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CAPITOLO II Il commercio di armamenti nel diritto UE e nel diritto internazionale.

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CAPITOLO II

Il commercio di armamenti nel diritto UE e nel diritto

internazionale.

1-Premessa

La fine della seconda guerra mondiale comporta dei mutamenti geo-politici di rilevanza mondiale, mettendo in evidenza la debolezza del continente europeo, segnato enormemente dai due conflitti mondiali e diviso al suo interno dai forti spiriti nazionalistici, e l’ascesa degli Stati Uniti d’America e dell’URSS a potenze mondiali incontrastate. Tale scenario ha comportato inevitabilmente il passaggio ad una posizione secondaria nello scacchiere internazionale delle potenze europee, che sono state attratte nella sfera d’influenza USA o URSS, dando vita rispettivamente alle due grandi alleanze militari contrapposte, la NATO (North Atlantic Treaty Organization) fondata il 4 Aprile del 1949, ed il Patto di Varsavia del 14 Maggio 1955.

E’ in questo contesto che si avvia una frenetica corsa agli armamenti, inizialmente frenata dal possesso esclusivo statunitense della bomba atomica, ma successivamente acquisita anche dall’URSS, che ha portato a diversi conflitti sparsi per il mondo, volti a garantire un inglobamento dei piccoli Stati confinanti all’interno della propria sfera d’influenza, e all’esigenza di creare in Europa un’istituzione che ponesse un freno alla possibile avanzata sovietica. Impressionante è stato lo sforzo di produzione di armamenti da parte delle industrie americane e sovietiche durante tutto il periodo della guerra fredda, teso a garantire una sempre più avanzata tecnologia bellica da esportare alle nazioni alleate, che non

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potevano permettersi spese ingenti o le cui industrie non erano all’altezza di quelle alleate d’oltreoceano.

Diversi furono i tentativi degli Stati Uniti di invitare ad un tavolo delle trattative i rappresentanti dei diversi Stati europei, allo scopo di creare un progetto di difesa europea, autonoma ed indipendente dalle truppe e dagli armamenti Nato garantiti dall’alleato d’oltremare, ma altrettanti furono i malumori ed i dissidi interni, dei vari Stati del vecchio continente, da portare al naufragio di una Comunità Europea di Difesa. Se da un lato infatti si temeva un imminente attacco da parte dell’URSS in territorio europeo, che da solo sarebbe dovuto bastare per provocare una coesione dei singoli Stati, dall’altro alcuni di essi (più di tutti la Francia) non vedevano di buon occhio una difesa europea, poiché avrebbe comportato un riarmo della Germania, tassello importante nell’ottica di una pronta reazione in caso di invasione sovietica, ed una sottrazione di sovranità in un settore sensibile per i singoli Stati, quale la propria difesa. Fu così che il progetto CED, richiesto a gran voce dagli Stati Uniti, non vide mai la luce e le conseguenze di questo fallimento interruppero per decenni la realizzazione di un’Europa politicamente e militarmente forte, nonostante un pallido tentativo di rimediare all’errore fu compiuto con l’istituzione dell’UEO (Unione dell’Europa Occidentale), di cui fecero parte anche Italia e Germania, la quale assicurò che non avrebbe prodotto nessun tipo di armi atomiche, biologiche o chimiche.

Le iniziative assunte da quel momento in poi a livello comunitario e volte a realizzare una politica estera e di difesa comune sono sfociate in forme di cooperazione a livello intergovernativo. Non è bastata la caduta della superpotenza sovietica e la conseguente fine del bipolarismo a permettere una maggiore integrazione tra i singoli Stati europei, volta a garantire un’indipendenza strategica dagli Stati Uniti, per quel che riguarda truppe e armamenti, sui propri territori.

L’evoluzione finale a livello europeo la si ha con la previsione della Politica Estera e di Sicurezza Comune all’interno del Trattato di

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Maastricht del 7 febbraio 1992, che diede vita all’Unione Europea e con la decisione adottata ad Amsterdam con cui si è dotata l’UE della Politica Europea di Sicurezza e Difesa. La PESC fu il cosiddetto “secondo pilastro” dell’UE, poi venuto meno con il Trattato di Lisbona, e si differenziava dal primo proprio per la particolarità (che come si può notare è rimasta una costante nel tempo), concessa agli Stati, di agire in virtù del metodo intergovernativo.

2- I mercati delle armi nello scenario europeo e

l’interpretazione dell’art. 296 CE.

Per poter ricostruire il quadro giuridico del mercato di armamenti rispetto al diritto internazionale e dell’Unione Europea, non si può non partire che dalla mancata riconducibilità di queste attività al mercato unico europeo. L’art.296 del trattato CE1

conteneva infatti una “eccezione antitrust”, ovvero una deroga ampia e stratificata alla regola della libera concorrenza2 prevedendo che le disposizioni del presente trattato non ostano alle norme seguenti: a) nessuno Stato è tenuto a fornire informazioni la cui divulgazione sia dallo stesso considerata contraria agli interessi essenziali della propria sicurezza; b) ogni Stato membro può adottare le misure che ritenga necessarie alla tutela degli interessi essenziali della propria sicurezza e che si riferiscano alla produzione o al commercio di armi, munizioni e materiale bellico; tali misure non devono alterare le condizioni di concorrenza nel mercato comune per quanto riguarda i prodotti non destinati a fini specificamente militari. Si intende sin da subito, ad una rapida lettura del testo dell’articolo, che gli Stati membri non sembrano voler

1

Disposizione trasposta nel TFUE, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona nel 2009, senza alcuna variazione rilevante , all’art.346.

2 F. Grassi Nardi, Economia della difesa e della sicurezza: disciplina giuridica e profili economici, in

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rinunciare alla propria sovranità nel settore della Difesa, ciò non solo per quanto attiene alla produzione e al commercio di materiale bellico, ma anche per le regole che disciplinano gli appalti pubblici per l’approvvigionamento dei medesimi o la concorrenza tra le imprese del settore.

Questa eccezione comporta enormi svantaggi per l’industria bellica, la quale non viene messa in condizione di fruire dei benefici del mercato unico come avviene per l’industria civile, infatti i costi di produzione si mantengono elevati, mentre la specifica domanda nazionale permette difficilmente alle imprese di raggiungere economie di scala3. Inoltre, la produzione dei moderni armamenti può richiedere tecnologie sofisticate e le dimensioni dei mercati nazionali non sono sufficienti ad ammortizzare i costi della ricerca e dello sviluppo, con evidenti pesanti ricadute anche sulla competitività globale dell’industria europea della difesa, verso i concorrenti esterni4.

Iniziamo quindi ad analizzare nello specifico questa disposizione per evidenziarne la difficoltà interpretativa alla luce della prassi delle istituzioni comunitarie e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonché del comportamento degli Stati membri al di fuori del contesto comunitario.

Questa disposizione è stata inserita fra le disposizioni generali e finali del Trattato CE ed ha un peso rilevante considerata la sua applicabilità. Il concetto di sicurezza contenuto in questo articolo è circoscritto alla sicurezza militare, ovvero alla difesa esterna dello Stato; non si prevede che lo Stato membro prima di adottare le misure ritenute necessarie, debba notificarle alle istituzioni comunitarie o ottenere da esse un’approvazione. E’ permesso un intervento a posteriori della Commissione in caso si accerti un’alterazione della concorrenza nel mercato comune europeo, essa può solo invitare lo Stato interessato ad esaminare la questione con la stessa Commissione per trovare il modo

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A. Pietrobon, I mercati delle armi in Europa, una sfida al diritto dell’Unione, Milano, 2009, p.XVII.

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di rendere le misure “conformi alle norme sancite dal Trattato”(art.298.1).

Nelle intenzioni originarie, questo particolare regime giuridico avrebbe dovuto applicarsi solo ai prodotti indicati in un apposito elenco, cui lo stesso art.296 rinvia; l’elenco è stato compilato dal Consiglio nel 1958 e mai ufficialmente pubblicato, la decisione che contiene questo elenco è stata oggetto esclusivamente di notifica agli Stati membri. Ad oggi è difficile, tuttavia, ritenere che esso venga ancora rispettato, poiché molti di quei prodotti sono obsoleti e altri, allora sconosciuti, interessano attualmente il mercato degli armamenti; di conseguenza è difficile che quella deroga sia invocata rigorosamente solo per i prodotti compresi nell’elenco.

Da ciò risulta evidente che il mercato degli armamenti viene regolato dagli Stati membri, talvolta sulla base di accordi internazionali, con logiche e regole proprie, senza essere soggetto al diritto comunitario per quanto riguarda la circolazione dei prodotti all’interno della Comunità, la politica commerciale verso l’esterno, le regole sulla concorrenza e gli aiuti di Stato o sugli appalti pubblici5.

Questa prassi fa propria l’interpretazione più favorevole agli Stati membri, in base alla quale la materia della “produzione e commercio di armi, munizioni e materiale bellico” è esclusa dall’ambito di applicazione del diritto comunitario, lasciando intatta la sovranità-libertà degli Stati membri. L’art.296 è così letto come una vera e propria clausola d’eccezione o come norma destinata a limitare in senso negativo l’ambito di applicazione del diritto comunitario6

; gli Stati membri incontrano quindi un solo limite: non alterare il gioco della concorrenza riguardo ad altri prodotti.

Una seconda lettura possibile dell’art.296 riterrebbe tale articolo una clausola di salvaguardia, la materia da esso trattata risulterebbe attratta nell’ambito di applicazione del diritto comunitario, il quale

5

A.Pietrobon, I mercati delle armi in Europa, una sfida al diritto dell’Unione , op.cit., p.5.

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concederebbe agli Stati membri la possibilità di invocare deroghe in funzione di “interessi essenziali della propria sicurezza”.

Le due letture possibili comportano diverse visioni del potere degli Stati membri di derogare al diritto comunitario in funzione di “interessi essenziali per la propria sicurezza”; se leggendo questo articolo come clausola d’eccezione tale potere incontra pochi limiti, l’interpretazione che vi legge una clausola di salvaguardia implica invece che quel potere vada esercitato secondo i princìpi del diritto comunitario, attuando quindi un bilanciamento tra quest’ultimo e l’interesse nazionale.

Fino al 1999 è mancato un intervento della Corte di Giustizia su questa interpretazione e si riteneva fosse una riluttanza nel toccare un argomento così delicato, per non provocare reazioni di diffidenza negli Stati membri. Con la sentenza del 16 Settembre 19997 la Corte di Giustizia inserisce l’art.296 nella categoria delle norme che prevedono clausole di salvaguardia, di conseguenza ogni possibilità di deroga prevista dal Trattato riguarda ipotesi da ritenersi eccezionali e va interpretata in modo restrittivo. Il caso di specie riguardava una decisione presa dalla Spagna, con cui si esentavano dall’Iva le importazioni e gli acquisti intracomunitari di armi, munizioni e materiali ad uso esclusivamente militare; a sostegno di tale beneficio si invocava proprio l’art.296, poiché quell’esenzione era volta a rendere meno oneroso l’approvvigionamento di materiali per la difesa e garantiva inoltre “la realizzazione degli obiettivi essenziali del piano strategico globale” come previsto dal Trattato Nato. La Spagna avrebbe dovuto provare che le misure adottate fossero strettamente necessarie per la protezione di interessi essenziali alla sicurezza, e che quindi le esenzioni non superavano i limiti consentiti dal principio di proporzionalità, ma secondo la Corte questa prova è mancata.

Basta aspettare pochi anni, tuttavia, per assistere ad un mutamento d’opinione della Corte, che mostra quanto sia difficile per i giudici

7

Corte di Giustizia, sentenza del 16 settembre 1999, C-414/97, Commissione c. Regno di Spagna, in Raccolta, 1999, p. I-5585.

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comunitari attenersi ad una coerente linea interpretativa in materia. Nel caso Fiocchi, l’omonima impresa italiana, operante nel settore della produzione e commercio di armi e munizioni, chiedeva alla Commissione di esaminare la legittimità di cospicue sovvenzioni concesse dal regno di Spagna all’Empresa Nacional Santa Barbara (ENSB)8, anch’essa operante in quel settore, le quali avrebbero prodotto un’alterazione della concorrenza nel mercato comune.

Le autorità spagnole, invitate dalla Commissione a fornire delucidazioni in proposito, difesero la legittimità delle sovvenzioni sulla base dell’art.296. Non ricevendo, in seguito, nonostante i ripetuti solleciti, informazioni ulteriori sull’esito della verifica, la Fiocchi propose ricorso in carenza davanti al Tribunale di primo grado, dopo aver formalmente intimato la Commissione di agire. Quest’ultima si difese ricordando che l’art.296 costituisce una deroga a tutte le disposizioni del Trattato, sia procedurali che sostanziali, e che per i prodotti destinati a fini specificamente militari sarebbe irrilevante che le misure nazionali alterino le condizioni di concorrenza nell’ambito del mercato comune; dunque, secondo questa interpretazione non sussistevano i presupposti per un ricorso in carenza.

Il giudizio del Tribunale ribadisce come l’art.296 lasci agli Stati membri un “potere discrezionale particolarmente ampio” nel valutare le esigenze di tutela di interessi essenziali per la propria sicurezza. Così la ricorrente non ottenne alcuna valutazione sulla liceità degli aiuti concessi all’impresa spagnola concorrente.

Negli anni successivi è la Commissione a dedicare particolare attenzione all’art.296, e nello specifico per quanto attiene al settore degli appalti pubblici per la difesa. La questione viene portata in primo piano con un Libro Verde del settembre 2004 che descrive l’attuale situazione del mercato degli appalti pubblici nel settore della difesa: il ricorso all’art.296 da parte degli Stati membri viene definito “quasi

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Tribunale di primo grado, sentenza del 30 settembre 2003, T-26/01, Fiocchi Munizioni c. Commissione, in

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sistematico”, dato che molti Stati ritengono questo settore non soggetto alle regole comunitarie sugli appalti pubblici.

La Commissione dichiara di voler invertire la tendenza per costruire un mercato europeo degli equipaggiamenti per la difesa. Si avvia una consultazione con gli Stati membri e l’industria presentando un questionario nel quale viene chiesto di esprimere la preferenza per il futuro tipo di intervento che la Commissione potrà svolgere: una comunicazione interpretativa che faccia il punto sui limiti dell’esenzione dell’art.296 oppure un radicale intervento normativo che precisi gli stessi limiti, con effetto vincolante per gli Stati membri. Gli Stati non ritennero opportuna una direttiva e nel 2006 giunse l’attesa comunicazione interpretativa dell’art.296 secondo la quale il ricorso a tale articolo dovrebbe essere un’eccezione “limitata ai casi in cui gli Stati membri non hanno altra scelta per tutelare gli interessi della propria sicurezza a livello nazionale”, ma l’apprezzamento di tale circostanza non può competere se non agli Stati interessati.

L’azione della Commissione sfociò in una proposta di direttiva del 2007, nella cornice di una Strategia per l’industria europea della difesa più forte e competitiva. Si constatò ancora una volta come le deroghe al diritto comunitario fossero la regola, piuttosto che l’eccezione; gli appalti pubblici nel settore della difesa mascheravano molto spesso degli aiuti di Stato a favore delle imprese aggiudicatarie. Il campo di applicazione della direttiva doveva riguardare gli appalti aventi ad oggetto la fornitura di “armi, munizioni e/o materiale bellico, di cui alla decisione del 15 aprile 1958 e quelli connessi a tali forniture”.

Due anni più tardi è stata così adottata la Direttiva 2009/81/CE che introdusse alcune innovazioni riguardanti il suddetto ambito d’applicazione, in particolare venne concessa: la possibilità di pubblicare un bando di gara secondo la procedura negoziata, la previsione di specifiche esclusioni per la Difesa dall’applicazione della direttiva (ad es. contratti governo-governo o di ricerca e sviluppo cofinanziati), la previsione di specifici istituti per la preselezione e

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l’aggiudicazione (per la tutela della sicurezza delle informazioni e degli approvvigionamenti), la possibilità per gli Stati di inserire disposizioni per eventuali subappalti.

Se fin qui abbiamo analizzato come le istituzioni comunitarie abbiano operato per garantire una interpretazione dell’art.296 CE che creasse presupposti il più possibile omogenei al fine di sviluppare anche in questo settore un mercato unico europeo, da questo momento bisognerà guardare alle azioni degli Stati membri al di fuori di esse, all’interno del contesto giuridico della PESC, oppure, non meno importante, al di fuori della cornice comunitaria.

3-Il Codice di Condotta Europeo sulle esportazioni di armi.

All’inizio della nuova evoluzione che ci accingiamo a trattare, si colloca il codice di condotta europeo sulle esportazioni di armi, approvato nel giugno del 1998 dal Consiglio dei ministri dell’UE, nel contesto del secondo pilastro relativo alla politica estera e di sicurezza comune. Esso è uno strumento non vincolante giuridicamente che si applica a tutti i materiali d’armamento esportati dall’UE, si articola in un preambolo, un dispositivo e delle disposizioni operative. Questo codice in particolare introduce: otto criteri etici alle esportazioni e un primo meccanismo di scambio di informazioni tra gli Stati membri sulle esportazioni di materiale d’armamento.

Il Consiglio dell’UE, all’interno del preambolo, riconosce “la specifica responsabilità degli Stati membri nelle esportazioni di armamenti” e si dichiara “determinato a definire elevati standard comuni che dovrebbero essere considerati quale base per la gestione e le limitazioni nei trasferimenti di armi convenzionali da tutti gli Stati membri EU, e a potenziare lo scambio di informazioni rilevanti nell’ottica di perseguire una maggiore trasparenza”. Quindi si vuole intendere questo codice

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come una base minima da cui partire per poter rafforzare la politica estera e la sicurezza comune e per far convergere le diverse normative in materia di commercio d’armamenti.

Il fulcro del codice lo si trova successivamente, quando vengono elencati gli otto criteri etici per le esportazioni di armi9, ovvero:

1. Il rispetto degli impegni nazionali degli Stati membri: sanzioni imposte dalle organizzazioni internazionali, accordi sulla non proliferazione, impegni previsti dai trattati, convenzioni sulle armi non convenzionali e altri obblighi internazionali;

2. Il rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale: si prevede che gli Stati membri dovranno negare l’autorizzazione all’esportazione di armamenti quando vi sia il rischio evidente di un loro utilizzo per repressioni interne, e dovranno inoltre concedere licenze con cautela a quei Paesi in cui siano state accertate gravi violazioni dei diritti umani da parte degli organi competenti delle Nazioni Unite o dell’UE;

3. La situazione interna del Paese di destinazione finale in funzione dell’esistenza di conflitti armati o tensioni: non si potranno consentire le esportazioni che rischino di provocare o prolungare conflitti armati, di aggravare tensioni o conflitti esistenti nel Paese di destinazione finale;

4. Il mantenimento della pace, sicurezza e stabilità regionale: gli Stati membri non esporteranno armi quando si corra il rischio che il destinatario le utilizzi per aggredire un altro paese o per rivendicarne con la forza il territorio;

5. La sicurezza nazionale: le esportazioni devono tener conto degli interessi di difesa e sicurezza propri e di Paesi amici ed alleati; 6. L’atteggiamento del Paese acquirente nei confronti della

comunità internazionale: rispetto del diritto internazionale,

9 C.Bonaiuti e A.Lodovisi, Il commercio delle armi, l’Italia nel contesto internazionale, in Annuario

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natura delle sue alleanze, comportamento nei confronti del terrorismo;

7. L’esistenza del rischio di deviazione del materiale: valutazioni sui controlli dello Stato acquirente e del rischio riesportazione; 8. Compatibilità delle esportazioni di armi con la capacità tecnica

ed economica dello Stato ricevente.

Di seguito, all’interno delle disposizioni operative, viene introdotto un meccanismo di consultazione fra Stati: infatti lo Stato che vuole negare l’autorizzazione all’esportazione in base ai criteri stabiliti nel Codice, deve informare gli altri Stati membri, allegando i motivi del rifiuto. Quello Stato andrà consultato da parte degli altri Stati ogni volta che sia necessaria un’autorizzazione per un tipo di trasferimento identico a quello per cui è stata negata, e se gli Stati decidono comunque di concedere la licenza, devono comunicarlo allo Stato autore del divieto. Si prevede anche la redazione da parte degli Stati di un rapporto annuale sulle proprie esportazioni e sull’implementazione del Codice, che verrà scambiato in modo confidenziale tra i ministri degli esteri dei vari Paesi membri. Nonostante l’iniziale trasmissione confidenziale, negli anni la prassi ha portato alla pubblicazione di tale rapporto con un progressivo aumento della qualità e quantità dei dati contenuti.

Da un lato il Codice di condotta viene ritenuto un’iniziativa di successo e senza eguali, e di ciò si ha traccia nelle relazioni annuali e nel bilancio che il Consiglio traccia dopo qualche anno dalla sua adozione, in cui si afferma che il Codice “può a ragione essere considerato il più completo regime internazionale di controllo delle esportazioni”10

; considerato ciò si tenta di trasformarlo in un atto giuridicamente vincolante, mentre allo stesso tempo il Consiglio pubblica l’Elenco comune delle attrezzature militari dell’UE cui si ritiene applicabile il codice, ma al pari di quest’ultimo, la lista non vincola gli Stati sul piano giuridico.

10

Quinta relazione annuale ai sensi della misura operativa n.8 del Codice di Condotta dell’Unione Europea per l’esportazione di armi, in G.U. C 320 del 31 dicembre 2003, n.1.

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Dall’altro lato si può constatare come l’impostazione del Codice ne permetta diverse interpretazioni da parte dei governi nazionali, data la vaghezza dei criteri e delle disposizioni, rendendolo uno strumento debole per poter regolamentare un settore così delicato. In più le istanze di trasparenza che vengono accennate nel preambolo, non vengono poi tradotte in disposizioni operative, e, ultimo ma non meno importante, non vi è una regolamentazione sui controlli e le sanzioni.

La trasformazione del Codice di condotta in un atto giuridicamente vincolante è stata raggiunta con la posizione comune 2008/944/PESC dell’8 dicembre 2008, che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari. Con essa vengono ripresi i criteri del Codice e si stabilisce che si applicheranno alle esportazioni dei prodotti di cui all’elenco comune delle attrezzature militari. Per dare un’impostazione vincolante all’impegno di soft law risultante dal Codice, laddove quest’ultimo prevedeva che una licenza di esportazione “avrebbe dovuto essere rifiutata” ove il rilascio fosse in contrasto con i criteri stabiliti, la posizione comune dispone che “una licenza di esportazione è respinta” o che gli Stati membri la “rifiutano” ove essa risulti incompatibile, o vi sia il “rischio evidente” di contrasto con i medesimi criteri (art.2).

Collocandosi nell’ambito della politica estera e sicurezza comune, gli atti di questo tipo vogliono indicare, verso l’esterno, che gli Stati membri dell’UE intendono seguire una linea comune nel panorama internazionale11. Tale rilevanza esterna si riconosce nell’art.11, nel quale si prevede, che gli Stati si adoperino “al massimo per incoraggiare altri Stati esportatori di tecnologia o attrezzature militari ad applicare i criteri” fissati a livello europeo, scambiando a riguardo ogni utile informazione con gli Stati terzi.

Per comprendere quale sia l’effettività degli obblighi assunti con questa posizione comune, bisogna indagare su quali siano i rimedi previsti in caso di comportamento non conforme degli Stati membri, ma purtroppo,

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in concreto, si può ravvisare una remota possibilità di contestazione di un inadempimento della posizione comune, avvalorata dalla disposizione per cui “la decisione di trasferire o rifiutare di trasferire una qualsiasi tecnologia o attrezzatura militare resta di competenza esclusiva di ciascuno Stato membro” (art.4.2).

4-Le iniziative di cooperazione interstatali.

Non di minor valore rispetto ad una collaborazione tra Stati nell’ambito della PESC sono le diverse cooperazioni che gli Stati hanno posto in essere nel settore degli armamenti sul piano intergovernativo, stringendo accordi internazionali ed intese di soft law al di fuori della cornice comunitaria. Bisognerà quindi analizzare le singole intese per verificare come esse interagiscano con il diritto dell’Unione Europea e con l’Agenzia europea per la Difesa di cui si tratterà in seguito.

Le cooperazioni che si instaurano tra i vari Stati mirano principalmente a due obiettivi: rafforzare la competitività dell’industria bellica dei Paesi partecipanti e stabilire regole comuni per il commercio e l’esportazione di armi verso i Paesi terzi.

Fanno parte del primo gruppo, come prototipi iniziali, il Western Union Armaments Group (WEAG) e successivamente la Western Union Armaments Organization (WEAO), due organismi di diversa natura giuridica che hanno cessato la loro attività con la nascita dell’Agenzia europea per la Difesa.

Il WEAG ha svolto durante gli anni novanta la funzione di foro di discussione sulle tematiche concernenti la collaborazione europea in materia di armamenti, inizialmente era costituita da 12 Paesi membri della Nato, poi diventati 19 e si proponeva di: accrescere l’interoperabilità degli armamenti, assicurare il graduale sviluppo ed il mantenimento di una valida base industriale e tecnologica nel settore

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degli armamenti, garantire un uso più efficace dei fondi destinati alla ricerca, allo sviluppo ed agli approvvigionamenti militari12.

Il WEAO è una struttura collegata alla precedente, ma che possiede una propria veste giuridica, in quanto organo sussidiario dell’UEO, con una propria autonomia amministrativa, contrattuale e finanziaria. Questo ente operava quasi esclusivamente nel settore della ricerca, tramite la cosiddetta Research Cell, che ha terminato la propria attività nel 200613. Nel 1993 i Ministri della Difesa di Francia e Germania, constatata l’impossibilità d’agire all’interno del WEAG, decisero di dare avvio ad un’iniziativa parallela allo scopo di unificare le attività di supporto del proprio Corpo d’armata congiunto e di migliorare il coordinamento dei programmi di cooperazione esistenti tra i due Paesi. Vennero così fissati i principi indispensabili per la razionalizzazione della cooperazione con la dichiarazione congiunta franco-tedesca di Baden Baden, che trovò l’approvazione di Italia e Regno Unito. Circa un anno dopo questi quattro Paesi diedero vita, con un accordo amministrativo, all’Organismo congiunto di cooperazione in materia d’armamenti (OCCAR) e nel 1998 tale accordo venne inquadrato in una convenzione internazionale per garantirgli uno status giuridico e metterlo in condizioni di operare più efficacemente nell’attività di procurement14

. Gli obiettivi enunciati nel preambolo della Convenzione OCCAR sono:

raggiungimento del miglior rapporto possibile tra costo ed efficienza nei programmi di cooperazione attuali e futuri; pianificazione futura a medio e lungo termine basata sul

coordinamento delle rispettive necessità militari e su un programma comune di investimenti tecnologici, fondato sui princìpi di complementarietà, reciprocità e bilanciamento; investimento nei rispettivi poli industriali di eccellenza;

12M. Nones, S. Di Paola e S. Ruggeri, Il processo di integrazione del mercato e dell’industria della difesa in

Europa, IAI Quaderni, Roma, 2003, pp.21.

13A. Pietrobon, I mercati delle armi in Europa, una sfida al diritto dell’Unione, op.cit., p.53-54.

14M. Nones, S. Di Paola e S.Ruggeri, Il processo di integrazione del mercato e dell’industria della difesa in

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coordinamento nelle politiche di ricerca; trasparenza negli approvvigionamenti; abbandono del principio del juste retour (principio che tutelava l’aspettativa di ciascuno Stato impegnato in un programma congiunto ad ottenere benefici equivalenti ai costi) a favore di un sistema di calcolo di costi-benefici non sulla base di singoli programmi, ma di un “overall multi-programme/multi-year balance” (art.5);

apertura all’adesione di altri Stati membri (su invito del Consiglio Direttivo, principale organo dell’Occar, composto da un rappresentante per ogni Stato parte) che assumano e rispettino specifici oneri finanziari.

Con questo accordo si chiede agli Stati di fare un passo avanti, superando la tradizionale propensione a garantirsi la disponibilità di autonome produzioni per soddisfare le esigenze del proprio sistema di difesa, a favore di una cooperazione con industrie belliche straniere. I contratti alle imprese partecipanti alla realizzazione dei programmi vengono assegnati in regime di concorrenza, premiando la qualità e l’offerta delle medesime, e con le modalità descritte dalla Convenzione, e le ragioni delle scelte vanno rese note alle imprese partecipanti, secondo un criterio di trasparenza15.

5-L’Accordo Quadro (LoI).

Nel 1998, con la firma di una Lettera d’Intenti16 da parte dei sei Paesi (Regno Unito, Francia, Germania, Svezia, Italia e Spagna) che detengono la parte più consistente dell’industria europea degli armamenti, alcuni Stati membri dell’Unione europea hanno dichiarato

15A.Pietrobon, I mercati delle armi in Europa, una sfida al diritto dell’Unione, op.cit., p.56.

16 Dall’inglese “Letter of Intent”, è un documento che delinea i principali tratti di un accordo tra due o più

parti, prima ancora che l’accordo stesso sia perfezionato. Si differenzia dal MoU (Memorandum of understanding), in quanto, a differenza di quest’ultimo, esso può essere sottoscritto esclusivamente dalle parti che hanno espresso quell’intento.

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per la prima volta e al più alto livello politico, la propria volontà di rafforzare il processo di razionalizzazione dell’industria della difesa, al fine di renderla più competitiva verso l’esterno, e la necessità di procedere all’individuazione di requisiti e procedure comuni in grado di capitalizzare i benefici derivanti dalle concentrazioni.

La dichiarazione vuole individuare le misure per integrare i rispettivi mercati della difesa, studiare le problematiche e formulare delle soluzioni possibili nelle seguenti aree: sicurezza degli approvvigionamenti, procedure di esportazione, ricerca e tecnologia, sicurezza delle informazioni, armonizzazione dei requisiti, trattamento delle informazioni tecniche.

Il lavoro svolto dai sei Comitati esecutivi, che si sono occupati ciascuno di una problematica, ha prodotto un documento finale, firmato dai Ministri della Difesa il 27 Luglio del 2000 a Farnborough, che ha preso il nome di “Accordo Quadro concernente le misure per facilitare la ristrutturazione ed il funzionamento dell’industria europea per la difesa”.

La parte terza di quest’accordo, già presa inevitabilmente in considerazione nel 1°capitolo e di cui adesso si completerà lo schema, introduce un regime comune sulle esportazioni di armi, che si applica solo alle coproduzioni tra industrie dei sei Paesi parte e si articola come segue:

In caso di trasferimento di pezzi, componenti, tecnologie e prodotti finiti realizzati nell’ambito di coproduzioni tra industrie di due o più Stati membri, l’accordo prevede degli snellimenti procedurali che portino ad una “licence free zone” tra i sei firmatari. In particolare l’art.12 prevede la Licenza Globale di Progetto, che elimina la necessità di singole autorizzazioni alle esportazioni nelle coproduzioni tra i sei Stati e invita questi ultimi a ridurre al minimo i certificati ad uso finale a favore di certificati ad uso di società; la grande novità di questa licenza sta

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nel fatto che essa si applica anche nei confronti delle società transnazionali.

In caso di esportazione della coproduzione verso Stati terzi, l’art.13 prevede:

A) un meccanismo decisionale comune preventivo che stabilisca in quali Paesi sia lecito esportare sistemi d’arma prodotti congiuntamente: il consensus. Il consenso delle parti deve riguardare: le caratteristiche dell’equipaggiamento, le destinazioni consentite ed i riferimenti agli embarghi, i criteri a cui faranno riferimento gli Stati nello stilare la lista sono il Codice di Condotta, le politiche esportative degli Stati parte, le esigenze di rafforzamento della base industriale di difesa. B) le normali procedure autorizzatorie e delle assicurazioni sull’uso finale vengono demandate al Paese in cui ricade il contratto di esportazione della coproduzione.

L’Accordo Quadro non mira a creare né un mercato unico degli armamenti, né tantomeno una politica di esportazione comune, ma semplicemente ad istituire un meccanismo di consultazione intergovernativa tra i sei Paesi membri.

Gli elementi di novità relativi al processo decisionale e dispositivo possono essere ritenuti i seguenti: il ruolo di primo ordine dato ad attori non statuali, quali i funzionari dei ministeri della difesa dei sei Stati, che si sono consultati con i principali gruppi industriali al fine di armonizzare e snellire il mercato interno; la crescente sinergia tra settore civile e militare che ha permesso l’omologazione del secondo con il primo; il fatto che l’accordo agisca su procedure decisionali comuni in modo flessibile, garantendo più combinazioni di criteri decisionali. Gli Stati incoraggiano le industrie a dar vita ad imprese transnazionali: lo strumento operativo primario nella ristrutturazione industriale del settore è individuato nella Transnational Defence Company (TDC); si assicura agli Stati partecipanti un controllo su alcuni eventi determinanti per lo status giuridico ed economico di queste imprese transnazionali,

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infatti si prevede un’informativa nei confronti di tutti gli Stati interessati per costituzioni o “mutamenti essenziali” di queste ultime17

.

Compare quindi un’Europa a due velocità, che si affida alle spinte delle industrie e degli Stati più forti, in grado di trainare il processo d’integrazione industriale così come quello della creazione di una difesa unica.

Ovviamente non mancano i profili di criticità di questo accordo, infatti la mancanza di linee politiche chiare e forti che indirizzino il processo di ristrutturazione dell’industria ha fatto sì che si sottovalutassero gli aspetti politico-strategici, di sicurezza e controllo democratico.

Per quanto attiene nello specifico all’esportazione di armamenti, si possono ritrovare dei nodi di rilevante portata:

Le decisioni rilevanti non sono affidate ad un organo comune (come nel caso dell’Occar), ma restano degli stessi Stati parte, anzi, di tutti congiuntamente;

Sono stati invitati gli Stati a ridurre al minimo i controlli interni senza predisporre alcun sistema centralizzato o coordinato di controlli che permettesse di seguire l’iter dei componenti nell’ambito di una coproduzione;

Sono stati indebolite le garanzie date dal certificato d’uso finale, trasformandolo in una sorta di assicurazione finale, non vincolante giuridicamente;

Le industrie hanno un potere di iniziativa nel processo decisionale, ma non vengono minimamente citati i Parlamenti; Si lasciano agli aspetti commerciali un peso considerevole nelle

decisioni sulle destinazioni permesse, non vi è infatti una priorità tra i criteri politici ed economico-industriali, permettendo che “le parti scelgano a là carte la migliore combinazione di variabili

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economiche o politiche nella scelta delle destinazioni finali” (Brzoska, 2002).

6- L’Agenzia europea per la Difesa.

Naufragata l’idea della creazione di una Comunità europea per la Difesa negli anni Cinquanta, nessun altro progetto di creazione di un ente analogo a livello europeo vide la luce, nonostante la percezione dell’esigenza che un settore così particolare, come quello degli armamenti, dovesse esser parte del processo comunitario, o almeno, dovesse essere affiancato ad esso.

Per la prima volta prende una certa consistenza un progetto con la dichiarazione n.30 allegata al trattato di Maastricht, nella quale si prevede la possibile creazione, in futuro, di un’Agenzia europea per gli Armamenti, funzionale alla Politica estera e di sicurezza comune. Un successivo riferimento in proposito lo si ha con la dichiarazione n.3 allegata al Trattato di Amsterdam del 1997, in cui si rinnovano gli auspici per una cooperazione in materia d’armamenti e per la creazione di un’Agenzia.

Il Trattato che adottava una Costituzione per l’Europa, poi naufragato, prevedeva l’istituzione di un ente con funzioni più ampie, l’Agenzia europea per la Difesa, allo scopo di coordinare le esigenze operative delle forze multinazionali operanti in ambito PESD; il dettato stabiliva precisamente all’art.I-41.3 “E’ istituita un’Agenzia nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti, incaricata di individuare le esigenze operative, promuovere misure per rispondere a queste, contribuire ad individuare e, se del caso, mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa, partecipare alla definizione di una

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politica europea delle capacità e degli armamenti, e assistere il Consiglio nella valutazione del miglioramento delle capacità militari”. Sulla base dell’azione comune 2004/551/PESC del Consiglio, nasce l’Agenzia, addirittura prima dell’entrata in vigore del Trattato (poi naufragato), per l’avvio delle missioni PESD e la necessità di un coordinamento nel settore che soltanto essa poteva garantire. L’Agenzia europea per la Difesa verrà quindi considerata come costituita già nel Trattato di Lisbona, che si limiterà a descriverne le finalità e i compiti in modo corrispondente a quanto era previsto dal Trattato costituzionale e dall’azione comune.

Si può notare come la creazione di questa Agenzia non si svolga all’interno del primo pilastro, quanto piuttosto con un atto PESC, che però non interessa le istituzioni comunitarie se non in composizione intergovernativa. L’azione comune, all’art. 5.3 contiene quelli che sono i principali obiettivi dell’Agenzia: sviluppare le capacità di difesa nel settore della gestione delle crisi; promuovere la cooperazione europea nel settore degli armamenti; rafforzare la base industriale e tecnologica di difesa europea per creare un mercato europeo, competitivo sul piano internazionale, di materiali di difesa e potenziare l’efficacia della ricerca e della tecnologia europea nel settore.

L’Agenzia, il cui capo è l’Alto rappresentante per la PESC, opera sotto l’autorità e il controllo politico del Consiglio, al quale riferisce regolarmente e dal quale riceve “orientamenti periodici”(art.4). Sulla base di questi ultimi, opera il Comitato direttivo, organo decisionale composto da un rappresentante per ogni Stato partecipante; esso decide a maggioranza qualificata, salvo opposizioni per “specificati e rilevanti motivi di politica nazionale”, in tal caso non si fa luogo a votazione (art.3.3).

Vengono definite anche le relazioni tra Agenzia e Comunità europea, affermando che la missione dell’Agenzia “non pregiudica” le competenze della Comunità europea e delle sue istituzioni (cfr. artt.1 e 5). Allo stesso modo la Comunità europea rimane estranea nei confronti

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dell’Agenzia, dato che nessun ruolo vi svolge il Parlamento europeo (neanche per il bilancio, autonomo e separato da quello dell’Unione, predisposto dal Capo dell’Agenzia e adottato dal Comitato esecutivo). La Commissione è “pienamente associata” ai lavori dell’Agenzia e un suo rappresentante fa parte del Comitato direttivo, ma senza diritto di voto; inutile dire che per gli atti dell’Agenzia non è prevista alcuna possibilità di controllo giurisdizionale, cui del resto non è soggetta nemmeno la stessa azione comune che dà vita all’ente18.

Gli Stati partecipano facoltativamente all’Agenzia, tant’è che l’azione comune vincola soltanto quegli Stati che hanno partecipato alla sua adozione e che si considerano membri a seguito di notifica al Consiglio della loro decisione positiva a riguardo; con lo stesso procedimento si permette agli Stati di ritirarsi dall’Agenzia senza l’onere di una giustificazione specifica su cui si basi tale decisione (art.1.4).

Per quel che attiene ai rapporti con gli altri enti già esistenti (in particolare OCCAR e LoI), si prevede una loro sopravvivenza all’Agenzia ed il tentativo di quest’ultima di sviluppare con essi “assidue relazioni” facendo da ammortizzatore fra essi; l’eventuale integrazione con questi o “l’assimilazione di princìpi e pratiche” è rinviata a decisioni future da assumersi “a tempo debito, se del caso, e di comune accordo” (art.25.2).

Infine è stato predisposto dai Paesi membri dell’Agenzia un codice di condotta sugli appalti per la difesa che si svolgono nell’ambito riguardato dall’art.296, in particolare i princìpi base, non vincolanti, cui gli Stati partecipanti convengono di uniformarsi riguardano la parità di trattamento fra i fornitori e la trasparenza nelle procedure. Gli stessi Stati pongono fra i propri obiettivi sia l’assistenza reciproca negli approvvigionamenti, sia il vantaggio economico per tutti gli Stati che si conformino al Codice di condotta. Ad integrazione di questo è stato

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successivamente, nel 2006, predisposto dalla stessa Agenzia il “Code of Best Practice in the Supply Chain”.

Termina con quest’ultimo istituto l’analisi normativa del commercio d’armamenti a livello europeo o tra Stati membri dell’UE e Stati terzi, in modo da poter passare in rassegna, a conclusione di questo capitolo, l’evoluzione che la materia ha avuto in un panorama più vasto rispetto a quello prettamente regionale, dal dopoguerra ai giorni nostri.

7- L’ottica del disarmo nel diritto internazionale sul

commercio d’armamenti.

A completamento di un’analisi sulla normativa riguardante il commercio internazionale di armamenti non può non collocarsi lo scenario più ampio e generale, del diritto internazionale.

Con esso si chiude il cerchio tracciato dall’inizio del primo capitolo e volto a permettere una panoramica d’insieme alla tematica, quanto più completa ed attuale possibile.

Il diritto internazionale consuetudinario, in materia di diritto bellico, muove dal principio secondo cui il diritto nella scelta dei mezzi e dei metodi per nuocere al nemico non è illimitato19; da ciò discendono tre princìpi più specifici:

Il principio di distinzione, che prevede una differenziazione tra combattenti e civili, precisando che soltanto i primi possono essere oggetto di attacchi militari, mentre i civili devono godere di immunità;

19C. Bonaiuti, La dimensione giuridica dello sminamento umanitario, in Forum per i problemi della Pace e

della Guerra, Nemici invisibili: il caso delle mine antiuomo, San Domenico di Fiesole, ECP, 2000,

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Il principio di proporzionalità, in base al quale non possono essere effettuati attacchi indiscriminati contro obiettivi militari legittimi, suscettibili di causare danni alla popolazione;

L’obbligo di non causare sofferenze non necessarie e ferite superflue.

Questi princìpi appartenenti al diritto internazionale consuetudinario sono stati poi recepiti e riformulati nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei due successivi Protocolli aggiuntivi del 1977.

Constatato ciò, è facile percepire quanto la preoccupazione principale a livello internazionale, sin dalla fine della seconda guerra mondiale e con la devastazione da essa causata in ogni angolo del mondo, sia quella di evitare la produzione, il commercio e l’uso di determinati armamenti dal potenziale enormemente distruttivo, lasciando in secondo piano una regolamentazione su questi ambiti riguardante le restanti categorie di armamenti, ritenute evidentemente, fino ai giorni nostri, di minore rilevanza. In particolare si vuole fare riferimento a due categorie generali di armamenti, che racchiudono al loro interno svariate tipologie specifiche: le armi convenzionali inumane, in grado di provocare sofferenze inutili alla popolazione (ad es. le mine antiuomo o le munizioni cluster) e le armi di distruzione di massa, le quali includono armi chimiche, biologiche e nucleari.

Proprio per questo motivo l’evoluzione del diritto internazionale si è mossa nell’ottica del disarmo, a tal punto che, successivamente alla Carta delle Nazioni Unite, i trasferimenti di armi sono stati per lo più disciplinati da trattati di disarmo, al fine di vietare non solo produzione e stoccaggio di armi proibite, ma anche il loro trasferimento.

Lo scopo del disarmo, della limitazione della produzione e del commercio di armamenti è un aspetto fondamentale delle politiche elaborate dall’ONU volte a garantire la pace e la sicurezza internazionali. Non può che trarsi un generale principio di disarmo da una lettura dei primi due articoli della Carta delle Nazioni Unite , i quali contengono i fini e gli obiettivi dell’Organizzazione. Ma basta andare

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oltre per notare come la Carta affronti in maniera esplicita la tematica del disarmo negli art.11, 26 e 47.

Il primo comma dell’art.11 dispone che l’Assemblea generale abbia competenza ad esaminare i princìpi in materia di disarmo e ad adottare raccomandazioni a riguardo; all’interno di essa le questioni relative al disarmo sono esaminate dal Primo Comitato (Disarmo e Sicurezza Internazionale), il quale adotta progetti di risoluzione da presentare all’Assemblea. Proprio per quel che attiene alla presente trattazione, merita particolare attenzione la risoluzione 46/36 adottata dall’Assemblea il 6 Dicembre 1991 e intitolata “Transparency in armaments”, con la quale si chiedeva al Segretario Generale di istituire e mantenere presso il Quartier Generale dell’ONU di New York un registro universale e non discriminatorio sulle armi convenzionali, che contenesse informazioni sui movimenti internazionali di armi, sulle holdings militari, sull’approvigionamento bellico attraverso la produzione nazionale e le politiche collegate.

L’art.26 affida la responsabilità della formulazione di piani per l’istituzione di un sistema di disciplina degli armamenti, con la collaborazione del Comitato di Stato Maggiore (che però non venne mai messo in condizione di adempiere al proprio compito), previsto dall’art.47.

Alla Carta seguono tre Trattati di disarmo di fondamentale importanza, ovvero: il trattato di non proliferazione nucleare del 1968; la convenzione sulle armi batteriologiche del 1972; la convenzione sulle armi chimiche del 1993.

Secondo gli art.1 e 2 del TNP gli Stati nucleari hanno il dovere di non trasferire, direttamente o indirettamente, ami nucleari o altri ordigni nucleari esplosivi; gli Stati non nucleari hanno l’obbligo di non ricevere tali armi ed ordigni.

L’art.3 della Convenzione sulle armi batteriologiche vieta di trasferire, direttamene o indirettamente, agenti, tossine e armi batteriologiche

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vietati dalla Convenzione, nonché le apparecchiature destinate alla loro produzione e ai sistemi di lancio.

L’art.1 della Convenzione sulle armi chimiche vieta in modo assoluto l’acquisizione o il trasferimento, diretto o indiretto, di armi chimiche; l’art.11 detta un particolare regime per i trasferimenti di tre tipi di prodotti chimici: prodotti altamente tossici che possono servire a scopi di ricerca, prodotti di possibile impiego come incapacitanti; prodotti largamente usati nell’industria chimica, ma che possono essere precursori di composti tossici.

Di recente si è assistito all’attuazione di misure giuridicamente vincolanti attraverso trattati di diritto internazionale umanitario, nello specifico i Protocolli II e IV della Convenzione sulle armi inumane del 1981. Nel II Protocollo, all’art.8, si vieta il trasferimento di ogni mina il cui uso sia vietato dal Protocollo stesso; si vieta inoltre il trasferimento delle mine antiuomo agli Stati non parti, tranne ove lo Stato importatore s’impegni ad applicare il Protocollo. In ambedue i casi il soggetto importatore deve essere uno Stato o un ente sotto controllo statale autorizzato ad importare materiale bellico, e l’import/export deve aver luogo nel rispetto delle disposizioni del Protocollo e delle rilevanti norme di diritto internazionale umanitario. L’art.1 del IV Protocollo stabilisce il divieto per gli Stati contraenti di trasferire armi laser accecanti ad uno Stato non contraente o ad un’entità diversa dagli Stati. Infine la Convenzione sulle mine antiuomo del 1997 proibisce in maniera assoluta lo sviluppo, produzione, stoccaggio e trasferimento di tali ordigni (art.1 par.1 b); si permette la detenzione ed il trasferimento di una modesta quantità di mine al solo scopo di sviluppare tecniche pertinenti per il rilevamento, la rimozione e la distruzione delle mine antipersona (art.3).

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8- Il Trattato internazionale sul commercio delle armi (ATT).

L’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato in data 2 Aprile 2013, con un ampia maggioranza, una risoluzione che incorpora il Trattato internazionale sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty); inizialmente è stato impossibile adottarlo per consensus a causa dell’opposizione di alcuni Stati20

. Il Trattato è stato aperto alla firma nel giugno 2013 ed è stato immediatamente sottoscritto da 67 Stati, contando 112 firme e 7 ratifiche già nel Settembre dello stesso anno; è entrato in vigore al raggiungimento di 50 ratifiche, il 24 Dicembre 2014, e attualmente conta 66 ratifiche e 130 firme.

Il suo precedente lo si fa risalire al Patto della Società delle Nazioni, il quale conteneva una normativa più stringente in materia di traffico d’armi, considerando negativa la fabbricazione di armi da parte dei privati e affidando alla Società delle Nazioni il compito di istituire un’adeguata sorveglianza sul commercio di armi. Nel 1925, a Ginevra, venne aperta alla firma una Convenzione sul controllo del commercio internazionale delle armi, munizioni e materiali da guerra, tuttavia essa non entrò mai in vigore.

A differenza degli strumenti precedentemente elencati, l’ATT non è un trattato di disarmo, né tantomeno un trattato di non proliferazione. I suoi 27 articoli, incluse le clausole finali, sono precedute da un lungo preambolo, contenente una serie di princìpi che gli Stati si impegnano a seguire, con il quale si mette subito in chiaro che il Trattato non vieta il trasferimento e la produzione di armi convenzionali. Viene evidenziato infatti come vada rispettato “l’interesse legittimo di ogni Stato ad acquisire armi convenzionali per esercitare il proprio diritto alla legittima autodifesa e per contribuire alle operazioni di mantenimento della pace nonché di produrre, esportare, importare, e trasferire armi convenzionali”.

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In poche parole, apprestandoci ad osservare nello specifico il Trattato, esso vuole regolamentare il commercio internazionale di armi allo scopo di prevenire ed eliminare il commercio illegale.

Oggetto del trattato sono le sette categorie di armi convenzionali incluse nel Registro delle Armi Convenzionali tenuto presso il Segretario Generale ONU (di cui si era accennato nel precedente paragrafo): carri armati, autoveicoli corazzati da combattimento, sistemi di artiglieria di grosso calibro, aerei da combattimento, elicotteri d’assalto, navi da guerra, missili e lanciatori di missili; oltre ad essi si considerano le armi leggere e di piccolo calibro, considerato il numero di vittime da queste causato soprattutto nei conflitti interni.

Le attività che vengono disciplinate sono l’esportazione (anche quella di munizioni sparate, lanciate o scaricate dalle armi precedentemente elencate), importazione, transito, trasbordo e intermediazione di armi, le quali vengono ricondotte nell’unica voce di “trasferimento”.

Il “trasferimento” è proibito quando (art.6): risulta essere contrario agli obblighi derivanti da misure adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in virtù del capitolo VII; è suscettibile di violare obblighi derivanti dai trattati internazionali di cui lo Stato contraente sia parte; lo Stato parte è a conoscenza della possibilità che le armi possano essere utilizzate per commettere crimini internazionali o infrazioni gravi delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 o altri crimini internazionali previsti dai Trattati di cui lo Stato contraente sia parte.

Questo articolo proibisce il trasferimento nei confronti di qualsiasi attore, statale e non statale, se sussiste una qualsiasi tra queste condizioni. Negli articoli successivi, dal 7 al 10, si disciplinano le varie possibili attività di trasferimento.

Tra i criteri che lo Stato deve prendere in considerazione al fine di proibire l’esportazione è incluso il rischio che le armi “possano essere utilizzate per commettere o facilitare gravi atti di violenza di genere o atti di violenza contro donne o bambini” (art.7 par.4).

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Il sistema di controllo previsto dall’ATT non è particolarmente intrusivo, in quanto è incentrato sul sistema dei rapporti, con l’istituzione di un Segretariato e la Conferenza degli Stati parte; alcune misure, come la conservazione dei registri nazionali di autorizzazioni all’esportazione (art.12) o la cooperazione sullo scambio di informazioni (art.15), sembrano piuttosto misure che puntano a rafforzare la fiducia, anziché misure effettive di controllo. Era prevista l’istituzione di un Segretariato (art.18), provvisorio in attesa dell’entrata in vigore del Trattato, a cui andavano trasmessi i rapporti compilati dagli Stati parte entro un anno dall’entrata in vigore del trattato (art.13), dopodiché, una volta entrato in vigore, ogni Stato avrebbe dovuto fornire un rapporto su import/export di armi a cadenza annuale21. Questi rapporti circolano fra gli Stati, ma lo Stato ha la facoltà di escludere dal rapporto quelle informazioni che risultano essere di “natura commerciale sensibile o riguardanti la sicurezza nazionale”.

L’ATT è stato stipulato per una durata illimitata, è infatti ammesso il recesso a discrezione dello Stato parte, con la sola “facoltativa” motivazione delle cause che hanno indotto lo Stato a recedere.

All’art.26, par.2 ritroviamo una clausola singolare, la quale prevede che il Trattato non possa essere invocato “per annullare la validità degli accordi di cooperazione in materia di difesa conclusi tra gli Stati parte”. Gli Stati membri, su autorizzazione dell’UE, data la competenza comunitaria in materia, possono firmare e ratificare il Trattato; con la Decisione 2013/269/PESC del Consiglio del 27 maggio 2013 erano già stati esortati gli Stati membri a firmare il trattato appena possibile (art.2). Il Parlamento italiano ha votato la legge che autorizza il Presidente della Repubblica a ratificare l’ATT il 25 settembre 2013, con all’interno l’ordine d’esecuzione nell’ordinamento interno, depositando la ratifica il 02 Aprile 2014.

Questo trattato è frutto di compromessi tra le varie esigenze, come proprio di ogni trattato a livello universale, ma ciò nonostante è positivo

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constatare il numero ragguardevole di firme apposte all’apertura di esso, l’impegno iniziale preso da taluni Stati per eseguirlo provvisoriamente, anche prima della sua entrata in vigore, ed il successivo raggiungimento delle ratifiche necessarie. Non bisogna dimenticare che questo trattato è il primo strumento in materia di commercio internazionale di armamenti e la sua stessa entrata in vigore non può non dare un apporto notevole alla realizzazione dei princìpi inseriti nel Preambolo del trattato stesso, opera che avrà inizio con la prima conferenza degli Stati parte, prevista tra il 24 ed il 27 Agosto 2015.

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