabili alle norme contenute nei codici secondari dell’Istituto (can. 587 §§1 e 4).

6 Il canone adopera l’espressione molto forte «diligentissime impleantur (devono essere scrupolosamente adempiute)», la quale chiede che con l’accettazione dei beni, il motivo religioso

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di sostenere i ministri che operano nella Chiesa (can. 1254 §2). Quest’obbligo è, infatti, una norma che è sempre stata rispettata nella storia della Chiesa. Ugualmente nei casi di «offerta fatta dai fedeli per un determinato fine» (can. 1267 §3) e di «beni donati o lasciati per cause pie» (cf. can. 325 §2), sia rispettata la volontà del fondatore o donatore che dispone dei suoi beni, ad esempio, opere di pietà, di carità e di apostolato.

b) Organi di consultazione richiesti

Per quanto riguarda gli organi di consultazione, il can. 1280, un canone nuovo rispetto al Codice del 1917, impone ad ogni persona giuridica di avere un proprio Consiglio per gli affari economici o almeno due consiglieri che coadiuvano il Superiore nell’adempimento del suo compito7. Poiché i Superiori ecclesiastici non sono spesso eletti o nominati con il criterio di capacità di amministrare i beni temporali, il Consiglio da stabilire o affiancare è un aiuto importante o quasi indispensabile nel mondo odierno, dove la gestione dei beni esige una tecnica particolare.

Secondo le disposizioni del canone, questo Consiglio deve essere istituito in ogni persona giuridica; nel caso di una diocesi, il gruppo deve essere presieduto dal Vescovo stesso o da un suo delegato e composto da almeno tre fedeli competenti in economia e diritto civile ed eminenti per integrità (can. 492). Mentre il Consiglio per gli affari economici avrà il compito di evidenziare gli aspetti tecnici e finanziari dell’atto che il Superiore deve porre, spetta al Collegio dei consultori, che è di costituzione post-conciliare (can. 502), aver cura degli aspetti pastorali. Secondo le norme del Libro V, il Vescovo deve avere il parere previo di questi organismi negli atti di maggior importanza, o il loro consenso se si tratta di atti di amministrazione straordinaria (can. 1277), con le conseguenze specificate nel can. 127, richieste per la validità dell’atto.

Nel caso degli Istituti religiosi, il consenso richiesto nel Libro V è quello del Consiglio del Superiore competente (cf. can. 638 §3). Niente vieta, tuttavia, che il Superiore per il suo governo abbia un altro organismo per gli affari economici determinato nel diritto proprio. Il can. 636 §1 prescrive che in ogni Istituto e provincia retta da un Superiore maggiore debba esserci un economo, distinto dal Superiore maggiore e costituito a norma del diritto proprio per amministrare i beni sotto la direzione del rispettivo Superiore.

Mentre l’economo avrà il compito di evidenziare in modo particolare gli aspetti tecnici e giuridici dell’atto che il Superiore deve porre, spetta al Consiglio (can. 627) coadiuvare il Superiore in alcuni aspetti peculiari: il discernimento delle scelte pastorali, la maniera del raggiungimento del fine proprio e il rapporto con la Chiesa locale. Per un buon governo del patrimonio temporale dell’Istituto è necessario, prima di tutto, che il Superiore sia informato in modo adeguato e sufficiente sulla

7 Il canone dice «quaevis persona iuridica», quindi la norma riguarda qualsiasi persona giuridica sia pubblica che privata. Il loro eventuale parere o consenso deve essere richiesto a norma del can. 127

§1 con previa convocazione per la validità dell’atto. Nel caso di nomina di due consiglieri, si tratta di persone prese come singole, per le quali, si applica il can. 127 §2.

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reale situazione economica dei singoli enti, sia della loro disponibilità sia dei loro bisogni affinché sia in grado di operare ciò che è necessario per il bene della persona giuridica.

Si richiede un’attenzione particolare al fatto che, nel Codice attuale, oltre agli atti di amministrazione ordinaria, esistano quelli di amministrazione straordinaria regolati nel Libro V sotto il titolo dell’amministrazione (Titolo II; cann. 1273-1289).

Esiste poi un’altra categoria di atti che la normativa della Chiesa disciplina in modo specifico sotto il titolo di atti di alienazione (Titolo III; cann. 1291-1298) e essi sono distinti da quelli di amministrazione8. Questa distinzione degli elementi economici si trova anche nel campo dei beni degli Istituti religiosi nel can. 638 §§1-3. Nel campo della gestione delle attività economiche, esistono, inoltre, diverse normative delle leggi civili e concordatarie.

I Superiori e i loro Consigli, gli amministratori e gli economi negli Istituti devono conoscere la distinzione di questi diversi tipi di atti nonché i rispettivi requisiti di procedura nell’ordinamento canonico e civile per il buon governo degli Istituti. Ma tutto questo, senza l’aiuto e l’intervento degli esperti, in modo particolare quelli laici, come è seriamente realizzabile? E i laici, senza conoscere lo spirito e l’indole fondamentale dell’Istituto, come possono verificare se la gestione da loro eseguita è stata giusta? Un esperto nel campo canonico dovrebbe conoscere l’applicazione della normativa civile, gli economi non dovrebbero ignorare la norma del diritto canonico. Non basta un loro intervento assistenziale o una certa strumentalizzazione degli esperti laici, ma è necessaria una collaborazione reale tra i consacrati e laici, basata sulla comprensione corretta della missione degli Istituti. Si rileva l’esigenza di rendere le persone interessate partecipi del carisma peculiare dell’Istituto per una migliore collaborazione e servizio.

Conclusione

Come abbiamo detto finora, il Codice cerca un equilibrio, nelle questioni delicate che riguardano la centralità dei fini nell’acquisto, nell’amministrazione e nell’alienazione. Di fatto, non tutti i Superiori sono dotati delle competenze per amministrare adeguatamente i beni, e molti amministratori dei beni sono occupati piuttosto dalle complicate e minuziose procedure di acquisto, di riserva e di miglioramento dei beni e del mantenimento della situazione patrimoniale di ciascun ente. Il rispetto da parte del Codice di diritto canonico dei fini propri dei beni posseduti da enti ecclesiastici è costante. Davanti alla realtà molto complicata del mondo economico che sperimenta un cambiamento veloce, le norme del Libro V sembrano inutili e impotenti. Ma con i pochi canoni di carattere generale, il Codice cerca di mostrare il principio di protezione giuridica dei beni nella Chiesa, sottolineando sempre che la questione principale riguarda le finalità della Chiesa, cioè le questioni di servizio all’umanità.

8 Ad esempio, nel Libro V il can. 1277 prevede la determinazione degli atti di straordinaria amministrazione per la diocesi e il can. 1281 per le altre persone giuridiche, mentre il can. 1292 si

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Si deve ammettere che queste finalità non sono sempre chiare, rispetto agli elementi tecnici e giuridici dei beni temporali nelle situazioni concrete. In tale situazione, è necessaria la chiara convinzione che i beni sono mezzi e non fini, e primario non è il bene in sé, ma la persona giuridica, la quale attraverso i beni può impegnarsi a realizzare le finalità ecclesiastiche. È importante chiedersi se i beni posseduti servono davvero per il raggiungimento del fine, proprio e spirituale, per il quale l’Istituto è nato ed esiste: il servizio alle persone, alle opere di carità e all’apostolato per onorare Dio, perché un corretto modo di acquisto, mantenimento, amministrazione e alienazione dei beni possa condurre sia la Chiesa intera sia gli Istituti a manifestare la coerenza evangelica, e le norme sui beni temporali servono al raggiungimento di questo scopo.

(Yuji Sugawara SJ)

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