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Maria-Chiara Michelini

Progettare e governare la scuola

Democrazia e partecipazione:

dalla progettazione educativa all’organizzazione scolastica

FrancoAngeli

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Ristampa Anno

0 1 2 3 4 5 6 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata a qualsiasi titolo, eccetto quella ad uso personale.

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A mia madre

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Indice

Prefazione,

di

Massimo Baldacci

Pag. 9

1. Democrazia, comunità, educazione

» 13

1.1. Paradigmi della scuola come comunità

1.1.1. Democrazia e educazione: radici nel pensiero peda­

» 13

gogico del XX secolo » 21

1.1.2. Dewey e Mounier » 27

1.2. Condizioni generali per la democrazia nella scuola 1.2.1. Condizioni economiche e strutture intermedie

» 37

nell’ipotesi del bilancio sociale » 40

1.2.2. La leadership » 45

1.3. La democrazia dopo l’autonomia » 50

1.3.1. Voglia di comunità e globalizzazione » 54

1.3.2. Critica all’idea della scuola come impresa » 59

2. Fondamenti di una nuova democrazia scolastica

» 72

2.1. Le dimensioni » 72

2.1.1. Declinazioni della visione » 73

2.1.2. Prospettive di integrazione sociale » 76

2.2. La decisione » 77

2.2.1. Decisioni collettive e decisionalità diffusa » 78

2.2.2. Regole, processo, gruppo decidente » 85

2.3. La cultura della scuola » 94

2.3.1. Stile di elaborazione culturale » 100

2.3.2. Leve strategiche della cultura scolastica » 103

3. Per un modello operativo di governo democratico

della scuola

» 114

3.1. Progetto e governo a baricentro democratico » 114

3.1.1. Il governo della scuola autonoma » 115

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3.1.2. I paradigmi della progettualità d’istituto Pag. 118 3.2. Costruire il Piano dell’offerta formativa: le forme della pro-

gettazione » 123

3.2.1.1 soggetti di una collegialità integrata » 127

3.2.2. L’organizzazione del Collegio dei docenti » 131 3.3. Strumenti organizzativi e gestionali: il Piano annuale delle

attività » 138

3.3.1. L’organigramma d’istituto » 141

3.3.2. Valutare la qualità » 146

Bibliografia

» 153

8

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Prefazione

di Massimo Baldacci

Che la scuola vada vista come un’impresa o, addirittura, come un’azienda è un’idea che negli ultimi anni è stata ripetuta così di frequente da essere di­

ventata “senso comune”, sia tra i politici e i cittadini, sia tra gli stessi addetti ai lavori: gli insegnanti e i dirigenti. Si tratta di una posizione che sta acqui­

sendo la forza di un dogma. I motivi di questa tendenza sembrano chiari:

l’alone di efficienza che la nozione di “impresa” è capace di evocare giova all’immagine dei politici che se ne fanno paladini e rassicura i cittadini sulla qualità del “prodotto” scolastico; i dirigenti, poi, hanno trovato in questo qua­

dro i motivi per una nuova centralità del proprio ruolo (su cui viene a proiet­

tarsi la figura del manager), che precedentemente aveva conosciuto una sta­

gione di crisi di legittimazione; gli insegnanti, infine, sono probabilmente i meno convinti della bontà di questa idea, ma spesso l’hanno subita, vivendo il proprio disagio nei confronti della tendenza aziendalista come il segno di una propria inadeguatezza o come la cifra di una profonda incomprensione del la­

voro scolastico da parte della politica e della società.

In tutto ciò, preoccupa soprattutto la tendenza ad accettare “acriticamente”

l’idea della scuola-impresa e quella, parallela, a liquidare come conservatrici le poche voci che hanno cercato di sollevare dubbi circa la felicità di tale idea se assunta come baricentro di nuova filosofia della gestione scolastica.

L’espressione “la scuola è un’impresa”, piuttosto che una categorizzazio- ne, rappresenta una metafora. Una metafora permette di comprendere e vivere qualcosa nei termini di qualcos’altro.1 Dicendo che la scuola è un’impresa non si vuole sostenere che lo sia effettivamente, nel senso consolidato di que­

sto termine, ma che la si dovrebbe vedere come se fosse tale e agire di conse­

guenza. La questione è molto importante e delicata. Per Bateson2 ogni organi­

smo si autodescrive attraverso una metafora (nella quale si identifica). Rite-

1 Lakoff G., Johnson M., Metafora e vita quotidiana. Bompiani, Milano, 2004.

2 Bateson G., “La metafora che noi siamo”, in Iti., Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1997.

9

(8)

niamo che per un “organismo” come la scuola la scelta di una metafora ap­

propriata sia fondamentale. Tale metafora, infatti, costituisce una cornice che definisce il significato di tutti gli elementi che include e, dunque, dà senso all’insieme delle pratiche scolastiche e determina il loro orientamento. A que­

sto proposito, la scuola come impresa rappresenta però una metafora fuor­

viante.

Per favorire una crescita intellettuale, etico-sociale ed affettiva degli alunni consona ad un Paese civile, l’ambiente educativo deve essere caratterizzato in senso democratico.

Per altro, non si può pensare che la scuola possa educare alla democrazia se non è essa stessa governata in maniera democratica. Il principio della de­

mocraticità deve informare tutti i livelli, da quello educativo a quello organiz­

zativo: occorre una gestione democratica della scuola. Le decisioni concer­

nenti l’organizzazione educativa e la vita della scuola devono essere assunte attraverso una discussione partecipata negli organi collegiali (da riformare, ma anche da rilanciare) o, in ogni caso, in commissioni o gruppi di lavoro.

Questo ci pare pienamente coerente con la filosofia che informa l’autonomia scolastica, il cui significato non può essere ridotto a quello di una mera indi- pendenza degli istituti scolastici dal Centro, ma deve essere interpretato - in modo ben più impegnativo - come autodeterminazione; la quale implica - per la sua stessa logica - un processo decisionale di natura democratica.

Il limite delle filosofie gestionali di matrice economico-manageriale risie­

de qui. La metafora proposta da tali filosofie - quella della scuola come im­

presa o, nei casi peggiori, come azienda - rischia di risultare infelice.

Questa metafora, infatti, sposta l’attenzione dalla democraticità delle deci­

sioni alla loro efficienza (soprattutto nei termini di tempo necessario per la lo­

ro formazione) e corre perciò il pericolo di favorire il “verticismo” (il deci- sionismo del dirigente-manager). In questa cornice, la scuola finisce per esse­

re concepita come un’organizzazione piramidale, retta da rapporti di natura gerarchica. E questo può determinare un clima di sapore eteronomo, rendendo improbabile che l’insegnante riesca a strutturare un contesto educativo demo­

cratico. Verosimilmente, infatti, il docente tenderà a replicare nel proprio la­

voro quotidiano lo stile autocratico che respira.

In luogo della scuola come impresa, mantiene perciò attualità e vitalità la metafora della scuola come comunità, come comunità democratica che è fat­

tore e condizione della crescita umana di tutti i suoi membri.

E' questa l’idea centrale del presente volume; un’idea le cui coordinate teo­

retiche sono individuate dall’autrice nelle filosofie di Dewey e Mounier. Al di là delle ovvie differenze tra il pragmatismo del primo e il personalismo del secondo, tra i due pensatori si registra una significativa sintonia sulla rilevan­

(9)

za della comunità in una logica di valorizzazione degli individui/persone. Il primo, il filosofo americano, ha posto con forza il nesso scuola-democrazia e l’esigenza dell’amministrazione democratica della scuola, da lui sempre con­

siderata come una comunità. Lo studioso francese ha invece evidenziato il nesso tra comunità e persona, chiarendo che la comunità è la condizione per la realizzazione e la crescita della persona, e questa - al tempo stesso - è la finalità della comunità medesima.

Questo accento sulla dimensione comunitaria, beninteso, non significa che la scuola non possa far propri alcuni elementi della cultura d’impresa per ren­

dere più efficienti i propri processi; questa è anzi l’ipotesi di lavoro che viene sviluppata in questo volume; ma la cornice entro cui questi elementi devono essere posti e ricompresi deve essere quella della scuola-comunità; e - in que­

sto quadro - l’efficienza non è un valore, è solo un vincolo.3 Una sufficiente efficienza delle decisioni (nel senso di un tempo ragionevole per la loro as­

sunzione) deve perciò valere unicamente come vincolo di un processo che, nella sua essenza, deve risultare democratico e partecipato.4

A questo proposito, l’autrice fa propria la tesi secondo cui la ricerca- azione è la strategia adeguata per garantire queste caratteristiche alla proget­

tazione educativa. Questa metodologia, infatti, dà forma di indagine parteci­

pata alla programmazione, configurandola come una strategia di soluzione dei problemi della comunità scolastica, come l’applicazione stessa del metodo dell’intelligenza all’organizzazione della vita della scuola. E la democrazia, come ci ricorda Dewey, è prima di tutto un modo di vivere insieme.

Massimo Baldacci Ordinario di Pedagogia Generale

Università “Carlo Bo” di Urbino

3 Salvati M., “1 Principi e l’efficienza”, in Martinelli A., Salvati M., Veca S., Progetto 89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità, 11 Saggiatore, Milano, 1989.

4 Sartori ha mostrato in modo esemplare che le due esigenze - l’efficienza e la democraticità - sono conciliabili: G. Sartori, “Tecniche decisionali”, in Id., Elementi di teoria politica, Il Muli­

no, Bologna, 1990.

11

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1. Democrazia, comunità, educazione

1.1. Paradigmi della scuola come comunità

Proviamo a descrivere la parabola della democrazia a scuola, individuando le fasi di sviluppo che l’idea della comunità ha vissuto negli ultimi 50 anni nella scuola italiana. All’alba di questa porzione di tempo la scuola e l’educazione tutte venivano improntate al più assoluto autoritarismo, rintrac­

ciabile in diffuse pratiche quotidiane e non, che oggi considereremmo total­

mente discutibili. Si va dal potere esercitato dall’allora direttore didattico o preside sul docente, a quello, se possibile ancor più assoluto, impresso dall’insegnante al rapporto con l’alunno e con la sua famiglia d’origine, alla gestione eminentemente burocratica e verticistica delle scelte pedagogico- didattiche (programmi di insegnamento, orari, organizzazione).

Era la scuola dell’inchiostro e calamaio, pensata per chi usava la mano de­

stra e costringeva a quell’orientamento operativo i soggetti con dominanza dell’emisfero cerebrale che oggi consideriamo deputato alle attività della fan­

tasia e della creatività. La grande lezione della scuola di Barbiana è proprio ri­

ferita alla grave violenza sociale perpetrata da questa scuola corrispondente ad un modello di sapere, di intelligenza, di comunità sociale ontologicamente e permanentemente stratificata. La comunità scolastica doveva semplicemente e sapientemente funzionare da albero di trasmissione di un ordine sociale pre­

stabilito. Va da sé che in riferimento a questo modello educativo non è possi­

bile parlare di democrazia e neppure di comunità, anche se la retorica dei bei tempi andati edulcora l’immagine di una scuola che pure ebbe l’indubbio me­

rito di avviare una grande operazione democratica di alfabetizzazione prima­

ria delle masse.

I tempi maturarono, molte cose accaddero, venti di innovazione attraversa­

rono il globo, i giovani del mondo occidentale (e non solo) diedero vita a con­

testazioni radicali; nella scuola, grandi, anche se a volte anonimi, “maestri”

spesero le loro migliori energie per affermare lo spirito naturalmente demo­

13

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cratico dell’educazione e un grande processo riformatore interessò la scuola, approdando giuridicamente all’emanazione dei Decreti delegati del 1974, conseguenti alla legge delega 477 del 30 luglio 1973, con i quali venivano in­

trodotti nella scuola italiana gli Organi collegiali.

In realtà, tuttavia, per una serie di ragioni di carattere storico e ideale, le pressioni esercitate dai cambiamenti sociali incalzanti furono in qualche modo contenute dalla volontà di mantenimento degli equilibri esistenti, con un certo grado di miopia rispetto alle prospettive future e di evitamento delle grandi questioni poste.

In ragione di ciò si approdò ad una formulazione che utilizzava meccani­

smi e tecniche considerate da Gattullo e Visalberghi di «affossamento dell’innovazione, di abitudine all’ostruzionismo di maggioranza», dando vita ad un «complicato congegno delle competenze apparenti e dei vincoli reali degli Organi collegiali escogitati dal DPR 416 per mantenere il potere effetti­

vo sulla scuola nelle mani dell’apparato burocratico e dei suoi funzionari».1

Così l’istanza della democrazia diretta venne abbondantemente lasciata fuori dalla scuola.

Secondo Corradini che nel testo citato compie un lucido esame delle diver­

se ragioni e posizioni espresse dalle varie parti politiche, rintracciabili in dif­

ferenti riferimenti culturali e pedagogici, rappresentate nella scuola, si trattò di

«indicare una prospettiva per poter affrontare i conflitti scolastici, sempre più chiaramente legati alle tensioni della società, rinunciando sia all’autoritarismo che al permissivismo».2

L’approccio alla problematica si è svolto sulla base di una filosofia educa­

tiva e non sulla base di una filosofia dell’amministrazione, ragione per cui la nuova rete di Organi collegiali venne affiancata, con competenze di poca por­

tata, sia pur di altisonante intenzione, alla struttura amministrativa ed organiz­

zativa esistente. Pur nell’ambito di questo scenario di cui abbiamo solo trat­

teggiato la complessità, si aprì una stagione in cui la scuola, con la generosità complessiva che le è propria, sperimentò, anche con entusiasmo, grandi espe­

rienze, di una democrazia sia pur imperfetta. La direttività e il verticismo la­

sciarono il posto a forme di «partecipazione della gestione della scuola dando

1 Per una dettagliato esame delle complesse dinamiche storiche, politiche e culturali entro cui si inserì il processo riformatore della partecipazione democratica si vedano in particolare: Gattullo M. e Visalberghi A. (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. XI e seg.; Cives G. (a cura di), La scuola italiana dall 'unità ai nostri giorni, La Nuova Italia, Firenze, 1990; Corradini L., La difficile convivenza. Dalla scuota di stato alla scuola del­

la comunità, La Scuola, Brescia, 1975.

2 Corradini L., La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità, La Scuola, Brescia, 1975, p. 114.

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ad esse il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica».3 Si tentò di gestire la sfida della complessità, che in quegli anni si apriva, in termini di allargamento della partecipazione ai processi deci­

sionali, presupponendo, in qualche modo, che il coinvolgimento formale di studenti, genitori, docenti, forze sociali, attraverso gli organismi previsti per legge, potesse essere strumento sufficiente a garantire la democraticità dell’educazione e il contenimento delle emergenti problematiche connesse al­

la gestione dei processi di insegnamento/apprendimento e di relativa organiz­

zazione. Ancora che fosse strumento sufficiente a maturare nei soggetti della comunità la consapevolezza dei propri bisogni.

Con qualche ingenuità si equivocò confondendo partecipazione e gestione, nell’illusione che la prima potesse automaticamente inglobare e risolvere la seconda, sciogliendo i nodi della complessità in riferimento all’efficienza dei processi educativi. Così il nostro paese ha sviluppato un’organizzazione in cui si è resa invisibile la responsabilità decisionale, frammentata tra le competen­

ze attribuite agli organi individuali e collegiali, deputati, in varie fasi e misure, nei lunghi processi di scelta e gestione della stessa. Così che sembra che tutti decidano tutto, rendendo altissimi i costi delle decisioni, con esiti spesso de­

ludenti, vale a dire coincidenti con non decisioni, che lasciano aperto il terre­

no al fatalismo della consuetudine.

Non vennero inoltre considerati adeguatamente i costi decisionali4 connes­

si alla partecipazione, compresi quelli legati alla promozione della stessa, ri­

spetto alla quale è necessario motivare continuamente i soggetti del diritto.

Ne seguì una stagione di disillusione, amara, grigia, sottile. Chi in questi lunghi anni ha operato nella scuola italiana sa la fatica di motivare ad una par­

tecipazione almeno formale agli organismi della comunità scolastica, di repe­

rire semplicemente candidati per le elezioni degli Organi collegiali, spesso svuotati di senso. Pensiamo, solo per fare un esempio, ai Consigli scolastici distrettuali, che dovevano essere il crocevia territoriale di ogni progettualità scolastica, rappresentativi di forze sociali e non, smarriti, disancorati da ogni realtà, privati spontaneamente di ogni autorevolezza. Essi, insieme al Consi­

glio nazionale della Pubblica Istruzione e al Consiglio scolastico provinciale, vengono riordinati dal D. L.vo 30 giugno 1999, n. 233, emanato in attuazione della delega prevista dall’art.21, comma 15, della legge 59/97, con l’istituzione di un Consiglio superiore della Pubblica Istruzione a livello cen­

trale, di Consigli regionali dell’Istruzione e di Consigli scolastici locali, a un

3 DPR 31 maggio 1974, n. 416, art. 1.

4 Si veda in proposito: Sartori G., Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1995.

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livello territoriale più ristretto. A questi nuovi organi spetta il compito di assi­

curare rappresentanza e partecipazione alle componenti della scuola e ai di­

versi soggetti interessati alla sua vita, alle sue attività e ai suoi risultati, coe­

rentemente con l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Tuttavia questi nuovi organismi non sono stati ancora costituti, per la mancata indizione delle ele­

zioni dei relativi membri, creando un vuoto proprio là dove le scuole dovreb­

bero raccordarsi con le realtà istituzionali, imprenditoriali e culturali del terri­

torio.

Il contrappeso di questa disillusione si rinviene nella fatica della democra­

zia, percepita in chi ha continuato a sostenere processi di innovazione che riu­

scissero a sopravvivere alla pletora di organismi e procedure, alla ragnatela di lacci e lacciuoli, formalmente nati per garantire la partecipazione, divenuti di fatto impedimento alla gestione dei processi. Ed ecco allora aprirsi una ulte­

riore stagione, che stiamo ancora vivendo, quella del mito dell’efficienza, che ha trovato nell’idea della scuola come impresa, la sua traduzione. Più avanti la analizzeremo in maniera maggiormente dettagliata, per ora ci limiteremo a sintetizzare l’istanza che essa esprime: legittimamente aspira a rispondere al problema dello scadimento degli ideali democratici, attribuendo ad una demagogica gestione della scuola, la responsabilità della mancata qualità dell’offerta formativa della stessa, meglio ancora dei risultati ottenuti, in ter­

mini di prodotti-apprendimenti da parte degli studenti. In questa logica l’accento si sposta dalla partecipazione alla gestione, di cui si profilano con estrema nettezza le responsabilità attribuite a soggetti precisi. Nasce la figura, vorremmo dire il mito, del Dirigente scolastico/manager che sceglie uno staff di sua fiducia, attiva processi, assume decisioni di cui risponde, al termine di una valutazione, esattamente come un dirigente di un’industria che risponde alla committenza dei suoi risultati, pagando di persona (quota stipendiale co­

me indennità di risultato, perdita di titolarità di sede e successiva mobilità per semplice designazione del Direttore Scolastico Regionale etc.). Ma non può funzionare questa metafora (più avanti diremo che non deve funzionare), non fosse altro per il fatto che essa non può convivere con la logica della demo­

crazia, così come è stata interpretata nella scuola italiana in questi decenni.

S’intenda: attribuire la qualifica di Dirigente scolastico ai Capi d’istituto ha costituito comunque un passaggio obbligato per l’attuazione dell’autonomia scolastica, sulla base della quale ciascun istituto costruisce il proprio progetto complessivo, elabora e gestisce il disegno didattico e l’organizzazione delle attività formative, la gestione finanziaria, i rapporti con la più vasta comunità sociale e civica (enti locali, mondo produttivo, società civile). Ma non è suffi­

ciente invocare la gestione unitaria dell’istituzione scolastica da parte del diri­

gente, per sciogliere i nodi della democrazia e della efficienza della gestione 16

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scolastica, per cui il dirigente deve essere garante della seconda, attraverso la regia della prima. Banalmente un Dirigente scolastico, anche di qualità eccel­

lente, non può in realtà rispondere dei risultati di decisioni di indirizzo di poli­

tica scolastica, che si traducono nel Piano dell’offerta formativa, che giuridi­

camente non prevede un suo ruolo, ma l’elaborazione e delibera da parte del Collegio dei docenti, sulla base delle scelte generali di indirizzo del Consiglio d’istituto.

Questa metafora sta continuando ad affascinare anche perché è portatrice di un’illusione: quella di vedere personificata nel Dirigente scolastico la ga­

ranzia della qualità delle scelte e dei processi, della bontà degli strumenti, dell' efficacia dei mezzi, della soluzione della conflittualità di un contesto arti­

colato come è quello di una istituzione scolastica, del contenimento della complessità di un mondo che inesorabilmente dilaga e coinvolge ogni conte­

sto.

La metafora dell’impresa è un dispositivo rassicurante che, almeno appa­

rentemente, non contrasta con la democraticità della scuola; al contrario sem­

bra attribuire maggior peso decisionale a componenti importanti quali le fa­

miglie degli alunni. In realtà essa risponde non ad un paradigma comunitario, quanto ad un paradigma individualista, in riferimento alla domanda formati­

va, alla risposta e alla garanzia della qualità e della natura della stessa. A que­

sto paradigma corrisponde in realtà non l’idea di una scuola come costruzione democratica di valori a partire da differenze su cui edificare una comunità, quanto l’idea di una scuola scelta da persone unite da interessi e valori comu­

ni, in cui quindi il “consenso” non è frutto di una crescita collettiva nel “gio­

co” della comunità, quanto della registrazione, a suon di indagini statistiche, del medesimo orientamento culturale di gruppi sociali. L’affermazione della metafora della scuola come impresa esprime l’esigenza di alleggerimento e la ricerca di un nuovo modello, ma la risposta che offre, a nostro modo di vede­

re, risulta inadeguata. Contemporaneamente l’autonomia come processo com­

plessivo che ha segnato radicalmente l’innovazione della scuola si configura come risposta alla complessità in termini di assunzione comunitaria di respon­

sabilità. Infatti l’autonomia altro non è se non l’affermazione della centralità della comunità locale, che fa perno sulla comunità scolastica, nella progettua­

lità educativa complessivamente considerata. Sottesa all’autonomia sta la co­

munità come soggetto cui viene affidato uno spazio di libertà, l’autonomia appunto, nel decidere il bene educativo per quel territorio.

In questi anni nella scuola, ai suoi margini o nel cuore stesso dei suoi pro­

cessi, accanto all’implementazione di pratiche aziendalistiche rispondenti all’idea dell’impresa, incessantemente si ricreano relazioni comunitarie e le­

17

(15)

gami che si sottraggono alla logica del mercato o a quella burocratico- gerarchica dello Stato.

Ricerca di un nuovo modello, ancora confusa e contraddittoria in cui con­

vivono elementi ed istanze opposte, forse proprio questa è la spiegazione dell’unica mancata riforma della legislazione scolastica: quella degli Organi collegiali. Nell’ultimo decennio si sono fatte e cancellate con una sorprenden­

te e problematica velocità riforme di ogni segmento dell’istituzione scolastica, mentre si è continuamente arenata nelle maglie giuridiche quella dell’organiz­

zazione democratica della scuola. Non è ancora univoco il modello emergen­

te, non è ancora stato scelto fra ipotesi che si rifanno a universi valoriali in­

conciliabili. Non si è ancora deciso se la scuola è una comunità o un’impresa, se risponde a logiche di mercato o di senso che va oltre. Ma rimandiamo all’apposito capitolo l’approfondimento di questo nodo problematico.

La scuola, quindi, rispetto all’idea di comunità sembra essere alla ricerca di un nuovo modello secondo una parabola evolutiva analoga a quella delle società postmoderne5 così come essa viene oggi mostrata dalla riflessione complessivamente considerata della filosofia politica e delle scienze sociali contemporanee. Questa ci fa comprendere che la categoria di comunità non è totalmente formalizzabile in un modello scientifico ed euristico, valido una volta per tutte, ma è destinata a mantenere un alone di indeterminatezza sia sul piano descrittivo, che su quello normativo. Ed è sempre quella riflessione che ha riabilitato la nozione di comunità, considerata come

modello di ordine sociale, fondato sul principio della solidarietà spontanea, che noi ri­

troviamo in ogni società complessa, in combinazione variabile con il mercato, retto dal principio della competitività, e con lo Stato, che obbedisce al principio del con­

trollo gerarchico.6

Ripensare l’idea di comunità significa riportare in chiaro i paradigmi che la caratterizzano facendo da spartiacque tra ciò che comunità non è, oltre che ricentrarsi su princìpi che ri-orientino la complessità del soggetto e, contem­

poraneamente, del contesto sociale e culturale di riferimento.

Riguardo all’idea di individuo, su cui fa perno la riflessione più contemporanea circa l’idea di comunità, facciamo nostro il punto di vista di Francesco Fistetti quando afferma:

5 Si veda in proposito l’interessante ricostruzione operata da Fistetti F., Comunità, Il Mulino, Bologna, 2003.

6 Ivi, p. 8.

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Nelle società democratiche l’identità dell’individuo è un nodo intricato di figure so­

ciali e giuridiche: cittadino, soggetto di diritti, anima cristiana, lo che sporge sull’Es e cosi via. [...] sfugge la complessità di questa costellazione che fa del soggetto un “io multiplo”. [...] il dissenso critico e l’autonomia individuale del soggetto sono valori preziosi ed irrinunciabili della modernità che non possono essere sacrificati a benefi­

cio delle tradizioni.”7

La recente riflessione di Fistetti al riguardo, di particolarmente lucidità, prosegue individuando nella condivisione e nel dono i due paradigmi essen­

ziali della comunità. Riguardo al primo egli afferma che esso coincide con l'essere con, come dato, vorremmo dire, ontologicamente costitutivo dell’in­

dividuo. La comunità non è un’aggiunta dall’esterno al soggetto, quanto la na­

tura stessa del soggetto che è, appunto, essere con. In questo senso l’individuo è sia singolare che plurale, in considerazione del fatto che la sua sussistenza è solo in quanto condivisione di una comunità. Recuperando quella che per De­

wey è una autentica idea di comunità, essa consiste si nel “condividere” dei beni e dei valori, ma non nel senso di

dividere una cosa materiale in parti fisiche, bensì nel senso di prendere parte, giocare un ruolo.[...]La comunità non ha nulla a che fare con la distribuzione di un bene fisi­

co, ma se mai somiglia al partecipare ad un gioco, ad una conversazione, ad un dramma, ad una vita familiare.8

Essa è intesa quindi come esposizione comune degli uni agli altri, ove 1’esistenza è per definizione con-divisa, cioè costitutivamente aperta alla comprensione dell’altro. Il secondo paradigma, che discende direttamente dal primo, è quello del dono. Questa categoria antropologica elaborata da Marcel Mauss, è stata riportata in auge dalla rivista Revue du Mauss del Movimento antiutilitaristico nelle scienze sociali9. Nel suo Saggio sul dono (1923-24) Mauss ha mostrato la centralità della logica del dono, meglio, del triplice ob­

bligo di dare, ricevere, ricambiare, che caratterizza e forma i rapporti sociali di una comunità. Esso si propone come un nuovo paradigma, identificativo della logica della ad-sociazione tra gli attori sociali, cioè del movimento attivo del riconoscimento per un agire insieme nella sfera pubblica. In questo senso il dono è una logica che continuamente ricompone interno ed esterno, amico e nemico, guerra e pace. Esso è l’origine di tutti i dispositivi cooperativi di pro­

duzione e di comunità.

Ivi, p. 162.

8 Dewey J. e Tufts J.H., Ethichs, Holt & Company, New York, 1947, p. 87.

9 Caillé A. e Godbout J.T., Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

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Assumere come centrali e costitutivi i paradigmi della condivisione e del dono significa fare proprio il concetto di comunità nell’accezione di legame sociale che continuamente si lacera e viene riprodotto a partire dalle istanze più diverse di riconoscimento reciproco e di produzione di una specifica iden­

tità. Per questo essa è punto di confluenza, sempre mobile, di un complesso gioco interattivo. La scomposizione e la ricomposizione di tale confluenza non è quindi da considerarsi come elemento disgregante, ma come elemento costituente la comunità.

Comunità che è comunità sociale, nella accezione affermata da Parsons, di comune orientamento culturale, largamente (se non uniformemente o unani­

memente) condiviso dai suoi membri e che è il fondamento dell’identità so­

ciale.10

Alla luce di ciò le trasformazioni che si realizzano o si rendono necessarie nella vita comunitaria altro non sono che cambiamenti della forma della co­

munità stessa, funzionali alla vita e alla vitalità di una realtà che ha come pro­

prio specifico il continuo ricrearsi nell’intreccio mutevole delle relazioni e della comunicazione tra i suoi componenti. La democrazia altro non è che la forma del cambiamento, nel senso che esso avviene nella modalità del massi­

mo coinvolgimento possibile di tutti i soggetti interessati.

In questo senso l’idea della comunità e le sue forme di vita rappresentano l’affermazione della centralità della dimensione etica (i principi regolativi del­

le istituzioni), teleologica (le concezioni del bene di individui e gruppi con i rispettivi fini da perseguire) e storica (il soggetto è sempre profondamente ra­

dicato in un contesto, in un luogo e in un tempo, con progetti e affetti di cui non può essere privato). Non esiste un soggetto trascendentale, capace di vi­

vere al di fuori della comunità e dell’esperienza.

Tornando alla scuola italiana pensiamo che molti degli eventi che oggi la riguardano direttamente o indirettamente, tante delle immagini che su essa si proiettano, siano da interpretare come l’emergere di un bisogno diffuso di comunità. Pensiamo, ad esempio, all’eccessiva enfasi vissuta in questi anni ri­

spetto all’autonomia, divenuta un archetipo della soluzione di ogni problema della scuola. L’autonomia ha catalizzato ogni discorso di innovazione scola­

stica e di miglioramento del reale. Come abbiamo già detto, all’autonomia in tal senso si è fatto corrispondere, non senza ingenue esagerazioni, il potere taumaturgico di affidare ad una comunità locale la soluzione di ogni male del­

la scuola.

10 Parson T., Sistema politico e struttura sociale, Giuffrè, Milano, 1975, p. 23.

20

(18)

Pensiamo, solo per fare un altro esempio, al ruolo attribuito alla scuola, nel discorso di senso comune, ogni qual volta fatti drammatici lacerino quelli che vengono percepiti come valori assoluti, che non possano essere messi in di­

scussione: il rispetto della vita, il rispetto dell’infanzia, la convivenza civile.

Che si tratti dell’attentato alle torri gemelle dell’ 11 settembre 2001, o del plu- ri-omicidio di Novi Ligure, della pedofilia o delle stragi del sabato sera, ogni qual volta venga lacerato il condiviso orizzonte di senso, si leva da ogni parte, a gran voce, il richiamo al compito educativo della scuola nella ricostruzione del tessuto valoriale, vale a dire nel rifare comunità. Ogni qual volta ciò che è più unanimemente condiviso, venga violato in modo radicale e drammatico si chiede alla scuola di aprire dialoghi, di capire le ragioni, di pensare itinerari, divenendo luogo di ricerca e di costruzione (o ricostruzione) di ciò che ab­

biamo in comune. In una parola si chiede alla scuola di essere comunità nel senso più alto del termine.

Balza all’occhio l’incoerenza con la logica di mercato che costantemente viene proiettata sulla scuola, cui si contestano gli scarsi esiti, i deficit di pro­

dotto. Incoerenza che è sintomatica del fatto che nella scuola e al di fuori di essa il bisogno di comunità non riesce ad essere riconosciuto, è ancora latente, impantanato nelle maglie di un disagio inespresso, quindi non ancora formula­

to in termini di problema, secondo la grande lezione di Vertecchi, come avre­

mo modo di approfondire più avanti.

E allora dopo la stagione della comunità statica ed autoritaria, dopo quella della partecipazione, dopo la disillusione, dopo quella dell’impresa come sur­

rogato efficientista di comunità, può essere formulato un interrogativo: quale comunità dopo la “fine” di tutte le comunità? Quale comunità capace di supe­

rare l’aporia comunità/impresa, utilità/dono, efficienza/idealità? Dovrà essere una comunità capace di autoriflessione attorno a tali aporie, che interpreti la propria identità come costruzione dialettica, continua, problematica delle anti­

nomie cui abbiamo fatto riferimento, non risolvibili se non in termini di me­

diazione, di integrazione riflessiva e critica tra le posizioni espresse dai due poli.

1.1.1. Democrazia e educazione: radici nel pensiero pedagogico del XX secolo

Il

Il tema del rapporto tra democrazia e educazione è una costante della ri­

flessione pedagogica del XX secolo, rintracciabile in studiosi di differenti scuole di pensiero, anche in risposta alla sfida dei totalitarismi, che lo hanno segnato in maniera estrema. Possiamo affermare che la prima metà del secolo,

(19)

in questo senso, si è configurata come esplicitazione delle ragioni pedagogi­

che fondanti la democrazia, sia nell’ambito della prospettiva pragmatista che in quella più idealista e spiritualista, ma pur sempre di impronta progressista.11 A titolo meramente indicativo ricordiamo che la grande lezione di Dewey, con particolare riguardo a quella di Democrazia e educazione del 1916, in cui l’autore dichiarerà di voler indicare «degli scopi costruttivi e dei metodi dell’educazione pubblica osservati da questo punto di vista»,12 è stata ripresa da William Kilpatrick, il quale sosterrà, nel 1929, in Educazione per ima civil­

tà in cammino, che l’educazione rinnega se stessa quando usa il sistema dell’autocrazia e che democrazia è quella forma di vita che dà a ciascun indi­

viduo la migliore possibilità per il proprio potenziamento come membro di una società interdipendente, cioè i cui membri fanno assegnamento uno sull’altro, ma anche da Carleton W. Washburne in Filosofia vivente dell'educazione (1940). Sergej Hessen (1937) in Scuola democratica e sistemi scolastici aveva sostenuto la stretta affinità che collega la problematica peda­

gogica e scolastica alla problematica politica della democrazia, congiunta- mente alla necessità di approfondimento e di maggiore teorizzazione in tal senso. In altra direzione troviamo, tra gli altri, Maritain, ma anche Dottrens e Mounier, che mettono in evidenza la radice evangelica della democrazia, nell’ambito di una visione della società intesa come organizzazione centrata sulla persona, finalizzata al bene comune e strutturata in maniera pluralista.

Sarà Maritain ad affermare che

la democrazia è un paradosso e una sfida alla natura umana.[...] e sarà in continuo pe­

ricolo se la sua sorgente non sarà posta abbastanza in alto. [...] ed è destinata al suici­

dio una democrazia che non interagisca con l’educazione.13

Il pedagogista svizzero Dottrens, dal canto suo, specifica che la democra­

zia implica un corrispondente metodo educativo, esteso poi, per una sorta di contagio alla famiglia, alla scuola, alla società, tanto da concludere che l’educazione della persona è una funzione della democrazia, ed è per questo che l’avvenire della democrazia dipende dalla validità della sua educazione.

11 Si vedano al riguardo: Kilpatrick W.H., Educazione per una civiltà in cammino, La Nuova Italia, Firenze, 1948, Washburne C. W., Filosofia vivente dell’educazione, Le Monnier, Firen­

ze, 1969, Hessen S., Scuola democratica e sistemi scolastici, Armando, Roma, 1959, Dottrens R., Educazione e democrazia, Le Monnier, Firenze, 1975, Entwistle H., Educazione politica e democrazia, Lisciani e Zampetti, Teramo, 1977, Litt T., Natura e compiti dell'educazione poli­

tica, Providente, Messina, 1971.

12 Dewey J., Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 2000, prefazione al testo.

13 Maritain J., Cristianesimo e democrazia, Vita e pensiero, Milano, 1977, pp. 56-57.

(20)

Dopo il secondo conflitto mondiale il dibattito su questo tema continuerà ad esempio con Harold Entwistle che in Educazione politica e democrazia (1946) affermerà il legame indissolubile tra l’autentica democrazia e l’educazione, riecheggiando quanto sostenuto da Theodor Litt nel 1954 in Na­

tura e compiti dell'educazione politica, il quale si richiamerà espressamente a J. Dewey nel considerare la democrazia frutto di un clima sociale e della dire­

zione del movimento della competizione di opposte proposte ed esigenze, quindi frutto della chiarezza di giudizio dei cittadini, dunque del risveglio, at­

traverso l’educazione, di tale illuminato giudizio nei giovani.

Consapevoli dell’ampiezza della riflessione e della varietà dei riferimenti possibili entro e oltre lo scenario appena tracciato, scegliamo di sviluppare più da vicino il contributo offerto al tema da Dewey e da Mounier. I due autori of­

frono, a nostro avviso, due contributi esemplari delle due correnti di pensiero, quella della pedagogia laica e quella della pedagogia cattolica, le quali, nell’intreccio delle linee di convergenza, possono contribuire alla rifondazio­

ne di una pedagogia della democrazia.

Dewey e Mounier che, per quanto è dato sapere, non ebbero occasioni di confronto, anche se per un tratto furono contemporanei, esprimono una ten­

sione etica e politica affine, pure originata da humus culturali e politici molto diversi: quello della filosofia americana pragmatista e quello della filosofia europea spiritualista. Il loro pensiero complessivo ha nell’educazione il centro irradiatore ed una consonanza forte riguardo al tema centrale del presente la­

voro: l’educazione come fonte irrinunciabile della democrazia. Questo tema poggia, in entrambi, su due pilastri, pur diversamente strutturati e bilanciati: la ricostruzione della soggettività e la fondazione di una nuova comunità demo­

cratica. Per entrambi, infatti, il senso della democrazia, lungamente ricercato, si riconduce ad una nuova concezione della soggettività, ad un nuovo “way of life” del soggetto, in quanto la costruzione della comunità, della persona di persone per Mounier, della Grande Comunità, per Dewey, passa attraverso la

partecipazione corresponsabile di tutti i soggetti. Dirà Mounier:

definiamo democrazia, con tutti i qualificativi e i superlativi necessari per non con­

fonderla con le sue minuscole contraffazioni, quel regime che si basa sulla responsa­

bilità e l’organizzazione funzionale di tutte le persone costituenti la comunità socia­

le.14

Gli farà eco Dewey:

14 Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica Editrice, Bari, 1984, p. 230.

(21)

a me sembra che l’essenza della democrazia come modo di vita si possa esprimere come la necessità della partecipazione di tutte le persone mature alla formazione dei valori che regolano la vita degli uomini associati. [....] La fede democratica nell’uguaglianza implica che ciascun individuo abbia il modo e la possibilità di forni­

re il contributo di cui è capace.15

Su questa fede democratica si baserà per entrambi il senso dell’impegno formativo ed il ruolo in esso affidato alla scuola nella costruzione o ricostru­

zione della individualità, intesa come possibilità offerta a ciascuno 'di ricono­

scere e sviluppare le proprie potenzialità necessarie alla partecipazione alla vi­

ta comunitaria e alla formazione dei valori e delle regole di edificazione delle stesse. In Dewey ciò si identificherà in un nuovo individualismo sociale, aper­

to all’alterità, ma anche attento allo sviluppo completo della personalità, al rinvenimento di quella dimensione della formazione che scopre le vocazioni e le potenzialità del soggetto e chiarisce le embedded powers, le facoltà racchiu­

se, non espresse che l’individuo deve esprimere nella realtà sociale. Una rico­

struzione basata sull’attività trascendentale del pensiero, come processo di ri­

cerca di valori che siano meritevoli di attenzione. Nella teorizzazione di De­

wey, per complessi motivi di carattere filosofico e religioso, si parlerà appun­

to di individuo e non di persona che è per Mounier il volume totale dell’uomo, un’unità, un assolutol6, non riducibile all’idea di individuo, inteso come ma­

nifestazione della persona alla superfìcie, né alla coscienza che ciascuno ha di se stesso, né alla personalità, compromesso tra l’individuo e i personaggi e le approssimazioni più sottili della nostra vocazione. Alla concezione del pensie­

ro di matrice deweyana in Mounier fa da contrappeso l’idea di rinascimento, di rivoluzione personalistica e comunitaria. Ma rileggendo e sovrapponendo le due teorizzazioni ciò che traspare in filigrana non sono le differenze termino­

logiche e di accento, quanto la comune tensione etica per l’affermazione dell’uomo come valore su cui fondare la comunità e su cui incardinare un in­

faticabile impegno educativo.

Il comune denominatore rispetto all’idea di democrazia che ne consegue è quella della democrazia come ideale regolativo, come continua e progressiva costruzione di valori comuni secondo la deweyana continuità mezzi-fini, degli ends in view, come continua elaborazione e ricerca. In sintesi democrazia co­

me tensione su cui innestare ogni azione intesa come

15 Dewey J., L'educazione di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pp. 429-433.

16 Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica Editrice, Bari, 1984, p. 77.

(22)

struttura tangibile del nostro pensiero. Agire significa mettere in moto i nervi, ergere il busto, tendere i muscoli. Agire significa governare e creare. [...] ed anche in questa occasione, nell’azione, siamo ancora una volta debitori dello spirito.17

Ideale regolativo che dà il segno della curvatura educativa dell’intera ri­

flessione dei due autori: così alta e assoluta l’idea di comunità, quanto forte la consapevolezza delle continue, difficili mediazioni operative da porre in esse­

re tra quell’ideale e la sua concreta realizzazione storica. Rintracciamo questo sforzo nella lucida analisi degli stadi del sociale, operata da Mounier, così come nella distinzione deweyana in idea massima di “grande comunità” e in idea media o minima della stessa.

Crediamo che tali consonanze siano legate ad alcune caratteristiche para­

digmatiche che accomunano i due autori.

La prima: Dewey e Mounier percorrono con la propria riflessione le tra­

sformazioni culturali, sociali e politiche del tempo al punto che, in entrambi, l’intreccio tra elaborazione del pensiero ed eventi storici è inestricabile e i grandi temi della società in cui essi vivono sostanziano tutta la loro vita di pensatori.

La seconda: rispetto alla complessità culturale, sociale e storica, i due auto­

ri si propongono un ruolo di annodamento e sintesi dei più significativi con­

tributi.

Questa caratteristica fa dire al decano degli studiosi americani di Dewey, Me. Dermott,18 che il pensiero deweyano è da considerare un pensiero a ra­

gnatela, segnato da linee di teorizzazione sistematica, ma fortemente ancorate agli eventi politici e casuali della sua esistenza che hanno dato orientamenti significativi e svolte alla sua concezione del mondo.

Ciò significa che

il nodo cruciale della filosofia deweyana è quindi quello di teorizzare la democrazia attraverso un ripensamento complessivo della filosofia, basato sulla definizione di una

“terza via” tra l’idealismo e il realismo, e dell’educazione, considerata “progressiva”

in quanto espressione di una continua scoperta del soggetto in formazione nella sua complessità e problematicità.19

17 Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica Editrice, Bari, 1984, p. 38.

18 Me Dermott J. J., “The philosophy of John Dewey”, cit. in Spadafora G., John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma, 2003, p. 13.

19 Spadafora G., John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma, 2003, p.

19.

(23)

Mounier, dal canto suo, ha come costante punto di riferimento non solo cronologico la realtà degli anni ’30. Anni che segnarono una svolta,20 per le trasformazioni radicali delle strutture economiche, ideologiche e politiche, i- stituzionali, oltre che delle creazioni dello spirito, le quali diedero vita, com­

plessivamente, a ciò che definì le désordre établi..21

Egli esamina quelli che considera i due motivi concomitanti e ricorrenti fra di loro: l'individualismo, metafisica della solitudine integrale e il capitalismo, principio metafìsico dell'ottimismo liberale22

Essi a loro volta producono anonimato, come smarrimento del senso dell’uomo, e primato della produzione e del denaro, alienando l’uomo e rendendolo soggetto alla tirannide più subdola.

L’individualismo e il capitalismo vengono così analizzati nel tentativo sto­

rico riordinativo, e cioè il fascismo, in contrapposizione al collettivismo, che troverà la sua radicalizzazione politica nel comuniSmo. Occorre anche dire che l’opposizione di Mounier all’individualismo e al capitalismo, come e- spressione del disordine stabilito, è netta e totale; nei riguardi invece del mar­

xismo l’opposizione non è meno netta, tuttavia c’è una attenzione al recupero di alcune motivazioni ritenute valide. Rispetto ad esse il tentativo è appunto quello di operare un riannodamento con i princìpi, di origine evangelica, che daranno vita al personalismo comunitario.

Di fronte a due mondi diversi, ma segnati da drammi epocali (pensiamo solo ai due conflitti mondiali, alle sfide realmente poste dai due totalitarismi, quello nazista e quello comunista, che si imponevano e contrapponevano se­

gnando indelebilmente la storia dell’umanità, alla gravissima crisi economica mondiale del 1929, che ebbe in Wall Street il suo epicentro) specularmene i due autori si pongono come protagonisti appassionati della storia a loro con­

temporanea e fortemente decisi, con il poderoso impegno del loro pensiero, ad indicare nell’educazione la strada maestra dell’assunzione in carico delle crisi sociali e storiche del proprio tempo.

20 L’espressione richiama il titolo di un volume di Daniel Rops H., Les années tournantes, Ed.

du Siècle, Paris, 1932.

21 Il concetto di désordre ricorre costantemente nelle pubblicazioni di Mounier già a partire dal­

le citate Rivoluzione personalista e comunitaria e Le personnalisme; sull’espressione désordre désordre établi si veda in particolare il numero di Esprit del marzo 1933, “Rupture de l’ordre chrétien et du désordre établi”.

22 Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ecumenica Editrice, Bari, 1984, p. 84 e seg.

(24)

1.1.2. Dewey e Mounier

Dewey (1859-1952) ha ispirato e caratterizzato significativamente il pen­

siero italiano, soprattutto nel mondo laico, configurandosi come punto di rife­

rimento teorico di una politica sull’educazione.23

La sua influenza è rintracciabile in maniera estremamente significativa an­

che nella prassi educativa e nella produzione giuridica e normativa che ha ac­

compagnato le più importanti trasformazioni del sistema scolastico italiano.

Mounier (1905-1950) non è, propriamente parlando, un pedagogista. Dife­

se fortemente le libertà ed i diritti dell’uomo fino al sacrificio personale: ri­

cordiamo, infatti, che nel 1942 dopo aver subito la censura e l’interdizione della rivista Esprit, venne arrestato e imprigionato per le sue idee, lasciando in seria difficoltà la moglie con la figlia cerebrolesa, a seguito di una encefalite infantile, tanto da essere costretto anche ad uno sciopero della fame.

La sua passione per l’uomo, congiunta ad una lucida volontà di incidere positivamente nel l’arroventato terreno della società contemporanea, origina il suo infaticabile impegno intellettuale, per questo il suo pensiero si caratterizza in chiave educativa e pedagogica.

Per il suo intento complessivo la proposta personalista di Mounier è stata definita etica e pedagogia dell’impegno.

Il concetto di democrazia che non potrebbe essere eliminato dal pensiero di Dewey, senza perderne il senso, può essere considerato, a ragione, fonda­

mento della sua architettura. Proprio per questo esso è di difficile definizione, tanto da far dire a Cambi:

nozione inquieta e inquietante, ieri come oggi, di democrazia, la cui definizione e il cui modello in progress diventa di difficile fissaggio. La ricchissima e complessa ri­

flessione dell’ultimo Dewey - soprattutto - ci illumina proprio, e dialetticamente e transazionalmente, su quel concetto difficile, offrendoci alcune vie di risoluzione.(...) Ma qui, e proprio per questo, l’alta e sofisticata riflessione di Dewey sulla democrazia ci sta di fronte come un iceberg inquietante e come un memento inquieto.24

Proviamo a tracciarne alcuni profili.

11 Su questo tema si vedano: Cambi F., La scuola di Firenze. Da Codignola a Laporta. 1950- I975, Liguori, Napoli, 1982; Spadafora G., Interpretazioni pedagogiche Deweyane in America r in Italia, Università di Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, Catania, 1997; Bellatalla L., J.

Dewey e la cultura italiana del Novecento, ETS, Pisa, 1999.

24 Cambi F., “L’educazione per la democrazia e la democrazia nell’educazione. Itinerari politi­

ci-pedagogici di Dewey (prima e dopo il New Deal)”, in Spadafora G. (a cura di), John Dewey.

Una nuova democrazia per il XXI secolo, Anicia, Roma, 2003, pp. 175-176.

(25)

Democrazia non è semplicemente una forma di governo e, se anche diven­

ta tale, questa è soltanto espressione della democrazia come concezione socia­

le ed etica.

Per comprenderla nel pensiero deweyano dobbiamo recuperare e fondere le idee di progresso, azione sociale, partecipazione alla consapevolezza socia­

le.

Questo grappolo di idee esprime il senso essenzialmente positivo di storia e di società dell’autore, il divenire come forma del destino umano e come uni­

co vero scopo dell’agire. Potremmo sinteticamente dire il fare per il divenire.

Nel 1939 durante un banchetto in occasione del suo ottantesimo comple­

anno Dewey afferma che

dobbiamo giungere a comprendere col pensiero e con le azioni che la democrazia è personale modo di vita individuale; il che implica possesso e uso continuo di certi at­

teggiamenti e comportamenti, che formano il carattere di una persona e determinano desideri e scopi in tutte le situazioni della vita.25

La democrazia è un modo di vita individuale: in questo profilo rintraccia­

mo una grande affinità con il pensiero di Mounier. Modo di vita che è essen­

zialmente progresso e riforma sociale.

Questo modo di vita individuale realizza la partecipazione alla vita della società, nel senso indicato da Dewey stesso di formazione dei valori che rego­

lano il vivere degli uomini, intesi come necessità per il benessere generale e collettivo, oltre che del pieno sviluppo degli individui.

Ed è in questa cornice che si comprende il significato e il ruolo dell’educazione e, in essa della scuola, distillati efficacemente ne Il mio credo pedagogico, pubblicato originariamente nel 1897, fin dal suo incipit: «Ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie».

L’educazione altro non è che quel processo dapprima inconsapevole, via, via più cosciente, con cui ogni individuo plasma le proprie facoltà, condivi­

dendo le risorse morali e intellettuali che la civiltà è riuscita a consolidare fino a quel momento.

L’educazione quindi come partecipazione alla cultura di un popolo ma, specularmente e reciprocamente, «l’educazione è il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale». L’educazione quindi non è solo strumento di formazione degli individui ma anche crescita della società.

25 Dewey J., The Political Writings, cit. in Putnam A.R., “La democrazia come modo di vita”, in Spadafora G. (a cura di), John Dewey, una nuova democrazia per il XXI secolo, p. 177.

(26)

| . . . ] mediante l’educazione la società può formulare i suoi scopi, organizzare i suoi mezzi e le sue risorse, e plasmarsi così con definitezza e con economia nella direzione m cui desidera muoversi.26

Dewey ci consegna una riflessione poderosa sul rapporto critico e dialetti­

co tra democrazia e educazione, basti pensare al volume interamente dedicato all’argomento nel 1915 e pubblicato nel 1916, riflessione così importante da costituire un filo conduttore, che, come un fiume carsico, riemerge sistemati­

camente, segnando fasi e sviluppi evolutivi di grande spessore. Riflessione al cui respiro non è possibile rendere giustizia in poche righe, ma che certamente vu nel senso di un rapporto tensionale tra educazione e democrazia, di vitale importanza per una società progressista che nell’evoluzione e nella crescita trovi la sua identità.

L’educazione è il motore della democrazia e la democrazia è lo scopo cen­

trale dell’educazione ed entrambi sono rispettivamente metodo e mezzo del progresso sociale.

La democrazia è il metodo con cui sia la società che l’educazione operano questo processo. Democrazia e educazione sono termini che possono essere letti solo in dissolvenza, nella sfumatura e nello sconfinamento dell’uno nell’altro o, meglio ancora, nella reciprocità, nel rimandarsi continuamente l'un l’altro, per sussistere e per definirsi, nella specularità, intesa come il gio­

co di senso che esiste tra il segno e il significato, tra la forma e la sostanza.

Per questo la fede nella democrazia è un tutt’uno con la fede nell’espe­

rienza e nell’educazione, là dove per esperienza Dewey intende la libera inte­

razione degli essere umani con gli ambienti circostanti che, sola, consente la conoscenza delle cose.

| . . . ] La democrazia è il credo nella capacità dell’esperienza umana di generare gli scopi ed i metodi con i quali l’ulteriore esperienza crescerà in ordinata ricchezza [ . . . ] La democrazia è la fede che il processo di esperienza è più importante di ogni risulta­

to speciale che venga raggiunto, così che i risultati speciali raggiunti hanno, in defini­

tiva, valore solo se sono usati per arricchire e ordinare il predetto processo. Poiché il processo dell’esperienza può essere educativo, la fede nella democrazia è tutt’uno con la fede nell’esperienza e nell’educazione.27

26 Per tutte le citazioni di questo capoverso si veda Dewey J., L’Educazione di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. 16 e seg.

27 Dewey J., Political Writings, cit. in Putnam A. R., “La democrazia come modo di vita”, in Spadafora G. (a cura di), John Dewey, una nuova democrazia per il XXI secolo, p. 189.

(27)

Quando più avanti ci occuperemo di cultura dell’impresa e di Qualità tota­

le, dovremo necessariamente tornare a questo nodo, perché esso costituisce la scelta di fondo, la teleologia in cui muoversi ed operare, in cui scegliere stru­

menti e piegarli, nell’uso, alle ragioni dell’agire: la natura del fine e quella dello strumento coincidono, il modo (la democrazia) non è uno dei modi pos­

sibili, ma è l’unico che può consentire il progresso sociale, che passa necessa­

riamente per il coinvolgimento di tutti, per la consapevolezza collettiva del sapere, consolidato nel tempo e in continua evoluzione.

I risultati, che potremmo tradurre in termini di benchmarking, di customer satisfation o, più sinteticamente di qualità, pur se si configurano come risultati speciali raggiunti, hanno valore solo se sono usati per arricchire e ordinare il processo di esperienza e, quindi, di conoscenza. I risultati hanno senso solo se vissuti, perseguiti, raggiunti e compresi in modo democratico, così da divenire fattore di educazione e di sviluppo sociale.

Fa eco a tutto ciò la felice sintesi di don Lorenzo Milani «Sortirne tutti in­

sieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».28

Entro questo universo di senso la scuola appare in tutta la sua enfasi come strumento essenziale e più efficace di progresso e di riforma sociale, come fondamento di ogni ordine sociale democratico, edificio che la scuola contri­

buisce fortemente a costruire.

La scuola si configura così come laboratorio della democrazia, non nel senso di una specie di simulazione in vitro della democrazia vera che si rea­

lizzerà nella società civile, ma come officina in cui la società civile costruisce ed alimenta l’unica vera democrazia; in questo senso essa è un'istituzione so­

ciale in cui l’insegnante determina, sulla scorta di esperienza e maturità (di­

remmo oggi di professionalità), il modo in cui la disciplina della vita dovrà raggiungere il ragazzo.

D’altronde tutta l’educazione è per Dewey non preparazione alla vita, ma vita stessa o sviluppo: l’educazione è un processo di vita e non una prepara­

zione a un vivere futuro.

Al tempo stesso la democrazia, che è in rapporto reciproco e vitale con l’educazione, viene definita da Dewey, nel corso di una conferenza in onore di Felix Adler, nella stagione del pensiero maturo (il 24 ottobre 1938), con una affermazione che riassume la poderosa riflessione di una intera vita: «è in sé stessa un principio educativo, una misura e una direttiva.»29

28 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1982,

P.14

29 Dewey J„ L'Educazione di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. 457.

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