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Centro sociale A.21 n.118-120. I quartieri a Bologna

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118

120

“ C en tro S o c ia le ”

i quartieri

a Bologna

(2)

Centro Sociale

P eriodico b im e stra le del C entro d i Educazione P ro fessio n ale p e r A ssiste n ti So ciali (C EPA S) - U n iv ersità d i R o m a

C om itato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des

Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federai ion of Settlements, New York - F. Bolts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Esperta Educazione degli Adulti, Roma - G. Cigliano, Esperto Servizi Sociali, Roma - E. Clunies-Ross, Institute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. Hytten, Div. Social Affairs, UN, Geneva - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, Inter­ national Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assi­ stenziali Italiane e Internazionali, Roma - G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Roma - R. Nisbet, Dept. of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architet­ tura, Università di Roma - M. G. Ross. University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservatorio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d’Europa, Roma - M. Smith, Home Office, London - /. Spencer, Dept. of Social Work, University of Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

C om itato d i redazion e

Adele Antonangeli Marino - Elisa Calzavara - Teresa Ciolfi Ossicini - Egisto Fatarella - Velelia Massaccesi - Giuliana Milana Lisa - Laura Sasso Calogero

Dirett. responsabile: Anna M aria Levi - Segret. di Redaz.: E rnesta Rogers Vacca Direz. redaz. am m inistraz. piazza Cavalieri di M alta, 2 « 00153 Roma - tei. 573.455

Prezzi del 1975:

Abbonamenti a 6 numeri annui L. 6.500 (estero L. 8.500); un numero L. 1.200 (estero L. 1.800); arretrati il doppio - sped. in abbonamento postale gruppo IV - c.c. postale n. 1/20100.

Prezzo di questo fascicolo L. 2.700.

Una volta all’anno Centro Sociale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a proble­ mi di sviluppo socio-economico dal titolo International Review of Community Development.

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Centro Sociale

scien ze s o c ia li - se rv iz io so c ia le - ed u cazio n e d e g li a d u lti

sv ilu p p o d i co m u n ità

an n o X X I , n. 118-120, d ic e m b re 1974

S o m m ario

4

.

F. Bondioli I q u artieri a Bologna. Elementi p e r l’analisi di un caso di decentram ento comunale.

m Prefazione (A. Zucconi) ì I. Introduzione

io IL I motivi e il contesto generale dell’esperienza bolognese 23 III. Le tappe fondamentali del decentramento

24 Gli anni della gestazione (1955-1950) 41 Gli anni della fondazione (1960-1963) 47 Gli anni dell’avvio dell’esperienza (1964-1967)

55 Gli anni dell’impatto con la realtà (per i quartieri) e

dell’incertezza (per i partiti) (1967-1970) 67 Gli anni recenti (1970-1974)

69 Note

80 Appendice A. Gli organi del decentramento nel comune

di Bologna.

1. Assessorato al decentramento e ai centri civici-uffici di quartiere - 2. La Commissione consiliare al decentra­ mento - 3. L’aggiunto del sindaco, presidente del con­ siglio di quartiere - 4. Il collegio degii aggiunti del sindaco - 5. Il consiglio di quartiere - 6. Le commis­ sioni di quartiere e gli altri strumenti di partecipazione popolare.

92 Appendice B. Il nuovo ordinamento dei quartieri.

1. Il nuovo regolamento per gli organismi democratici di quartiere - 2. Impegno programmatico per un ulte­ riore sviluppo della politica di decentramento.

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105 Appendice C. Cronologia generale del decentramento.

112 Appendice D. Un esempio dei problemi affrontati dai con­

sigli di quartiere (1964-1973).

116 Appendice E. Tredici anni di attività della commissione

consiliare per il decentramento.

119 Appendice F. Attività dei quartieri in una settimana tipo.

124 Bibliografia.

131 Indice delle tavole, tabelle, prospetti.

133 Recensioni

M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scola­

stico in Italia (1859-1973) (Massimo Negri); E. Invemizzi, Formazione e ruolo dell’assistente sociale (Teresa Ciolfi

Ossicini); B. Moore jr., Riflessioni sulle cause sociali delle

sofferenze umane e su alcune proposte per eliminarle

(Gianni Losito); P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali (Gianni Losito); G. Ledere, Antropologia e colonialismo (Vincenzo Padiglione).

153 Segnalazioni

a cura di Francesca Errico, Gianni Losito, Marco Marchioni, Massimo Negri, Vincenzo Padiglione, Ernesta Rogers Vacca, Leda Spiller.

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Prefazione

d i A ngela Zucconi

1. Le esperienze di decentramento comunale rappresentano oggi un aspetto impor­ tante di quella presenza vissuta della carta costituzionale che gli ottimisti dicono destinata ad influire in modo sempre più determinante sull’attività legislativa.

Come è noto, le esperienze di decentramento sono tutte passate per la porta stretta di un insignificante articolo fra i tanti che compongono il testo unico della legge provinciale e comunale, e questo testo, veramente « unico », è un rappezzo di tante leggi sovrapposte e sopraggiunte nell'arco di più di un secolo, che hanno però tutte un carattere comune: l asservimento a uno Stato rigorosamente accentrato.

L articolo 5 della Costituzione, invece, parla chiaro in senso del tutto opposto: « La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento ».

Va notato che, mentre nel progetto della Costituente questo articolo serviva ad introdurre la Parte seconda («Le Regioni, le Provincie, i Comuni»), fu invece nel testo definitivo trasferito addirittura tra i « Principi fondamentali», in quanto esso completa la caratterizzazione costituzionale della Repubblica.

Va pure notato, perché molto importante per capire la varietà delle esperienze di decentramento, che nell’articolo 5 sono affermati come ben distinti i due concetti dell’autonomia locale (regioni, province, comuni) da una parte, e del decentramento amministrativo dei servizi dello Stato dall’altra.

Se è vero che la legge provinciale e comunale è quella che era prima e durante il fascismo, e la istituzione generalizzata delle regioni si è realizzata 23 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, non va dimenticato che le esperienze di decen­ tramento comunale hanno dalla loro parte tutta l’autorità della Costituzione, anzi rappresentano sul piano culturale l’attuazione di quel dettato costituzionale: il che significa che una generale presa di coscienza che « il potere è di tutti» precederà di gran lunga la nuova legge provinciale e comunale.

Il saggio di Bondioli ci dà per la prima volta una descrizione documentata di questa lenta e difficile presa di coscienza da parte dei cittadini, e soprattutto dei par­

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titi, nel caso veramente esemplare del comune di Bologna, e il suo primo merito da segnalare è la scelta di questa angolazione inaspettata e per molti aspetti impreve­ dibile.

2. Ancora oggi il decentramento comunale viene inteso e spesso attuato come decen­ tramento e razionalizzazione degli uffici comunali e dei servizi sociali esistenti nel territorio urbano: una semplice operazione da fare a tavolino, che sembra compli­ cata soltanto dalla proliferazione e dalla insopprimibilità delle strutture esistenti. Con la stessa dissennata facilità si procede, sempre sulla carta, alle successive opera­ zioni che l'assetto regionale vorrebbe: definizione delle aree sub-regionali, consorzi di piccoli comuni, comunità montane, ecc. Atti istitutivi, statuti e relativi regola­ menti non mancano di dare il dovuto rilievo alla famosa partecipazione dei cittadini, anche se di solito questi non sanno neppure che si sta parlando di loro, non sanno ossia neppure di far parte di quella circoscrizione comunale o di quella comunità montana.

In questo senso il saggio di Bondioli servirà a far conoscere meglio il caso del decentramento a Bologna, e aiuterà a distinguere le tante contraffazioni dell’espe­ rienza bolognese dal poco di vero che c’è attualmente nella realtà italiana. Si tratta infatti di un caso molto citato e imitato, ma poco conosciuto nel suo lungo e pro­ fondo travaglio, malgrado le molte pubblicazioni sull’argomento.

Fino ad oggi i comuni che hanno « attuato » il decentramento sono circa una ottantina; per altri 40 comuni il decentramento è «in fase di studio o di avvio», e « circa una quarantina di comuni, solo nella provincia di Bologna, hanno dato vita ad esperienze di consigli frazionali », come leggiamo in una delle preziosissime note che accompagnano il testo di Bondioli.

Questi dati di per sé incoraggianti (se si considera che circa metà dei comuni capoluoghi di provincia avrebbero già attuato il decentramento), sono invece soltanto la facciata di realtà che, quando non sono finte, sono comunque così diverse tra loro da non prestarsi ad un serio confronto.

Basti solo pensare alla variabilità del rapporto medio abitanti-quartiere: si va dai 142.000 abitanti di Roma, agli 87.000 di Milano, ai 7.000 di Ferrara o ai 3.500 di Crema. Chi ha tentato questo confronto si è impantanato nella distinzione tra decentramento burocratico e decentramento democratico (ma un decentramento che non sia soprattutto decentramento delle sedi di potere, non ci riguarda neppure),1 E l’altro recentissimo tentativo di confronto sta proprio a dimostrare ( con m a bella e, per altri versi, utilissima tavola sinottica) che questo confronto non è possibile,2 Nelle attuali esperienze italiane di decentramento, di comune a tutte c’è solo il lessico, e secondo questo lessico « i quartieri sono espressione di base dell’autonomia comunale», «realizzano attraverso il decentramento di organi e di servizi, la più ampia e democratica partecipazione popolare al governo della comunità », sono legati da un insieme di elementi etnici, storici, sociali ed economici», ecc.

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tratta da un documento che riguarda il comune di Roma) distoglie la mente dalla considerazione di quelle che sono le condizioni essenziali perché si possa parlare seriamente di decentramento comunale:

— occorre anzitutto che ci sia « un centro », ossia che « il comune » esista realmente

nella consistenza delle sue strutture e nella coscienza dei suoi cittadini;

— occorre che questo comune abbia definito il suo rapporto con il territorio, ossia

che il decentramento possa riferirsi ad un piano regolatore coerente ad esso, nel senso di stabilire un rapporto continuo di reciproca influenza;

— occorre che il decentramento comunale possa contare nella programmazione

regionale;

— occorre che ci siano alla base forze sociali e culturali che sostengano e sostan­

zino questi indirizzi;

— occorre, infine, che ci sia stabilità nella scelta politica, perché si tratta di crescite

che vogliono tempi lunghi e buone stagioni.

Chi conosce l’esperienza bolognese riceverà purtroppo dal saggio di Bondioli la conferma che questa esperienza non è facilmente ripetibile proprio per la rara compresenza di tutti questi elementi.

3. Non è compito possibile di questa introduzione dire in quali dei tanti comuni « decentrati » si verificano alcune almeno di queste condizioni. Ma su un punto che è di prammatica in questo lessico del decentramento mi pare importante riflettere: il richiamo alla democrazia e alle cosidette forze nuove che avrebbero provveduto a rifondare le autonomie locali dopo la caduta del fascismo. Per una più attenta lettura del caso di Bologna, può essere utile richiamare alcuni precedenti storici che il sag­ gio di Bondioli dà per noti.

Fin dall’immediato dopoguerra il dibattito intorno alle autonomie locali si svolse seguendo due filoni: quello politico-istituzionale e quello meno noto delle esperienze concrete, il filone che chiameremo di ricerca sperimentale sulle autonomie locali.

Il filone politico-istituzionale, conclusi i lavori dell’assemblea costituente, rapida­ mente si interrò: molte fondamentali enunciazioni della Costituzione resteranno per più di vent'anni lettera morta, al punto dì non essere più neppure argomento di dibat­

tito politico.

Il filone delle sperimentazioni concrete, invece, ha continuato a vivere, sia pure modestamente, fino ad inserirsi, almeno in alcuni casi, nelle stesse esperienze di de­ centramento.

Queste sperimentazioni sono in sostanza riducibili a due ceppi fondamentali: 1) il Movimento Comunità e i progetti di sviluppo comunitario, come esperienze di « comprensorio »; 2) le consulte popolari, i centri dì orientamento sociale, i centri sociali, come esperienze urbane. È bene chiarire subito che questi due ceppi interes­

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sano nella stessa misura il nostro tema, perché il decentramento va correttamente considerato nelle proprie diverse situazioni (alle quali del resto allude anche questo saggio sul decentramento del comune di Bologna):

— il grande comune urbano che si articola in quartieri;

— il quartiere urbano che si associa con il piccolo comune confinante; — il comune rurale che promuove l’autonomia dei consigli di frazione; — i piccoli commi che si associano.

Se è chiaro che il decentramento va concepito come un sistema generale e capil­ lare di rinnovamento e potenziamento delle autonomie locali, basteranno pochi cenni per ciascuna delle esperienze citate per chiarire questo richiamo.

Il Movimento Comunità è il solo caso in cui è presente un preciso, anche se diffìcile, riferimento teorico, quello dell’«Ordine politico delle comunità» di Adriano Olivetti, ed è anche il solo caso a metà strada tra il filone politico-istituzionale e la sperimentazione pratica. I progetti di sviluppo comunitario, sia pure nella loro diver­ sità e nel loro reciproco ignorarsi, hanno tenuto conto (spesso senza saperlo) del pen­ siero e dei progetti di Adriano Olivetti, maturati negli anni a cavallo dell'ultima guerra e precariamente e intempestivamente calati nel Movimento Comunità come partito politico nelle elezioni del 1958.

Mentre l’esperienza del Movimento Comunità investiva in pieno il problema delle autonomie locali, fino al disperato scontro frontale per la conquista di qualche sparuta amministrazione comunale nel Canavese, l’esperienza dei vari progetti di sviluppo comunitario rappresenta in certo modo il congelamento e l’accantonamento del problema

Quanto al secondo ceppo di queste esperienze, lasciando da parte per mancanza di studi (come rileva lo stesso Bondioli) l’esperienza delle amministrazioni locali « politiche » nominate dai Comitati di liberazione, troviamo tra il '45 e il ’46 i comi­

tati di liberazione nazionale di quartiere nelle zone periferiche delle grandi città, in particolare a Milano, e tra il '46 e il ’50 le consulte popolari, che, mosse inizial­

mente dall’impegno di collaborare con il comune, passano prestissimo all’opposizione e finiscono rapidamente per non contare più nulla dopo la loro adesione al fronte popolare del 1948. Per il crescente disinteresse verso ì problemi concreti dell’ammi­ nistrazione locale da parte dei due partiti della sinistra, le consulte infatti persero ben presto ogni possibilità d’azione, e i volontari che si erano dedicati appassiona­ tamente alla gestione del comune scomparvero di scena.

In condizioni ancora più difficili, con altre persone e ricominciando da capo, i centri sociali ripresero questa attività nei quartieri: nuovi comitati di quartiere hanno trovato nei centri sociali dell’Istituto Case Popolari di Milano, in alcuni centri sociali dell’IN A-Casa o dell’UNRRA CASAS, l'impulso, il sostegno e V ospitalità

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che servì a renderli operanti. Così i centri sociali, i migliori e nella loro migliore sta­ gione, hanno aperto la via al decentramento comunale, sono stati un punto di rife­ rimento per la formazione dei comitati e per la stessa amministrazione comunale, hanno rappresentato il minimo vitale in fatto di struttura, perché al di sotto di questo minimo c’è la retorica della formazione spontanea, giustamente giudicata la fuga in avanti di coloro che in realtà non volevano il decentramento.

Un ultimo accenno meritano i centri di orientamento sociale di Aldo Capitini, una specie di governo-ombra della città (Perugia), un’estensione assembleare del con­ siglio comunale o più spesso una contrapposizione popolare al consiglio stesso.

Le esperienze che appartengono a questo secondo filone (il primo di cui si è parlato è quello giuridico-istituzionale) hanno tutte avuto tre componenti costanti: 1) anzitutto la ricerca del legame e della dimensione territoriale (e in questo senso gravitano sulla cultura urbanistica, ne ereditano anzi le speranze quando « la deca­ denza della città nell’Italia del dopoguerra » 4 è ormai segnata per sempre; 2) la se­ conda componente comune è l’ambizione alla globalità, all'integrazione degli inter­ venti contro lo Stato accentratore, che oltre ad essere « lontano » è per sua natura

settoriale; 3) il terzo elemento è la ricerca della partecipazione, anzi la sollecitazione

di una pluralità di centri di partecipazione, la comunicazione a due vie come condi­ zione essenziale per questa partecipazione, e l’estensione territoriale della comunità misurata in sostanza sul « campo » di questa comunicazione: in tale contesto si capi­ sce l’interesse di quei movimenti e di quelle esperienze per i problemi educativi e culturali, e si apprezza che il saggio di Bondioli dia per la prima volta un qualche spazio all’argomento tra il tanto che si è scritto sull’esperienza bolognese.

A questi tre punti, col tempo diventati sempre più validi, si aggiunge un punto negativo comune a tutte queste esperienze, quello di essere andate raminghe sul ter­ ritorio, di non aver mai potuto (o voluto) avere un tetto istituzionale: nel migliore dei casi hanno sostenuto un dialogo pieno di equivoci e soprattutto di reticenze con i comuni, surrogando alla loro impotenza e incapacità senza farglielo capire.

Al contrario, il decentramento di cui qui si parla ha la straordinaria possibi­ lità di riprendere e di sviluppare quelle esperienze ma gestendole in proprio, come ente locale, senza ricorrere a deleghe, intermediari, o appalti. Anzi, quanto più la gestione è comunale, tanto più vero è il « decentramento ».

Si legga e si mediti, per esempio, l’Appendice D del saggio di Bondioli, « Pro­ blemi affrontati dai consigli di quartiere (1964-1973) ». (Sia perdonato un inciso: raccomandiamo caldamente di leggere e soprattutto di adoperare le analisi e i docu­ menti che l’autore, in parte per modestia e in parte per pigrizia, ha voluto relegare nelle note e nelle appendici).

Si rifletta dunque su che altro senso ha dibattere quegli argomenti nella veste di cittadini bolognesi di un dato quartiere, o dibattere gli stessi temi in veste di esperti e di bene intenzionati quali erano i protagonisti delle esperienze citate.

La differenza non è tanto nell’essere o non essere esperti, nell’essere o non essere estranei alle situazioni locali, ma nel potere politico che hanno comunque i citta­

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dini di quel quartiere di Bologna, nell’autorità che hanno comunque come elettori dell'amministrazione comunale di Bologna, un’autorità che si aggiunge alla compe­ tenza di chi parla di fatti propri o di fatti che direttamente conosce.

Concludendo e sempre tornando alla storia, non è puro caso che proprio il perio­ dico che ospita questo saggio sul decentramento a Bologna abbia pubblicato il primo studio sui centri sociali in Italia, i primi studi preparatori ai progetti di sviluppo comunitario, la prima e unica raccolta di studi di valutazione su questi progetti stessi.

Come si intuisce dal ripetuto invito a leggere e utilizzare le note e le appendici, che sono il tesoro nascosto di queste pagine, anche questa volta lo studio che presen­ tiamo ha un suo cammino da percorrere negli anni che verranno, perché in sostanza il maggior merito del saggio di Bondioli è quello di aver trasformato in un opera di consultazione « un caso di decentramento comunale ».

An g e l a Zu c c o n i

Note

1 G. Della Pergola e G. Ferraresi, Il decentramento nella città in Italia, ACLI,

Roma, 1969.

2 AA. VV., Decentramento urbano e democrazia, Feltrinelli, Milano, 1975.

3 Per un’analisi e una valutazione dei progetti di sviluppo di comunità in Italia, si veda il voi. monografico nn. 81-84, 1968 di Centro Sociale.

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I qu artieri a B ologna: elem enti per l’an alisi

di un caso di decentram ento com unale

d i F ra n cesco Bondioli

I. In troduzion e

Il presente saggio, che vuole ricostruire e documentare i momenti essenziali della nascita e dello sviluppo del decentramento a Bologna, è nato, oltre che da un pro­ fondo interesse culturale e politico verso il tema in sé, da una semplice constata­ zione: mentre cresce il numero di coloro che desiderano conoscere tale «storia», chiedendo che essa risponda ad una serie molto ampia di domande, non esiste tut­ tora nessun lavoro, se si eccettuano ricerche su aspetti particolari,1 che venga in­ contro a questa esigenza.

Oltre tutto, tale vuoto sembra essere una delle cause del fatto che, sul terreno del corrente dibattito sul decentramento bolognese, i riferimenti alle origini rischiano di essere sempre più stilizzati, ripetitivi, qualche volta perfino mitizzati.

Anche per questo si è cercato di dare maggiore spazio ai tempi e ai motivi della fondazione del decentramento che non ai più recenti e attuali sviluppi di que­ sta esperienza, sui quali è obiettivamente più difficile tracciare profili «storici», trattandosi di una realtà non ancora sedimentata, né distanziata da un minimo di retrospettiva temporale.

È bene d’altra parte dire subito che la « storia » che qui si presenta, più che rispondere alle molte domande che le si possono rivolgere, presenta una serie di contesti, di fatti, di posizioni, per facilitare la migliore definizione delle risposte (o delle nuove domande) che in merito ad essa ognuno riterrà opportuno

formu-L’A. desidera ringraziare gli esponenti (in primo luogo il Sindaco e l’Assessore al Decentramento) del comune e dei quartieri di Bologna, e i rappresentanti politici, i quali, mentre hanno consentito la raccolta di informazioni e indicazioni indispensabili a questo tipo di rilettura della prima vicenda di decentramento attuata in Italia, non hanno in alcun modo cercato di condizionare la libertà e l’autonomia della ricerca, il cui risul­ tato (non sottoposto ad alcuna supervisione, che pure poteva risultare fruttuosa, da parte dei protagonisti di oggi e di ieri) pesa pertanto sulla sola responsabilità personale di chi scrive.

La faticosa raccolta e organizzazione di molto materiale e di numerose informa­ zioni è stata possibile grazie alla collaborazione preziosa ed amichevole del personale del­ l’Assessorato al Decentramento.

L’A. vuole anche dare riconoscimento alla collaborazione della moglie Anna Lopes- Pegna, la cui esperienza di quartiere è stata in questa sede preziosa.

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lare. Mentre quindi pretende di avere una sua onestà di impostazione e un minimo di efficacia documentaria ed espositiva, questa « storia » non vuole far credere di essere neutrale, ma si presenta come una delle possibili: caso mai può essere uno stimolo ad altre necessarie e diverse versioni delle stesse vicende.

Si noterà, in particolare, che ci si è limitati ad individuare alcuni aspetti a sca­ pito di altri, con selezioni e motivazioni che appaiono abbastanza evidenti nella ste­ sura stessa dell’elaborato : dopotutto bisogna pur partire, con tutti i rischi del caso, da una prima ricerca di sfondo di carattere generale.

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e la loro collocazione in un più generale contesto, rispetto all’indagine effettiva

dentro le stesse forze politiche e sociali, dentro il corpo comunale, nella connessione,

vista dal basso, fra queste componenti e il loro più specifico substrato socio-politico. Resta quindi da esplorare e da documentare maggiormente la dinamica specifica di ciascuna delle forze in gioco nei confronti del problema dei quartieri e della partecipazione; resta da approfondire la storia delle consulte popolari dal dopo­ guerra al 1963, una storia di tendenze e di fatti partecipativi di quartiere e di città, e la sua influenza sulle successive vicende qui prese in esame; restano da riempire di ben maggiori elementi le fasi della vita del decentramento, qui considerate per alcuni loro aspetti peculiari e individuate ancora abbastanza genericamente, e per di più senza entrare nel merito delle diverse e molto interessanti « storie» dei singoli quartieri; resta da analizzare più a fondo quanto e come i processi deci­ sionali politici e amministrativi sono via via mutati con il decentramento, e i loro riflessi sui partiti, sul comune, sulla complessiva vita culturale della città.

La natura e i limiti di questo saggio non consentono, tantomeno, di venire incontro alle più generali e attuali questioni del decentramento e della partecipa­ zione nel nostro paese: una materia che fa parte ancor viva e contrastata di un presente, di cui si dà, per Bologna, una certa documentazione, ma che è necessa­ riamente sottoposto, anche in questa città, alle scommesse e sfide del futuro.

Fra l’altro, le caratteristiche, gli indirizzi, i risultati, delle molteplici espe­ rienze di decentramento e di partecipazione locale di quartiere, che nel nostro paese si sono sviluppate dal ’68-’69 sono tanto diversi e tanto poco organicamente stu- studiati, che non ci sembra ancora possibile, abbozzare una qualsiasi « teoria gene­ rale» su questa ampia problematica.

Tuttavia, soprattutto per facilitare ai lettori la individuazione e valutazione degli orientamenti dell’autore, si possono elencare, senza pretesa di organicità e come semplici spunti di riflessione, alcuni problemi di carattere generale davanti ai quali, nel nostro paese, riteniamo venga a trovarsi lo sviluppo delle esperienze di decentramento e di partecipazione.

Rapporto fra stato centralizzato e autonomie locali

Il nodo dei rapporti fra stato centralizzato e autonomie locali sta ponendosi sempre più chiaramente al centro della crisi delle nostre istituzioni, al centro del problema dell’inefficienza della pubblica amministrazione, davanti alla sempre più sentita necessità della « effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’orga­ nizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3 della Costituzione).

La diagnosi del problema è condivisa praticamente da tutti, non solo dalle grandi forze sindacali, ma dal fronte delle regioni, dalla associazione dei comuni, dagli stessi maggiori partiti, che non cessano di vantare la loro fede autonomistica.

Perché nella situazione attuale i comuni, schiacciati dalla mancanza di mezzi e umiliati dalla carenza di poteri, dovrebbero (ammesso che di questo si tratti),

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« giocare alla democrazia », promuovendo o riconoscendo organismi di quartiere e forme di partecipazione popolare? per far sperimentare e conoscere alla popo­ lazione la propria debolezza? Sarebbe assurdo, se non vi fosse la prospettiva di una forte e finalmente vincente battaglia per spazzare via alcuni grossi ostacoli politici e almeno gli aspetti legislativi più palesemente incostituzionali e abnormi, che frenano il decollo delle autonomie regionali e del ruolo dei comuni.

Tale battaglia non può che essere rafforzata da forti e credibili esperienze di partecipazione che i comuni riescano ad organizzare a livello locale, in collegamento con la nuova realtà regionale. La positiva valutazione « di principio » del ruolo degli enti locali non può peraltro ignorare:

(a) le loro attuali carenze in troppe zone del paese (clientelismo anziché

partecipazione, burocraticismo anziché efficienza);

(b) il problema dei comuni troppo piccoli; non sarebbe preferibile avere al posto di « poveri » consigli comunali, un più agile, libero, consiglio di frazione, parte dialettica di una più ampia area di autonomia comunale?

(c) lo spazio reale che dovrebbe restare alla Provincia e la possibilità di sopprimere questo livello amministrativo;

(d) la necessaria continua riqualificazione dei rapporti fra lotte politiche e

sociali e i nuovi livelli di potere istituzionale (come le regioni e i quartieri).

Autonomie locali e trasferibilità delle esperienze di decentramento

L’autonomia locale è tale perché è diversità, invenzione, adattamento a diversi contesti urbanistici, sociali, culturali. Un determinato modello giuridico-politico, come quello presentato in questo saggio e commentato nelle appendici, può essere al massimo un motivo ispiratore, ma la scelta del decentramento comporta un pro­ cesso e un travaglio che non possono non essere diversi da situazione a situazione, e quindi in buona misura originali. Gli stessi confronti fra quartieri-zone-circo- scrizioni di diverse città, sono quindi spesso superficiali, mentre è auspicabile che le analisi comparate siano ad altro livello di approfondimento, esistendo, ci sembra, la possibilità di individuare motivi comuni mediante la documentazione esistente.2

Ristrutturazione della macchina comunale

È il nodo più antico e scottante del decentramento: punto focale di scontro- incontro fra la logica burocratica e la logica della domanda sociale e politica pro­ veniente dalla popolazione. Più si rafforzano i quartieri da un lato e dall’altro si fa sentire, anche attraverso le «deleghe», il nuovo rapporto comune-regione, e più la ristrutturazione della macchina comunale diventa un problema cruciale. Esso ha due aspetti complementari: richiede da un lato inventiva e volontà poli­ tica da parte del consiglio comunale e della giunta (dove già esistono e funzionano organismi democratici di quartiere, una forte spinta può venire dalle loro stressanti

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esperienze di rapporti con gli apparati); dall’altro lato richiede un accordo con le organizzazioni sindacali dei dipendenti comunali, giungendo a individuare le ine­ vitabili lealtà clientelari e a smontare le tensioni corporative, ricorrendo, se neces­ sario, al ruolo proprio dei sindacati confederali.

Le difficoltà della ristrutturazione non saranno quindi certo minori di quelle riscontrate per fare il decentramento, dato che essa richiederà, oltre che una pic­ cola rivoluzione culturale negli atteggiamenti e nei valori dei dipendenti degli enti locali, tutti quegli accordi e quei travagli politici impliciti nella trasforma­ zione di una complessa e consolidata organizzazione.

Le nuove territorializzazioni

Com’è noto, parallelamente al decentramento amministrativo a livello comu­ nale, sono in corso delle nuove suddivisioni del territorio nazionale in relazione ai servizi sociali e sanitari e alla scuola (ULSS e distretti scolastici). Esse, al mo­ mento, si trovano a diversi livelli di realizzazione: alcune regioni stanno già speri­ mentando, ad esempio, « consorzi socio-sanitari ». Esiste il pericolo di una parte­ cipazione settoriale, ad attrazione semicorporativa che può andare a scapito di una partecipazione politica? La sfida agli organi del decentramento comunale, ai quartieri, è comunque di grande portata: si tratterà di vedere la loro capacità di collegarsi alla popolazione e di trovare il loro spazio, al di là delle limitazioni giuridiche attuali, nella propulsione e nella verifica di queste iniziative.

Il problema primario della partecipazione politica ', la « gestione sociale »

C’è chi ha notato che troppi cittadini « partecipanti » e certi settori delle stesse forze politiche e sociali, mentre sono abbastanza disponibili al dibattito generale, alle discussioni, faticano ancora a passare ad una più coerente e continua dispo­ nibilità, esitano a mettersi in gioco, in un più approfondito impegno di elabora­ zione e di concreta collaborazione al movimento partecipativo che deve aversi attorno ai quartieri. I mutamenti sociali, culturali, politici, che sono il fine ultimo e lo sbocco necessario della partecipazione esigono che anche nella partecipazione di quartiere gli impegni sia individuali che di gruppi si concretino in una serie di operazioni pratiche per realizzare certi obiettivi nel campo economico e sociale. Occorre quindi che la partecipazione abbia una sua strategia non occasionale, che individui opportunamente i protagonisti, gli interessi in gioco, il processo cultu­ rale da sviluppare, i contrasti da vincere, le condizioni preliminari da creare. Non lo si può certo fare a tavolino, ma un disegno di carattere politico è necessario.

Un problema che si pone di conseguenza è quello della pluralità dei centri di partecipazione, che secondo noi va mantenuta, intesa come un vero pluralismo di valori e di istanze effettive, e la cui crescita autonoma deve essere considerata come un arricchimento del corpo sociale in genere. Il rischio di un certo modo di « fare » il decentramento può essere infatti anche quello di cadere in una tendenza

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all’accentramento: cosa che, a prescindere dalle più grosse contraddizioni insite in ciò, può condurre ad una non credibile uniformità di iniziative oppure a ridurre a uso ripetitivo-consumistico certe attività, siano esse sociali, del tempo libero, culturali o perfino politiche.

Problema non meno importante è quello degli strumenti della cosiddetta ge­ stione sociale. La gestione sociale è stata in genere affermata come naturale e neces­ sario sviluppo del decentramento, ma non sembra facile per nessuno prospettarne in concreto le strategie e gli strumenti, i contenuti e gli obiettivi. Se per gestione sociale si intende la assunzione diretta di responsabilità per la conduzione di servizi e/o istituzioni da parte di cittadini/utenti, che derivi da una piena presa di coscienza dei problemi da risolvere e delle loro possibili soluzioni, con un potere delibe­ rativo che non sia solo una delega dall’alto, ci si trova di fronte a un problema che in parte è di volontà politica di correre un certo rischio — e quindi di rovesciare la logica burocratico-istituzionale. Ma in parte, è anche un discorso di respon­ sabilità realistiche, in un ambiente come il nostro, nel quale troppi e troppo facili sono i canali di delega e pochi i canali di responsabilizzazione e di partecipa­ zione creativa. La partecipazione politica vera e propria, non meno della ge­ stione sociale, non può quindi permettersi di essere un fatto emotivo, espressivo o spontaneistico e la sua stessa potenzialità decisionale, pena il suo sgonfiamento nel tempo, va ben collocata. Non vi è dubbio, ad esempio, che, come sarebbe errato far credere al singolo quartiere di poter da solo decidere delle questioni della città (e il discorso è analogo per i rapporti comune-regione, regione-stato), anziché individuare gli spazi di corresponsabilità generale e, all’interno di questi, gli spazi di responsabilità propria, altrettanto errato sarebbe non individuare corresponsa­ bilità e spazi propri delle altre istanze di partecipazione, del quartiere, dei citta­ dini, delle forze sociali siano queste legate al luogo di lavoro o al territorio (agli ambiti, cioè, nei quali i gruppi sociali autonomamente si associano con la forza di una aggregazione vitale).

Ogni istanza deve poter trovare un impatto dialettico con le altre, ogni « cer­ chio» di azione deve far rimbalzare agli altri, attraverso gli opportuni collega- menti, i problemi emersi; senza questa fluidità, che va dai cittadini auto-organiz­ zati (o stimolati a diventarlo) alle volontà e responsabilità politiche, ai vari livelli, anche un ampio dispiegarsi quantitativo di « riunioni » e di momenti partecipativi può coesistere con un effettivo permanere della « delega », con un ristagno nel- l’allargarsi delle responsabilità e della presa di coscienza dei problemi.

Formazione permanente

Non vi può essere, praticamente, settore della politica locale che possa sot­ trarsi a profonda revisione in presenza di una politica di decentramento e di parte­ cipazione; dal modo di fare le scelte urbanistiche e dei trasporti a quello di realiz­ zare la politica sociale e sanitaria.

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Ma la politica culturale e deH’informazione (che poi non è altro che una espres­ sione del modo di concepire tutta la politica), merita almeno un cenno di atten­ zione, non essendo questa la sede per sviluppare gli altri pur essenziali discorsi. In un paese come il nostro, in cui è forte la tendenza, opposta a quella della partecipazione, a professionalizzare un’attività come quella politica, che per defi­ nizione non può appartenere in modo preminente od esclusivo agli addetti ai lavori (o addetti al potere?), è fondamentale la necessità che il numero più vasto di cit­ tadini, al di là delle barriere socio-economiche, possa entrare in possesso — anche attraverso un intelligente uso di strumenti, oggi molto più facilmente disponibili (video-tape, radio e t.v. cavo ecc. fino al vecchio ciclostile) —, di tutti gli elementi per essere un po’ più «sovrano», quando pure gli viene offerta la possibilità di partecipare e di decidere.

Se la partecipazione deve essere meno guidata e meno manovrabile, è neces­ sario — può sembrare una contraddizione — che essa sia preparata; il che vuol dire educare la gente a formarsi giudizi autonomi e critici. Qui non esistono scor­ ciatoie; raggiungere questo obiettivo costa fatica e tempo, richiede conoscenze e informazioni di base da cui non si può, oggi, prescindere.

Lo stesso rapporto fra tecnici e operatori (sociali, culturali, sanitari, scola­ stici, ecc.) da un lato, organi politici di base e forze sociali dall’altro, richiede, oltre­ ché nuovi spazi e modi d’informazione, anche momenti di comune formazione e di verifica, a cui chiamare, via via, sempre nuovi strati di popolazione (e non solo gli «utenti» diretti), se si vuole evitare un pericoloso circuito chiuso fra addetti politici e addetti tecnico-amministrativi che negherebbe la gestione sociale.

Ruolo delle forze sociali e dei partiti

È fortemente presente, in tutte le esperienze di decentramento, il discorso del rapporto con le forze sociali (quali ad esempio, le associazioni inquilini, i movi­ menti femminili, le associazioni tra pensionati, le organizzazioni ricreative e cul­ turali, ecc.); ma anche le più presenti in esso di fatto si trovano ancora sulla porta della compenetrazione con il quartiere.

Conferenze economico-sociali tenutesi nel 1973/74 nei quartieri bolognesi sui problemi dell’assetto e dello sviluppo delle zone interessate, insieme ai consigli di zona sindacali e alle forze sociali e produttive, dimostrano, per non dire di altri casi e di altre esperienze, che è possibile un fecondo collegamento fra istanze di quartiere, espressioni di zona e di fabbrica, altre forze sociali.

Sta di fatto che gli stessi sindacati e le loro espressioni di fabbrica e di zona hanno avuto, in molte esperienze di decentramento, rapporti ancora discontinui con i quartieri (o i quartieri con loro ?). Si tratta di un fenomeno da segnalare, non facilmente spiegabile, quando si consideri la forte spinta partecipativa messa in atto dal movimento operaio non solo nella fabbrica ma, riguardo ai problemi del territorio, anche nei confronti dell’ente locale (salute, servizi sociali, casa, ecc.)

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fino all avviata iniziativa dei consigli di zona, per non parlare delle altre organiz­ zazioni che si muovono, su tali problemi, in collegamento con queste nuove scelte.

Vi è poi tutta una serie di gruppi e di formazioni sociali, anche di non masto­ dontica quantità e operanti in tutti i campi, di cui lo sviluppo del decentramento e della partecipazione, se saranno efficaci fino in fondo, non potranno non solle­ citare, non solo 1 impegno ma lo stesso sorgere e affermarsi in forme anche nuove. Non si può negare che una remora naturale all’interessamento delle forze so­ ciali nel decentramento (ad esse è riconosciuto, ad ogni modo, nell’esperienza bolognese il diritto di presenza nelle commissioni di quartiere, e la possibilità di presentare e discutere direttamente con il consiglio di quartiere proprie risoluzioni e petizioni) può essere data dalla sensazione di un coinvolgimento cogestionale con istanze, rispetto alle quali esse, giustamente, desiderano restare autonome.

Avremo dunque, principalmente, rapporti « utilitaristici » immediati, fra forze sociali e istanze di quartiere? Il rischio può essere reale ma non mancano validi casi i quali mostrano che quando le forze sociali prendono sul serio il quartiere il rapporto può svilupparsi fecondo e con risultati positivi per tutta la comunità.

Secondo l’esperienza bolognese il problema dei partiti è il naturale punto focale, anche se non l’esclusivo, attorno al quale ruotano un po’ tutti i problemi dello sviluppo del decentramento e della partecipazione.

È stata in ogni modo, nel caso da noi esaminato, la complessa e spesso fati­ cata dialettica fra società-quartieri-partiti, che ha fatto sì che le forze politiche, protagoniste necessarie di un cambiamento nel modo di concepire e di governare un comune, ne fossero poi, come da un boomerang, investite e sollecitate.

Dove il decentramento ha almeno discretamente funzionato, i partiti, partendo dalla loro base, si sono indubbiamente arricchiti, attraverso i quartieri, di nuovi problemi e di modi nuovi di concepire la stessa militanza politica.

Sapranno essi restituire ai quartieri questo debito, riprendendo finalmente, nelle sezioni di zona, a crescere sui contenuti politici, non solo seguendo i pro­ blemi, ma servendosene per creare una cultura e una prospettiva politica?

La forma interrogativa è giustificata dalla impressione, ricavata dalla cono­ scenza sia pure indiretta delle esperienze sviluppatesi ih diverse città, che, nono­ stante tutto, la «logica» quartiere-partecipazione abbia ancora migliori potenzia­ lità da esprimere rispetto ai partiti sia come organizzazione, sia nei quadri di zona, Le forze politiche sono state sì profondamente problematizzate attraverso il decen­ tramento, ma restano ancora delle ambivalenze. Il fatto ad esempio che, in molte città, i più grossi problemi non vengano sottoposti ai quartieri se non hanno avuto prima una necessaria, ma a volte eccessiva, «precottura» da parte dei responsa­ bili centrali dei partiti, è un indice di un giusto senso di responsabilità, di un dove­ roso rispetto per i quartieri o ha significato, in qualche caso, sottovalutazione delle loro capacità, o, peggio, paura della loro autonomia?

Il contesto del decentramento è, secondo molti, mi contesto ideale nel quale i partiti possono giocare, se lo vogliono, la carta migliore di una ripresa di

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credibi-lità agli occhi della più vasta opinione pubblica, proprio perché, su questo terreno, il fare politica deve essere disinteressato, aperto, non troppo demagogico, diverso.

Il decentramento, lo si è visto, è già un modo con il quale i partiti esprimono una volontà e una capacità di rinnovamento, ma l’iter di questa politica tende a porre in termini sempre nuovi il rapporto fra partiti e base sociale, fra « domanda» e risposta politica, sfidando continuamente i partiti a rinnovarsi, a riaffermare in modo maturo la loro funzione, oppure a regredire in manifestazioni di paura della dialettica, in chiusure burocratiche, che non sono altro che segni di debolezza da­ vanti al nuovo che esse stesse hanno voluto e promosso. Dove i partiti non hanno reagito con un minimo di coerenza alla nuova domanda di partecipare e di con­ tare (e di cambiare), proveniente da ampi strati (non solo popolari in senso stretto) della popolazione, il risultato in molti casi è stato che tale domanda è fuoriuscita dagli stessi tradizionali canali partitico-istituzionali, in due direzioni (che solo ormai la malafede può considerare « opposti estremismi ») : verso destra con l’emer­ gere del qualunquismo e il rispuntare della mala erba fascista alla ricerca di basi di massa, verso sinistra con il sorgere e l’organizzarsi dei movimenti e dei gruppi cosiddetti extraparlamentari.

Alla ricerca dello « specifico » del quartiere

La notevole diversità delle esperienze di decentramento e di partecipazione, non rende facile una univoca definizione di una realtà in sé multiforme e contrad­ dittoria, come quella degli organismi di quartiere. Una realtà che sembra sempre stretta fra le esigenze istituzionali e formali e quelle dei bisogni e spinte popolari.

Lo stesso specifico «territoriale» che è proprio del quartiere, cioè dello spac­ cato di una più ampia realtà sociale, riporta il quartiere stesso, in un continuo rapporto biunivoco con questa realtà, all’esigenza di doversi muovere come espres­ sione sociale immediata, anche con modalità non istituzionalizzate.

Se peraltro il quartiere dovesse « dimenticarsi » di essere istituzione, con tutte le responsabilità ma anche con la forza che ciò comporta, esso rischierebbe pro­ babilmente una fatale discontinuità, potrebbe diventare meno rappresentativo, un comitato di cittadini qualsiasi fra cittadini qualsiasi.

D’altra parte se questo organismo cosi capillare, già così vicino alla popo­ lazione, dovesse diventare una istituzione «come le altre», perderebbe ogni sua caratterizzazione peculiare, sarebbe sterile, e forse anche più odioso di altre isti­ tuzioni.

Per questo, forse, la natura più autentica e distintiva del quartiere è quella di essere uno « spazio politico» in cui l’esigenza imprescindibile è di cogliere le istanze di rinnovamento e di movimento presenti nel corpo sociale, di farsene carico, senza aver paura di un futuro che appare come una cortina di buio a chi non ha il senso della storia e dei suoi segni.

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II. I m otiv i e il con testo g en erale d ell’esp erien za b ologn ese 3 Il 13 marzo 1974, dopo un dibattito a largo raggio,4 accompagnato, a partire dal primo avvio delle regioni, da uno sviluppo ulteriore e più intenso del decentra­ mento politico-amministrativo, il consiglio comunale di Bologna, dopo dieci anni della ormai caratteristica esperienza di articolazione in quartieri della città (vedi tab. 1), ha deliberato, con voto e valutazioni favorevoli dei gruppi comunista, socia­ lista, democristiano, repubblicano e socialdemocratico, di dare una nuova veste, anche formale, alle «istanze» decentrate della città. Gli organismi di quartiere, dopo la crescita avuta, anche attraverso frustrazioni, non stavano più, ormai, nei vecchi panni del quadro politico e regolamentare deliberato nel 1963.

Il consiglio comunale di Bologna ha infatti approvato due distinti provvedi­ menti: uno di carattere regolamentare, di cui è prevista l’immediata attuazione, che, mentre raccoglie le conquiste maturate in questi anni, dà forma garantita ai poteri degli organismi decentrati e prevede specifici istituti partecipativi; uno di carattere politico-programmatico che dà un quadro e una prospettiva generale, in parte anche immediatamente realizzabile, a tutto lo sviluppo del decentramento, tenendo conto, fra l’altro, del fatto che oggi esso, pena l’illegittimità rispetto alle vecchie leggi sulle autonomie locali, non è tutto traducibile in norme ad efficacia «regolamentare» (vedi Appendice B).

L’illustrazione che più avanti si farà degli organi del decentramento e delle loro principali attività (v. Appendice A) esime dall’entrare qui in dettaglio nel merito di molteplici aspetti specifici del decentramento e permette di concentrare ora l’attenzione sui processi generali e sulle fasi più significative della nascita e dello sviluppo della esperienza bolognese.

Ma prima di vedere qual’è stato lo specifico travaglio interno di una città che ha saputo innovare, attraverso il decentramento democratico, il proprio dinami­ smo politico e amministrativo (anche se ad ogni tappa pare che per il tempo suc­ cessivo tutto sia ancora da fare e da scoprire), sembra necessario soffermarsi ad individuare, anche sommariamente, gli elementi che in tale area di problemi en­ trano in gioco.

Quando si parla di decentramento e di allargamento della partecipazione di base, sia pure solo aH’interno di un comune, si toccano infatti problemi di portata più generale, particolarmente interessanti forse, per una serie di motivi, se visti alla luce della specifica realtà bolognese : prima di tutto, visto che il decentramento e la partecipazione comportano distribuzione, limitazione, controllo di poteri, il problema del potere. Quindi sorgono gli interrogativi e i problemi a questo col­ legati, che hanno poi concretamente attraversato in profondità tutta la vicenda della nascita e dello sviluppo dei quartieri: quale democrazia, quale socialismo (non dimentichiamo la continuità di maggioranza di comunisti e socialisti, dal dopoguerra ad oggi v. tab. 2) quale modello di società e di organizzazione statuale; quale concezione del ruolo dei partiti, al loro interno, fra di loro, nelle diverse

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posizioni di maggioranza e minoranza, nel vario intrecciarsi dei valori e degli inte­ ressi, dei ceti, delle classi sociali che formano il loro substrato; e ancora: quale partecipazione, quale considerazione delle «autonomie» sociali e del loro plura­ listico articolarsi.

Il presente saggio, che analizza un’esperienza di decentramento comunale, non è fatto per dare risposte concettuali a queste domande; esse però si sono di fatto poste e sono state indubbiamente vissute nella vicenda dei quartieri bolognesi.

Non si vuole peraltro rinunciare ad esporre un criterio generale di giudizio su tali problemi.

Non si condivide ad esempio un concetto metafisico-teofisico del potere come di qualcosa che tutto prevede e pervade, che tutto assorbe, onnipresente e onni­ potente; una concezione irrazionale che, mentre sembra la più valida premessa per la rinuncia, sembra invece a volte stranamente adottata come la più congeniale da fautori della « rivoluzione » tutta e subito. L’analisi storico-politica e sociologica insegna invece, a nostro avviso, che il potere è ben altrimenti concreto, articolato, con suoi ben rilevabili spessori, sedi e meccanismi; e poi il potere (qualcuno ha proposto di parlare addirittura di «poteri» al plurale) ha le sue contraddizioni, le sue intercapedini, le sue illusioni, anche, e le sue cecità.

Questo discorso, e non sembri l’introduzione fuori tema, ci aiuta ad una com­ prensione della storia del decentramento a Bologna in una chiave realistica e con­ cretamente politica, senza ingenuità ma anche senza inutili schematismi o cinismi totalizzanti.

Ecco quindi che non possiamo immaginare, a priori, che a Bologna vi siano stati partiti che « spontaneamente» e in modo indolore, abbiano rinunciato alla classica legge del potere che è quella di concentrarsi, di conservarsi, di estendersi. Possiamo anzi dare per scontato che ogni parte politica, ogni centro di potere, abbia fatto sul decentramento (su una sua idea di decentramento) i propri calcoli di interesse, forse di opportunismo, e che vi abbia posto anche specifici obiettivi, aspettative di estensione della propria influenza, del proprio peso. Allo stesso modo non possiamo pensare che sia stata voluta, almeno da tutti i vertici politici e ammi­ nistrativi, una partecipazione alternativa o comunque creatrice e trasformatrice, e non piuttosto una partecipazione di consenso o almeno in funzione di una sem­ plice modernizzazione e aggiornamento dei processi decisionali.

Sappiamo però che la scelta e poi lo sviluppo del decentramento, con tutti i mutamenti nei poteri che esso (almeno in prospettiva) comporta, è una conquista e un risultato di forti lotte politiche, soprattutto fra i partiti, nella logica da un lato della maggioranza, di non farsi prendere in contropiede su valori (nel caso i valori democratici) da essa stessa affermati, ma messi, «storicamente», in dub­ bio, nei suoi confronti, anche a Bologna, dalla minoranza, e dall’altro nella logica delle minoranze di contrastare (e si pensi alla forza della storica contrapposizione ad esempio fra DC e PCI) la maggioranza, e di estendere gli spazi che alla mino­ ranza stessa sono congeniali.

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Non crediamo che sul decentramento bolognese si debba fare una storia di comodo, tutta lineare, fondata sul solo idealismo o sul solo macchiavellismo delle diverse forze protagoniste. Essa è invece partita concretamente, fin dal ’56, da una forte sfida reciproca fra la maggioranza e la minoranza sui problemi, gli strumenti, i modi del rinnovamento politico e amministrativo: la minoranza, ad esempio, facendo accusa alla maggioranza di limitarsi, sul piano amministrativo, ad una onesta ma « ordinaria » amministrazione, e, sul piano politico, di essere « mono­ litica», proponeva strumenti tesi non solo a rinnovare il comune, ma a smantellare la forza organizzativa e la presa ideologica del maggior partito bolognese (il PCI); la risposta di contrattacco della maggioranza, sicura evidentemente del suo seguito e della stessa esperienza partecipativa fatta (le « sue » consulte popolari del dopo­ guerra), implicava non solo una scelta basata sulla propria capacità democratica e di articolazione, ma una fiducia nella possibilità di estensione (anche nell’orto della minoranza?), dei propri consensi.

Per ogni forza in gioco esistevano, su questo piano, motivi di aspettative posi­ tive e preoccupazioni di rischi.

Se vogliamo poi andare subito anche al di là di queste motivazioni, che non sono però, a nostro parere, solo di copertura, possiamo constatare che in ima città come Bologna, che ha avuto la sua massima espansione, soprattutto per l’immi­ grazione dalla campagna e dalla montagna, proprio fra il ’51 e il ’61 (cfr. tavola II e tab. 1), vi era un grosso, obiettivo problema di socializzazione e di accultura­ zione, di cui indubbiamente ai partiti doveva interessare non solo l’aspetto inse- diativo, umano, sociale, ecc., ma quello politico.

Per la DC si trattava di una popolazione che, partita spesso dalle campagne e ancora più dalle montagne come una propria sicura riserva di consensi, arrivata in città poteva anche riservare sorprese; non diversamente, per socialisti e comu­ nisti, i nuovi arrivati rappresentavano pur sempre la immissione nella città di una novità, di una zona di incertezza, di una possibilità di squilibrio.

Possiamo quindi immaginare ad esempio il travaglio di una maggioranza che doveva offrire, nei quartieri, alle minoranze, altrettanti sedi in cui poter trovare argomenti e pubblico per moltiplicare e sbandierare la propria opposizione e la propria critica, che nulla escludeva potesse essere anche totale e pregiudiziale; si possono altresì intuire le parallele forti preoccupazioni della minoranza (testimo­ niate anche da nutrite polemiche apparse sulla stampa cittadina quando si avviò il discorso del decentramento) di vedere, attraverso i quartieri, estendersi la già temuta egemonia della maggioranza nella città.

È possibile quindi individuare, in tutto il decentramento, all’inizio come oggi, una intrecciata influenza di diversi patrimoni ideali e politici oltre che, beninteso, più concretamente, di diversi interessi e obiettivi politici. Il risultato è stato che il decentramento è poi divenuto qualcosa di diverso e (almeno potenzialmente) qual­ cosa di migliore da come ciascuna componente politica se lo era all’inizio prefigu­ rato. La città ne ha certamente avuto (nonostante i limiti), un grande vantaggio,

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Tavola II. - Popolazione legale del comune di Bologna ai censimenti dal 1861 al 1971 (in migliaia)

in termini di sviluppo democratico, culturale, di più equilibrato assetto urbani­ stico e dei servizi sociali. Gli stessi partiti sono diventati per certi aspetti diversi e migliori attraverso il decentramento.

Il suo avvio fu però dovuto, pur con le riserve segrete e le vischiosità che pos­ siamo immaginare, ad un loro atto di coraggio e ad una capacità di rischio che non è frequente riscontrare nel panorama politico italiano.

Il loro modo di rapportarsi, che nel ’56 era ancora pregiudiziale contrappo­ sizione « muro contro muro » (residuo di un certo manicheismo da guerra fredda che a volte sembra dare tuttora qualche sintomo in frangie di seguaci codini), agli inizi del ’60 già diveniva una gara ricca di tensioni ma, ancora, di sospetti reciproci, i quali, poi, proprio con l’avvio del decentramento, si pattuì di esorcizzare attra­ verso la fissazione di un sistema garantistico, di « regole del gioco », entro le quali tutti lealmente dovevano restare. Un modo di rapportarsi che poi, via via, almeno sui problemi del decentramento, è diventato competizione più aperta e democra­ tica, non, come alcuni sostengono, semplicemente « democraticistica».

Vi è una parte della letteratura sul decentramento e sulla partecipazione, con seguaci di diverse e anche opposte appartenenze politiche e culturali, che, con l’aria

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di scoprire chissà quale scandalosa malignità, afferma che la scelta degli organismi di quartiere e la politica del decentramento è stata una carta giocata dai partiti e dai comuni, nei primi anni ’60, per superare la propria crisi e recuperare cre­ dibilità e poi, negli anni più recenti, anche o soprattutto per svuotare le più vitali alternative extraparlamentari e di base.

Tab. 1. Superficie, popolazione residente e densità, secondo il quartiere al 1951, 1961 e 1971 Superfìcie Popolazione residente (abitanti "pTettaro) (in ettari) --- ---1951 1961 1971 1951 1961 1971 Borgo Panigaie 2.579 14.891 23.530 27.465 5,8 9,1 10,6 S. Viola 180 9.969 13.945 14.484 55,4 77,5 80,4 Saffi 264 22.850 26.696 27.577 86,6 101,1 104,4 Lame 1.002 9.119 8.526 8.914 9,1 8,5 8,8 Bolognina 475 30.379 45.986 48.047 64,0 96,8 101,1 Corticella 1.122 9.696 14.087 14.933 8,6 12,6 13,3 S. Donato 1.603 10.266 26.921 40.678 6,4 16,8 25,3 S. Vitale 1.116 32.685 41.223 41.285 29,3 36,9 36,9 Mazzini 551 7.884 23.718 41.091 14,3 43,0 74,5 Murri 324 27.460 44.269 43.208 84,8 136,6 133,3 S. Ruffillo 411 4.640 20.589 28.916 11,3 50,1 70,3 Colli 2.274 11.846 12.644 10.623 5,2 5,6 4,6 Costa-Saragozza 1.392 30.495 38.424 36.189 21,9 27,6 25,9 Barca 345 4.675 10.831 25.802 13,6 31,4 74,7 Galvani 114 31.408 24.936 20.408 275,5 218,7 179,0 Imerio 123 31.205 24.590 20.124 253,7 199,9 163,6 Malpighi 96 28.912 22.678 18.269 301 2 236 2 190,3 Marconi 102 22.146 21.279 21.956 217,1 208,6 215,2 Quartieri periferici 13.638 226.855 351.389 409.212 16,6 25,8 30,0 Centro storico 435 113.671 93.483 80.757 261,3 214,9 185,6 Bologna 14.073 340.526 444.872 489.969 24,2 31,6 34,8

Ora, dato per scontato che ogni forza in gioco cerca di « fare il proprio me­ stiere», non ci sembra vi sia cosa migliore, per i partiti e per le istituzioni (anche agli effetti di un cambiamento sociale, politico e istituzionale che ognuno può natu­ ralmente auspicare più o meno radicale), di quella di proiettarsi in modo più crea­ tivo verso il futuro. Spetterà poi alle concrete alternative giocare le proprie migliori carte nell’evolversi anziché nel «marcire» delle situazioni e dei problemi. Il loro emergere, contare, e farsi credibili sarà magari più faticoso, ma non è anche que­

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sto fisiologico, dato e non concesso che sia più difficile, o meno efficace, portare avanti una lotta alternativa in ima città che vede la presenza dei consigli di quartiere anziché in una città senza i consigli di quartiere? Ci sembra comunque altamente auspicabile che, ai vari livelli politici, istituzionali e cultura, si reagisca (e magari sempre lo si fosse fatto), ai problemi nuovi e alle crisi, come si è saputo reagire là dove si è concretamente proceduto, pur con limiti e tra contraddizioni e difficoltà alla inaugurazione di una linea politica e amministrativa, nuova come nel caso di Bologna. La situazione del nostro paese non sarebbe oggi, in ogni caso, così grave­ mente compromessa come invece è (e senza motivi di particolare euforia per nessun democratico).

Sta di fatto che, a Bologna, l’invenzione politica che con il decentramento era nata, ebbe poi una sua forza intrinseca di dispiegamento e di autonoma crea­ tività, che non ci sembra assolutamente il caso di enfatizzare, ma di cui in seguito le stesse forze che le avevano dato vita avrebbero dovuto tener conto. Dopo il primo avvio infatti, gli stessi organismi di quartiere, con la logica che è propria ad ogni entità politica e istituzionale, le istanze e le forze con essi cresciute (nelle commis­ sioni di quartiere, nei quadri e negli iscritti periferici dei partiti, nelle diverse espres­ sioni organizzate dei cittadini, ecc.) sono stati parte importante della dialettica per l’affermazione delle potenzialità del decentramento, anche se nemmeno a que­ sto proposito ci sembra utile gonfiare i risultati.

Ecco una domanda curiosa: come mai nelle città in cui il problema della partecipazione politica di quartiere è stato posto, si può dire, « a furor di popolo» (per lo più giovanile e in posizioni esterne o marginali rispetto ai partiti), con la creazione, negli ultimi anni ’60, di comitati spontanei di quartiere, il decentra­ mento stenta quasi ovunque a prendere forma e a svilupparsi organicamente (la grossa eccezione di Milano, piena di sfumature, che ha visto un notevole impegno anche dei partiti, conferma in fondo la regola). È il caso di Torino (che solo recen­ temente e con grosse contraddizioni ha dato vita al decentramento), ma anche di Firenze: in quest’ultimo caso i comitati di quartiere sono nati immediatamente a seguito dell’alluvione del 1966, dimostrandosi subito estremamente vitali e fun­ zionanti (più di qualsiasi altra organizzazione in quell’occasione), ma con una vita, che, nella quasi totalità dei casi, è stata purtroppo a termine.

Possiamo anche chiederci come mai, proprio a Bologna, sia sorta la prima espe­ rienza dei consigli di quartiere in Italia: in una città cioè che non era certo la più bisognosa di tale innovazione: né per dimensione (433 mila abitanti nel dicembre ’61, settima per grandezza fra le città italiane); né per tipo di struttura urbana (territorio limitato, urbanizzazione non disarticolata e senza frazioni staccate), né per tradizioni (gli attuali quartieri non hanno memoria degli antichi quartieri e borghi medievali, rinascimentali nè della struttura politico-amministrativa elet­ tiva per quartieri, borghi e parrocchie della fine del ’700); né per tipo di sviluppo economico sociale (crescita non certo tumultuosa della città rispetto alle mag- giori'capitali regionali del nord); né per le stesse esperienze e abitudini al

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