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1.1 Premessa. S PROFILI STORICI DELL’UDIENZA PRELIMINARE C P

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C

APITOLO

P

RIMO

PROFILI STORICI DELL’UDIENZA

PRELIMINARE

S

OMMARIO: 1.1. Premessa. - 1.2. La delibazione preliminare dell’accusa nei modelli processuali accusatorio, misto e inquisitorio di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. - 1.3. Il modello misto del codice del 1808 e la sua mancanza di autonomia. - 1.4. Le codificazioni italiane dagli stati preunitari

al “Codice Rocco”. - 1.5. La delibazione d’accusa nel “Codice Rocco”. - 1.6. Le spinte alla ricodificazione nell’Italia repubblicana, tra Costituzione

e impegni internazionali. - 1.7. Nuovi impulsi per un nuovo codice. - 1.8. Dibattito sulla riforma del codice di procedura penale e lo “Schema

Carnelutti”. - 1.9. La parziale autonomia dell’udienza preliminare nel progetto del 1978.

1.1

Premessa.

L’udienza preliminare ha avuto, sin dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, una notevole importanza e ha subito un’evoluzione legislativa che supera quelle che erano le sue funzioni iniziali quale filtro delle imputazioni azzardate, sede di attuazione del diritto alla prova e contesto per la scelta dei riti alternativi al dibattimento.1

Prima di tutto, il segreto investigativo non si manifesta al momento del deposito della richiesta di rinvio a giudizio poiché la trasmissione del fascicolo delle indagini preliminari viene fatto alla cancelleria del giudice dell'udienza preliminare (art. 416 comma 2 c.p.p.); infatti sin dalla notificazione dell'avviso ex art. 415bis c.p.p., la difesa dell'indagato conosce il contenuto del fascicolo delle indagini preliminari. Di conseguenza, la funzione conoscitiva dell'udienza preliminare è stata, non solo fortemente ridimensionata, ma, pressoché

1 Cfr. F. CASSIBBA, L’udienza preliminare struttura e funzioni, Giuffrè, Milano,

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azzerata2. Oggi, invece, la conoscibilità degli atti d’indagine preliminari non si giustifica più con l’instaurazione del processo, ma diviene strumentale per l’attuazione delle facoltà difensive al fine di evitare l’esercizio dell’azione penale. Questo si riflette sulle modalità attraverso le quali l’imputato esercita il diritto alla prova; tale momento è anticipato rispetto allo svolgimento dell’udienza preliminare, per scongiurare il passaggio alla fase processuale.

L’evoluzione legislativa induce a ripensare anche sulla portata degli scopi ulteriori assegnati all’udienza preliminare.

Infatti sostenere che l’istituto regolato dagli art. 419 c.p.p. e ss. ricopra la funzione di filtro rispetto alle imputazioni azzardate e, insieme, quella di uno spazio per l’instaurazione dei riti alternativi, secondo il modello originario del codice del 1988, impoverisce la moderna disciplina. Da entrambi i punti di vista, l’udienza preliminare assolve oggi un compito più pregnante, essendone stata aumentata la caratteristica selettiva.

Quindi l’udienza preliminare, oggi, svolge la funzione di filtro in rapporto a imputazioni che possono essere non solo azzardate ma, perfino, sorrette da elementi probatori insufficienti o contraddittori, sguarnite del tutto di materiale probatorio: e tali sono solo le imputazioni infondate. In conclusione, il giudice dell’udienza preliminare rinvia al dibattimento solo quando ritiene che l’imputazione sia veramente fondata.

Proprio in riferimento al materiale probatorio si coglie il punto di maggiore discontinuità rispetto all’impostazione originaria. La decisione ex art. 424 c.p.p.3 di pronunciare sentenza di non luogo a

2 Cfr. A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2000, p. 28.

3 Così recita l’art. 424 c.p.p.: “1. Subito dopo che è stata dichiarata chiusa la

discussione, il giudice procede alla deliberazione pronunciando sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio. 2. Il giudice da immediata lettura del provvedimento. La lettura equivale a notificazione per le parti presenti. 3. Il provvedimento è immediatamente depositato in cancelleria. Le parti hanno diritto di ottenerne copia. 4. Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata

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procedere o il decreto che dispone il giudizio, viene assunta sulla base di un insieme di materiali, eterogenei per natura ed efficacia probatoria, assai più ampia dell’impianto codicistico del 1988. Ciò si riflette sul controllo circa la fondatezza dell'imputazione perché a una cognizione "sommaria" del giudice dell'udienza preliminare4 si sostituisce una cognizione maggiormente articolata. Emerge, qui, il saldo legame fra la disciplina probatoria dell’udienza preliminare e la ridisegnata regolamentazione dell'incompatibilità del giudice ex art. 34 comma 2bis c.p.p5.

Infatti per garantire l’imparzialità e l’autonomia della decisione ex art 424 c.p.p. assunta nell’udienza preliminare e per far si che non possa essere pregiudicata da precedenti decisioni assunte nel corso delle indagini preliminari e pregiudicare la deliberazione in sede dibattimentale6, il giudice per le indagini preliminari e il giudice per l’udienza preliminare devono essere due persone diverse. Tuttavia, il percorso inteso ad assegnare al giudice dell'udienza preliminare una posizione di effettiva terzietà rispetto alle parti non può dirsi, però, ancora totalmente compiuto. Resta il problema del rapporto fra udienza preliminare e giudizio abbreviato, dal momento che l'identità di fase vale a escludere l'insorgere di una causa di incompatibilità fra il giudice chiamato a svolgere l'udienza preliminare e quello che celebra il rito abbreviato. È vero che la proliferazione delle cause di incompatibilità genera difficoltà, ma queste non possono costituire un motivo apprezzabile per "giustificare" una diminuzione dell'imparzialità dell'organo giudicante nel rito alternativo. D'altra

dei motivi della sentenza di non luogo a procedere, il giudice provvede non oltre il trentesimo giorno da quello della pronuncia.”

4 V. C. Cost, sent. 8 febbraio 1991 n. 64, in Giur. Cost., 1991, p. 480;

5 Art. 34 c.p.p. comma 2bis: il giudice che nel medesimo procedimento ha esercitato

funzioni di giudice per l’udienza preliminare non può emettere il decreto penale di condanna, né tenere l’udienza preliminare; inoltre, anche fuori dei casi previsti dal comma 2, non può partecipare al giudizio.

6 V, C. Cost., sent. 12 luglio 2002 n. 335, in Giur.Cost., 2002, p. 2567 ss.; C.Cost.,

sent. 4 luglio 2001 n. 224, ivi, 2001, p. 1955 ss., con note di G. SPANGHER e di P.P. RIVELLO.

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parte, le innovazioni introdotte con la riforma del 1999 hanno fornito l'impulso ai giudici della Corte Costituzionale un profondo mutamento di indirizzo, rivalutando, perfino, la natura dell'udienza preliminare, concepita non più alla stregua di una fase squisitamente processuale, ma quale « momento di giudizio».

La presa di posizione della Corte costituzionale non implica di rimettere in gioco la tesi che vuole l'instaurazione del dibattimento solo quando la condanna appaia probabile. Un parametro siffatto è improprio per selezionare i processi per i quali sia corretto pronunciare il decreto che dispone il giudizio. Secondo il metodo del contraddittorio nella formazione della prova, ex art. 111 comma 4 Cost.7, e la non operatività di talune regole di esclusione probatoria in sede di udienza preliminare, appare privo di fondamento prevedere un esito del giudizio dibattimentale necessariamente sfavorevole all'imputato quando il giudice dell'udienza preliminare abbia ravvisato la sussistenza di elementi probatori idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Ad escludere questa conclusione, bastano la relatività del concetto di prova e i differenti limiti probatori che circoscrivono il quadro cognitivo a seconda delle sedi in cui è assunta la decisione. In definitiva, non appare configurabile alcun vincolo fra l'irrobustimento delle regole di giudizio per emettere la sentenza di non luogo a procedere e un esito del giudizio dibattimentale in senso sfavorevole all'imputato.

Per quanto riguarda il rapporto con i riti alternativi e il dibattimento la l. n. 479 del 1999 ha costruito l’udienza preliminare come il luogo in cui, nel rito ordinario, deve essere effettuata, a pena di decadenza la prima richiesta per la conclusione anticipata del processo e quindi la creazione di un rapporto tendenzialmente esclusivo fra la fase

7

Secondo l’art. 111 comma 4 Cost.: il processo penale è regolato dal principio del

contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.

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dell’udienza preliminare e i riti alternativi, avvalorando l’idea che la fase sia strumentale a soddisfare uno scopo deflattivo del dibattimento. Peraltro, la funzione di consentire lo svolgimento di un rito alternativo non può essere collocata sullo stesso piano rispetto a quella tipica dell’udienza preliminare, cioè di evitare un dibattimento inutile: la scelta del rito alternativo è rimessa alla volontà dell’imputato, incoercibile, perché espressione del diritto di autodifesa. Di conseguenza, per quanto l’evoluzione della disciplina positiva sia allineata con l’esigenza di agevolare l’accesso ai riti alternativi, la definizione anticipata rimane un’eventualità. Con la l. 474/1999 non si incentiva la scelta dei riti alternativi al dibattimento: il rafforzamento delle regole di giudizio per l’emissione della sentenza di non luogo a procedere rischia di indurre nell’imputato scelte opposte nella definizione anticipata del processo. Se le regole decisorie per il passaggio a dibattimento sono molto strette, l’imputato difficilmente opterà per un rito alternativo: sulla base degli atti delle indagini preliminari egli può sperare nell’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Al contrario, un filtro “a maglie larghe” incrementa i riti alternativi: in questo caso, la prospettiva del rinvio a giudizio, resa più concreta dall’inettitudine delle regole decisorie per evitare l’instaurazione del dibattimento, stimola la richiesta del giudizio abbreviato, laddove le regole di giudizio per la condanna sono più severe.

Inoltre, in una prospettiva più generale, la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova può spingere l’imputato a non optare per la definizione anticipata del processo. Nonostante questo, il grande rilievo conferito ai riti alternativi ha messo in ombra la funzione tipica dell’udienza preliminare, cioè quello di evitare un dibattimento inutile e quindi l’udienza preliminare

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diviene una vera e propria fase processuale autonoma del processo ordinario8.

1.2

La delibazione preliminare dell’accusa nei modelli

processuali accusatorio, misto e inquisitorio di

Francia, Inghilterra e Stati Uniti.

La delibazione dell’accusa nell’udienza preliminare è strettamente connessa al modello accusatorio ed è proprio nei sistemi accusatori che si ritrovano le prime forme di un procedimento giurisdizionale incentrato sull’udienza preliminare. Per comprendere bene la portata di questo istituto e le sue evoluzioni, è necessario approfondire il legame che intercorre tra la delibazione preliminare dell’accusa e i diversi modelli processuali.

Nell’Europa continentale, molto importante fu l’influenza della realtà giudiziaria anglosassone, che cercava di superare il sistema inquisitorio governato dall’ Ordonnance criminelle del 1670 e di avvicinarsi a un sistema accusatorio inglese. Un primo tentativo fu attuato dal Decret dell’8-9 ottobre 1789 che pur senza abolire l’Ordonnance introdusse, all’esito di una fase di informazione segreta, condotta dal giudice istruttore e da due adjoints, una fase pubblica di controllo sulla fondatezza dell’accusa che prevedeva la partecipazione dell’accusato, assistito dal difensore, e la facoltà della difesa di partecipare all’audizione dei testimoni. In questo modo furono superati quegli istituti tipici della procedura istruttoria segreta regolata dall’Ordonnance del 1670, di cui il divieto per l’accusato di essere assistito da un difensore rappresentava il caso più emblematico. In seguito, con il Decret 16-29 settembre 1791, abolendo l’Ordonnance

8 Cfr. G. D. PISAPIA, Riflessioni sull’udienza preliminare nel nuovo processo

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del 1670, fu introdotto il jury d’accusation9. Questo organo era

chiamato a verificare se si dovesse far luogo al dibattimento, in virtù della sufficienza delle prove raccolte nel corso della fase istruttoria. Questo criterio di giudizio per il passaggio al dibattimento verrà impiegato dal code d’instruction criminelle del 1808 e, successivamente, anche dal codice di procedura penale italiano del 1930, sulla scorta delle codificazioni precedenti.

È semplicistico affermare che la delibazione dell’accusa costituisca un’attività connaturata a un processo di stampo accusatorio da costituirne un requisito imprescindibile, la cui assenza comporterebbe un’attrazione verso schemi inquisitori. La distinzione fra i due modelli resta agevole perché i rispettivi caratteri fondamentali sono diametralmente opposti. Tuttavia ciò non implica ancora che gli istituti che, storicamente, hanno caratterizzato un sistema ritenuto accusatorio costituiscano altrettanti elementi imprescindibili del relativo modello. L’errore risiede nel confondere l’accusatorietà del processo con il suo carattere adversary, che, quale espressione peculiare del modello accusatorio, è tipica del processo statunitense. Si definisce adversary quel sistema processuale nel quale il processo è sotto il controllo delle parti e l’organo giudicante rimane passivo10. In definitiva, non tutti i caratteri che concorrono a qualificare un sistema come adversary sono imprescindibili per qualificarlo come accusatorio: mentre un processo

adversary non può che essere accusatorio, un processo accusatorio può

anche fondarsi su regole non adversary.

Invece, solo la separazioni delle fasi e la separazione delle funzioni costituiscono elementi caratterizzanti del modello accusatorio, poiché il loro venire meno comporta il crollo del sistema; la separazioni delle funzioni e delle fasi, nel qualificare il modello accusatorio, assume un

10Cfr. M. R. DAMASKA, Il diritto delle prove alla deriva (1997), trad. it., Bologna,

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peso molto maggiore rispetto alla presenza di un’attività di delibazione dell’accusa.

In conclusione, quindi, il controllo giurisdizionale sulla sussistenza delle condizioni per instaurare il dibattimento non è, in questo periodo, ancora decisivo.

Oggi la formulazione dell’imputazione costituisce un atto cardine del processo, poiché determina il passaggio dalla fase procedimentale a quella processuale. Però in questo periodo l’attenzione va posta altrove: solo con l’emissione del decreto che dispone il giudizio si coglie la cesura sull’utilizzabilità degli atti formati nella fasi anteriori al dibattimento. Non si mette in discussione l’autonomia dell’udienza preliminare, ma ciò non comporta che essa sia considerata una fase imprescindibile del modello di stampo accusatorio.

Da alcuni punti di vista, un sistema di tipo accusatorio sembra escludere una fase preliminare deputata alla delibazione dell’accusa, poiché il dibattimento dovrebbe instaurarsi a seguito di una richiesta dell’organo che esercita l’azione. Il codice di procedura penale del 1913 non prevedeva un controllo giurisdizionale sulla necessità del rinvio a giudizio nei casi in cui il pubblico ministero, all’esito dell’istruzione sommaria, formulasse la richiesta di citazione a giudizio dell’imputato al giudice del dibattimento oppure procedesse con la citazione direttissima: la disciplina è significativa perché, in questo sistema, i verbali degli atti compiuti dal pubblico ministero nell’istruzione sommaria non avrebbero potuto essere impiegati nel dibattimento, dal momento che la relativa lettura era ammessa solo se fossero state osservate le norme sull’istruzione formale svolta dal giudice istruttore11. Il carattere unilaterale degli atti d’indagine preliminare li rende incompatibili con le esigenze dell’accertamento

11 Cfr. P. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Milano,

1981 p. 197 e P. TONINI, La scelta del rito istruttorio nel processo penale, Milano, 1976, p. 24.

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penale: “ L’indagine serve a conoscere per agire, non per giudicare”12 cioè solo per escludere un’imputazione avventata. Pertanto, il rinvio a giudizio dell’imputato, disposto su iniziativa dell’organo dell’accusa, non comprometteva l’imparzialità del giudice13. D’altro canto, dare a una parte, anche se pubblica, il potere di disporre l’instaurazione del dibattimento non era, comunque, una scelta priva di rischi, andando incontro all’inconveniente di offendere senza ragione l’onore del cittadino, pregiudicato da accuse precipitose. L’attività di delibazione dell’accusa si atteggia ( storicamente) come il migliore strumento per prevenire i rischi del processo, dal momento che il costo del giudizio per l’imputato è troppo elevato per poter essere rimesso alla volontà unilaterale dell’organo dell’accusa, soprattutto in presenza di un dibattimento pubblico. Questo serve per spiegare perché sistemi processuali sia accusatori sia misti includano forme di controllo preliminare sulla fondatezza dell’accusa per garantire il cittadino da improvvise iniziative del pubblico ministero a prescindere dai caratteri del sistema processuale.

Le difficoltà di inquadrare le caratteristiche tipiche dell’attività di delibazione dell’accusa all’interno dei diversi sistemi processuali discende dall’ambiguità di fondo che accompagna la previsione delle c.d. giurisdizioni istruttorie, ossia degli organi chiamati a vagliare la sussistenza delle condizioni per instaurare il giudizio. L’ambiguità emerge anche dal terreno lessicale con il concetto stesso di giurisdizione istruttoria. Il termine “istruzione” può essere impiegato

12

G. GIOSTRA, voce Contraddittorio (principio del): II) diritto processuale

penale.,in Enc. Giur . Treccani, VIII, Roma, 2002 p. 9.

13 Cfr. G. ILLUMINATI, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna,

1979, p. 178, secondo cui la convinzione maturata nel pubblico ministero circa la colpevolezza dell’imputato, tratto a giudizio con il rito direttissimo, “non dovrebbe in

alcun modo danneggiare l’imputato: sarebbe, anzi, singolare che l’accusatore non presumesse la colpevolezza, nell’adire il giudice”. Viceversa però, l’opinione

contraria di G: BORSANI-L. CASORATI; Codice di procedura penale italiano

commentato, II, Milano, 1876, p. 6 “tradotto l’imputato innanzi ai suoi giudici quando è recente l’impressione nel pubblico di un grave misfatto, l’indignazione che ne consegue, ed il desiderio di vederlo punito potrebbero trascinare i giudici fuori dai confini dell’imparzialità e giustizia e compromettere talvolta la difesa dell’imputato”.

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in una duplice accezione. Esso può designare l’attività probatoria spiegata per predisporre il materiale per la decisione, compiuta tanto nella fase preparatoria al processo, quanto nel dibattimento, quando si parla di “istruzione dibattimentale”. In un significato più tecnico e più comune, l’istruzione designa l’attività probatoria spiegata per accertare le condizioni sufficienti all’instaurazione del dibattimento, che trova precisa collocazione in una particolare fase del processo, anteriore al dibattimento e che si estende fino a ricomprendere il provvedimento finale: solo in questa seconda accezione l’istruzione riveste una funzione preparatoria al processo, ben definita da quella dibattimentale e tale da riferirsi al processo misto. Quindi se il termine viene utilizzato con un’accezione lata, esso va riferito all’attività investigativa finalizzata alla ricerca del materiale probatorio. In questo modo l’istruzione è compatibile anche con un modello processuale di stampo accusatorio. La presenza di una giurisdizione istruttoria vale a sottolineare che il sistema ammette una forma di controllo giurisdizionale sull’operato dell’organo dell’accusa, per evitare che l’instaurazione del dibattimento sia rimessa alla sua sola iniziativa. La delibazione sulla fondatezza dell’accusa costituisce un’”immensa barriera tra l’istruzione e i giudici del merito”14. I compiti assegnati alla giurisdizione istruttoria possono, però, risolversi o in un controllo attuato rebus sic stantibus all’interno di un contesto circoscritto, oppure in una concatenazione di atti istruttori intesi a verificare se sussistano le condizioni per instaurare il giudizio. La seconda forma di manifestazione della giurisdizione istruttoria appare, a prima vista, maggiormente allineata ai modelli misti, ma essa compare anche e prima, nei sistemi di stampo accusatorio, e questo come ulteriore riprova dello scarso significato dell’attività di delibazione dell’accusa per discriminare i due diversi modelli.

14Cfr. F. HELIE, Trattato della istruzione criminale o teoria del codice di istruzione

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Ritornando a fare riferimento agli avvenimenti storici, in questo proposito, nell’ordinamento inglese a partire dalla seconda metà del’XVI secolo, si svilupparono i c.d. committal proceedings (ormai entrati in desuetudine) incentrati sulla preliminary examination. Qui la

preliminary examination consisteva in una fase investigativa volta a

vagliare il fondamento dell’accusa, completamente dominata dal

justice of the peace, in qualità di organo investigatore, e caratterizzata

da una procedura segreta di tipo inquisitorio. La fase, tuttavia, non intaccava il tasso di accusatorietà del sistema, espressa dalla centralità del trial by jury e, soprattutto, dall’irrilevanza probatoria degli atti compiuti nel corso della preliminary examination.

L’odierno sistema statunitense moltiplica le procedure di delibazione dell’accusa per verificare la sussistenza della probable cause. La verifica può essere fatta in due modi: per i non-infamous crimes, nella

preliminary hearing, nel contraddittorio delle parti e all’interno di

un’udienza: in tal caso la fase investigativa , quasi del tutto deformalizzata, è rimessa alle parti e non è svolta da un organo incaricato dello svolgimento della fase istruttoria; inoltre l’organo procedente non ha il potere di assumere prove ex officio.

La medesima attività di delibazione dell’accusa si svolge, per i c.d.

infamous crimes, dinanzi al grand jury, sempre che il prosecutor (

spinto da scelte tattiche, incentrate sull’intenzione di non scoprire le proprie carte in favore della difesa nella fase pretrial) lo investa del compito di verificare la sussistenza della probable cause, invece di instaurare la preliminary hearing. Il grand jury, che opera sempre in segreto, fuori dal contraddittorio, agisce ordinariamente , quale

indicting grand jury, limitandosi a vagliare la fondatezza dell’accusa

sulla scorta dei soli elementi di prova presentatigli dal prosecutor. Però il grand jury può operare, anche, come investigating grand jury, cioè non si limita a vagliare la fondatezza dell’accusa allo stato degli atti, ma svolge un’attività investigativa. In tal caso la procedura è

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caratterizzato da un procedimento più formalizzato, di regola in una pluralità di sessions, a cui non partecipa la difesa e dove non è previsto l’interrogatorio dell’indagato.

La forma di delibazione dell’accusa di fronte al grand jury, di stampo inquisitorio, ha un rilievo maggiore rispetto a quella della preliminary

hearing; infatti la procedura di fronte al grand jury è la sola forma di

delibazione costituzionalizzata nel Bill of Rights15 e opera solo per i reati di maggiore gravità.

La forma di delibazione dell’accusa svolta di fronte al c.d.

investigating grand jury ricorda la procedura per la delibazione

dell’accusa nell’ordinamento rivoluzionario francese svolta dal jury

d’accusation. Secondo il Decret del 16-29 settembre 1791, che

riprendeva quanto già previsto dall’art. 9 Chapitre V della Costituzione approvata il 3 settembre del medesimo anno, a una fase istruttoria svolta dal juge de paix in cui si compivano le prime indagini,e dove l’accusato aveva il diritto di assistere alle deposizioni testimoniali, seguiva eventualmente solo nel caso in cui il juge de paix ritenesse necessario procedere sulla base delle informazioni raccolte , un’ulteriore fase investigativa condotta dal directeur du jury che redigeva l’atto d’accusa e rimetteva la causa al jury d’accusation. Quindi quest’ultimo organo poteva ascoltare testimoni e il denunciante, ma senza che l’accusato avesse diritto a partecipare. Anche in questo caso, analogamente a quanto valeva per la procedura dinanzi all’investigating grand jury, gli atti probatori compiuti non avrebbero potuto assumere valore di prova nel dibattimento.

In conclusione, la fase di delibazione dell’accusa, pur potendo essere molto articolata, si comporta come una parte dotata di un’effettiva

15 (Stati Uniti, 1789). Il Bill of Rights è l’insieme dei primi dieci emendamenti

apportati dal Congresso alla Costituzione del 1787, fortemente influenzati dal Bill of Rights inglese. Essi contengono l'affermazione dei diritti: di libertà (di parola, di stampa, di riunione, di religione); di proprietà privata; di proporre leggi; di domicilio; di pubblico giudizio; di difesa. Il decimo emendamento, inoltre, riserva ai singoli Stati o al popolo i poteri non delegati all'autorità federale e non espressamente proibiti.

(13)

autonomia rispetto al dibattimento; di conseguenza si conferma che il modello processuale accusatorio si caratterizza per la separazione funzionale delle fasi, più che per la presenza di una fase preliminare di delibazione dell’accusa.

1.3

Il modello misto del codice del 1808 e la sua

mancanza di autonomia.

Il vaglio preliminare sulla fondatezza dell’accusa introdotto in sistemi di impronta accusatoria, ha saputo adattarsi a schemi processuali tipici di un modello misto, di cui il codice napoleonico del 1808 ne rappresenta l’emblema.

Con il passaggio dal periodo rivoluzionario a quello napoleonico la fase preliminare perde la sua autonomia tanto da uscirne snaturata. La funzione tipica assegnata alle giurisdizioni istruttorie continua a consistere nella verifica della necessità del giudizio, instaurato quando sussistano solo prove sufficienti a carico dell’imputato, sebbene la continuità funzionale rispetto ai modelli accusatori viene progressivamente compromessa da una struttura processuale che risponde sempre meno ai canoni accusatori, a causa della scomparsa della separazione fra la fase iniziale e quella dibattimentale.

La caratteristica più importante dell’evoluzione del sistema penale francese (molto importante per la sua influenza sulle codificazioni italiane) consiste nell’attitudine delle scritture istruttorie a penetrare nel pubblico dibattimento, non dando importanza all’oralità e al contraddittorio. Così, in questo periodo, il termine istruzione viene impiegato per indicare quell’attività tesa alla preparazione del giudizio. In questa prospettiva, infatti, si venne a formalizzare rigidamente l’attività probatoria e ad affermarsi il directeur du jury quale unico organo istruttorio per rendere maggiormente efficace l’istruzione in vista del raggiungimento della verità. In seguito il jury d’accusation

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(titolare del potere di vagliare la fondatezza dell’accusa) venne percepito come un organo inutile e venne abolito dal codice del 1808. Il directeur du jury, che procedeva all’attività di raccolta e alla relativa verbalizzazione, prefigurava, così, il giudice istruttore, perché egli aveva assunto una centralità sistematica che prima non aveva mai avuto, atteggiandosi come un autonomo organo istruttore. Questo si ripercuoteva sull’autonomia della delibazione dell’accusa, che era compromessa dall’interferenza del giudice istruttore nell’organo collegiale chiamato a verificarne l’operato; il giudice istruttore poteva partecipare di diritto, in qualità di relatore, alla deliberazione della

Chambre de Conseil, composta da giudici togati, a differenza del

collegio di laici che in precedenza componeva il jury d’accusation. Di conseguenza sin dalla metà del XIX secolo nel sistema francese venne abolito l’organo collegiale istruttorio e poi la stessa evoluzione si ebbe nella legislazione italiana che consacrava il giudice istruttore quale unico organo istruttore16. In questo modo si andava perdendo l’autonomia della fase di delibazione dell’accusa anche sotto il profilo strutturale, non essendo nemmeno più contemplato un organo

16 Il codice di procedura penale del 1865, oltre a prevedere una molteplicità di organi,

monocratici (giudice istruttore) e collegiali (camera di consiglio e sezioni di accusa), all’interno della giurisdizione istruttoria, prescriveva, un “doppio grado” di giurisdizione (analogamente al modello francese) per i crimini di competenza della Corte d’Assise, ripartita fra la camera di consiglio e la sezione d’accusa. Un primo passo per l’abolizione del doppio grado di giurisdizione istruttoria fu compiuto dal codice Finocchiaro-Aprile del 1913, in cui venne soppressa la Camera di consiglio e il controllo sulla necessità del giudizio fu, così, assegnato al giudice istruttore per i reati di competenza del tribunale e alla sezione d’accusa per i delitti di competenza della Corte di Assise. A controbilanciare l’ampliamento dei poteri del giudice istruttore fu previsto che quest’ultimo potesse disporre il rinvio a giudizio solo dopo che gli atti dell’istruzione fossero stati depositati in favore delle parti per permettere a costoro di interloquire con l’organo procedente. Il passo definitivo è stato compiuto dal codice di rito penale del 1930, ove il vaglio circa la necessità di instaurare il dibattimento è stato assegnato unicamente al giudice istruttore o alla sezione istruttoria che operava quale organo autonomo istruttorio, fatti salvi i casi in cui la sezione giudicava sull’impugnazione delle ordinanze emesse dal giudice istruttore. L’istruzione veniva rimessa alla sezione istruttoria su richiesta del procuratore generale mentre il giudice istruttore stava procedendo con l’istruzione formale ( art. 234 comma 2 c.p.p. 1930) o del procuratore generale che stava procedendo egli stesso con l’istruzione sommaria ( art. 392 c.p.p. 1930), fino a che la Corte Costituzionale non dichiarò l’illegittimità costituzionale della relativa disciplina ( V. sent. n. 110 del 1963 e n. 32 del 1964).

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differente dal giudice istruttore, tenuto a vagliarne l’operato e a sciogliere l’alternativa sulla possibilità di un rinvio a giudizio o sulla sua esclusione.

In questo senso, l’organo per l’individuazione e per la raccolta delle prove per vagliare la necessità del giudizio e l’organo collegiale di controllo si ritrovano in capo ad unica persona: il giudice istruttore. Così l’istruzione diviene una fase preparatoria costruita per il giudizio.

1.4

Le codificazioni italiane dagli stati preunitari al

“codice Rocco”.

La codificazione francese ha ispirato e influenzato, seppur in maniera diversa, insieme all'unificazione politica della seconda metà dell'Ottocento, le codificazioni dei precedenti Stati preunitari. Nel 1847 infatti venne emanato un unico codice: quello sardo-piemontese, conosciuto con il nome di Statuto Albertino17(dal nome del re , Carlo Alberto di Savoia, che lo aveva promulgato). Proprio tale corpo normativo, attraverso successive espansioni dell'originario ambito applicativo, e con diversi ritocchi e adattamenti, si sarebbe infatti trasformato, nel 1865, nel primo codice di procedura penale dello Stato italiano. Un codice, comunque, precario. Infatti per i suoi contenuti e

17 Lo Statuto del Regno o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia del 4

marzo 1848 (noto come Statuto Albertino dal nome del re che lo promulgò,Carlo Alberto di Savoia), fu la costituzione adottata dal Regno sardo-piemontese il 4 marzo 1848 a Torino. Nel preambolo autografo dello stesso Carlo Alberto viene definito come «Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia sabauda». Il 17 marzo 1861, con la fondazione del Regno d’Italia, divenne la carta fondamentale della nuova Italia unita e rimase formalmente tale, pur con modifiche, fino al biennio 1944-1946 quando, con successivi decreti legislativi, fu adottato un regime costituzionale transitorio, valido fino all'entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, il 1º gennaio 1948. Lo Statuto Albertino, nonostante non abbia natura di fonte legislativa sovra ordinata alla legge ordinaria, può essere considerato a tutti gli effetti un primo esempio di costituzione breve.

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per il modo in cui l’operazione era stata realizzata18 ne scaturirono parecchi malumori e l’intenzione fu quella di sostituire quel codice, accusato di essere troppo "francese", e soprattutto troppo poco sollecito per la tutela dei diritti e delle garanzie dei singoli.

Il successivo codice di procedura penale del 1913, il "codice Finocchiaro Aprile", ( così chiamato dal nome del Ministro che lo portò al varo e che già aveva avuto una parte importante nelle ultime fasi della sua preparazione) veniva alla luce, per certi versi con le migliori premesse: furono numerosi i progetti preparatori sottoposti al vaglio delle Camere, l'ultimo dei quali (del 1911) fu alla fine approvato con una sorta di delega ex post, che consentì al Governo di promulgare un testo ritoccato soltanto nei punti ritenuti in contrasto con le direttive del Parlamento. Esso, d'altronde, sembrava anche assecondare i propositi di un'autentica svolta "liberale" della normativa processual-penalistica.

Bisogna del resto riconoscere che il “codice Finocchiaro Aprile incontrò, fin dall’inizio, scarse approvazioni tra gli operatori (che, per motivi spesso opposti tra loro, lo consideravano un prodotto troppo lontano dalle esigenze della pratica). Inoltre la sua stessa portata fu largamente depotenziata dall'incidenza che la legislazione militare (con le sue regole "speciali") dovette avere su buona parte dei processi celebrati durante la "grande guerra" (1915-18) e nell'immediato dopoguerra.

Ad ogni modo, il codice del 1913 veniva travolto, dopo poco più di quindici anni dalla sua entrata in vigore, dal regime che si era sovrapposto con la forza alle istituzioni dello Stato liberale, ossia dal

18 Il Governo aveva agito avvalendosi di una delega "in bianco" a legiferare,

sostanzialmente sottratta a ogni controllo parlamentare e fatta rientrare nel generico conferimento dei "pieni poteri" a suo tempo concessi per la conduzione della Seconda guerra d'indipendenza.

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Fascismo, ben determinato ad imporre una "sua" codificazione, e proprio a partire dal settore della giustizia penale19.

Nel 1925 il Governo fascista chiese una delega a legiferare in materia penale. Un Parlamento, dove le voci dissenzienti erano ormai pochissime e con scarsissimi spazi di libertà di parola e di azione, concesse una delega in termini estremamente generici, che rinviava puramente e semplicemente alla relazione tenuta dallo stesso Guardasigilli ad illustrazione della sua richiesta. Questa soluzione, del resto, appariva già di compromesso, tra quella di una delega sostanzialmente "in bianco", proposta dagli estremisti del partito dominante, e quella di vincoli più precisi, sostenuta dalla destra liberale, ancora facente parte della maggioranza parlamentare.

Sulla base della delega ottenuta, e a seguito di un iter preparatorio non totalmente chiuso al dibattito ( dentro e fuori il Parlamento) ma palesemente condizionato dall'impossibilità di adottare soluzioni sgradite al "regime" ormai consolidatosi, il Guardasigilli Rocco emanava, nel 1930, la coppia di codici penali (sostanziale e processuale) destinata a portare il suo nome.

Generalmente ritenuto non del tutto privo di pregi dal punto di vista tecnico, il codice di procedura penale del 1930 non nasconde la sua ispirazione fondamentalmente autoritaria: palese specialmente nella disciplina delle misure limitative di libertà e in quella delle relazioni tra polizia giudiziaria, pubblico ministero e organi giurisdizionali, essa, in generale è, più riscontrabile nella sua "filosofia" di fondo, contrassegnata, già dalle presentazioni ufficiali, come radicalmente opposta a quella delle idee "illuministiche" e "liberali". Non a caso, per la redazione del progetto preliminare, trasportato poi largamente nel testo definitivo, venne scelto un giurista di antiche propensioni

19 M.CHIAVARIO, Diritto processuale penale profilo istituzionale, Torino, 2006, p.

(18)

illiberali, come Vincenzo Manzini, che, in fondo non a torto, si considerò poi il vero "padre" del codice.

1.5

La delibazione d’accusa nel Codice Rocco.

Nell’impianto del codice di procedura penale del 1930 si nota la perdita di autonomia dell’attività di delibazione dell’accusa e la funzione predominante assegnata alla fase istruttoria per l’accertamento del fatto. Anche qui lo scopo della fase istruttoria consisteva nel verificare se sussistessero le condizioni per instaurare il dibattimento: il rinvio a giudizio doveva essere disposto dal giudice istruttore quando vi fossero “sufficienti prove a carico dell’imputato” (art. 374 comma 1 c.p.p. 1930). Tuttavia, l’autentico scopo della fase era più ambizioso e enunciato dall’art. 299 c.p.p. del 1930, secondo cui il giudice istruttore doveva compiere “tutti e soltanto quegli atti che in base agli elementi raccolti e allo svolgimento dell’istruzione” erano “ necessari per l’accertamento della verità”. Un tale scopo rendeva l’istruzione il vero e proprio dominio del giudice istruttore, a cui era imposto di non trascurare alcun accertamento per rimetterlo alla fase di cognizione. L’istruzione subiva così una specie di eterogenesi dei fini, assumendo la funzione di predisporre il materiale probatorio del giudizio. Quindi l’istruzione aveva una doppia natura, da una parte aveva lo scopo di accertare la necessità o meno di uno sviluppo ulteriore del processo, dall’altra quello di raccogliere i mezzi di prova per la decisione, che risultava essere lo scopo predominante. Alcuni ravvisavano nel dibattimento un elemento di controllo sui risultati dell’istruzione e di conseguenza ciò capovolgeva l’assetto processuale caratterizzato dalla centralità del dibattimento. Il tratto d’unione fra le varie fasi era l’idea che ciascuna di esse fosse funzionale all’accertamento finale del fatto; il sistema si componeva di fasi che

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non corrispondevano ad altre specifiche funzioni, che risultavano tra loro ripetitive, fondandosi sulla stratificazione del materiale conoscitivo. Da qui ne derivava la mancanza di autonomia della fase di delibazione dell’accusa, ben raffigurata dalla disciplina del deposito degli atti istruttori prevista dall’art. 372 c.p.p. 1930: al termine dell’istruzione formale i verbali degli atti istruttori e i documenti acquisiti dovevano essere depositati nella cancelleria del giudice istruttore affinchè i difensori potessero esercitare la facoltà di prenderne visione e di estrarne copia, potendo inoltre presentare istanze e memorie al giudice istruttore. L’organo procedente doveva vagliare la sussistenza delle prove sufficienti per il rinvio a giudizio a seguito dell’espletamento della fase istruttoria dal medesimo organo condotta autonomamente.

Una tale disciplina si rifletteva sullo stesso scopo del dibattimento, snaturandone la fisionomia, falsamente accusatoria e fondata sul canone dell’oralità, ma in effetti compromessa dall’impiego probatorio dei verbali degli atti istruttori. La reiterazione degli atti finiva per trasformare il dibattimento il più delle volte in una specie di esame comparativo delle varie dichiarazioni rese dall’imputato o dai testimoni in sede preliminare di polizia giudiziaria, in sede di istruttoria sommaria, di istruttoria formale ed, infine, in sede dibattimentale, di primo ed eventualmente anche di secondo grado20. Inoltre una fase istruttoria concepita come una concatenazione e ripetizione degli atti in vista dell’accertamento della verità comportava una grossa dilatazione dei tempi dell’istruttoria: l’organo istruttorio continuava nel compimento degli atti fino a che non avesse ritenuto di avere compiuto un accertamento sufficiente per il successivo giudizio. Questo rendeva la fase dell’istruzione l’effettivo baricentro del processo.

(20)

Prima della seconda guerra mondiale e fino alla divisione in due dell'Italia, a seguito degli eventi del 1943, il codice del 1930 non conobbe grandi modifiche . Viceversa, alla fine del conflitto, con il definitivo ristabilimento delle libertà democratiche venne subito posto anche il problema delle sorti dell’allora vigente codice di procedura penale; e tra le proposte non mancò neppure quella del puro e semplice ripristino della codificazione del 1913, ma questa proposta fu abbandonata perché anacronistica. Si affacciò l'alternativa tra la redazione di un codice integralmente nuovo ed un'opera di semplice "aggiornamento" di quello emanato sotto il Fascismo.

1.6

Le

spinte

alla

ricodificazione

nell'Italia

repubblicana,

tra

Costituzione

e

impegni

internazionali.

Nel 1946 il referendum istituzionale si era concluso con la scelta repubblicana, e in quell'anno iniziarono i lavori dell'Assemblea Costituente e fu emanato il testo della Costituzione della Repubblica italiana, che entrò in vigore il 10 gennaio 1948. Vennero formulati i principi del processo penale. Essi trovano, per lo più, collocazione in una serie di articoli della prima parte del testo costituzionale (quella dedicata ai «Diritti e doveri dei cittadini»), sotto il titolo I («Rapporti civili»), ma ne è coinvolta anche la seconda parte («Ordinamento della Repubblica»), nel suo titolo IV («La Magistratura»), in particolare nella sezione II del medesimo, contenente «Norme sulla giurisdizione».

Da segnalare, specificamente, la tutela della libertà personale (art. 13 Cost.), quella del diritto di difesa con i suoi corollari (art. 24 Cost. comma 2-4), il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost. comma l), la cosiddetta presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost. comma 2), la regola della motivazione dei provvedimenti

(21)

giurisdizionali (art. 111 Cost. comma 1 nel testo originario, ora comma 6), quella della ricorribilità in cassazione per tutte le sentenze e i provvedimenti in tema di libertà personale (art. 111 Cost. comma 2 testo originario, ora comma 7), il principio di obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.), oltre a tutta una serie di principi attinenti all'ordinamento giurisdizionale (artt. 101-110 Cost.).

L'entrata in vigore della Carta costituzionale apportava un dato di estrema importanza e di decisiva rilevanza anche sul piano della gerarchia tra le fonti del diritto, stante il carattere di Costituzione "rigida" e sovraordinata a tutte le altre fonti, che il testo del 1948 esplicitamente veniva a rivendicare per se stesso (art. 138 Cost.). Nell'intervallo tra l'entrata in vigore della Costituzione e l'entrata in funzione della Corte costituzionale (1956) l'effetto delle norme costituzionali di rilevanza processuale fu tuttavia minore di quel che ci si potesse attendere, anche per l'atteggiamento assai prudente tenuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, cui in quel frattempo (in quanto organo di vertice della giurisdizione) risultava devoluto, in via temporanea, anche il compito di supremo garante della nuova legalità costituzionale, attraverso l'esercizio del suo ordinario potere di sindacato delle decisioni dei giudici di merito. Proprio la Corte di Cassazione venne infatti ad escludere che le norme costituzionali (considerate, in larga parte, soltanto "programmatiche") potessero avere un'efficacia di applicabilità immediata nelle concrete vicende processuali, ritenendo che per ricevere piena operatività esse dovessero invece attendere un'attuazione da parte del legislatore.

Com'è noto, il tentativo di consolidare tale orientamento, e di estenderlo anche all'ambito dei giudizi di legittimità costituzionale instaurati davanti alla Corte Costituzionale, sarebbe poi stato sconfitto sin dalla prima, memorabile decisione di quest'ultima Corte (sent. 1/1956). Si apriva così la strada a un pieno, ed effettivo, controllo di costituzionalità anche nei confronti dell'intero "codice Rocco".

(22)

Anche a livello internazionale, d'altronde, qualcosa cominciava a muoversi. Nel 1950, come già si è accennato tra gli Stati del Consiglio d'Europa era stata siglata la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e, quasi cinque anni dopo, il Parlamento italiano, oltre ad autorizzare la ratifica della Convenzione formalizzò l'operatività della Convenzione stessa sul piano interno, con la clausola del c.d. "ordine di esecuzione", almeno teoricamente idoneo a produrre la trasformazione automatica nell'ordinamento statale. Per l'esattezza, lo strumento contenente l'autorizzazione alla ratifica della Convenzione europea e il correlativo "ordine di esecuzione" sul piano interno, è la l. 848/1955. Identica procedura si sarebbe adottata, dopo più di due decenni, con il Patto internazionale sui diritti civili e politici, che soltanto undici anni più tardi avrebbe trovato la sua fonte legislativa di autorizzazione alla ratifica e "di esecuzione". Ci si riferisce alla 1. 881/1977.

1.7

Nuovi impulsi per un nuovo codice.

Come abbiamo visto, quindi l’entrata in funzione, prima, e la concreta attività, poi della Corte Costituzionale, diede impulsi forti per una nuova ricodificazione. Questo, sebbene ancora nel 1955 si era realizzata un'operazione di riforma esclusivamente "novellistica" sull'impianto del codice Rocco (del quale, con la l. 517/1955, furono sostituiti o comunque ritoccati oltre 200 articoli).

Proprio in rapporto alle norme del codice di procedura penale la Corte costituzionale ebbe invero ad esercitare con maggior frequenza il suo magistero, in particolare avvalendosi del potere-dovere che ad essa spetta, di invalidare le norme di legge riconosciute non conformi ai principi della Costituzione. Correlativamente, del resto, lo stesso sviluppo ulteriore della legislazione "novellistica" avrebbe più volte tratto ragion d'essere dall'esigenza di dare un seguito alle sentenze della Corte.

(23)

Tutto ciò avveniva prevalentemente nel segno di una marcata sollecitudine per la tutela dell'individuo di fronte alle più evidenti potenzialità di sopraffazione della macchina processuale. A proposito, invece, di quello che sarebbe poi diventato il tema centrale delle successive proposte di riforma ( vale a dire, a proposito dei rapporti tra la fase del giudizio e le fasi anteriori) si manteneva pressoché intatto l'assetto precedente: anzi, il peso preponderante dell'istruttoria nell'economia globale del processo si vedeva paradossalmente rafforzato dall'innesto di una presenza difensiva ad una parte degli atti istruttori.

Soprattutto negli "anni di piombo"21, anche il codice del 1930 ebbe peraltro a conoscere interpolazioni di tutt'altro genere, originate essenzialmente dalla preoccupazione di salvaguardia della sicurezza collettiva di fronte all'andamento di certi fenomeni di delinquenza comune e politica. Si è parlato e si parla, al riguardo, di una fase di "legislazione dell'emergenza" che a sua volta ha influito profondamente sulla fisionomia di quel codice, talvolta riportandolo a contenuti di una rigidità "antigarantistica", per qualche verso ancor maggiore di quella originaria, specialmente per quanto riguarda i poteri di limitazione della libertà personale durante il processo.

Quasi sempre motivata, in radice, da oggettive esigenze di risposta a problemi reali, la "legislazione dell'emergenza" ha spesso subito i condizionamenti di una palese difficoltà nella ricerca delle soluzioni: questo comportò l’accentuarsi di ambiguità, di contraddizioni, di frammentarismo della disciplina processuale, in termini tali da far perdere quasi interamente, ad un codice pur formalmente ancora in vita in quanto tale, la sua stessa, primaria funzione unificante. Ben difficilmente, del resto, il recupero di tale funzione avrebbe ormai potuto passare per una via novellistica; tant'è che le ulteriori riforme,

21 Per anni di piombo, in Italia, si intende un periodo storico generalmente

coincidente con gli anni sessanta fino all’inizio degli anni ottanta del XX secolo, in cui si verificò un'estremizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza, nell'attuazione della lotta armata e di atti di terrorismo.

(24)

che dopo l'allentarsi delle strette dell'emergenza poterono realizzarsi in una prospettiva di maggiore equilibrio tra le esigenze di tutela della persona e quelle di tutela della collettività, furono per lo più presentate e giustificate, per farle apparire credibili, quali "anticipazioni" o "preparazioni" di una nuova codificazione, anche se, di fatto, erano costrette ad operare ancora su di un vecchio tessuto.

1.8

Dibattito sulla riforma del codice di procedura

penale e lo “Schema Carnelutti”.

Gli anni ’60 del secolo scorso segnano un punto di svolta per i cultori della scienza processual-penalistica, perché l’esigenza della riforma processuale non doveva essere più solo teorica ma anche pratica e concreta. Per questo ci furono importanti convegni fra cui uno dei più importanti fu il Convegno “Enrico de Nicola” tenutosi a Lecce-Bellagio.

Inoltre si sentiva l’esigenza di una riforma del codice di procedura penale e così, su impulso di Francesco Carnelutti, la Fondazione Cini organizzò a Venezia un Convegno in cui si espresse il desiderio di superare il modello misto, per introdurre un sistema di tipo accusatorio. Il successo del Convegno fu indiscutibile, anche perché a Carnelutti riuscì di ottenere la costante presenza dell'allora Ministro di grazia e giustizia, onorevole Gonella. Questi rimase, a sua volta, così convinto della necessità di un nuovo codice da istituire, in data 14 gennaio 1962, una commissione per la riforma del codice di procedura penale, insediandola, sotto la presidenza di Carnelutti, il 3 febbraio successivo, da cui scaturì il famoso “ Schema” per la riforma del codice di procedura penale.

Nel 1963 venne redatta da Francesco Carnelutti una “bozza” di nuovo codice. Lo schema, era ispirato al sistema angloamericano, di tipo apertamente accusatorio, senza una vera istruzione, o meglio con una

(25)

fase preliminare priva di ogni incidenza sul dibattimento, allo scopo di garantirne appieno l'oralità e l'immediatezza. Fino ad allora emergeva un dato estremamente significativo: sebbene il passaggio dall’istruzione al dibattimento costituisse un problema delicatissimo, non traspariva, ancora, una piena consapevolezza della necessità di introdurre una fase procedimentale autonoma per controllare la sussistenza delle condizioni per instaurare il dibattimento.

L’art. 108bis del testo definitivo di questo “Schema” sanciva il potere del “giudice del reato” di rigettare con decreto motivato, la richiesta di giudizio formulata dal pubblico ministero, perché manifestamente infondata. La disciplina era strutturalmente inidonea a garantire la funzione dell’istituto e l’autonomia decisionale dell’organo procedente. Mancava un effettivo momento di controllo giurisdizionale sull’operato del pubblico ministero, costruito sugli atti dell’inchiesta preliminare. In più all’organo procedente era precluso l’accesso agli atti d’indagine, per non comprometterne l’imparzialità22.

Un procedimento più articolato era contemplato dall’art. 96 dello Schema originario, peraltro non riproposto nello Schema definitivo. Il giudice del reato, scaduto il termine delle indagini e su istanza della difesa, avrebbe potuto dichiarare il non doversi procedere allo stato degli atti, previa richiesta al pubblico ministero di un rapporto sui risultati delle indagini. Il procedimento avveniva rigorosamente allo “stato degli atti23 “, non essendo previsto alcun potere probatorio ufficioso, perfino nel caso in cui il giudice avesse verificato la lacunosità delle indagini, per garantire la netta separazione tra le funzioni investigative del pubblico ministero e quelle decisorie dell’organo giurisdizionale. Il proscioglimento si basava

22 Ad eccezione della conoscibilità degli atti “a futura memoria” assunti con la forma

dell’ “incidente istruttorio”.

23

Accezione del concetto “allo stato degli atti”: quando si fondi su un materiale cognitivo diverso da quello che potrebbe essere impiegato in una successiva fase del processo. Di conseguenza il cardine dello Schema Carnelutti era costituito dalla separazione dell’inchiesta preliminare dal giudizio, ove non potevano essere utilizzati i risultati ottenuti nella fase preliminare.

(26)

sull’incompletezza delle indagini fino a quel momento svolte dal pubblico ministero24. Si trattava, in definitiva, di un accertamento provvisorio effettuato a seguito di un accertamento sommario. In questo modo, nello Schema originario, il non doversi procedere non esercitava un’efficacia preclusiva sul potere del pubblico ministero di proseguire le indagini, ma determinava, solo, la cessazione delle misure coercitive. Se l’organo dell’accusa avesse raccolto ulteriori elementi tali da consentirgli di formulare l’imputazione definitiva, l’azione penale avrebbe potuto essere validamente esercitata: la decisione di non doversi procedere sarebbe stata travolta, sulla base del materiale sopravvenuto per consentire l’instaurazione del dibattimento. Tutto questo comportavano grosse novità e appunto per questo vennero suscitate critiche violente e drastiche opposizioni ancor prima della sua divulgazione. Il destino politico del progetto Carnelutti poteva, quindi, dirsi segnato anzitempo, anche perché, con le dimissioni del Governo, la commissione istituita dal Ministro Gonella non sarebbe stata mai più riconvocata.

Un importante risultato positivo restava, comunque, acquisito: l’esigenza di un codice non semplicemente novellato o riscritto, ma effettivamente diverso da quello vigente. Anche se di difficile attuazione per la molteplicità degli ostacoli da superare, l'obiettivo di un codice nuovo stava finalmente per diventare un punto centrale di riferimento.

In direzione trasparentemente antitetica al recepimento della "bozza Carnelutti" si muoveva poi un'iniziativa assunta sempre nel 1963 dal primo Governo Leone e mirante al conferimento di una delega alla riforma di tutti e quattro i codici, ma rimasta a sua volta senza esito.

24 Infatti per consentire all’organo dell’accusa di esaurire l’inchiesta preliminare, il

giudice del reato poteva, in alternativa all’immediata declaratoria di non doversi procedere, concedere all’organo dell’accusa una proroga del termine per le indagini.

(27)

1.9

La parziale autonomia dell’udienza preliminare nel

progetto del 1978.

Il passo decisivo nella direzione di istituire un controllo sull’esercizio dell’azione penale che non riproponesse le cadenze tipiche delle giurisdizioni istruttorie proprie del sistema misto è stato compiuto soltanto nel 1974, quasi al termine della VI legislatura, dopo la prima legge-delega del Parlamento repubblicano per un nuovo codice di procedura penale, con l. 3 aprile 1974 n. 108, pubblicata, con il n. 108, nella Gazzetta Ufficiale del 26 aprile 1974, n. 102, entrando in vigore l'11 maggio successivo.

L’udienza preliminare25, viene costruita, pur in una forma ancora embrionale, quale fase autonoma rispetto alle indagini del pubblico ministero, deputata a controllare la scelta del rito e a filtrare la domanda di giudizio immediato formulata dall’organo dell’accusa26: il controllo giurisdizionale sulle determinazioni del pubblico ministero esprime l‘avversione nei confronti del potere dell’organo dell’accusa di instaurare il dibattimento27.

Anche se era incentrata sul contradditorio, la struttura dell’udienza era il frutto di un’incompleta riflessione compiuta dal legislatore. Alla consapevolezza dell’importanza funzionale dell’udienza preliminare

25 Il termine “udienza preliminare – coniato da F. CORDERO, problemi

dell’istruzione, p. 160, e ripreso da G. D. PISAPIA, Primi lineamenti del processo

penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975, p.719 - fu impiegato anche nel corso dei

lavori preparatori alla legge delega del 1974. Secondo la Relazione prog. Prel. c.p.p.

1978, l’espressione è stata, poi, fatta propria nel progetto preliminare, perché era

sembrata la più idonea a rappresentare efficacemente il punto di sutura fra indagini preliminari del pubblico ministero e della polizia giudiziaria e l’intervento giurisdizionale.

26 Inoltre l’udienza preliminare doveva anche svolgersi, nei confronti dell’arrestato o

del fermato, entro novantasei ore dalla limitazione della libertà personale (direttiva n. 32della legge delega del 1974). Qui la funzione consisteva, soprattutto, nel convalidare la limitazione della libertà personale sulla falsariga della first

appearance hearing prevista dal sistema anglosassone in caso di arresto.

27 In effetti, nella legge delega del 1974 erano stati aboliti la richiesta del pubblico

ministero rivolta al giudice del dibattimento di emettere la citazione a giudizio all’esito dell’istruzione sommaria (art. 396 comma 1 c.p.p. 1930) e il giudizio direttissimo. In particolare, la soppressione del giudizio direttissimo appare una scelta che si poneva in netta discontinuità con l’ampio riconoscimento dell’istituto nella legislazione processuale penale all’epoca in vigore.

(28)

non corrispondeva una matura consapevolezza sulla necessità di allestire una disciplina strutturalmente idonea allo scopo.

Nonostante ciò, la struttura complessa della fase e il suo carattere autonomo rispetto alle indagini preliminari emergevano da due punti di vista. In primo luogo, si è avuto una, benché minima, formalizzazione del contraddittorio con l’audizione contestuale delle parti costituite; in secondo luogo, le parti potevano produrre documenti per consentire al giudice di assumere la decisione, di conseguenza un’attività articolata anche sul piano probatorio.

Nell’art. 1, la legge-delega del 1974 prevedeva che il nuovo codice venisse emanato entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge stessa, mentre l’ultima delle direttive dettate per il legislatore delegato stabiliva un termine massimo anche per l’entrata in vigore del codice, fissato alla scadenza di quattro mesi dalla sua pubblicazione. Però solo nel 1978 verrà pubblicato un primo progetto preliminare del nuovo codice.

Ai fini dell’attuazione della delega era infatti stata istituita una Commissione presieduta da Gian Domenico Pisapia, che al termine di tre anni di lavoro ultimava il suddetto progetto nell’estate del 1977. Esso, poi pubblicato all’inizio del 1978, oltre ad essere inviato alle sedi culturali, forensi e giudiziarie in grado di esprimere osservazioni, veniva sottoposto alla Commissione di parlamentari e di non-parlamentari costituita ai sensi dell’art. 1 l. 108/1974, alla quale era stato affidato il compito di formulare un parere ufficiale al riguardo. Tale parere veniva reso nel corso del 1978, e comprendeva diversi rilievi e suggerimenti, nel quadro della rispondenza delle linee fondamentali del nuovo ordinamento processuale penale alle esigenze del Paese.

Oltre a questi fattori, un peso preminente fu sicuramente esercitato dal timore che il progetto preliminare del 1974, finisse per essere un

(29)

codice inidoneo a far fronte alle dure esigenze degli anni dell’emergenza terroristica, nel frattempo innescatesi nel pese.

Infatti, sull’opportunità di modificare una parte delle direttive stesse della delega, stava maturando un dibattito che in buona misura prescindeva dal riferimento ai problemi più pressanti dell’ “emergenza” terroristica, coinvolgendo nel profondo l’adeguatezza di certe scelte, da un lato in relazione ad esigenze di ordine generale, dall’altro in relazione alla necessità di tener conto dei caratteri delle varie forme di criminalità organizzate, diffuse nel nostro paese.

Per questi motivi viene elaborato il progetto preliminare del 1978 che valorizza le scelte di fondo della legge delega, costruendo una vera e propria udienza con la partecipazioni delle parti. L’udienza preliminare viene, così, a distinguersi nettamente dalla fase delle indagini preliminari e dalla fase degli atti d’istruzione28. In altri termini, l’udienza preliminare non assume una natura meramente interlocutoria in vista del dibattimento, ma si atteggia a “udienza di fine-linea” capace di porre fine al processo.

Il ruolo decisivo che viene assegnato all’udienza preliminare deriva dalla circostanza che essa concorre a dequalificare le fasi antecedenti al dibattimento, evitando che le attività probatorie qui compiute possano condizionarlo.

Però il progetto preliminare del 1978 aveva forti incongruenze. Per quanto la fase degli atti d’istruzione si collocasse fuori dall’udienza preliminare, quest’ultima non sembrava idonea a consentire un effettivo controllo giurisdizionale sulla necessità di instaurare il dibattimento. La debolezza dipendeva dal fatto che il progetto, vincolato dalle scelte della legge delega, non mostrava di voler rinunciare all’istruttoria. Si riconosceva, così, che il progetto non

28

La natura di momento processuale autonomo risulta anche dalla topografia codicistica, dal momento che all’udienza preliminare è dedicato il Titolo I del Libro VII del progettato codice, con un accento persino più marcato rispetto al codice attuale, ove la disciplina dell’udienza preliminare è collocata nello stesso Libro V, aperto dalla disciplina delle indagini preliminari.

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permetteva di delineare attraverso le varie fasi una sequenza di atti procedurali coerentemente ispirati alla logica accusatoria.

In più bisogna mettere in evidenza altri fattori. All’inizio dell’udienza preliminare non era previsto il deposito di tutti gli atti d’indagine: l’art. 400 comma 2 prog. Prel. c.p.p. 1978 prescriveva che con la richiesta di giudizio immediato o di atti d’istruzione avanzata dal pubblico ministero fossero depositati, oltre alla notizia di reato e alle cose ad esso pertinenti, anche i verbali degli atti d’indagine compiuti dalla polizia giudiziaria (art. 368 comma 2), nonché i verbali degli atti del pubblico ministero per cui fosse prevista tale forma di documentazione (art. 376 comma 1), senza alcun richiamo, agli atti per i quali era consentita la mera annotazione. Dunque, le annotazioni che il pubblico ministero avesse ritenuto necessarie, tra cui quelle concernenti le dichiarazioni rilasciate dalle persone informate sui fatti, non erano sottoposte al deposito obbligatorio, restando escluso dalla discovery il compendio di atti d’indagine, quantitativamente più ampio e qualitativamente più significativo. Di conseguenza risultava indebolito il controllo del giudice in vista di un epilogo favorevole per l’imputato: l’indisponibilità di tutti gli atti dell’indagine avrebbe facilmente indotto l’organo procedente a instaurare la fase degli atti d’istruzione, per disporre un quadro probatorio più ampio e risolutivo.

Un altro aspetto negativo era la contrazione cronologica della fase delle indagini preliminari. Il relativo termine, assai contenuto29, era reputato congruo in rapporto allo scopo della fase, di consentire, cioè, al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. In questo modo però c’era il rischio

29 Nonostante il termine di trenta giorni (ridotto rispetto a quello di quaranta giorni,

originariamente ipotizzato nel corso dei lavori preparatori) decorresse dal momento in cui il pubblico ministero fosse riuscito a individuare la persona sottoposta alle indagini, il pubblico ministero avrebbe potuto proseguire con le indagini anche una volta che fosse in corso di svolgimento la fase dell’udienza preliminare e degli atti d’istruzione, ma le c.d. “indagini parallele” avevano una funzione del tutto diversa dalle indagini preliminari, in quanto erano intese solo a individuare i mezzi di prova di cui chiedere l’ammissione nel dibattimento.

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