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1. La letteratura fantasy 1.1 Una definizione di genere

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1. La letteratura fantasy

1.1 Una definizione di genere

Che cos’è il fantasy?

A prima vista questa può sembrare una domanda banale. Ognuno di noi, che sia appassionato del genere oppure no, è convinto di saper rispondere perché la nostra mente a quella sfera concettuale e tematica ricollega immediatamente un qualsiasi elemento appartenente al fantastico, al soprannaturale e non al mondo reale. La magia, per esempio, i draghi o i vampiri, in questo periodo.

In realtà le cose non sono così semplici.

Di fatto, la sola presenza in un libro di una qualsiasi di queste componenti, anche se necessaria, non è sufficiente a fornire una spiegazione esaustiva di che cosa sia il fantasy.

A dire la verità, non c’è mai stata chiarezza intorno alla definizione di questa branca della letteratura. Sebbene si parli di fantasy, anche se non di preciso in questi termini, da più di trecento anni, non si può dire che esista una vera e propria definizione del genere. Per meglio dire, le definizioni sono state tante, forse troppe, e sicuramente troppo diverse.

Lo scrittore e accademico David Sandner fa risalire la prima critica di questo genere al 1712. Nel luglio di quell’anno, infatti, sulle pagine della rivista quotidiana britannica The Spectator, uno dei fondatori, Joseph Addison, introduce un tema che si avvicina di molto a una prima definizione di letteratura fantasy:

There is a kind of writing wherein the poet quite loses sight of Nature, and entertains his reader’s imagination with the characters and actions of such persons as have many of them no existence but what he bestows on them; such are fairies, witches, magicians, demons, and departed spirits. This Mr. Dryden calls the

fairy way of writing, which is, indeed, more difficult than any

other that depends on the poet’s fancy, because he has no pattern to follow in it, and must work altogether out of his own invention1.

1

Joseph Addison, The Spectator, 419,

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Come anche Gary K. Wolfe fa notare nel suo saggio Fantasy from Dryden to Dunsany2, il poeta, drammaturgo e uomo politico inglese del XVIII secolo non usa esplicitamente il termine “fantasy”. Egli però pone l’attenzione su quelle che nel corso del secolo diventeranno due parole chiave della letteratura: «imagination» e «fancy». Lo stesso Addison si cimenta nel tentativo di attribuire un corretto significato a questi termini: secondo lui essi si fonderebbero sul concetto di “sight”, ossia “vista, visione” e avrebbero entrambi a che fare con le reazioni o i ricordi suscitati in noi da oggetti presenti in natura o artistici. Insomma, l’immaginazione, accostata alla fancy, semplicemente si occupava di riflettere il mondo esterno.

Nel corso del secolo, però, le accezioni di queste due parole si evolvono. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, addirittura, il significato di “imagination” viene totalmente rovesciato: all’interno del movimento romantico, essa diventa la metafora di una lampada in grado di illuminare mondi invisibili che si trovano al di là della realtà che percepiamo3. Sarà sufficiente aspettare il 1817 e la Biographia Literaria di Samuel T. Coleridge per ottenere una distinzione netta tra “imagination” e “fancy”, sulla quale si fonda gran parte del dibattito letterario dell’Ottocento. Il poeta inglese descrive la prima come «the living Power and prime Agent of all human Perception, and as a repetition in the finite mind of the eternal act of creation»4. Successivamente presenta la seconda in quanto pura «mode of Memory»5. Riassumendo, per Coleridge “imagination” è intesa come capacità creatrice, facoltà di dare la vita alle cose, mentre “fancy” è semplicemente riconducibile alla memoria che noi abbiamo delle stesse. La prima non ha bisogno del mondo esterno per realizzarsi, la seconda non può farne a meno.

Più tardi J. R. R. Tolkien, nella sua opera del 1939 Sulle fiabe, preferisce utilizzare la forma non contratta e non spregiativa di “fancy”, cioè “fantasy” per abbracciare contemporaneamente sia il suo antico uso, equivalente di Immaginazione, sia l’accezione di « “irrealtà” [...], di libertà dal dominio del «fatto» osservabile, in breve di fantastico»6. Ma questa differenza ha un’importanza

2

Cfr. Gary K. Wolfe, Fantasy form Dryden to Dunsany, in Edward James, Farah Mendlesohn, The

Cambridge Companion to Fantasy Literature, Cambridge University Press, Cambridge, 2012.

3

WOLFE,, 2012, p. 8.

4

Samuel Taylor Coleridge, Biographia Literaria, in Selected Poetry and Prose, ed. Donald R. Stauffer, Modern Library, New York, 1951, p.156.

5

COLERIDGE, 1951, p. 263. 6

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marginale. Grazie a Samuel T. Coleridge è nato il bisogno di creare una terminologia del fantastico, dotata di un valore convenzionalmente riconosciuto.

Nonostante l’attenzione riportata su questo tema dal poeta inglese, però, lo scetticismo che vige nei confronti dell’uso di elementi fantastici nella letteratura per adulti è ancora molto forte. Nell’epoca Vittoriana, in cui la società esalta l’applicazione della scienza, il valore dell’etica e il Realismo domina la scena letteraria, le componenti “estranee” alla realtà sono tollerate solamente se alla loro base ci sono motivazioni di tipo didattico o morale. Tutto questo risulta paradossale se pensiamo che proprio fra il 1837 e il 1901 la letteratura fantasy per ragazzi conosce il suo periodo aureo. Di questo periodo sono, per esempio, le traduzioni dei racconti di Hans Christian Andersen (1846) e in particolare il famosissimo Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel paese delle meraviglie) di Lewis Carroll.

Ancora più strabiliante è che, sempre nel XIX secolo, questa «follia infantile»7, come la definisce Tolkien assumendo punto di vista degli intolleranti, nei romanzi per adulti è diffusa sotto le spoglie delle influenze orientali e dà addirittura origine ad alcuni di quelli che possono essere definiti sottogeneri del fantasy. Già alla fine del Settecento, infatti, la letteratura inglese aveva subìto il fascino dell’esotismo e le Arabian Nights, nel secolo successivo, sono talmente popolari da essere prese a modello da moltissimi autori altrimenti conosciuti come fautori del Realismo, dando vita così a una popolare sottocategoria di fantasy. Inoltre, non bisogna dimenticare che lo stesso Charles Dickens di Oliver Twist si trova perfettamente a suo agio in un altro sottogenere fantastico diffusissimo in questi anni, quello delle ghost stories (basti pensare che A Christmas Carol, cioè Canto di Natale, viene pubblicato per la prima volta nel 1843).

Lo sviluppo di queste nuove branche della letteratura ha sicuramente dato vita a moltissimi elementi che entreranno a far parte dello standard dei romanzi fantasy nel secolo successivo. Tuttavia, il contributo più sostanziale alla concezione odierna di questo genere è stato apportato senza alcun dubbio dall’artista inglese William Morris. Con la sua opera The Hollow Land (1856) egli mette per la prima volta il lettore di fronte ad un mondo alternativo dotato di una consistenza reale e di regole proprie, estraneo alla nostra realtà. Ma il suo contributo forse più importante è stato quello di inserire le sue storie in un’ambientazione medievale perfettamente integrata con gli elementi fantasy. Lo scenario pseudo-medievale (“pseudo” perché non si

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tratta realmente di Medioevo e inoltre il tempo non è storicamente definito) è sicuramente la scelta prediletta dai moderni autori di fantasy e per questo motivo si potrebbe quasi definire Morris come il padre della letteratura fantasy. E c’è di più. Alla continua ricerca di fonti di ispirazione, Morris alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento legge e traduce numerose delle saghe islandesi che saranno fondamentali nella formazione, tra gli altri, del giovane John R.R. Tolkien.

Che venga considerato un modello al quale aspirare o che si cerchi disperatamente di sfuggire alla sua influenza, l’autore de Il Signore degli Anelli è sicuramente il punto di riferimento della maggioranza degli scrittori fantasy contemporanei. Con le sue opere Tolkien ha consolidato quelli che oggi vengono comunemente ritenuti essere due degli aspetti indispensabili di un buon fantasy, gli stessi che William Morris aveva portato alla ribalta alla metà dell’Ottocento: la presenza di un mondo alternativo realistico e l’ambientazione pseudo-medievale. In particolare, il professore e filologo inglese, come sottolinea Edward James8, ha avuto un ruolo fondamentale nella “normalizzazione” dell’idea di un mondo indipendente rispetto al nostro. Dalla pubblicazione de Il Signore degli Anelli nel 1954 in poi, nessun autore ha mai più dovuto giustificare il “proprio universo” presentandolo come un sogno o come il racconto di uno sconosciuto viaggiatore. Lo scrittore ne è diventato il legittimo creatore ed esso è tanto più realistico e “vero” per il lettore quanto più si affida alla propria logica e non ricorre a materiale appartenente in modo inconfondibile alla nostra realtà.

Come vedremo nel prossimo paragrafo, logicamente, nessuno di questi due aspetti è strettamente necessario per la creazione di un romanzo che possa essere definito fantasy.

Nel XX secolo non si può ancora dire di essere approdati ad una esaustiva definizione di fantasy. Una delle difficoltà alla base di questo problema riguarda la sua indipendenza dal genere fantastico. Nel corso del Novecento molti teorici si sono cimentati nel tentativo di definire il genere fantasy e non sempre sono stati d’accordo sul rapporto che quest’ultimo avrebbe con il fantastico. Tzvetan Todorov è stato uno dei maggiori studiosi di letteratura fantastica del secolo scorso e la sua opera principale La letteratura fantastica. Definizione e grammatica di un genere

8

Edward James, Tolkien, Lewis and the explosion of genre fantasy, in Edward James, Farah Mendlesohn, The Cambridge Companion to Fantasy Literature, Cambridge University Press, Cambridge, 2012, p. 65.

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letterario9 è stata considerata un punto di riferimento nello studio del genere fantasy. Anche se oggi le sue idee sono considerate superate dai più, la sua teoria sul fantastico ha comunque avuto una certa importanza negli altri studi dello stesso periodo. Egli sostiene che il fantastico, in quanto esitazione di fronte a un fenomeno, tenda a due estremi: lo “strano”, se ciò che vediamo è riconducibile alle leggi della realtà, e il “meraviglioso”, se le leggi di natura non sono sufficienti a spiegarlo. Basandosi su questo principio, Todorov sviluppa una quadripartizione dei testi: lo «strano puro», il «fantastico strano», il «fantastico meraviglioso» e il «meraviglioso puro»10. Nell’ottica di questo studio la categoria più importante è quella del «fantastico meraviglioso». Questa definizione è ciò che di più si avvicina all’idea di fantasy: si tratta per l’appunto di «racconti che si presentano come fantastici e che terminano con un’accettazione del soprannaturale11

. Di conseguenza, possiamo dire che Todorov, pur senza nominarlo direttamente, fa rientrare il fantasy all’interno del genere fantastico. Al contrario, Roger Caillois, tramite la sua definizione di fantastico, presentata nel saggio Fiaba, fantastico, fantascienza12, esclude una qualsiasi complementarietà con il fantasy: «[...] il fantastico rivela uno scandalo, una lacerazione, una irruzione insolita e quasi insopportabile nel mondo reale»13.

Come è evidente, nessuna delle due definizioni può essere utilizzata per descrivere in maniera appropriata il fantasy.

Ad oggi, i maggiori teorici di fantasy sembrano essersi accordati almeno per quel che riguarda le fondamenta del genere: esse risiederebbero nella costruzione dell’impossibile, mentre, per esempio, la fantascienza si differenzia per la sua appartenenza al campo dello scientificamente possibile14. Il problema principale che gli autori del volume The Cambridge Companion to Fantasy Literature, Edward James e Farah Mendlesohn, mettono in evidenza è la totale assenza all’interno delle opere critiche di esempi tratti da testi della fine del Novecento. Banalmente, la maggioranza dei teorici nella propria analisi del fantasy prende in considerazione solamente romanzi del XIX e inizio XX secolo, escludendo così un arco temporale

9

Cfr. Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, trad. di Elina Klersi Imberciadori, Milano Garzanti, 1983. 10 TODOROV, 1983. 11 TODOROV, 1983, p. 55. 12

Cfr. Roger Caillois, Fiaba, fantastico, fantascienza, in Silvia Albertazzi, Il punto su: La letteratura

fantastica, Roma-Bari: Laterza, 1993.

13

CAILLOIS, 1993, p.156.

14

Edward James, Farah Mendlesohn, The Cambridge Companion to Fantasy Literature, Cambridge University Press, Cambridge, 2012, p. 1.

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ricchissimo di esempi di genere che potrebbero invece risultare utili ove inclusi in uno studio approfondito.

Il miglior esempio di testo teorico sul fantasy ad andare invece contro questa corrente è Strategies of Fantasy (1992) dell’americano Brian Attebery. Egli allarga la propria visuale e propone di guardare al fantasy come a un insieme di testi che condividono, a diversi livelli, una serie di motivi ricorrenti che possono essere singoli elementi ma anche tecniche narrative. A seconda della quantità di queste caratteristiche che la storia contiene, il romanzo viene considerato più o meno appartenente al genere, o meglio, a una certa categoria di genere. L’idea di Attebery è che il fantasy debba essere considerato come una sorta di insieme indistinto, di ibrido all’interno del quale sono possibili un diverso numero di raggruppamenti.

Il prossimo capitolo focalizzerà l’attenzione proprio sulla suddivisione del fantasy in categorie.

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1.2 I diversi volti del fantasy

A questo punto sorge spontaneo domandarsi se esistono delle regole per suddividere il fantasy in categorie.

Ad una prima analisi non possiamo dire che vi siano delle rigide norme da seguire, altrimenti basterebbe delinearle per ottenere la tanto agognata definizione di questo genere.

L’autrice di romanzi fantasy e di fantascienza, Ursula K. Le Guin, nella sua raccolta di saggi e discorsi teorici The Language of the Night. Essays on Fantasy and Science Fiction15, sottolinea più di una volta come nella creazione di un mondo alternativo non siano fondamentali regole “esterne”, bensì regole “interne”. Se da un lato lo scrittore non è soggetto a rigide imposizioni dettate dal genere, dall’altro egli non può ingenuamente pensare di essere libero di fare tutto ciò che vuole. «Absolute freedom is absolute responsability»16.Una volta che l’autore ha iniziato il proprio lavoro, più o meno inconsciamente, dà origine a delle norme che poi è costretto a seguire se vuole evitare che il lettore storca il naso di fronte a inverosimili eccezioni alle sue stesse regole. La coerenza è fondamentale se si vuole che il proprio universo risulti credibile e per fare questo bisogna prestare attenzione a ciò che si è scritto e che si vuole scrivere. Un romanzo, infatti, si sviluppa in due sensi, avanti e indietro. Ne consegue che ciò che si è scritto è destinato a incidere su quello che si scriverà. Banalmente, dice ancora Le Guin, il meccanismo che si sviluppa all’interno della lingua è identico: l’uso stesso di una parola influisce sulla scelta di quella successiva a causa dei legami morfo-sintattici. Perciò, in questo senso è lo scrittore a dettare le proprie regole, che in definitiva non sono altro che scelte coerenti.

D’altro canto, però, ciascuno di noi è consapevole dell’esistenza di figure o aspetti che ricorrono pressoché in maniera esclusiva nei romanzi fantasy: gli elfi, per esempio, o i già citati draghi. Di fatto il fantasy è suddivisibile in svariati sottogeneri anche grazie alla presenza o assenza nella storia di determinati elementi. Ma in realtà, volendo essere più precisi, le ripartizioni dipendono dal punto di vista dal quale viene svolta un’analisi del genere.

15

Cfr. Ursula K. Le Guin, The Language of the Night. Essays on Fantasy and Science Fiction, The Women’s Press Ltd, Namara Group, London, 1989, pp. 210.

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Per esempio, è possibile incentrare un’indagine sui personaggi, sullo svolgimento della vicenda e volendo anche sulle coordinate spazio-temporali. Studi di questo tipo hanno condotto a una distinzione, per esempio, tra Dark o Gothic fantasy, all’interno del quale le idee di bene e male si confondono e ricorrono elementi dell’horror, Urban fantasy, in cui fondamentale è l’ambientazione, di solito una grande città, dove la nostra realtà si interseca con elementi fantastici (un esempio sono i romanzi della serie dei Guardiani di Sergej Luk’janienko) e lo Humour o fantasy umoristico, il cui maggior rappresentante è senza dubbio Terry Pratchett con i suoi romanzi ambientati nell’universo del Mondo Disco. Se queste etichette possono talvolta confondersi tra loro e assumere caratteristiche differenti, ce ne sono due sulle quali quasi nessuno nutre dubbi, cioè Heroic fantasy o fantasy epico e Sword and Sorcery. Se pensiamo che Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien è il maggior rappresentante dell’Heroic fantasy e le avventure di Conan il barbaro di Robert E. Howard sono il modello per il Sword and Sorcery, la distinzione di questi due sottogeneri ci appare subito evidente. In realtà ci sono stati alcuni casi in cui queste due eccellenti opere sono finite nella stessa categoria, diventando prima entrambe Heroic fantasy, poi Sword and Sorcery.

Le differenze principali fra questi due sottogeneri riguardano i tratti che contraddistinguono i loro personaggi. L’eroe del Sword and Sorcery è prima di tutto un violento uomo d’azione, guidato dalla sua stessa voglia di combattere e alla continua ricerca di avventure. Egli vive solitamente ai margini della società o comunque non è perfettamente integrato al suo interno, anche se in genere il riferimento all’appartenenza a un gruppo è presente. È inoltre svincolato dalla morale degli uomini, privo del comune senso di ciò che è giusto o sbagliato.

Al contrario, il protagonista dell’Heroic fantasy non è necessariamente dotato di capacità fisiche o poteri particolari e può essere definito come un rappresentante della collettività alla quale appartiene e per la quale è disposto a sacrificarsi nel nome della giustizia. Egli accetta il proprio destino, consapevole della presenza di forze più grandi di lui, che spesso si mostrano sotto forma di profezie. Per il protagonista del Sword and Sorcery fantasy, invece, l’esistenza di una divinità o del semplice fato è irrilevante, poiché non ha un’influenza diretta sulle sue azioni. Egli può quasi essere definito un «anti-eroe» (anti-hero) per la sua attitudine nei confronti dei pericoli che affronta: non lo fa in nome di un bene superiore, bensì perché ha deciso di farlo. Tuffarsi nel pericolo diventa così una scelta egoistica perché, in un certo senso, per

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lui la vita non avrebbe valore se non ci fossero avventure da affrontare o nemici da sconfiggere. Esattamente all’opposto si trova il protagonista dell’Heroic fantasy, che si ritrova quasi costretto dal destino e dalla propria mentalità di “giusto” ad agire, il più delle volte, per salvare il mondo.

Questa, come è già stato messo in evidenza, è una della modalità di analisi che possono essere seguite per suddividere il fantasy in categorie.

Un altro punto di vista viene invece offerto da Farah Mendlesohn nel suo volume Rhetorics of Fantasy17. In esso, la scrittrice inglese si propone di delineare una tassonomia del fantasy, fornendo al lettore delle motivazioni teoriche per le sue scelte corredate da esempio pratici. Principalmente la sua classificazione si fonda sulle diverse modalità in cui l’elemento fantastico si inserisce nella vicenda, ma Mendlesohn ritiene fondamentale anche la relazione tra il lettore e la struttura narrativa.

Per ottenere l’effetto desiderato, l’autore deve fare in modo che il lettore si trovi nel “posto giusto”. La sua prospettiva è fondamentale perché sarà quella a determinare il successo o il fallimento dell’esperienza. Questo, naturalmente, non vale soltanto quando si vogliono soddisfare le aspettative del lettore, ma anche nel caso opposto, ossia quando le si vuole disattendere per disorientarlo. Entrambe le parti coinvolte sono a conoscenza che fra loro vige un rapporto fondato sulla condivisione di credenze riguardo all’esistenza di tecniche narrative che sortiscono determinati effetti. Questa dialettica fra autore e lettore è alla base di quel senso di meraviglia e incanto che contraddistingue un buon fantasy.

Mendlesohn identifica alcune di queste tecniche e, concentrandosi, come si è già accennato, su come il fantasy si innesta nella narrazione, identifica quattro categorie nelle quali è possibile suddividere questo genere: il portal-quest, l’intrusion fantasy, illiminal fantasy e l’immersive fantasy.

Il primo sottogenere di cui si occupa l’autrice inglese è il portal-quest fantasy. Come si può capire dal titolo, esso racchiude tutte le opere che hanno al centro della propria vicenda l’attraversamento di un portale e/o la ricerca di qualcosa o qualcuno. In esso il protagonista è attirato verso l’elemento fantastico, il che implica il passaggio in un altro mondo.

La caratteristica principale di questo sottogenere è senza dubbio la ricchezza delle descrizioni. Mendlesohn paragona l’autore a uno scrittore pre-raffaellita, che si

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focalizza sulla descrizione e sull’esposizione dettagliata di ciò che circonda il protagonista. Quest’ultimo, infatti, si ritrova in una realtà in cui non conosce nulla e quindi di volta in volta spiega ciò che vede o riceve dei chiarimenti sul “funzionamento” di quell’universo. La posizione del lettore è quella di accompagnatore del personaggio principale: egli vede, sente e sa soltanto quello che l’eroe vede, sente e sa, nulla di più. Più che l’avventura in sé, sono l’esplorazione e la conoscenza di questo nuovo mondo a trovarsi al centro della narrazione. In compagnia del protagonista, man mano che le pagine si susseguono, il lettore impara a capire il meccanismo di questo universo secondario.

Tipica di questa categoria di fantasy è la presenza incombente del destino, che si manifesta tramite profezie e visioni (che hanno il più elevato grado di credibilità all’interno dei portal-quest) e materialmente sotto forma di una mappa collocata nelle prime pagine del volume. L’unità di azione è mantenuta anche nel caso in cui la narrazione segua più di un personaggio; la presenza di più filoni narrativi è piuttosto diffusa in questo sottogenere. Un’ultima strategia applicata al portal-quest fantasy da evidenziare è la réverie. Essa è il momento in cui di solito il protagonista riflette su se stesso e sulla sua storia, senza però concentrarsi su un ricordo specifico che possa suscitare in lui delle emozioni. Perciò, pur senza avere accesso diretto a ogni suo pensiero, al lettore è offerta così la visione privilegiata di alcune riflessioni del protagonista.

Successivamente l’autrice inglese passa a occuparsi dell’immersive fantasy. La peculiarità di questa categoria risiede nella sua ambientazione: l’intera vicenda si svolge in un mondo alternativo creato dall’autore stesso, realistico e perfettamente “funzionante” a ogni livello. Al contrario del portal-quest, l’immersive fantasy dà per scontate le basilari regole dell’universo in cui è ambientato, evitando le ricche e prolisse descrizioni tipiche del sottogenere precedentemente nominato. Mendlesohn definisce la tecnica alla base di questa categoria «irony of mimesis»18. In pratica, non solo viene chiesto al lettore di dimenticare il ruolo di mediatore della lingua, come accade in genere nei romanzi, ma addirittura di condividere le stesse leggi dei personaggi che appartengono a quel mondo, quasi di “immergervisi” dentro. Infatti il lettore, nell’immersive fantasy, non è più collocato al fianco del protagonista, bensì risiede nella sua testa: deve dare per scontato ciò che l’eroe dà per scontato e deve interpretare il mondo secondo le sue leggi.

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Gli elementi fantastici sono vissuti come la norma per i personaggi e lo stesso deve valere per il lettore, che dovrà prestare attenzione perché in questa situazione ciò che non viene detto è importante quanto ciò che viene spiegato. «Show first, tell later»19 è il motto di questo sottogenere del fantasy, che in rari casi può persino accennare a cose che non verranno mai spiegate nei dettagli.

Un vantaggio di questa categoria è che essa può ospitare diversi filoni narrativi contemporaneamente. Quindi senza avere un narratore onnisciente possiamo farci comunque un’idea di quello che succede intorno al protagonista.

Inoltre non è inusuale la presenza di un elemento intrusivo in questo mondo alternativo, che però assume caratteristiche differenti rispetto al sottogenere dell’intrusion fantasy. Qui infatti l’intrusione non è portatrice dell’elemento fantastico, bensì di una semplice deviazione dalla norma.

La terza categoria presentata da Mendlesohn, appunto l’intrusion fantasy, prevede che in una realtà che potrebbe essere la nostra faccia il suo ingresso una figura soprannaturale. La narrazione solitamente si svolge in prima persona e riferisce dei fatti dal punto di vista del protagonista, di modo che le emozioni suscitate dall’evento possano essere trasmesse nel modo più diretto possibile. La lingua, infatti, deve riflettere continuamente lo stupore che pervade il personaggio principale e automaticamente anche noi. L’intrusione porta con sé il caos e fino alla sua piena manifestazione la narrazione riflette in un crescendo timore e incredulità. La trama dell’intrusion fantasy è di solito piuttosto prevedibile e una volta svelata la figura soprannaturale si tratta semplicemente di rispedirla indietro, domarla o distruggerla.

L’ultimo sottogenere identificato dall’autrice inglese è quello del liminal fantasy. Chiamato anche fantasy della possibilità, in esso il fantastico rimane ai margini della nostra visuale. Accade che al protagonista si presenti l’opportunità di entrare in contatto con un elemento soprannaturale, come per esempio un portale. La differenza dagli altri tipi di fantasy è che qui il personaggio principale si tira indietro, rifiuta il contatto.

Questa è sicuramente la categoria più complicata da delimitare entro dei confini più o meno precisi, ma si possono evidenziare ancora due aspetti che la caratterizzano. Innanzitutto, la parola chiave è «dissonanza» (dissonance) e ciò deriva dal fatto che la reazione emotiva del lettore di fronte al soprannaturale è di

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solito in contrasto o quanto meno diversa nel grado da quella dei personaggi. Inoltre, il rapporto tra autore e lettore descritto all’inizio dell’opera diventa fondamentale nel liminal fantasy per la costruzione dell’aspetto fantastico della narrazione. In pratica, se il protagonista disattende le nostre le nostre aspettative, non esita di fronte al fenomeno, utilizzando la terminologia di Todorov, allora sarà il lettore a farlo. Si tratta di diverse possibilità che conducono a diverse letture, al contrario, per esempio, del portal-quest fantasy dove tutto è chiaro ed evidente sin dal principio.

Farah Mendlesohn chiude il suo libro con alcuni esempi tratti da quelli che lei definisce «irregolari» (irregulars). È naturale che alcuni autori scrivano opere che rientrano in più di un sottogenere, ma di solito le tecniche narrative cambiano insieme a loro. Un esempio è riconosciuto in Harry Potter e la pietra filosofale di J. K. Rowling, che inizia come un intrusion fantasy per poi evolvere in un portal nel momento in cui Harry accede alla realtà dei maghi. Ma la categoria degli «irregolari» comprende quegli scrittori che sfruttano varie modalità di fantasy senza che le caratteristiche tipiche di ognuna di esse vengano necessariamente utilizzate. Vellum di Hal Duncan dovrebbe essere rientrare nel portal-quest fantasy, ma in realtà tutto ciò non è possibile. L’unico ad attraversare i portali, infatti, e il lettore, mentre il protagonista ne rimane totalmente estromesso.

Farah Mendlesohn è molto chiara nello spiegare che questa analisi è semplicemente una di quelle possibili, condividendo in questo modo l’idea esposta all’inizio del paragrafo che il fantasy non è rigidamente suddivisibile in un numero finito di categorie.

Questa sua classificazione non vuole essere universale, perché a suo stesso parere «no theory that claims universal applicability is worth a damn»20.

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