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IL POSTO DELLA CHIESA IN UNA DEMOCRAZIA

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Academic year: 2021

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IL POSTO DELLA CHIESA IN UNA DEMOCRAZIA

Questo articolo di Jurgen Habermas, apparso su Die Zeit, è la risposta al saggio di Paolo Flores d'Arcais "Le tentazioni della fede. Undici tesi contro Habermas", che ha aperto il volume speciale di MicroMega "Per una riscossa laica", uscito il 7 dicembre, saggio che sempre Die Zeit ha anticipato in una traduzione tedesca parziale. In esso Paolo Flores d' Arcais contesta ad Habermas le numerose contraddizioni in tema di rapporti tra fede, ragione e democrazia in cui cadrebbe il suo pensiero. Secondo Flores non si può mantenere il dovere politico e filosofico di un discorso pubblico basato su argomentazioni universali, e al tempo stesso riconoscere ai cittadini credenti il ricorso all' argomento-Dio. Argomento dogmatico per definizione, che può precipitare nel fondamentalismo del "Dio lo vuole".

JÜRGEN HABERMAS

Le undici tesi dell'esimio collega Paolo Flores d'Arcais non sono le tesi marxiane su Feuerbach (anche se il paragone con questo sottovalutato “giovane hegeliano” non può che farmi piacere). Anziché dilungarmi in rettifiche, e ribadire ancora una volta che malgrado l'età continuo a non essere un devoto, vorrei far conoscere ai lettori ciò che ho effettivamente affermato. Recentemente, al Teatro Eliseo di Roma, ho avuto occasione di discutere con un vescovo e due colleghi italiani sul ruolo della religione nella sfera pubblica; basterà rileggere due punti del mio intervento:

«A prima vista, il carattere laico degli Stati costituzionali può apparire in contrasto con qualunque tipo di attività politica da parte di comunità o di cittadini religiosi, che prendano la parola in quanto credenti o organizzazioni confessionali. E' questo il motivo per cui pensatori liberali quali John Rawls o Robert Audi hanno sostenuto l'obbligo civile di non propugnare o favorire leggi o politiche (...) che non si sappiano o non si vogliano suffragare con giustificazioni laiche adeguate. Dal canto mio, tendo a pensare che nell'ambito pubblico la comunicazione politica dovrebbe rimanere aperta a ogni contributo, qualunque sia il linguaggio in cui viene espresso. Se nella sfera pubblica si ammette l'uso di un linguaggio religioso non tradotto (in termini laici), non è solo con riguardo a personalità non inclini, e fors'anche incapaci di scindere la parte sacrale da quella profana dei loro convincimenti, così come del vocabolario di cui si servono.

C'è anche un motivo funzionale per non avere troppa fretta di ridurre la complessità polifonica delle molte voci che intervengono nel dibattito pubblico. Lo Stato democratico non dovrebbe impedire né agli individui, né alle comunità di esprimersi in maniera spontanea, dato che non può sapere se così facendo, priverebbe la comunità di risorse in grado di infonderle senso e identità. Perché mai i cittadini laici non dovrebbero poter ravvisare le proprie intuizioni, per quanto recondite o represse, nel contenuto potenziale di verità di un discorso religioso?

Detto questo, dobbiamo distinguere chiaramente i processi istituzionali, consultivi o decisionali, a livello dei parlamenti, delle sedi giudiziarie, dei ministeri o delle autorità amministrative, dall'impegno informale dei cittadini nella società civile e nella sfera politica pubblica. Perché vi sia separazione tra Stato Chiesa, deve esistere tra le due sfere una sorta di filtro, che della babele di voci della comunicazione pubblica faccia passare solo il discorso laico. In parlamento, ad esempio, il presidente in carica dovrebbe essere tenuto per regolamento a stralciare dai verbali delle sedute le dichiarazioni di carattere religioso. Perché gli eventuali contenuti di verità degli interventi religiosi possano confluire efficacemente nelle deliberazioni politiche più impegnative è indispensabile che qualcuno provveda a tradurle in argomentazioni generalmente accessibili. Se gli ambiti di competenza dello Stato, legittimo detentore di mezzi coercitivi, divenissero un campo aperto alle contrapposizioni tra le diverse comunità di fede, il governo rischierebbe di trasformarsi nell'esecutivo di una maggioranza religiosa, che imporrebbe la sua volontà all'opposizione.

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Uno dei requisiti della legittimazione dello Stato costituzionale risiede nell'obbligo di formulare decisioni politiche che lo Stato stesso sia in grado di far rispettare, in un linguaggio che tutti i cittadini possano comprendere; e inoltre di giustificare le proprie decisioni in maniera comprensibile per la totalità dei cittadini. Qualora una maggioranza, nel processo legislativo e in quello esecutivo, si arroccasse dietro argomenti religiosi, rifiutando di rendere pubblicamente accessibili le sue motivazioni, e quindi di consentire a una minoranza laica, o di fede diversa, di giudicarle alla luce di standard di validità generale, il potere democratico della maggioranza degenererebbe in tirannia religiosa.

«(Ovviamente), le Chiese travalicherebbero i limiti di una cultura politica liberale se adottassero per i propri fini politici la strategia di appellarsi direttamente alla coscienza religiosa. Sarebbe un modo per influenzare i credenti in quanto tali, e non nella loro veste di cittadini. E di tentare di coartare le coscienze, imponendo l' autorità religiosa al posto di quel tipo di motivazioni che nel processo democratico possono divenire efficaci solo perché varcano la soglia verso la traduzione in un linguaggio comprensibile per tutti».

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© Die Zeit

Traduzione di Elisabetta Horvat la Repubblica 30/11/2007

Jurgen Habermas Nato nel 1929 a Dusseldorf, filosofo, professore emerito a Francoforte, tra i suoi testi più noti "Storia e critica dell' opinione pubblica", "L' Occidente diviso", pubblicati da Laterza.

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