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3. RESISTENZA AL TRASTUZUMAB

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Academic year: 2021

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3. RESISTENZA AL TRASTUZUMAB

I trattamenti contenenti trastuzumab rappresentano oggi lo standard di cura nelle pazienti con diagnosi di carcinoma della mammella HER2-positivo, in tutti gli stadi di malattia. Tuttavia, un numero significativo di pazienti non risponde alla terapia iniziale con trastuzumab e coloro che rispondono possono successivamente ricadere durante il trattamento. Si stima che circa il 40% dei trattati sviluppino resistenza primaria o secondaria al farmaco (76). Queste osservazioni hanno condotto ricercatori e clinici a cercare di identificare i meccanismi alla base della resistenza al trastuzumab, per riuscire a sviluppare una corretta selezione delle pazienti e nuove strategie terapeutiche. Ad oggi sono stati individuati diversi determinanti molecolari che sembrerebbero implicati nei meccanismi di resistenza al trastuzumab, sebbene nessuno di questi sia ancora stato validato nella pratica clinica (FIGURA 1).

Figura 1. Meccanismi di resistenza a trastuzumab individuati nei modelli preclinici. [P De e al. Molecular determinants of trastuzumab efficacy: What is their clinical relevance? Cancer Treatment Reviews (2013)]

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Alcuni studi hanno identificato la presenza, sulla membrana delle cellule tumorali di donne affette da carcinoma mammario HER-2 positivo, di forme troncate del recettore, alcune delle quali costitutivamente attive, collettivamente chiamate p95HER-2. Poiché tali forme possiedono un’attività, ma sono prive del dominio extracellulare contenente il sito di legame per il trastuzumab, possono ragionevolmente rappresentare un potenziale meccanismo di resistenza alla terapia con questo anticorpo oltre che essere correlate,se presenti,ad una peggiore prognosi.

Le analisi in vitro e in vivo hanno postulato l’esistenza di diversi frammenti di p95HER-2. Sono stati identificati almeno due diversi meccanismi che condurrebbero alla loro formazione: proteolisi del dominio extracellulare del recettore integro e alterazioni nella traduzione dell’RNA messaggero codificante per HER-2. Il clivaggio di HER-2 (mediato dalla sheddasi ADAM10) provoca, dopo il rilascio del suo dominio extracellulare, la formazione di un frammento ancorato alla membrana, del peso molecolare di 95 kDa e costitutivamente attivo; la alterazione traduzionale dell’RNA messaggero genera due forme di p95 da 100-115 kDa e 90-95 kD, identificate con la sigla 611 CTF e 687 CTF (77) rispettivamente localizzate a livello della membrana plasmatica e del citoplasma (proteina solubile). Queste forme tronche presentano livelli disparati di attività. Pedersen e coll. (78) hanno evidenziato, lavorando con modelli di topi transgenici, una rimarchevole oncogenicità nella forma 611 CTF: essa contiene nel suo breve dominio extracellulare 5 cisteine, alcune delle quali stabiliscono fra di loro legami del tipo disolfuro, inducendo una costitutiva omodimerizzazione del recettore stesso. Altra caratteristica di 611 CTF è quella di regolare un set di geni (ANGPTL4,MET,CD44,PLAUR,EPHA4,IL-11,etc.), non attivati invece dalla forma integra di HER-2, che sembrano coinvolti nella progressione metastatica. Questa forma inoltre induce la migrazione cellulare più efficientemente della full-lenght HER-2 attraverso la fosforilazione della cortactina (una proteina che lega il citoscheletro) e questo va ad ulteriore conferma che le cellule tumorali esprimenti 611 CTF sono biologicamente più aggressive. Il frammento solubile ( 687 CTF), sebbene dotato di un dominio avente attività chinasica, non è attivo (78). Al contrario il p95 generato per clivaggio ha mostrato di avere una certa attività, anche se ridotta rispetto a quella del 611 CTF.

Un’ analisi retrospettiva condotta da Molina e coll. (79) ha indagato, su 483 tessuti mammari neoplastici provenienti da pazienti operate, l’associazione tra l’espressione di p95 ed i fattori di rischio clinico-biologici, evidenziando, dopo un follow up mediano di 46 mesi, come alti livelli di p95 nel tumore primitivo siano correlati ad una riduzione della sopravvivenza libera da malattia a 5 anni (HR 2.55; CI 95%, 2.13-8.01; p<0.0001). La mediana di DFS è risultata di 32 mesi verso 139 nei pazienti con bassi livelli di p95.

Il potenziale ruolo predittivo di resistenza a trattamento con trastuzumab è stato in primis studiato da Scaltriti e coll. (76), sia in vitro che in vivo. Linee cellulari di carcinoma mammario (MCF-7 e T47D), precedentemente transfettate con vettori contenenti la forma integra o quella troncata di HER2, sono state studiate sia prima che dopo esposizione a trastuzumab o lapatinib. I risultati hanno messo in evidenza che il

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trattamento con lapatinib inibisce la fosforilazione di entrambe le forme di HER2 e delle chinasi a valle (Akt e MAPKs); contrariamente trastuzumab non ha dimostrato avere alcun effetto sulle cellule che esprimevano p95HER2. Per confermare tali risultati in vivo la linea cellulare MCF-7, transfettata con le due forme del recettore HER2, è stata iniettata su cavie atimiche, successivamente divise in tre gruppi ed esposti a trastuzumab, lapatinib o placebo rispettivamente. Le cavie il cui tumore esprimeva la full-lenght HER2 hanno risposto sia a trastuzumab che a lapatinib mentre quelle che presentavano la p95HER2 sono risultate resistenti a trastuzumab e sensibili a Lapatinib. Infine gli autori hanno utilizzato 46 campioni tumorali in paraffina per valutare, tramite immunofluorescenza, l’associazione fra l’espressione di p95HER2 e la responsività al trattamento con trastuzamab (in monoterapia o associato ad un regime terapeutico chemioterapico od ormonale) in donne affette da carcinoma mammario metastatico. La presenza di p95HER2 è stata storicamente rilevata attraverso la metodica del Western blotting, condotta su tessuto fresco congelato, raramente disponibile; il gruppo di Scaltriti ha introdotto l’utilizzo dell’immunofluorescenza come nuova tecnica di detezione partendo dall’osservazione che p95HER2, ma non la forma integra di HER2, è localizzata sia nel citoplasma che sulla membrana plasmatica. Lo score di positività per p95 è rappresentato dalla individuazione del segnale (in più del 50% delle cellule osservate) dell’anticorpo anti-HER2 sia sulla membrana che nel citosol. La presenza dell’anticorpo anti-HER2 nel citosol è dimostrata dalla co-localizzazione, in questa sede, dell’anti-HER2 e dell’anticorpo anti-citocheratina citoplasmatica (comparsa di una colorazione gialla al microscopio confocale, risultato della sommazione della fluorescenza rossa e verde data dagli anticorpi anti HER2 ed anti-citocheratina rispettivamente). Nello studio retrospettivo, 9 pazienti su 46 esprimevano p95 e le rimanenti 37 la forma integra di HER2 (la percentuale di soggetti risultati p95 positivi nella popolazione in esame è del 19,5%, in accordo con i dati riportati in letteratura). Una sola delle nove pazienti positive per p95 ha risposto (in maniera parziale) al trattamento con trastuzumab (11.1%), mentre 19 delle 37 pazienti (51.4%) HER2 full lenght positive hanno mostrato una risposta completa (n=5) o parziale (n=14),con un tasso di risposte globale pari a 11% vs 51.4% (p=0.029). Questi risultati sembravano confermare quanto emerso dagli studi in vitro e in vivo, cioè che i tumori esprimenti p95HER2 sono resistenti alla terapia con trastuzumab. In realtà, più tardi si è visto che l’abbondanza della forma inattiva non legata alla membrana potrebbe aver falsato la misurazione di p95 utilizzata in questo studio. Successivamente è stato quindi introdotto il saggio VeraTag™, che utilizza un nuovo anticorpo in grado di legarsi a una sequenza nel dominio extracellulare di p95 non presente invece in p185HER2 e che consente quindi di quantificarne l’espressione con alta specificità in campioni tumorali fissati in formalina e inclusi in paraffina (FFPE). Utilizzando questo saggio all’interno di una coorte di pazienti metastatici valutati HER2-positivi tramite un saggio VeraTag e trattati con trastuzumab, gli studiosi (80) hanno correlato alti livelli di p95HER2 con una più breve sopravvivenza libera da progressione (HR 1.9; p=0.017) e globale (HR 2.2; p=0.012). Per i pazienti valutati HER2-positivi tramite la FISH, allo stesso modo, l’elevata espressione di p95HER2 è risultata correlata con una più breve PFS (HR 1.8; p=0.022) e OS (HR 2.2;

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p=0.009). Il valore predittivo del cut-off stabilito in questo studio (p95 >2.8 RF/mm2) è stato poi retrospettivamente validato per la PFS e l’OS in un campione indipendente multicentrico di 240 pazienti metastatici trattati con trastuzumab (81). Nel sottogruppo validato con il saggio HERmark (Monogram Biosciences), i valori di p95 VeraTag sono risultati associati con una minor sopravvivenza libera da progressione (HR 1.43; p=0.039) e globale (HR 1.94; p=0.0055). Misurando invece l’espressione di p95 all’immunoistochimica con lo stesso anticorpo, non è apparsa nessuna correlazione con l’outcome. In particolare, l’associazione è stata riscontrata in termini di PFS (HR 2.41; p=0.0003) e OS (HR 2.57; p=0.0025) nel sottogruppo di pazienti ormono-positive (n=78) ma non in quello ormono-negativo. Quest’ultimo è un aspetto riscontrato solo nell’ambito della malattia metastatica, dove la maggior parte dei pazienti con tumori ormono-positivi sono già progrediti durante la terapia endocrina in adiuvante. Alcune di queste resistenze alla terapia endocrina sono probabilmente indotte da p95 e la relazione osservata tra i livelli di p95 e lo stato dei recettori ormonali è peraltro confermato da studi precedenti (82). Nonostante i limiti del lavoro di Duchnowska e coll. (studio retrospettivo, misurazioni effettuate su campioni di tumore primario per predire la storia naturale nel setting metastatico, confronto con l’IHC piuttosto che con un metodo più quantitativo come l’immunofluorescenza che potrebbe condurre a risultati simili al VeraTag e utilizzo di campioni FFPE processati pre-analiticamente) che possono aver provocato la modesta differenza in termini di PFS osservata nel sottogruppo p95-positivo (HR=1.43), il cut-off derivato dallo studio precedente è stato confermato come fattore predittivo della risposta clinica a trastuzumab. Il riscontro della validità di questo cut-off in differenti coorti di pazienti con malattia metastatica giustifica ad ogni modo ulteriori studi in cieco su un più ampio numero di pazienti. Qualora il valore clinico dell’espressione quantitativa della proteina p95 venisse confermato in studi clinici di controllo, come marcatore di resistenza a trastuzumab, ciò potrebbe spingere verso la ricerca di strategie terapeutiche alternative che riescano a superare tale resistenza. Ad esempio, Lapatinib è risultato in vari studi preclinici non cross-resistente nei confronti di trastuzumab. In tal merito, sempre il gruppo di Scaltriti ha analizzato nel 2010 (83) la responsività al lapatinib, sia su modelli animali che clinici, di tumori mammari HER2 positivi e coesprimenti p95HER2. Sono state condotte due diversi indagini su cavie atimiche. Nel primo esperimento si è utilizzata la linea cellulare MMV-HER2-Fo5, derivata da tumori refrattari al trattamento con trastuzumab e coesprimente sia la forma integra che quella troncata di HER2 e poi impiantata nelle cavie. Nel secondo caso, la crescita dei tumori era totalmente dipendente da p95HER2, in particolar modo dal suo frammento più attivo (611 CTF). In accordo con i risultati aspettati, entrambi i tumori si sono dimostrati refrattari al trattamento con trastuzumab ma molto responsivi a lapatinib. Inoltre gli stessi autori, sempre rimanendo nell’ambito della malattia metastatica, hanno eseguito un’analisi clinica retrospettiva su campioni di tumore mammario ottenuto da pazienti che avevano partecipato a due differenti studi: EGF20009 (84) e EGF100151(85). Nel primo studio le pazienti erano state randomizzate a ricevere in I linea un trattamento orale con Lapatinib (1500 mg una volta/die o 500mg due volte/die), mentre nel secondo, dopo una terapia con antracicline, taxani e

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trastuzumab, avevano ricevuto 2500 mg/m2 o 2000 mg/m2 di capecitabina + lapatinib (1250 mg una volta al giorno continuativamente). Complessivamente, sul campione considerato, il 26% delle pazienti iperesprimenti HER2 erano risultate positive per p95HER2, un’incidenza leggermente superiore a quella stimata in letteratura (circa il 20%). Per determinare la correlazione tra l’espressione di p95HER2 e l’outcome clinico è stato analizzato il PFS in relazione allo stato di espressione di p95HER2. Nelle pazienti che avevano ricevuto Lapatinib come trattamento in I linea non sono state osservate differenze significative nel PFS tra le p95HER2 negative e quelle positive (HR, 1.35; 95% CI; p=0.417). Similmente il PFS nelle pazienti trattate con capecitabina + Lapatinib non era significativamente differente tra i due gruppi (HR: 1.30; 95% CI; p=0.471). Ciò che è possibile dedurre da questo studio è che Lapatinib usato in monoterapia od in combinazione è ugualmente efficace sia in pazienti che esprimono p95HER-2, sia in quelli che sono p95HER-2 negativi ma iperesprimenti p185HER-2. Dal momento che i tumori che presentano p95HER-2 sono resistenti al Trastuzumab (76), tali risultati suggeriscono che, in questi casi, il Lapatinib potrebbe rappresentare una migliore opzione terapeutica. Rimangono tuttavia aperti degli interrogativi a cui al momento non siamo ancora in grado di rispondere. Non sappiamo se la resistenza al Trastuzumab sia primitiva oppure acquisita e derivante, in questo ultimo caso, da un processo di selezione di cloni cellulari tumorali trattati con l’anticorpo per un periodo di tempo prolungato. Se la resistenza fosse secondaria, un trattamento ab initio con Trastuzumab e Lapatinib in associazione potrebbe ritardare la sua comparsa. Inoltre l’espressione di p95HER2 potrebbe coesistere con altri potenziali meccanismi di resistenza al Trastuzumab, quali mutazioni attivanti PI3K o la perdita di funzione di PTEN.

Valutando l’attività degli agenti anti-HER2 senza chemioterapia in pazienti metastatici, Montemurro e coll. (86) hanno identificato recentemente un pannello di biomarcatori in grado di predire il beneficio clinico ottenibile. Gli autori hanno randomizzato i pazienti a trastuzumab o lapatinib come terapia di prima linea. La chemioterapia è stata aggiunta alla terapia anti-HER2 nei pazienti che non hanno ottenuto regressione tumorale dopo 8 settimane e in coloro che sono progrediti in qualsiasi momento. Utilizzando il pannello PAM50, sono stati individuati i sottotipi intrinseci. Inoltre sono stati valutati quantitivamente i livelli di espressione delle proteine HER2 (H2T) e p95HER2 (p95) attraverso i saggi HERmark® e VeraTag®, rispettivamente. Nei 19 pazienti arruolati, la sopravvivenza mediana globale è risultata di 43 mesi e la persistenza nel protocollo (PP) mediana di 3.8 mesi, con 4 pazienti (21.1%) che hanno continuato la terapia con singolo agente per più di 12 mesi. L’analisi dell’espressione genica ha rivelato che livelli elevati di espressione dei geni dell’amplicone 17q12-21 (HER2 e GRB7) e il profilo molecolare HER2-enriched sono significativamente associati con una più lunga permanenza nel protocollo di studio (PP). Emerge inoltre come un incremento del rapporto H2t/p95 sia significativamente associato con una più lunga PP (HR 0.56 per un incremento di 2 volte, p=0.0015). Questi dati suggeriscono che i pazienti appartenenti al sottotipo “HER2-enriched” e/o che possiedono un alto rapporto H2T/p95 sono fortemente sensibili agli agenti anti-HER2 e quindi potenzialmente candidabili per studi con lo scopo di stabilire regimi senza chemioterapia.

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Nelle forme tumorali precoci, l’iniziale entusiasmo dovuto agli studi in vitro e a qualche dato retrospettivo, non sempre ha trovato riscontri in ampi studi prospettici. Un piccolo studio su pazienti trattate in neoadiuvante con trastuzumab ha mostrato una tendenza verso un tasso più alto di risposte patologiche complete nei tumori con bassa espressione di p95HER2 (p=0.074) (87), ma gli studi randomizzati non sono riusciti a validare p95 come biomarcatore di efficacia di trastuzumab in questo setting. Ad esempio, nello studio randomizzato di fase II CHER-LOB (60) che metteva a confronto chemioterapia pre-operatoria più trastuzumab, lapatinib, o trastuzumab più lapatinib, non sono state rilevate differenze significative in termini di pCR tra i tumori p95-positivi e quelli p95-negativi in nessuna delle tre braccia di trattamento. La maggiore sensibilità al lapatinib riscontrata in pazienti p95-positivi nei modelli preclinici, è venuta meno anche in altri trials clinici retrospettivi (88). Allo stesso modo, nel NEOSPHERE (n=149), non si sono riscontrate associazioni tra il rapporto dominio extracellulare di HER2: dominio intracellulare di HER2 e il valore della pCR in alcun braccio di trattamento (docetaxel più trastuzumab, pertuzumab o entrambi, oppure trastuzumab più pertuzumab da soli) (58). Gli inconsistenti risultati di questo studio vanno attribuiti probabilmente agli errati metodi di misurazione della proteina p95 attiva: anche se l’espressione delle varie forme tronche sembra in qualche modo correlato, l’ampia variabilità nelle misurazioni ha portato, come visto, allo sviluppo di un anticorpo specifico anti-M611-HER2-CTF (80, 89).

Il valore predittivo di p95HER2 è stato valutato anche nei 145 pazienti arruolati nello studio GeparQuattro (90) che hanno ricevuto trastuzumab più chemioterapia in neoadiuvante, utilizzando un nuovo saggio immunoistochimico che sfrutta un differente anticorpo a una concentrazione abbastanza alta da dare 82% di positività di p95. Contrariamente alle aspettative degli autori, la positività di p95HER2 (segnale anti-611CTF in più del 10% delle cellule) è risultata associata a un tasso di pCR significativamente più alto (59% vs 24%; p<0.0001) e la sua espressione si è rivelata in grado di predire indipendentemente la pCR (OR 3.74; CI 95% 1.51-9.28; p=0.004). Non è noto se questo risultato sia da attribuire all’inavvertita misurazione di forme p185HER2 o se il differente setting terapeutico abbia un ruolo. In supporto della prima ipotesi, i livelli di mRNA di HER2 analizzati nel GeparQuattro (91) sono risultati associati a un incremento del tasso di pCR almeno nei tumori HR-positivi. Tuttavia, quanto osservato combacia con il fatto che la produzione di p95HER2 avviene prevalentemente attraverso il clivaggio del dominio extracellulare di HER2 e che questo processo è inibito dal trastuzumab (92). Un’ipotesi recente sostiene che la presenza contingente di p95 determinerebbe un minore ingombro sterico dell’antigene, facilitando così il legame del trastuzumab al suo epitopo su p185HER2 (93).

Una analisi di Scaltriti e coll. molto attuale (94), ottenuta da saggi VeraTag sui pazienti arruolati nello studio NeoALTTO, va ad alimentare il sospetto che l’espressione di p95 nel setting neoadiuvante abbia un ruolo diverso rispetto a quello ricoperto nel setting metastatico, e questa differenza potrebbe essere attribuita a differenze fenotipiche fra i tumori primitivi e quelli metastatici, indotte specialmente dalla pressione

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selettiva del trattamento. Il lavoro mostra un’associazione positiva tra p95HER2 e tasso di pCR nel braccio con lapatinib più trastuzumab e in quello con solo trastuzumab, ma non nel braccio con solo lapatinib. L’odds ratio per log2(p95HER2) è rispettivamente 1.60 (CI 95% 1.11-2.31), 1.67 (CI 1.06-2.64) e 0.97 (CI 0.69-1.37) con p=0.08. Dal momento che lo stato dei recettori ormonali ha rappresentato un forte determinante per la risposta patologica completa nella coorte analizzata nel NeoALTTO (40), gli autori hanno esaminato i due sottogruppi separatamente. L’espressione di p95 è risultata predittiva per la pCR principalmente nei pazienti HR-positivi trattati con trastuzumab oppure con la combinazione lapatinib più trastuzumab. Nei pazienti HR-positivi il rapporto tra l’espressione di p95 di coloro che hanno ottenuto la pCR e coloro che non l’hanno raggiunta è stato di 1.0 (CI 95% 0.50-1.87, p=0.92) nei trattati con Lapatinib, 1.6 (1.0-2.71, p=0.05) nei trattati con trastuzumab e 2.1 (1.2-3.7, p=0.01) nei trattati con la combinazione. Nei pazienti HR-negativi invece, p95 non è stata in grado di predire la risposta patologica completa in nessun braccio di trattamento. Come noto, il ruolo della pCR in qualità marcatore surrogato per il controllo della malattia a lungo termine è ancora argomento di dibattito. In particolare, Von Minckwitz e coll. hanno mostrato come questo non sia valido nei pazienti con malattia HR-positiva/HER-2 positiva (62), nei quali come visto prima (81) l’espressione di p95 nell’ambito metastatico è fortemente correlata con una prognosi peggiore.

Sempre nello studio suddetto (94), si è riscontrata una correlazione positiva tra i livelli di p95HER2 e HER2 nei 274 casi (60%) in cui la quantificazione di entrambi i marcatori è stata possibile. L’elevata espressione del recettore HER2, quantificata tramite il saggio HERmark, si è dimostrata un fattore predittivo più forte di risposta patologica completa se messo a confronto in un modello di regressione logistica sia con p95 da sola sia con l’associazione di entrambi. In particolare, l’odds ratio per log2(HER2) nel braccio di combinazione (OR 2.02; CI 95% 1.42-2.87) è risultata maggiore rispetto al braccio con solo trastuzumab (OR 1.21; CI 95% 0.93-1.57), implicando che i pazienti con i più alti livelli di espressione di HER2 nei loro tumori ricevono il beneficio maggiore dall’aggiunta di lapatinib a trastuzumab. L’espressione di HER2 non è stata in grado di predire inoltre la pCR nei pazienti HR-negativi inseriti nei bracci di monoterapia con lapatinib o trastuzumab, e solo debolmente è riuscita a predire la pCR nei pazienti HR-positivi con rapporti delle medie geometriche di 1.7 (CI 95% 0.79-3.82; p=0.17) e 1.9 (CI 95% 0.81-4.26; p=0.14), rispettivamente. Tuttavia, prendendo il braccio di combinazione lapatinib più trastuzumab, essa correla fortemente con la pCR nei pazienti sia HR-positivi (rapporto 3.1, CI 95% 1.61-5.81; p=0.001) sia HR-negativi (rapporto 2.5, CI 95% 1.44-4.20; p=0.001). Questo peraltro si traduce in un’associazione tra l’incremento della sopravvivenza libera da progressione e l’incremento di log2(HER2) con un hazard ratio di 0.66 (p=0.01). Sembra dunque che, nel setting neoadiuvante, l’associazione tra p95 e la risposta alla terapia anti-HER2 sia una conseguenza della forte correlazione fra i livelli di p95HER2 e quelli di HER2. Queste conclusioni potrebbero spiegare, almeno in parte, i risultati ottenuti da Loibl e al. nel GeparQuattro (90).

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Un altro potenziale meccanismo di resistenza al trastuzumab sembra essere l’upregulation delle vie di trasmissione del segnale intracellulare innescate da HER2; in particolare i risultati di studi preclinici hanno dimostrato come la perdita della funzione di PTEN (phosphatase and tensin homolog) e la mutazione PI3K (phosphatidil-inositol kinase) attivino costitutivamente la via di trasduzione del segnale mediata da PI3K/Akt. La perdita della funzione di PTEN risulta conseguenza di vari meccanismi, tra cui alterazioni mutazionali del gene PTEN, aploinsufficienza (condizione in cui la quantità di proteina prodotta dalla singola copia del gene non è sufficiente per assicurare la normale funzione) derivante dalla perdita di eterozigosi nel locus di PTEN ed infine alterazioni epigenetiche (96).

Sebbene alcuni studi abbiano associato la perdita di funzione di PTEN con un andamento peggiore durante la terapia con trastuzumab nella malattia metastatica, i dati raccolti fino ad oggi sono contraddittori. Nel 2004 Nagata e coll. (97) dimostrarono, mediante studi su linee cellulari mammarie HER2 positive trattate con trastuzumab, come il legame di tale anticorpo a livello del recettore di membrana determinasse un rapido aumento della attività chinasica di PTEN ed una successiva rapida defosforilazione di Akt, precedente alla downregolazione del recettore stesso e alla inibizione di PI3K, evidenziando quindi la centralità del ruolo di PTEN nella trasmissione del segnale intracellulare. Gli stessi autori valutarono con dosaggio immunoistochimico l’espressione di PTEN in 47 tumori primitivi HER2 positivi di donne affette da carcinoma mammario metastatico trattate con taxano (docetaxel o paclitaxel) e trastuzumab ed in 37 tumori primitivi HER2 negativi di donne affette da carcinoma mammario metastatico trattate con taxano. La quantificazione dell’espressione di PTEN venne eseguita utilizzando uno score (IRS, immunoreactive scores) con range da 0 a 12, derivante dalla doppia valutazione della percentuale di cellule positive (range 0-4) e dalla loro intensità (range 1-3). Definendo la PTEN negatività con IRS<9, il 36.2% (17/47) ed il 43.2% (16/37) dei tumori esaminati risultarono PTEN negativi, in linea con i precedenti dati della letteratura (95). Tra le 47 pazienti trattate con trastuzumab, gli autori evidenziarono un tasso di risposte complessive (RC+RP) pari al 35.7% nei casi con IRS 0-6 e pari al 66.7% nei casi con IRS>7 (p<0.05); abbassando il cut-off di definizione di PTEN negatività, tale differenza aumenta: nei casi con IRS<4 il tasso di risposte risultava pari a 11.1% verso il 65.8% nei casi con IRS =4 (p<0.01), ipotizzando quindi una diminuzione della risposta al trastuzumab proporzionale al decrescere dell’espressione di PTEN (p<0.01). Tra le 37 pazienti HER2 negative trattate con taxano, gli autori evidenziarono una simile risposta al trattamento chemioterapico indipendentemente dall’espressione di PTEN ed indipendentemente dal cut-off di definizione. Fujita e coll. (98) hanno successivamente confermato il potenziale ruolo di fattore predittivo negativo di PTEN, transfettando con oligonucleotidi antisenso riducenti l’espressione endogena di PTEN la linea cellulare mammaria SKBr3, trattata con trastuzumab e paclitaxel. Nel 2007, utilizzando invece siRNA in grado di inibire l’espressione di PTEN, Berns e coll. (99) hanno evidenziato una significativa riduzione della sensibilità al trattamento con trastuzumab nella linea cellulare mammaria BT474; analoga riduzione di sensibilità è stata raggiunta trattando la linea cellulare con trasduzione retro virale del gene PIK3 mutato.

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La via di trasmissione del segnale mediata da PIK3 è deregolamentata in molti tipi di cancro. L’attivazione del pathway PI3K/Akt/mTOR è implicata nell’oncogenesi e nella progressione tumorale, così come nella resistenza alle terapie standard. Il gene PIK3CA che regola PI3K è uno dei geni più frequentemente mutato nei tumori umani, ed esso rappresenta il secondo gene per frequenza di mutazioni nel carcinoma della mammella (3). Questo gene, che codifica per la subunità catalitica p110a della chinasi di classe I PI3K è localizzato sul cromosoma 3q26.3. Il 90% delle mutazioni di PI3KCA sono stati trovati in tre hot spots. I primi due sono localizzati sul dominio elicoidale di p110a (esone 9), il terzo sul dominio chinasico (esone 20). Circa il 20% dei tumori mammari primitivi presentano mutazioni attive che inducono un guadagno di funzione della proteina (100). Tuttavia, la frequenza delle mutazioni di PIK3CA non è equamente distribuita nei differenti sottotipi biologici. I sottotipi “Luminali” presentano più spesso la mutazione (fino al 40% dei casi) rispetto alle forme “Basal-like” (<10%). Nei tumori HER2-positivi la mutazione è stata invece riportata approssimativamente nel 20-25% dei casi.

Sempre Berns e al. (99) hanno valutato il ruolo della perdita di espressione di PTEN e della presenza delle mutazioni attivanti PIK3CA in una serie di 55 pazienti affette da carcinoma HER2-positivo. Né la perdita di PTEN, identificata nel 22% dei casi con metodica immunoistochimica, né le mutazioni di PIK3CA, identificate nel 25% dei casi con sequenziamento diretto, sono risultate significativamente associate ad una perggior prognosi. 10 delle 14 mutazioni di PIK3CA sono state identificate in casi definiti PTEN positivi (IRS>3), in accordo con precedenti dati delle letteratura per i quali tali alterazioni raramente coesistono (101). In realtà, studi più recenti non concordano su quest’ultimo punto di vista (102). Ad ogni modo, valutando simultaneamente il ruolo prognostico dei due biomarcatori, gli autori hanno evidenziato nella popolazione definita con “pathway PI3K attivo” (perdita di espressione di PTEN o PIK3CA mutato o entrambi) una differenza statisticamente significativa in tempo alla progressione rispetto alla popolazione con “pathway PI3K non attivo”. Il gruppo italiano di Fabi e coll. (103) ha pubblicato un’esperienza condotta su 73 pazienti HER2-positive trattate in prima o seconda linea con trastuzumab e chemioterapia dove valutavano la perdita di espressione di PTEN (definendo la PTEN negatività con IRS<7), la presenza della chinasi Akt fosforilata (pAkt) e della chinasi PI3K con dosaggio immunoistochimico. Dati preclinici evidenziano che la chinasi Akt risulta frequentemente fosforilata in linee cellulari di carcinoma mammario HER2 positive conferendo resistenza all’azione di vari chemioterapici (97) e che trastuzumab determina una sua rapida defosforilazione. Nella casistica sopra descritta, PTEN da sola non è risultata associata significativamente con la risposta alla terapia. Tuttavia i casi contemporaneamente PTEN esprimenti e pAkt negativi presentano una sopravvivenza libera da progressione significativamente superiore rispetto ai casi PTEN negativi e/o pAkt positivi (HR 0.53; p=0.05), identificando quindi un subset di pazienti particolarmente sensibile all’azione del trastuzumab in virtù dello stato attivo del pathway di HER2 stesso.

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Un lavoro condotto nel 2010 da Esteva e coll. (104) su 137 pazienti affette da carcinoma mammario metastatico HER-2 positivo trattate con trastuzumab in monoterapia o associato a regimi chemioterapici, ha valutato la correlazione tra la perdita di espressione di PTEN, lo stato mutazionale di PI3K e l’iperespressione di p-AKT e p-p70S6K con la risposta al trattamento e l’outcome clinico. I risultati hanno evidenziato come non vi sia alcuna correlazione tra lo stato dei quattro determinanti e la risposta al trattamento o l’outcome clinico quando ciascun determinante è stato valutato individualmente. Valutando invece lo stato di attivazione del pathway PI3K, definito come presenza della perdita di espressione di PTEN/presenza di alterazione mutazionale a livello di PI3K, veniva osservata una correlazione statisticamente significativa sia per quanto riguarda la risposta al trattamento (p=0.047) che la sopravvivenza globale (p=0.015). Da un’ampia analisi dei biomarcatori effettuata all’interno dello studio di fase III CLEOPATRA (n=808) (105) su tumori metastatici HER2-positivi trattati in prima linea con pertuzumab più trastuzumab più docetaxel oppure con placebo più trastuzumab più docetaxel, PIK3CA ha mostrato il maggior valore prognostico, con una mediana di sopravvivenza libera di progressione più lunga nei pazienti wild-type in entrambi i gruppi di trattamento (13.8 vs 8.6 mesi nel braccio di controllo, 21.8 vs 12.5 mesi nel braccio con pertuzumab). Tuttavia, lo stato mutazionale di PIK3CA non è stato in grado di predire il beneficio ottenuto dalla terapia con pertuzumab, la quale migliora significativamente la sopravvivenza libera da progressione sia nel sottogruppo di pazienti PI3K-mutati sia nei wild-type. In una serie di pazienti con malattia HER2-positiva non trattati, le mutazioni di PIK3CA si sono invece accompagnate ad una miglior prognosi. Questo potrebbe essere spiegato dal fatto che la continua attivazione di PI3K potrebbe indurre un effetto inibitorio sulla via del segnale di HER2 (106), anche se altri studi hanno suggerito, come visto, che le mutazioni di PIK3CA, provocando un attivazione del segnale continua nonostante il blocco di HER2, rappresentano un meccanismo di fuga. Ad ogni modo, nell’ambito della malattia metastatica, i dati rimangono pochi, in conflitto tra loro e senza un chiaro effetto del trattamento.

Passando alle forme tumorali precoci, un’analisi effettuata con la tecnica dei microarray da Faratian e al. (107) su campioni di tessuto ottenuti da 122 pazienti trattati con trastuzumab, ha mostrato una significativa correlazione tra la perdita di espressione di PTEN e la mortalità. La perdita di PTEN è risultata associata a un incremento di 3 volte del rischio di morte (RR 3.0; CI 95% 1.6-5.5; p<0.0001) e ad una riduzione media di sopravvivenza globale di 21.6 mesi. Anche la bassa espressione di un altro regolatore negativo della via del segnale di PI3K, Sprouty 2, è stata correlata con un aumento della mortalità all’interno della coorte analizzata (HR 0.7; CI 95% 0.4-0.8; p=0.00002) (108). L’analisi multivariata ha mostrato che la bassa espressione di PTEN o di Sprouty 2, ma non le mutazioni di PIK3CA, sono in grado di predire indipendentemente una bassa sopravvivenza. Viceversa, nell’analisi dei biomarcatori effettuata in uno studio prospettico su tumori localizzati HER-2 positivi trattati con trastuzumab più chemioterapia in adiuvante, le mutazioni di PIK3CA, ma non la perdita di espressione di PTEN, sono risultate associate con la sopravvivenza globale (109). Nello studio, i pazienti con una o entrambe le caratteristiche hanno un rischio

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più che duplicato di mortalità in un’analisi multivariata (HR 2.35; CI 95% 1.10-5.04; p=0.03), mentre non c’è alcuna associazione fra questi biomarkers e la durata della sopravvivenza libera da malattia. Dati più recenti provenienti dallo studio pilota randomizzato N9B31 di Perez e al. (110) non hanno fornito alcuna evidenza del fatto che l’efficacia di trastuzumab (in sequenza o concomitante alla chemioterapia in adiuvante) sia ridotta nei tumori con perdita di PTEN; infatti, il beneficio dato dalla terapia anti-HER2 è apparso addirittura leggermente superiore nella coorte PTEN-negativa. Mettendo a confronto trastuzumab e chemioterapia concomitanti verso la chemioterapia da sola, l’hazard ratio per la sopravvivenza da malattia è risultata di 0.65 (CI 95%, 0.49-0.87; p=0.004) nei pazienti PTEN-positivi e di 0.47 (CI 95%, 0.28-0.79; p=0.005) in quelli PTEN-negativi.

Lo studio NeoSphere (58) riporta un’associazione, anche se non statisticamente significativa a causa dell’esiguità campionaria, tra le mutazioni di PIK3CA e la riduzione del tasso di risposte patologiche complete nei quattro bracci di trattamento. In particolare, le mutazioni sull’esone 9, ma non le mutazioni sull’esone 20, sono correlate con un tasso più basso di pCR (7.1% e 28,7% rispettivamente). Questi risultati sono supportati dai dati ottenuti dallo studio NeoALTTO (111): mutazioni di PIK3CA sono state identificate nel 23% delle forme tumorali precoci HER2-positive e associate con un peggior andamento di malattia in tutti i bracci di trattamento. I pazienti wild-type trattati con la combinazione di trastuzumab e lapatinib hanno ottenuto un tasso globale di risposte patologiche complete (pCR) del 53,1%, che si riduce fino al 28.6% nei pazienti con mutazioni attivanti di PIK3CA (p=0.012), indipendentemente dallo stato dei recettori ormonali. Nello studio TBCRC 006 (112) (studio multicentrico di fase II con lapatinib e trastuzumab più terapia ormonale senza chemioterapia in pazienti con carcinoma della mammella HER2-esprimenti) non vengono addirittura riportate risposte patologiche complete nei portatori di mutazioni di PIK3CA, a seguito di un trattamento combinato con trastuzumab e lapatinib più ormono-terapia. Da ultimo, Loibl e coll. (100) hanno studiato le mutazioni di PIK3CA nel setting neoadiuvante in 504 campioni tumorali dai partecipanti agli studi GeparQuattro, GeparQuinto e GeparSixto, in cui pazienti HER2-positivi avevano ricevuto trastuzumab o lapatinib oppure la combinazione in aggiunta a una chemioterapia con antracicline e taxani. Le mutazioni sono state valutate su tessuti fissati in formalina e inclusi in paraffina ottenuti da biopsie con un contenuto di cellule tumorali maggiore o uguale al 20% utilizzando il sequenziamento classico di Sanger sull’esone 9 e sull’esone 20. Il 21,4% dei pazienti ha presentato una mutazione di PIK3CA e queste sono risultate associate con una percentuale minore di pCR (19.4% nei mutati vs 32.8% nei pazienti wild-type; OR 0.49, CI 0.29-0.83; p=0.008). Nei 291 tumori ormono-positivi, la percentuale di pCR è stata 11.3% tra i mutati rispetto al 27.5% ottenuto nel gruppo wild-type (OR 0.34; 95% CI 0.15-0.78; p=0.011). Nei 213 ormono-negativi invece, la percentuale di risposte complete è stata 30.4% con la mutazione e 40.1% senza (OR 0.65; 95% CI 0.32-1.32; p=0.233). Sebbene il test per l’interazione sia risultato negativo, lo stato dei recettori ormonali e il genotipo PIK3CA-mutato rimanevano statisticamente significativi nell’analisi multivariata. E’ sorprendente notare come l’associazione tra le mutazioni di PIK3CA e lo stato dei recettori

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ormonali nel sottogruppo HR-positivo/HER2-negativo sembri andare nella direzione opposta. Più precisamente, il genotipo PIK3CA mutato è stato associato con un incremento della sopravvivenza, ma allo stesso tempo con una peggior risposta clinica all’ormonoterapia neoadiuvante. Dato che i dati preclinici suggerivano che la mutazione di PIK3CA implicasse resistenza a trastuzumab, gli autori hanno inoltre ipotizzato che il doppio blocco anti-HER2 potesse rappresentare una miglior opzione per questi pazienti. Tuttavia, le mutazioni di PIK3CA sono risultate statisticamente correlate con la pCR in tutti i bracci di trattamento, fino a tassi del 16%, 24.3% e 17.4% con lapatinib, trastuzumab e doppio blocco rispettivamente (p=0.654). In termini di sopravvivenza invece non si sono riscontrate differenze statisticamente significative tra pazienti wild-type e mutati, seppure in questi ultimi sia presente un trend verso una peggiore OS. Ad ogni modo, questi tassi di pCR sono tanto bassi quanto quelli riscontrati in studi passati su pazienti HER2-positivi trattati con chemioterapia senza trastuzumab e suggeriscono lo studio di terapie alternative, come ad esempio gli inibitori di PI3K. Alcune esperienze suggeriscono che l’attività di lapatinib potrebbe essere indipendente dallo stato di attivazione del pathway PTEN/pAkt (113); la casistica pubblicata da O’Brien e coll. comprende lo studio di ben 17 linee cellulari HER2 positive trattate con trastuzumab o lapatinib, con valutazione bi- e tri-dimensionale della risposta al trattamento. I risultati evidenziano una risposta al trastuzumab dipendente dai livelli di PTEN, pAkt e dallo stato mutazionale di PI3K a differenza di quanto avvenga per la risposta a lapatinib. Gli autori hanno inoltre evidenziato una buona risposta al trattamento con lapatinib della linea cellulare BT474, resa trastuzumab-resistente in seguito ad una esposizione a trastuzumab protratta per 9 mesi.

Dave e coll. (114), dopo aver trattato le linee cellulari SKBR3 e BT474 con trastuzumab e lapatinib, in monoterapia ed in associazione, confermando i risultati sopracitati, hanno valutato 2 distinte casistiche di pazienti affette da carcinoma localmente avanzato trattate in neoadiuvante con trastuzumab per 3 settimane o lapatinib per 6 settimane, seguiti da una trattamento con trastuzumab e docetaxel per 12 settimane e successivo trattamento chirurgico. Nella casistica (35 casi) trattata inizialmente con trastuzumab è stata evidenziata una percentuale di risposte patologiche complete (pCR) pari al 34.4% mentre nella popolazione (49 casi) trattata inizialmente con lapatinib e successivamente trastuzumab la percentuale è stata pari al 63.1%. La percentuale di pCR è stata quindi correlata con il livello di espressione di PTEN e lo stato mutazionale di PI3K. Nella prima casistica, la ridotta espressione di PTEN è risultata associata ad una riduzione del tasso di pCR (15.4% verso 44.4% nelle pazienti con basso/alto livello di PTEN rispettivamente), cosi come la presenza di mutazioni PIK3CA (20% verso 38.1% nelle pazienti con/senza mutazioni rispettivamente). Valutando entrambi i determinanti molecolari, la pazienti con bassa espressione di PTEN e presenza di mutazioni PIK3CA hanno presentato il 18.2% di pCR rispetto al 66.7% delle pazienti con alta espressione ed assenza di mutazioni (p=0.015), avvalorando la criticità del ruolo del “PI3K pathway attivo” nel determinare resistenza al trattamento con trastuzumab. Nella seconda casistica invece, ben il 92.3% delle pazienti con ridotta espressione di PTEN hanno ottenuto una pCR rispetto al

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42.2% delle pazienti normo-esprimenti; considerando le pazienti con bassa espressione e presenza di utazioni PIK3CA tale percentuale è risultata pari al 81.3%, confrontato al 41.7% delle pazienti con alta espressione e assenza di mutazioni (p=0.05). In realtà, i dati degli studi su lapatinib sono piuttosto iscordanti. Nell’analisi di Wang e coll. (115) effettuata su pazienti metastatici trattati con lapatinib e capecitabina, l’attivazione del pathway di PI3K è risultata correlata con un tasso di beneficio clinico più basso (36.4% vs 68.6%, p=0.017) e con un minor tasso di risposte globali (9.1% vs 31.4%, p=0.05). Questo rispecchia inoltre i risultati di un piccolo studio di Cizkova e al. (116). Eichhorn e coll. (117) infettando linee cellulari BT474 ottenute da tumori HER-2 positivi con una libreria retro virale che comprendeva 23742 vettori shRNA in grado di colpire 7914 geni, hanno dimostrato nel loro modello che la perdita di PTEN, e la risultante attivazione della via di PI3K, porta alla deregolazione della sensibilità a lapatinib. Inoltre gli autori hanno identificato che le due prevalenti mutazioni di PIK3CA nel carcinoma della mammella (E545K e H1047R) allo stesso modo conferiscono resistenza a lapatinib. La resistenza a lapatinib indotta da PI3K è stata comunque superata attraverso l’utilizzo di NVP-BEZ235, un doppio inibitore di PI3K/mTOR. Varie possibilità potrebbero spiegare i differenti risultati ottenuti da questo gruppo di studio, tra cui l’efficienza dello spegnimento dell’espressione di PTEN (knockdown) nelle linee cellulari bersaglio, l’utilizzo di linee cellulari stabilmente infettate per determinare gli effetti a lungo termine dello spegnimento di PTEN e del trattamento con lapatinib, e una dose 20 volte più bassa di lapatinib utilizzata nell’esame iniziale per ridurre la probabilità di effetti non specifici.

Una conclusione definitiva riguardo il ruolo del pathway PI3K e la terapia anti-HER2 non può quindi essere raggiunta e altrettanto controverso è il suo valore prognostico. Wang e al. (118) in una metanalisi del 2013 hanno tentato di verificare l’associazione tra la perdita di PTEN, le mutazioni di PIK3CA e l’efficacia di trastuzumab. I risultati nel setting neoadiuvante e adiuvante non sono stati molto incoraggianti, mentre nei pazienti con carcinoma della mammella HER2-positivo ricorrente o metastatico è stata rinvenuta una correlazione significativa tra la perdita di espressione di PTEN e la minor efficacia del trattamento con un tasso di risposta (RR) di 0.682 (CI 95% 0.550-0.846, p=0.000). A causa del piccolo campione preso in considerazione e della considerevole eterogeneità tra i regimi di chemioterapia, ulteriori ricerche saranno comunque necessarie. Una delle conseguenze della perdita di espressione di PTEN è l’incrementata attivazione di Src, una tirosin-chinasi non recettoriale che si è dimostrata in grado di indurre resistenza a trastuzumab nei modelli preclinici. L’attivazione di Src è interessante dal momento che essa può rappresentare un obiettivo comune posto a valle di molteplici vie di resistenza. Tuttavia, i dati clinici relativi a Src sono attualmente limitati. Uno studio retrospettivo che ha coinvolto 57 pazienti trattati con trastuzumab, ha correlato alti livelli di Src fosforilato con minore risposta alla terapia, maggiori percentuali di progressione di malattia e più breve sopravvivenza globale (OS mediana 34.2 mesi verso 57.9 mesi; p=0.044) (120). Peirò e al. (119) hanno recentemente condotto un saggio immunoistochimico su microarray di tessuti inclusi in paraffina in parallelo con studi in vitro su linee cellulari carcinomatose (SKBR3 e BT474),

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correlando i valori di Src attiva con i fattori clinico-patologici e con la prognosi dei pazienti. Un incremento dei livelli di pSrc-Y416 è stato dimostrato nelle cellule trastuzumab resistenti e nel 37.8% dei tumori, correlato inoltre positivamente con dimensioni del tumore, indici di necrosi e mitosi, metastasi al sistema nervoso centrale, sovra espressione di p53 e attivazione di MAPK ma inversamente con EGFR e p27. L’analisi uni variata ha mostrato un’associazione tra l’attivazione di Src e una minor sopravvivenza in pazienti con forme precoci HR-negative/HER2-positive trattate con trastuzumab. In questo sottogruppo di pazienti, dunque, un blocco di questo asse potrebbe apportare un beneficio clinico.

Un ulteriore bersaglio sulla via metabolica di PI3K è rappresentato da p27, un inibitore di CDK che promuove l’arresto del ciclo cellulare a livello della transizione G1/S bloccando l’attività del complesso ciclina E/CDK2. Fosforilando p27, Akt indirizza questa proteina inibitoria alla degradazione proteasomica e quindi stimola la progressione del ciclo cellulare. Gli effetti citostatici di trastuzumab provengono probabilmente dalla down-regulation della fosforilazione Akt-mediata e dalla stabilizzazione di p27. In vitro, la resistenza a trastuzumab è stata associata con l’amplificazione/sovra espressione della ciclina E. Dal punto di vista clinico, una prova di questo meccanismo è data da uno studio retrospettivo su 34 pazienti metastatici HER2-positivi (121), in cui l’amplificazione/sovra espressione della ciclina E è risultata associata con un tasso significativamente più basso di beneficio clinico (33% vs 88%; p<0.02) e con una mediana di sopravvivenza libera da malattia più breve (4 mesi vs 14 mesi; p=0.002) rispetto a tumori con normali livelli di espressione della ciclina E. La resistenza a trastuzumab può essere inoltre ottenuta in vitro attenuando l’espressione della proteina fosfatasi serin/treonina PPM1H, che normalmente mantiene p27 defosforilata. Vari studi suggeriscono che l’espressione di altri recettori della famiglia HER potrebbe influenzare la sensibilità a trastuzumab dei carcinomi HER2-positivi. Sebbene l’inibizione indotta da trastuzumab della crescita di linee cellulari HER2-positive sia stata correlata con una bassa espressione di EGFR (epidermal growth factor receptor), le evidenze cliniche riguardanti questo potenziale marcatore biologico sono in conflitto fra loro. Uno studio retrospettivo ha associato la sovra espressione di HER3 con una prognosi peggiore a seguito di un trattamento contenente trastuzumab nella malattia metastatica, mostrando una significativa riduzione della sopravvivenza globale nelle analisi multivariate (HR 2.25; p=0.03) (122). Tuttavia, Mith e al. non hanno riportato alcuna associazione (123).

Dal momento che HER2 condivide molti effettori a valle con IGF-1R, non è stato troppo sorprendente riscontrare in vitro una correlazione tra la sovra espressione di IGF-1R e la resistenza a trastuzumab (124). Sempre Mith e coll. (123), tuttavia, nel loro studio retrospettivo che ha visto coinvolti 68 pazienti trattati in prima linea con trastuzumab più chemioterapia, non hanno rilevato differenze significative nella percentuale di coloro che sono progrediti durante il follow up tra i tumori IGF1R-positivi e quelli negativi (76% vs 60%). Considerando invece assieme l’espressione di IGF-1R e della proteina ribosomiale S6

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fosforilata (la quale si trova probabilmente a valle di IGF-1R), questi risultano associati con la risposta negativa al trattamento.

Passando al setting adiuvante, nell’analisi dei biomarcatori effettuata all’interno dell’ampio studio randomizzato N9831 (n=1746) non si è riscontrato alcun impatto dello stato di IGF-1R sulla sopravvivenza libera da malattia a seguito di un trattamento con chemioterapia più trastuzumab sequenziale o concomitante (125). Lo studio NeoSphere (126) ha mostrato un maggior tasso di risposte patologiche complete con pertuzumab più trastuzumab più docetaxel in neoadiuvante, rispetto a trastuzumab più docetaxel, nel sottogruppo di tumori con bassi livelli di IGF-1R ed ER-negativi (69% vs 33.3%; p=0.004). La differenza non è risultata statisticamente significativa in altri sottogruppi, suggerendo che i tumori con bassa espressione di IGF-1R ed ER-negativi potrebbero essere specificamente sensibili alla combinazione di agenti anti-HER2. Allo stesso modo, il profilo di espressione genica ottenuto dallo studio NOAH di fase 3 da tumori localmente avanzati di fase III trastuzumab neoadiuvante/adiuvante più chemioterapia oppure con chemioterapia da sola ha identificato una correlazione tra bassi livelli di espressione di IGF e percentuale di risposte patologiche complete nei pazienti ER-negativi, ma non in quelli ER-positivi all’interno del braccio contenente trastuzumab (127). In uno studio di 3 pazienti, la progressione di malattia durante trastuzumab è stata correlata con i livelli di transforming growth factor-a (TGF-a). Tuttavia, un altro studio su 77 pazienti metastatici trattati con trastuzumab non ha riscontrato alcuna associazione tra i livelli pre-trattamento e la progressione (123). Questo studio ha allo stesso tempo correlato alti livelli di base di heregulina con un minor percentuale di progressioni durante il follow up (62% vs 91%; p=0.02), suggerendo che alti livelli di heregulina potrebbero effettivamente sensibilizzare i tumori a trastuzumab.

Come già visto, gli studi preclinici ci forniscono un’evidenza dell’interferenza bidirezionale tra le vie del segnale innescate da HER2 e quelle dei recettori ormonali. La sovra espressione dei recettori ormonali potrebbe pertanto ridurre la sensibilità a trastuzumab nel contesto della malattia HER2-positiva, almeno nel setting neoadiuvante. Ad esempio, nello studio di fase III NOAH (53), la terapia con trastuzumab ha indotto un beneficio maggiore nelle forme ormono-negative piuttosto che in quelle ormono-positive. L’hazard ratio per l’end point primario (sopravvivenza libera da eventi) è risultata rispettivamente 0.46 (CI 95% 0.27-0.80) nel sottogruppo HR-negativo verso 0.87 (CI 95% 0.43-1.74) in quello ER/PgR-positivo. Un simile trend si è osservato anche nel NeoSphere (58), in cui i tassi di pCR sono apparsi più bassi nella malattia HR-positiva piuttosto che in quella negativa all’interno di tutti i bracci di trattamento, anche in quello con trastuzumab più pertuzumab senza chemioterapia. Quest’ultima osservazione suggerisce che l’influenza della positività dei recettori ormonali sulla risposta al trattamento non è solamente da imputare a un minor sensibilità alla chemioterapia. Le analisi per sottogruppi effettuate negli studi NeoALTTO e CHER-LOB e i risultati dello studio TBCRC 006 sembrano confermare l’ipotesi originaria. Ad ogni modo, sia il sottogruppo ormono-negativo sia quello ormono-positivo sembrano beneficiare della trattamento con

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trastuzumab nell’ambito della terapia pre-operatoria. Inoltre, nel setting adiuvante e in quello metastatico, analizzando i pazienti arruolati in studi di controllo randomizzati, non c’è alcuna evidenza di un differente beneficio indotto da trastuzumab (sia in monoterapia sia in aggiunta a chemioterapia) a seconda dello stato dei recettori ormonali (128). Gli anticorpi come trastuzumab e pertuzumab, attraverso il loro frammento costante (Fc) sono in grado di attivare la citotossicità anticorpo-dipendente (ADCC), coinvolgendo le cellule killer attivate dalla linfochine (LAK), e la citotossicità dipendente dal complemento. Tale meccanismo immune potrebbe in parte contribuire ai loro effetti terapeutici, come dimostrato dalla presenza di cellule NK e di Granzima B negli infiltrati tumorali dopo esposizione a trastuzumab nell’ambito neoadiuvante. Polimorfismi sul recettore Fc.RIIIa sono costitutivamente espressi nelle cellule LAK, in particolare i polimorfismi 131 H/R e 158 V/F che sembrano esercitare un forte effetto sull’affinità delle IgG1 per Fc.R e conseguentemente sulla citotossicità anticorpo-dipendente (ADCC) (129). Nella malattia metastatica, i genotipi Fc.RIIIa-158 V/V e 131 H/H sono stati significativamente correlati con un miglior tasso di risposte obiettive (71% vs 38%; p=0.04) e con un incremento della sopravvivenza libera da progressione in pazienti che avevano ricevuto in prima linea trastuzumab più un taxano. Anche in un gruppo di pazienti trattati in neoadiuvante con trastuzumab più chemioterapia (n=40), l’omozigosi per Fc.RIIIa-H131 è risultata associata con un numero significativamente più alto di pCR rispetto agli altri genotipi (71% vs 0%; p=0.015), mentre non ci sono stati vantaggi significativi nei pazienti omozigoti per Fc.RIIIa-V158 rispetto agli altri genotipi (57% vs 17%; p=0.45) (130). Tuttavia, un’ampia analisi genotipica effettuata all’interno dello studio BCIRG-006 (trastuzumab più chemioterapia in adiuvante) non è stata in grado di corroborare tali risultati (131). Alcuni autori (132) sostengono che i potenziali meccanismi di efficacia e resistenza a trastuzumab differiscano nei diversi ambiti clinici. La citotossicità anticorpo-mediata sembra essere il meccanismo d’azione prevalente nella monoterapia in neoadiuvante con trastuzumab, mentre negli ambiti neoadiuvante, adiuvante o metastatico in cui trastuzumab è combinato con la chemioterapia, il ruolo relativo della ADCC è probabilmente ridotto, considerando gli effetti compromettenti provocati dalla chemioterapia sulle cellule immuni che mediano questo meccanismo. Nel trattamento neoadiuvante e adiuvante in cui trastuzumab è utilizzato in concomitanza alla chemioterapia, il primo meccanismo a giocare un ruolo è presumibilmente l’inibizione della riparazione del DNA, mentre nei protocolli sequenziali, l’anticorpo agisce principalmente esercitando un’attività citostatica attraverso l’inibizione della proliferazione HER2-mediata delle cellule tumorali. A seconda della capacità dell’anticorpo di indurre effetti antitumorali citotossici o citostatici nei vari settings clinici, differenti criteri dovrebbero essere presi in considerazione per valutarne accuratamente l’efficacia: in particolare, i criteri RECIST per gli effetti citotossici, OS e DFS per quelli citostatici. Inoltre, i meccanismi di resistenza dovrebbero essere riconsiderati alla luce dei diversi ambiti clinici.

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In conclusione, sebbene gli studi preclinici abbiano presentato una schiera di potenziali fattori di resistenza, la rilevanza clinica di questi meccanismi biologici rimane incerta. La maggior parte delle evidenze cliniche si basa peraltro su coorti di pazienti piccole e identificate retrospettivamente e non sempre le analisi ottenute da studi prospettici randomizzati sono riuscite a corroborare la rilevanza dei vari biomarcatori. Diverse spiegazioni possono essere alla base delle discrepanza osservata tra i dati preclinici e quelli clinici. In primo luogo, mentre gli studi in vitro spesso si focalizzano su un unico meccanismo di resistenza, molteplici meccanismi d’azione determinano l’efficacia clinica di trastuzumab e degli altri agenti anti-HER2. L’impatto di ogni singolo fattore biologico viene ad essere diluito e il potere predittivo aumenta, come mostrato in vari studi, con la combinazione di multipli biomarker. Inoltre, il contributo della citotossicità anticorpo-mediata (ADCC) all’efficacia di trastuzumab non viene rispecchiato nei sistemi preclinici basati su culture di linee cellulari o su trapianti. Infine, l’impatto della ADCC nel singolo paziente dipende da molte variabili, come il numero di cellule NK, lo stato generale del sistema immune, le chemioterapie precedenti, l’entità della malattia e i meccanismi immuni di difesa indotti dal tumore.

Nonostante qualche forte indicazione sia comunque stata ottenuta dai vari studi (ad esempio riguardante il pathway PI3K, l’espressione di p95 o la resistenza ad ADCC), la valutazione dello stato di HER2 con gli standard classici rimane l’unico metodo per una selezione accurata dei pazienti HER2-positivi.

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