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CAPITOLO QUINTO TRAIETTORIE DI CAMBIAMENTO 5.1 Ricerca sul Campo

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CAPITOLO QUINTO

TRAIETTORIE DI CAMBIAMENTO

5.1 Ricerca sul Campo

I territori in analisi

Il lavoro è partito dal presupposto che, sia pur con modalità e caratteristiche diverse, il diritto di asilo sta interessando in modo significativo i paesi della sponda sud UE (Italia, Spagna), rendendo necessario l’intervento dei diversi livelli di governo, sia a livello normativo che di politiche concrete attuate a livello nazionale e locale.

Entrambi gli Stati condividono il protagonismo e la centralità del ruolo degli enti locali e regionali in tema di accoglienza ed integrazione, scandita, a seconda degli equilibri istituzionali e della distribuzione di competenze tra enti territoriali, in termini di allocazione di funzioni specifiche, di decentramento e deconcentrazione.

Metodologia di Lavoro

La ricerca si è articolata intorno ad una metodologia che ha integrato analisi documentale e interviste sul campo.

Queste le fasi di lavoro previste:

1. Analisi del sistema di accoglienza locale (Alta val di Cecina, Comunità di Madrid).

In questa fase, è stato approfondito il quadro operativo di riferimento all’interno del quale operano i diversi attori implicati nei processi di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo.

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Il lavoro di indagine sul tema dell’accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati in Italia si è basato in parte sulla ricerca bibliografica e scientifica in materia di asilo ed in parte nella ricerca sul campo. Quest’ultima è stata svolta interamente sul territorio dell’Alta Val di Cecina, tra giugno 2013 e settembre 2014, presso l’Associazione Welcome in Val di Cecina (Pomarance), e a luglio 2014 sono state svolte delle interviste1 nel Comune

di Madrid, presso la CEAR (Commissione Spagnola di aiuto al rifugiato). Il metodo di ricerca iniziale è l’osservazione partecipante2, definita

come una tecnica di ricerca complessa che prevede l’inserimento di un osservatore all’interno del gruppo oggetto di indagine. L’inserimento per un breve periodo presso l’Associazione Welcome in Val di Cecina, è avvenuto nel seguente modo:

 L’identità dell’osservatore era nota agli osservati, ed è stato svolto sia il ruolo di operatore che il ruolo di ricercatore. In questo modo il ricercatore partecipa alla vita dei soggetti studiati per sviluppare una visione dal di dentro che è presupposto della comprensione.

 Interviste libere rivolte agli operatori nella val di Cecina, con lo scopo di far emergere le maggiori problematiche e lacune del sistema di accoglienza italiano e soprattutto quello locale,

1 Per maggiori informazioni una delle interviste alla segretaria di CEAR si trova integrata al terzo paragrafo del terzo capitolo di questa tesi.

2 L’osservatore partecipa a riunioni, osserva le persone mentre lavorano, usa come dati non solo i comportamenti verbali e non verbali, ma anche le reazioni alla sua presenza. L’osservatore diventa un catalizzatore della comunicazione, capace di stimolare l’espressione delle percezioni, esigenze, aspettative e fantasie degli osservati. L’inserimento dell’osservatore può avvenire attraverso due modalità: “l’identità dell’osservatore è nota agli osservati. In questo caso l’osservazione partecipante diventa anche una action research: induce riflessioni, dibattiti, discussioni e costringe i soggetti osservati a prendere coscienza delle proprie dinamiche”. “L’osservatore assume un’identità fittizia congrua con il gruppo in cui si inserisce. In questo caso è più facile rilevare la vita quotidiana spontanea del gruppo, tuttavia la necessità di partecipare attivamente alle attività limita in parte la libertà di osservazione”.

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indagando al suo interno, e, intervistando coloro che tutti i giorni hanno a che fare con questa realtà.

Questa ricerca si è svolta sul territorio dell’Alta val di Cecina perché rappresenta come evidenziato anche dalla ricerca dell’Università di Pisa (gli effetti del programma ENA in provincia di Pisa), quel territorio che ha evidenziato un percorso più difficile perché non dotata di una rete forte e pre-esistente.

Per due anni circa nell’Alta val di Cecina nella maggior parte dei casi molte delle strutture di accoglienza aggiuntive predisposte sono state infatti: aziende private, agriturismi, case di accoglienza, parrocchie ecc, in grado di offrire solo vitto e alloggio e con “risorse limitate” per quanto riguarda tutti gli altri servizi necessari all’accoglienza quali l’assistenza legale, psicologica, l’inserimento sociale e l’insegnamento della lingua italiana, ecc.

Ciò che è stato osservato, in ambito locale, è lo specchio della gestione del sistema di accoglienza in ambito nazionale (lo dimostra l’inchiesta di Espresso, “Chi specula sui profughi”) dove l’affidamento dell’accoglienza in alcuni casi è stato dato a soggetti privati interessati solo al profitto. Per ogni accolto lo Stato ha rimborsato fino a 46 euro al giorno per gli adulti, senza di fatto monitorare il reale servizio di quello che con questi soldi veniva fornito dai privati. Nonostante fosse previsto un Gruppo di Monitoraggio dell’Accoglienza, i vari casi di irregolarità nella gestione sono emersi con grande ritardo, e alla fine del periodo di emergenza non è stato applicato nessun reale meccanismo sanzionatorio.

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Il costo economico di questa operazione è stato elevatissimo; vista la necessità di trovare in poco tempo una soluzione, spesso il costo non è stato adeguato rispetto al servizio erogato. Le gestioni emergenziali purtroppo spesso agiscono a discapito della trasparenza e dell’equa gestione dei fondi erogati e con una certa tranquillità possiamo affermare che un investimento dello Stato in termini di potenziamento del sistema di accoglienza già esistente sarebbe certamente costato meno della gestione emergenziale del problema, affidata alla Protezione Civile e ai privati. Come segnalato dalla CARITAS3, gli oneri economici a carico dello Stato

sono stati eccessivi, con un forte squilibrio anche gestionale tra la quota destinata al vitto e alloggio e quella destinata invece agli interventi sociali.

Inoltre, l’allungamento dei tempi per la risposta delle Commissioni Territoriali e l’elevato numero di dinieghi con il conseguente elevato numero di ricorsi giudiziari (sempre a spese dell’erario) hanno ulteriormente gravato sulle casse dell’amministrazione pubblica.

Circa 21 mila erano i richiedenti asilo rimasti a carico della Protezione Civile e, come sosteneva Oliviero Forti “Ci troviamo ancora in una situazione di totale incertezza con circa il 60% per cento delle domande di asilo che vengono respinte dalle Commissioni territoriali che si occupano della richieste e migliaia di migranti che rischiano dal 1 gennaio 2013 di non avere più alcuna assistenza ne' la definizione del proprio status giuridico”4.

3 Dossier statistico 2012. XXII Rapporto sull’Immigrazione. CARITAS e MIGRANTES. Edizioni Idos, Roma 2012.

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Inoltre, Forti sottolinea che i costi del sistema di accoglienza d’emergenza hanno oltrepassato il un miliardo di euro. Al riguardo l’inchiesta5 condotta da Michele Sasso e Francesca Sironi per “l’Espresso”

del 15 ottobre 2012 ha fatto emergere una situazione assolutamente intollerabile dal punto di vista gestionale dell’accoglienza.

Così descrivono “Il Mercato dei Rifugiati” i giornalisti dell’Espresso: “Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli

imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità…”.

Inoltre, denunciano i due giornalisti che, nell’attesa di raggiungere un accordo con la direttiva ufficiale approvata a maggio 2011 e che ha stabilito un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee, ma di fatto non è andata così6.

5 Le realtà emerse da questa inchiesta rivelano quanto poco trasparente e controllabile possa essere una gestione emergenziale dell’accoglienza, e quante ricadute negative può riportare sulla società e sul sistema di welfare italiano una soluzione di questo tipo. L’articolo prosegue riportando retroscena allarmanti riguardanti alcune associazioni che hanno colto l’emergenza come un’occasione di incassare facilmente senza controlli; così sono emersi i raggiri messi in atto da diverse Cooperative che operano nel terzo settore.

6 http://espresso.repubblica.it/dettaglio/chi-specula-sui-profughi/2192935. L’Espresso, 15 ottobre 2012: “Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano

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Le realtà emerse da questa inchiesta rivelano quanto poco trasparente e controllabile possa essere una gestione emergenziale dell’accoglienza, e quante ricadute negative può riportare sulla società e sul sistema di welfare italiano una soluzione di questo tipo. L’articolo prosegue riportando retroscena allarmanti riguardanti alcune associazioni che hanno colto l’emergenza come un’occasione di incassare facilmente senza controlli; così sono emersi i raggiri messi in atto da diverse Cooperative che operano nel terzo settore.

Una delle descrizioni forse più chiare del sistema di accoglienza che si è instaurato in Italia lo fa un operatore sociale di Firenze, il quale ci spiega infatti in maniera molto chiara quali sono a suo parere i punti più spinosi e i nodi irrisolti del sistema di accoglienza:

“Accogliere i rifugiati comporta delle spese. Se tu la spesa la consideri un costo c’hai tutto un modello culturale sacrificale, penitenziario, per cui tutto è sottoposto a questa visione negativa. Se tu invece lo consideri un investimento, ti si aprono le porte, perché dici: queste persone arrivano, scappano dalla guerra e dalla persecuzione, ed è un dovere dello Stato accogliere queste persone, ma senza una legge di attuazione dell’articolo 10 della Costituzione siamo arrivati sprovvisti di

adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro.” M.Sasso e M.Sironi.

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qualsiasi strumento legislativo alla fine degli anni ottanta. Ci sono delle necessità di investimenti economici e di apertura della società da questo punto di vista...Se invece tu lo consideri un investimento il modello ideale può essere quello canadese”.

Purtroppo il bilancio finale di questa “emergenza” ha riportato alla luce diversi risvolti inquietanti, come dichiarato anche dal responsabile dell’Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana: “L’accoglienza dei cosiddetti profughi è stata caratterizzata da una forte frammentazione e disomogeneità” infatti, la decisione di scegliere strutture emergenziali per la primissima accoglienza, come ad esempio i CARA si è rivelata poi fallimentare visto che tali strutture sono state destinate all’intera gestione dell’accoglienza (quindi da febbraio 2011 a dicembre 2012).

Ovvero un sistema che non garantisce un periodo di accoglienza continuativo dopo l’uscita dei richiedenti dal CARA, che dovrebbe avere inizio con la domanda di protezione e finire solo dopo un periodo di integrazione che si conclude con il raggiungimento di una capacità di autonomia del rifugiato. A causa di questa mancanza, soprattutto per quanto riguarda la c.d. seconda accoglienza, molti richiedenti asilo vengono lasciati in accoglienza nei CARA per periodi lunghissimi (fino a 6 o 12 mesi) rispetto alle previsioni della normativa (30-35 gg).

Al riguardo si registrano, sostanziali differenze tra i regimi di accoglienza nei progetti territoriali SPRAR e nei CARA, in cui, come abbiamo rilevato, i richiedenti asilo possono anche accedere in via subordinata all’assenza di posti SPRAR.

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Infatti le ricadute negative in relazione alla fase di uscita dai CARA sono diverse:

- L’accoglienza in CARA termina con il cambiamento di status da richiedente asilo a titolare di protezione e pone un serio problema rispetto le fasi immediatamente successive alla notifica della decisione della Commissione territoriale; sia in termini di accoglienza che di integrazione. Diversamente dall’accoglienza SPRAR che garantisce una continuità assistenziale nella fase di passaggio tra i diversi stati giuridici e più in generale porta avanti progetti individuali di inserimento nel lavoro, nella società e nel territorio circostante. Al contrario l’uscita dal CARA del titolare avviene quando egli non ha ancora strumenti per l’autonomia né è stato accompagnato in un percorso di conoscenza e contatto con i servizi del territorio.

- L’accoglienza in CARA, per la sua tipologia e fondamento legislativo, non garantisce infatti quell’ azione di orientamento, conoscenza, mediazione e contatto con le agenzie del territorio che si verifica durante il periodo di accoglienza SPRAR e che determina le condizioni per un accesso autonomo e consapevole ai servizi sociali e sanitari territoriali.

Tale differenza tra “l’accoglienza integrata” SPRAR e l’accoglienza in CARA determina un gap considerevole in termini di maturazione di informazioni, strumenti, competenze ed opportunità per l’inserimento socio-economico futuro presso un determinato territorio, tra persone titolari degli stessi diritti7.

7 Provincia di Parma (a cura di). Centro Immigrazione Asilo Cooperazione internazionale di Parma e provincia Onlus “Per un’accoglienza e una relazione di aiuto transculturali. Conoscere e applicare le

linee guida per un’accoglienza integrata e attenta alle situazioni vulnerabili dei richiedenti e titolari di protezione internazionale”.

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Di fatto quello che succede è che l’uscita dal CARA è una sorta di imbuto in cui poi le persone, non avendo la possibilità di inserimento in soluzioni più adeguate, visto che i posti SPRAR sono insufficienti, rimangono nel CARA. Addirittura abbiamo esempi drammatici di persone che rimangono un anno o un anno e mezzo grazie ad una ‘tolleranza’ del sistema CARA, però queste tolleranze le pagano i rifugiati stessi.

Tutto ciò succede perché i posti SPRAR sono solo (3.000), e non sono sufficienti, cosi le persone vengono inserite nei CARA, che non hanno però standard di accoglienza. Il CARA è una misura di primissima accoglienza che dovrebbe andare bene solo per i 35 gg previsti dalla normativa e poi bisognerebbe trovare soluzioni alternative sul territorio con risposte più adeguate. “Quando si parla del sistema di accoglienza italiano ci si perde perché è tutto un dovrebbe e sarebbe”. A proposito del sistema SPRAR, sono veramente pochi i fortunati che entrano in questo sistema. Questo sistema offre servizi che sono pertinenti, chiaramente, però non è garantita una omogeneità, ci sono SPRAR più adeguati e SPRAR meno.

La speranza è che nel tempo, sempre di più, il sistema SPRAR diventi un luogo possibile di accoglienza. Ma per il momento i posti sono pochi e le permanenze all’interno sono molto lunghe, visto che l’Italia è un paese molto difficile per l’integrazione.

L’integrazione dovrebbe cominciare dal giorno 1, perché poi tutto quello che non è integrazione è tempo perso, e se tu perdi un anno imparando male la lingua, senza avere la possibilità di conoscere il territorio, senza avere un orientamento ed un inserimento lavorativo al momento dell’uscita sarà tutto più difficile. Non a caso i CARA sono isolatissimi, sono fuori dal mondo degli uomini, non sono centri idonei per una lunga permanenza e sono spesso collegati male alle città più vicine.

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E’ improprio considerare il CARA un centro di accoglienza, quindi il difetto è già all’origine. Questo secondo il mio parere è un sistema improntato sulla sicurezza e non sull’integrazione. Lo dimostrano i dati dal 1990 ad ora, e le risposte normative riguardo il problema dell’immigrazione. Come notiamo nel grafico, l’arrivo dei rifugiati viene visto da ventiquattro anni come qualcosa di “emergenziale”.

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 0 10.000 20.000 30.000 40.000 4573 28.400 2970 1736 2259 2039 844 2595 18496 37.318 24296 21575 18754 15274 10869 10704 10026 13310 31.723 19090 12121 37.350 17352 27.930 ANNO N .RICHIE DE N TI

RICHIESTE ASILO IN ITALIA Riepilogo 1990-2014

CRISI ALBANESE- LEGGE MARTELLI

EMERGENZA KOSOVARA -LEGGE TURCO - NAPOLITANO

LEGGE BOSSI-FINI

ENA RIMPATRI

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Uno dei più grandi problemi del sistema Italiano di accoglienza è che non ha ancora una legge organica sull’diritto di asilo, e questo automaticamente mette in difficoltà il sistema stesso d’accoglienza, trovandolo sempre impreparato riguardo le ondate migratorie. Le stesse media italiane per tutti questi anni hanno utilizzato un linguaggio bellico quando si parla di rifugiati: “arrivi in massa, lo tsunami umano, l’invasione dei rifugiati”, tutti termini che mettono paura e parlano di un evento straordinario, ma ormai straordinario non è più da molti anni, e questo come osserviamo nella (tabella 1) lo dimostrano i dati relativi al emergenza kosovara del 1999 e dei flussi migratori del 2008. Il linguaggio politico non è diverso da quello giornalistico perché lo tsunami umano non è stata una trovata giornalistica, ma una trovata politica.

L’interessante risposta di un rifugiato Nigeriano che da 3 anni vive in Italia, alla domanda: Come giudica la perdurante mancanza di una legge organica sull’asilo in Italia?

“Secondo me l’Italia continua a vedere il fenomeno come un’emergenza, perché non è un Paese in grado di fare una legge. Si tratta il problema come un terremoto: fai quello che devi fare per tamponare la situazione e poi te ne dimentichi. Ma è inutile, perché hanno anche provato a fermare gli arrivi, ma non ha funzionato: una persona se deve scappare, scappa, magari non arriva in Italia, ma comunque da qualche parte arriva. Se le vie di accesso fossero più

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facili, si eviterebbe anche la perdita di tante vite umane, tutti quelli che muoiono in mare o nel deserto, sempre perché le condizioni sono sfavorevoli. Per lo stesso motivo tanti per scappare si rivolgono alle organizzazioni criminali, che poi li uccidono, perché considerano le persone solo come numeri da vendere e comprare. Perciò lo Stato italiano deve abbandonare la mentalità dell’emergenza”.

Non è un'emergenza. È del tutto ragionevole ricordare, come è stato fatto nelle conclusioni della ricerca dell'ASGI, che «con oltre 8.000 km. di coste navigabili, molti dei Paesi non UE del Mediterraneo attraversati da instabilità politiche, conflitti, violazioni generalizzate dei diritti fondamentali dell’uomo» l’Italia sarà interessata «da numeri crescenti di stranieri che chiedono protezione e da movimenti migratori intensi e imprevedibili». Se questo è lo scenario, occorre sgombrare il campo da ogni residua impostazione di tipo emergenziale8.

Per queste ed altre ragioni, possiamo concludere che il sistema di accoglienza italiano non riesce, in effetti, a garantire una reale protezione a coloro che la richiedono in Italia. Inoltre, la forte disomogeneità del sistema di accoglienza rende oltremodo difficile dare una risposta alla domanda se e in che misura vi sia un problema di seconda accoglienza e di carenza di intervento pubblico nel sostegno ai percorsi di integrazione

8 Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione, op. cit., pp. 406-7, in Bracci F., Emergenza

Nord Africa, I percorsi di accoglienza diffusa, Analisi e monitoraggio del sistema. Pisa, University

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nei confronti dei titolari di protezione internazionale ed umanitaria (per alcuni esiste, per molti altri non esiste).

Se lo stato Italiano pensa di poter gestire numeri importanti in materia di asilo, numeri che, se paragonati alla Francia e alla Germania, capiamo subito che solo di invasione ed emergenza non si può parlare. Quindi dovrà porsi il problema, che se riconoscerà la status di rifugiato a queste persone non può dopo farle dormire in strada o nei luoghi occupati.

C’è proprio una sorta di impreparazione e inadeguatezza proprio nel ritrovarsi a gestire fondi europei senza avere una legge organica sull’asilo. Un problema che deve essere risolto urgentemente, abbandonando quel approccio emergenziale ed improntato sulla sicurezza. Bisognerebbe fare in modo che in tutto il Paese ci sia uno standard uniforme di accoglienza, che sia la grande, la media o la piccola città.

Così in questo modo in qualsiasi parte di Italia si arrivi, il richiedente asilo abbia gli stessi diritti e le stesse opportunità. Sennò qui si fa il nord e il sud anche dell’accoglienza. Non è possibile che chi arriva a Crotone è più sfortunato in Italia di chi arriva a Bolzano; questo è inaccettabile dal punto di vista dei diritti dei rifugiati. Quindi una soluzione potrebbe essere l’uniformità del sistema d’accoglienza. Che ovunque in Italia ci siano gli stessi parametri, gli stessi standard e le stesse procedure di controllo.

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5.1.1 RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Il modello toscano è stato concepito e si è sviluppato in antitesi al modello “tendopoli”, confidando nella capacità di attivazione dei territori e nella nascita di sinergie tra amministrazioni, cittadini e terzo settore capaci di favorire i percorsi di inserimento dei migranti accolti. Però l'impronta dell'emergenza in Toscana ha lasciato segni profondi nel sistema di accoglienza, dove l’ordinario viene gestito ancora oggi con uno stato abbastanza emergenziale. Ci sono state numerose gestioni le quali hanno risposto rapidamente ad una domanda basica di accoglienza favorendo l’ingresso degli ospiti. In alcuni casi sono stati gli stessi gestori a esplicitare il carattere problematico di queste accoglienze, improvvisando in occasione di questa emergenza perché non avevano avuto esperienze precedenti con i rifugiati come nel caso del Santa Chiara a Volterra. Questi approcci hanno mostrato i loro limiti quando si sono dovuti misurare con esigenze più complesse (la preparazione dell'audizione, le prospettive di inserimento) o con dinamiche relazionali più delicate (le tensioni esplosive dell'attesa). E quando la fragilità delle competenze ed il volontarismo puro si sono associati a vincoli intrinseci - come la collocazione isolata di alcune strutture - non è un caso che siano sorte le situazioni più problematiche. Tensioni e conflitti interni, sindromi da burn-out e delusione degli operatori «tutto un tamponare situazioni senza avere un piano di lavoro», ne hanno plasticamente rappresentato le difficoltà. Molti di questi soggetti erano convinti, inizialmente, che si trattasse di dare vitto ed alloggio per poco tempo, però con il trascorrere del tempo si sono trovati ad affrontare situazioni molto più complesse dei mezzi a disposizione (finanziari ma anche umani).

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Quello che più ha sorpreso è il fatto che l’Alta Val di Cecina (configurata come un territorio con un fenomeno sporadico di immigrazione), con progetti soprattutto mirati solo alla promozione dell’integrazione (e solo attività di sportello e mediazione) è diventato per la prima volta un territorio di accoglienza, dove grazie al ENA e il modello di accoglienza diffusa è entrata nel limbo delle procedure per la richiesta d’asilo e il lavoro da fare in vista delle convocazioni in Commissione.

L’accoglienza richiesta dall’ENA ha comportato nel territorio dell’Alta Val di Cecina un vero e proprio stravolgimento delle attività ordinarie, richiedendo competenze e risorse, anche in termini di capitale umano, nuove, poiché sul territorio non era presente personale preparato a gestire sia la componente burocratica, sia le dinamiche relazionali (problema linguistico, diversità culturali etc…) implicate dalla presenza di profughi e dalla procedura9 per la richiesta di asilo10.

Bisogna aggiungere che oltre ad rivoluzionare il territorio riguardo l’accoglienza, l’esperienza del ENA ha avviato la formazione di “reti equilibrate” nel territorio dell’Alta val di Cecina ( esempio nel caso del Comune di Pomarance), ed ha avviato una relazione stretta tra pubblico e terzo settore, anche se in molti casi (esempio il Comune di Volterra) è stata messa in luce una non sempre chiara e facile attribuzione di competenze,

9 La procedura, prevede un colloquio con la Commissione: dove si viene “intervistati”, e si deve riferire delle eventuali persecuzioni nel paese di origine, delle vicende belliche, dalla fuga verso l’Italia. I funzionari non si accontentano dei resoconti dei profughi, ma com’è ovvio fanno domande, chiedendo approfondimenti, sollevando obiezioni: si tratta di un vero e proprio “esame”, da cui dipende la vita futura degli interessati. Sulla base di questo colloquio, infatti, la Commissione può decidere di riconoscere la protezione9, e quindi il permesso di soggiorno, oppure può rigettare la domanda di asilo (e in questo caso l’interessato deve lasciare l’Italia, oppure presentare ricorso in tribunale).

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con conseguenze sul piano della gestione e, soprattutto, della legittimazione degli interventi11.

Più volte le criticità sono derivate dalla mancata messa in gioco delle istituzioni comunali e dalla loro mancata assunzione di responsabilità, che è ricaduta tutta su un Terzo Settore12 non sempre sufficiente in grado di farvi fronte e che comunque non aveva la legittimazione per farlo. In questo quadro, il giudizio critico si rivolge sia nei confronti dei Comuni, sia nei confronti del Terzo settore e ancora di più verso la Pubblica Assistenza e Croce Rossa che, accettando di farsi carico interamente dell’emergenza <<hanno commesso un grosso errore perché si tratta di funzioni e competenze che spettano al Comune>>13.

Bisogna evidenziare che sia durante l’ENA che al giorno d’oggi il Comune di Pomarance, continua ad essere l’unica “governance locale” nel territorio dell’Alta Val di Cecina ad assumere quelle funzioni e competenze che tanti altri comuni precedentemente delegavano al terzo settore. Ed è proprio in questo Comune che all’arrivo di una coppia di rifugiati e successivamente con l’arrivo di quattro ragazzi nigeriani si è sviluppato un circuito molto forte, a differenza di Volterra dove il numero degli accolti è stato molto elevato e la cittadinanza non era pronta ad un fenomeno di questo tipo, dove la permanenza dei profughi si è accompagnata ad un generale malcontento della popolazione locale.

11 Tomei G., Se venti mesi vi sembran pochi, Gli effetti del programma ENA in provincia di Pisa. 12 Il ruolo svolto dal terzo settore, ha rappresentato certamente un punto di forza del sistema. Tuttavia bisogna far sì che tra questi due attori (Terzo Settore e Comune) vi sia un rapporto equilibrato. Quando questo equilibrio non c'è, in genere ciò accade perché il Comune fa ricadere la gestione interamente sulle spalle del soggetto associativo: una tentazione forte, per alcune amministrazioni locali (l'ospitalità di richiedenti asilo è un tema complesso e le difficoltà operative possono essere numerose), ma che rappresenta anche un grosso rischio. Il pericolo è infatti che «alla fine le associazioni si sentano usate: questa è sussidiarietà all'incontrario» (parole pronunciate dal coordinatore di un'accoglienza incardinata sul lavoro svolto da alcune associazioni.

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Nel caso di Volterra la mancanza di un’attiva partecipazione del istituzione comunale insieme alle difficoltà della Rete territoriale di sviluppare e consolidare un tessuto di rapporti sinergici e integrati, ha impattato sulle capacità del sistema locale, amplificando anche le difficoltà e le incertezze del sistema nel suo complesso ed anzi intrecciandosi con queste in un complesso nodo di responsabilità mancate e competenze delegate.

Infatti nei casi nei quali il Comune non è stato coinvolto (per scelta dello stesso Comune o perché l’ente locale è stato ignorato nella fase di attivazione delle strutture) le difficoltà sono state notevoli. Le amministrazioni locali sono i soggetti su cui principalmente ricade la responsabilità delle dinamiche di accoglienza e integrazione di titolari di protezione internazionale, perché è sui singoli territori che l’inserimento socioeconomico delle persone si attua e si stabilizza. Il Comune deve dunque costituire il perno del sistema, e l'esercizio di questo ruolo dev'essere sostenuto a livello di coordinamento dalla definizione degli standard e degli indirizzi sopra menzionati.

Un intervento di questo tipo potrebbe essere concepito soltanto da una normativa nazionale che si ponesse l'obiettivo di costruire un sistema nazionale di accoglienza realmente decentrato ed ispirato al principio del “responsibility-sharing”14.

14 Sul dibattito riguardante la necessità di passare dal principio del burden-sharing (la suddivisione dei costi di accoglienza, concetto dalla connotazione negativa) a quello del responsibility-sharing (la condivisione delle responsabilità, prospettiva dalla connotazione solidaristica ed umanitaria), si veda Parlamento Europeo, What system of burden-sharing between Member States for the reception of asylum seekers?, Direzione Generale per le Politiche Interne, 2010, in Bracci F., Emergenza Nord

Africa, I percorsi di accoglienza diffusa, Analisi e monitoraggio del sistema. Pisa, University

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Quindi è importante sottolineare che l’handicap del sistema di accoglienza dipende da un mancato coordinamento di una “cabina di regia”15 nel territorio locale, capace di coordinare le attività e soprattutto

bisogna evidenziare la mancanza di questa RETE anche a livello regionale e nazionale. È stata proprio questa mancanza di coordinamento e di Rete il vero e proprio caos del sistema di accoglienza. Bloccando le liste di attesa in tutto il territorio italiano per mesi interi. Quindi occorre una linea comune su tutto il territorio, o come nel caso del IMSERSO in Spagna, un agenzia nazionale che gestisca tutto il sistema di accoglienza nazionale, regionale e locale. Perciò se si vorrà uscire da questo labirinto burocratico occorre una linea comune su tutto il territorio, o meglio la presenza di una “Regia del sistema” di accoglienza, la quale dovrà essere presente in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.

Post-Ena nell’Alta Val di Cecina

Durante l’emergenza si è notato chiaramente lo sviluppo e il consolidamento di quei rapporti che si erano costruiti tra diverse realtà del terzo settore, e tra loro, gli enti locali, che potevano rafforzarsi in basi utili per un lavoro condiviso nel tempo, però come dichiara la responsabile dello sportello immigrazione dell’Alta val di Cecina questo non è avvenuto, la Rete dopo l’ENA ha iniziato a spezzettarsi, <<dove si poteva veramente fare una rete, che sarebbe stato più utile e lungimirante, non è successo, proprio perchè non tutti vogliano essere in RETE e quindi la rete non si è costituita…inoltre, mentre durante l’ENA, per l'accoglienza, ci si doveva rifare al protocollo SPRAR, al giorno d'oggi, per altri posti straordinari, nella convenzione non si vede nemmeno l’ombra di quel protocollo…e le convenzioni si rinnovano di due mesi in due mesi... come si può pensare costruire un progetto d'accoglienza per due mesi? E'

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chiaro che non c'è nessun progetto ma solo il cercare di tappare, per poco tempo, una grossa falla.... senza progettare nessun futuro >>, la responsabile segnala la necessità di una “regia del sistema” la quale è mancata durante l’ENA e continua a mancare nel territorio ma soprattutto nelle decisioni e nelle linee-guida di governo.

5.1.2 GLI INTERVENTI PROPOSTI NEL CASO

LOCALE

Dalla ricerca svolta nell’Alta val di Cecina sono emerse tre questioni fondamentali da tenere presente quando si parla di accoglienza e di protezione dei rifugiati. Tre fattori imprescindibili per avviare un processo di integrazione e per questa ragione sono i temi sui quali maggiormente bisogna puntare per rendere effettivo e virtuoso il sistema italiano d’accoglienza ai richiedenti asilo/rifugiati. Istruzione, Sanità e Lavoro.

Integrazione

Sanità: Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, i richiedenti e i titolari di protezione internazionale dovrebbero avere l’obbligo immediato di iscrizione al servizio sanitario nazionale ed avere una parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri nel territorio italiano. Tuttavia, dobbiamo tenere presente che il SSN non è immediatamente comprensibile ed accessibile ai titolari di protezione internazionale; infatti la frammentazione dei servizi e delle aree medico-specialistiche che possono riscontrarsi, richiedono una conoscenza approfondita della cultura sanitaria italiana.

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In particolare, va considerato che i rifugiati hanno spesso problematiche sanitarie particolari, soprattutto dal punto di vista della salute mentale. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, l’attesa estenuante dell’esito della richiesta di asilo, mettono a dura prova la capacità di resistenza del richiedente asilo. Questa estrema sofferenza spesso si manifesta attraverso sintomi psicosomatici anche severi, categorizzati come sintomatologia dei “disturbi post traumatici da stress”16, che per essere curata richiede

competenze mediche e psichiatriche specifiche.

In mancanza di tali servizi specifici nel sistema sanitario nazionale, sono spesso le associazioni del terzo settore che si occupano di sopperire a tali carenze, ma con progetti temporanei finanziati per uno o due anni che di fatto non garantiscono nessuna continuità su questo fronte. Molti operatori hanno infatti rilevato che l’attuale aumento dei casi psichiatrici tra i richiedenti asilo e rifugiati sta diventando un grosso problema, difficilmente gestibile senza una presa di posizione istituzionale che permetta di avere a disposizione operatori sanitari qualificati e specializzati in materia. Spesso accade infatti che si frapponga anche uno scoglio culturale tra quelle che sono le diagnosi e le cure che riguardano la malattia mentale nel nostro sistema e le reali necessità dei rifugiati, per questa ragione sarebbe auspicabile destinare particolari servizi per gli utenti di questo tipo.

Quello che è emerso dalla ricerca sul campo è che nella maggior parte dei casi il disagio mentale che si manifesta nei titolari/richiedenti protezione internazionale e l’emersione delle conseguenze fisiche e psichiche delle violenze da loro subite le quali sottopongono le strutture di accoglienza a particolari tensioni organizzative e gestionali. Infatti, in

16 Le strade dell’Integrazione. Ricerca sperimentale quali-quantitativa sul livello di integrazione dei titolari di protezione internazionale presenti in Italia da almeno 3 anni.” CIR Consiglio Italiano per i Rifugiati, 2012.

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mancanza di un adeguato supporto clinico spesso si verifica un’ulteriore difficoltà, da parte dei rifugiati/richiedenti asilo, alla partecipazione a tutte quelle attività necessarie per raggiungere l’autonomia e l’indipendenza e in molti casi si verificano anche situazioni particolarmente gravi e difficilmente controllabili che esulano dalle competenze degli operatori dei centri di accoglienza.

Molto importante è stata la testimonianza di un rifugiato a Madrid il quale lavora nel centro di accoglienza CEAR per richiedenti asilo:

“In particolare quelli che hanno subito la tortura, hanno ormai perso la fiducia nell’essere umano, perché anche quello che ti tortura è un essere umano della tua specie. Perciò io credo che per avere fiducia in una persona o lo devi conoscere molto bene oppure devi avere qualcosa in comune con lui; io ho parlato con tante persone di nazionalità, lingua e cultura diversa, ma quando la persona si accorge che tu hai avuto più o meno la stessa esperienza, riuscire a fidarsi e raccontare quello che si è subito è molto, molto più facile. Ho notato che quello che unisce le persone è il dolore, che è un sentimento forte come l’amore; se io ho l’esperienza in comune posso fidarmi anche di una persona di lingua e cultura diversa dalla mia. Per questo secondo me uno dei problemi

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dell’accoglienza è che ci sono poche persone tra quelle che accolgono che hanno avuto la stessa esperienza dei richiedenti. Anche se qui ci sono gli psicologi, quasi nessuno di loro ha subito la tortura. È vero che se hai bisogno di uno psicologo devi andarci, ma raccontargli la tua storia può essere molto difficile; se tu però vieni accompagnato ed incoraggiato da una persona di cui ti fidi, che ti dice che è necessario farlo, che bisogna farlo, allora è più facile raccontare (perché altrimenti - anche a me è successo, anche se avevo una psicologa molto brava – quando sei lì che racconti e rivivi quell’esperienza, arrivi ad un limite di sofferenza per cui dici: “ma perché devo raccontare queste cose ad una persona che non conosco?)”.

Lavoro e Istruzione: Le problematiche riscontrate riguardo al tema ‘lavoro’ sono molteplici e fanno riferimento a diverse questioni ancora irrisolte nel sistema italiano di accoglienza e protezione dei rifugiati.

Innanzitutto il mancato riconoscimento dei titoli di studio dei richiedenti asilo in Italia profila una lacuna molto grave, a mio parere, del sistema di garanzia dei diritti di protezione internazionale dei quali i rifugiati dovrebbero essere titolari una volta ottenuto tale status. Perciò anche coloro che nel Paese di origine erano laureati sono costretti a

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riprendere gli studi tornando addirittura la scuola media (il diploma di terza media è infatti il titolo di base necessario per avere accesso a molti corsi di formazione professionale).

Questa regressione rappresenta una perdita netta certamente in termini di qualificazione professionale, ma anche di identità e di autostima17. Infatti, il passaggio ad un contesto in cui questo aspetto della propria personalità viene negato può rappresentare una fonte di umiliazione e scoraggiamento. Inoltre, anche in ambito lavorativo la mancanza di una certificazione attestante la propria professione vanifica la possibilità di dimostrare le proprie competenze e capacità riducendo di gran lunga l’accesso alle opportunità lavorative. Tutto ciò significa perdita di riconoscimento sociale seguita alla privazione della propria identità intellettuale e professionale.

E’ evidente che la tematica del lavoro è inscindibilmente legata a quella dell’istruzione, infatti il ruolo svolto da quest’ultima, intesa anche come formazione professionale, nel percorso di inserimento socio-lavorativo dei richiedenti asilo all’interno del contesto di accoglienza è fondamentale. Sia per quanto riguarda l’apprendimento della lingua italiana, che è ovviamente imprescindibile, sia per quanto concerne l’acquisizione di conoscenze e competenze lavorative finalizzate a rafforzare la collocazione dei rifugiati nel mercato del lavoro. La formazione rappresenta anche l’unico modo possibile per scardinare quei meccanismi di segregazione lavorativa che relegano i migranti a svolgere solo attività dequalificate. Senza dubbio, uno dei principali fattori che contribuisce a collocare l’immigrato in una posizione di fragilità sociale è la scarsa o la nulla conoscenza della lingua italiana.

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Il gap linguistico (a volte unito alla fragile situazione giuridica e alla mancanza di una rete sociale locale) spinge il migrante a ricoprire ruoli e posizioni subalterne, spesso senza possibilità di mobilità sociale di tipo verticale.

La questione del lavoro non è legata solamente alla crisi economica che negli ultimi anni si sta abbattendo su tutto il sistema economico italiano ed europeo, ma è legata sicuramente anche ad una mancanza di attenzione e sensibilità verso il fenomeno dei rifugiati, che dagli anni ’90 chiedono asilo in Italia. La mancanza di percorsi virtuosi di inserimento nel lavoro anche in tempi “non sospetti”, nei quali la crisi era ancora lontana da venire, sono ampiamente riconducibili ad una mancanza di interesse verso queste categorie.

Il rinnovo del permesso di soggiorno e il lavoro dopo, sono per rifugiati i due problemi più urgenti, però come fare per risolverli, o almeno cercare di affrontarli?

I Rifugiati non hanno, da questo punto di vista, risorse autonome: arrivati da poco in Italia, non hanno una rete di relazioni in grado di fornire informazioni, contatti utili, assistenza. Le conoscenze degli immigrati accolti nella zona dell’Alta Val di Cecina sono abbastanza superficiali, ancora più complesse sono le relazioni con gli italiani: privi di un radicamento sul territorio, i profughi di solito non conoscono né vicini di casa né famiglie residenti nella zona. Nel comune di Pomarance la parrocchia e l’associazione Welcome in Val di Cecina si sono attivate organizzando momenti di socialità con i nuovi arrivati (cene, feste, incontri pubblici). Ma le reti relazionali costruite da queste iniziative sono troppo episodiche per rappresentare un punto di riferimento. L’unica risorsa sono gli operatori delle strutture di accoglienza.

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Questi, in effetti, si fanno carico di tutte le necessità dei profughi: dal sostentamento quotidiano (cibo, vestiti) all’assistenza sanitaria, dalla ricerca di un lavoro al permesso di soggiorno.

Hanno finalità perseguibili tramite l’apporto delle competenze degli operatori che lavorano nel progetto e che accompagnano gli ospiti nel loro percorso, aiutandoli a risolvere le questioni della quotidianità e fornendo loro un ponte di collegamento con il territorio e la comunità locale. In più, gli operatori rappresentano spesso il “filtro” obbligato per comunicare con il mondo esterno: sono loro che accompagnano i profughi al Centro per l’Impego o in Questura, che fissano l’appuntamento con il medico o con l’avvocato, che avviano gli ospiti ai corsi di italiano (promossi dagli stessi enti gestori, o da cooperative convenzionate), che organizzano attività sociali e ricreative. Durante il periodo di accoglienza l’operatore accompagna e affianca il beneficiario per risolvere le questioni della quotidianità (sulla base dei servizi garantiti dai progetti SPRAR18, come

sopra indicati) e diventa un “ponte” per la conoscenza del territorio e della comunità locale.

Il rapporto tra operatore e utente si caratterizza pertanto come una relazione di fiducia reciproca, attraverso la quale l’operatore sostiene il beneficiario nella realizzazione di un percorso di inserimento, supportandolo nel focalizzare ed eventualmente potenziare le proprie risorse, in rapporto al contesto sociale nel quale è inserito. Sulla base di un rapporto di reciprocità il beneficiario diviene egli stesso protagonista del progetto di inserimento, collaborando direttamente con l’operatore.

18 Con l’istituzione dello SPRAR, <<il servizio centrale raccoglie l’eredità del Programma nazionale asilo (PNA) che ha saputo dare, attraverso il coordinamenti e la messa in rete dei servizi offerti dai Comuni a rifugiati e richiedenti asilo, valenza nazionale a interventi prima frammentati sul territorio>>. Il modello SPRAR, per come si è andato definendo negli anni, si fonda su interventi di “accoglienza

integrata” che si pongono l’obiettivo di accompagnare i singoli verso l’autonomia, affiancando al

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La relazione tra operatore e utente può riassumersi in alcune specificità:

 È caratterizzata dalla reciprocità

 È di carattere professionale e non personale

 L’operatore non si sostituisce al beneficiario ma lo supporta nell’agire direttamente.

I rapporti con gli utenti passano da un rapporto strumentale a un rapporto molto caldo a un rapporto molto freddo, quindi tutti i “colori” possibili del rapporto. Al fine di instaurare una relazione di fiducia efficace, è stato osservato che è importante che l’operatore metta in gioco alcuni elementi, fondamentali nella gestione delle relazioni interpersonali. Le capacità, i strumenti e il ruolo dell’operatore19

In particolare, l’operatore dovrà avere la capacità di:

- Saper ascoltare il beneficiario e favorirlo nel espressione dei propri bisogni;

- Delimitare l’ambito del proprio ruolo professionale, riconoscendo le proprie competenze e responsabilità, nonché i limiti;

- Essere consapevole dei propri limiti professionali e personali; - Saper individuare, di conseguenza, ulteriori competenze che

possano rendersi complementari al lavoro dell’operatore; - Conoscere i servizi e le potenzialità del territorio;

- Costruire rapporti di scambio di informazioni e di reciproca collaborazione con altri soggetti attivi sul territorio;

- Favorire l’accesso dei beneficiari ai servizi individuati;

- Orientare il beneficiario al servizio/operatore di cui ha bisogno;

19 Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (2010), Manuale operativo.

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- Costruire un rapporto di reciprocità con il beneficiario, responsabilizzandolo affinché si attivi in autonomia in base alle proprie risorse individuali;

- Condividere il piano di intervento con gli altri operatori del servizio, affinché le azioni intraprese siano complementari fra loro e diano efficacia all’intervento nel suo complesso.

In questo senso il ruolo dell’operatore è quello di:

- Avere chiari gli obiettivi del progetto e renderli espliciti al beneficiario. Impostare la relazione con il beneficiario a partire dagli obiettivi del progetto nel quale è inserito (cosa ti posso dare, cosa mi aspetto che tu faccia, ecc), avendo chiaro che il ruolo dell’operatore non consiste nel farsi carico in toto del beneficiario, bensì nel mettere a disposizione la propria professionalità a sostegno di un percorso di accoglienza e di inserimento, di cui lo stesso beneficiario rimane protagonista assoluto.

- Contestualizzare la situazione del beneficiario in rapporto ai servizi di cui può usufruire sul territorio e, in generale, in rapporto ai diritti e doveri di cui gode secondo l’ordinamento italiano. Questo ultimo punto risulta particolarmente importante al fine di evitare fraintendimenti circa la soluzione di problemi, legati soprattutto al permesso di soggiorno.

- Su tali basi, elaborare insieme al beneficiario un percorso individuale che ottimizzi le risorse e gli obiettivi della persona, in rapporto alle effettive opportunità e possibilità del territorio

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Gli strumenti di base che l’operatore ha a disposizione sono:

- L’ascolto empatico, ponendosi dal punto di vista del beneficiario; - La costruzione di una relazione improntata sul dialogo e sulla

negoziazione;

- L’utilizzo della comunicazione “consapevole”, finalizzata a strutturare e rendere trasparente il rapporto dare/avere all’interno del progetto e della relazione interpersonale;

- La conoscenza del beneficiario e della sua storia, al fine di focalizzare le eventuali difficoltà, anche di ordine psicologico ed emotivo, che possono avere un’influenza sulle proposte che vengono fatte;

- La condivisione degli interventi con tutta l’équipe di operatori; - La rielaborazione con la propria équipe, e con il supporto di

un’eventuale supervisione, delle proprie modalità di lavoro.

Molte volte però sulla figura del operatore ricadono responsabilità di tutto ciò che “non funziona”, anche quando si tratta di questioni lontane dalle sue competenze. Talvolta, persino i ritardi nel rilascio del permesso di soggiorno vengono attribuiti alla responsabilità, diretta o indiretta, alla struttura di accoglienza. In questa condizione, come è facile intuire, il rapporto con gli enti gestori è fonte di contributi e di continue incomprensioni.

Il fattore tempo rappresenta l’elemento più critico di tutte le gestioni, proprio perché misura il tempo di attesa della Commissione e dell’audizione. Come chiarisce una testimonianza:

“L’attesa accelera e appesantisce la fragilità delle persone (…) se c’erano problemi precedenti li acuisce, se non c’erano le crea”. Pero non tutti gli ospiti vivono l’attesa nello stesso modo, …magari chi è da solo

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qui è un pochino più rilassato, ragazzi di diciott'anni che magari erano andati in Libia solo per lavorare con la famiglia a casa che bene o male non ha bisogno di sostentamento, certo non fa piacere (...) però son più tranquilli. Persone invece più adulte con famiglie da mantenere hanno grossi problemi a gestire questa attesa, questa incertezza sul futuro che è pesante20.

L'incertezza produce sfiducia, e la sfiducia produce apatia, talvolta rabbia, quasi sempre indisponibilità a sostenere le varie attività che accompagnano la presa in carico. L'apatia può finire per coinvolgere tanto gli ospiti quanto gli operatori. L'abbattimento e la demotivazione di questi ultimi è tanto più forte quanto più le gestioni si basano su princìpi volontaristici o equivocamente “familiari”, com’è il caso della residenza di S. Girolamo, (<<noi per loro siamo mamma e papa>>) dichiara il

responsabile del Centro San Girolamo di Volterra.

I motivi di incomprensione precipitano quasi sempre su una figura particolare, che è “l'operatore”, la componente del sistema cui compete - secondo quanto afferma il Manuale operativo SPRAR «avere chiari gli obiettivi del progetto e renderli espliciti al beneficiario»21. È evidente che

nelle situazioni nelle quali le criticità tendono a crescere nel corso del tempo il peso della relazione finisce per ricadere in gran parte su questa componente.

20 BRACCI F., Emergenza Nord Africa, I percorsi di accoglienza diffusa, Analisi e monitoraggio del sistema. Pisa, University Press.

21 Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (2010), Manuale operativo, op. cit., p. 5.

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5.2 Le sfide per Regione Toscana e l’Alta val di Cecina:

elementi di replicabilità delle “best practices”.

I due i modelli di accoglienza esaminati precedentemente presentano peculiarità tali da essere utilizzabili a fini metodologici posto che l’indagine comparata individua sia importanti affinità di fondo che significative differenze.

Le differenze di fondo tra il regionalismo italiano e quello spagnolo facilitano l’individuazione di soluzioni che avranno buone probabilità di successo nel sistema regionale italiano e toscano in particolare. In tale prospettiva è stata prescelta la Comunità di Madrid, la quale vanta una significativa esperienza in materia di accoglienza ed inserimento sociale delle popolazioni immigrate.

Il raffronto con la realtà spagnola fa inoltre emergere alcune lacune del sistema italiano dalle quali può opportunamente prendersi le mosse per individuare le “good practice” più utili a rimuovere i punti deboli del modello nazionale. Lo studio dell’organizzazione politico-amministrativa spagnola conferma sempre più il ruolo chiave delle Comunità Autonome, le quali detengono le competenze e le risorse necessarie a promuovere una vera e “propria” politica regionale di regolazione degli ingressi e di gestione complessiva dell’accoglienza ed inserimento dei rifugiati nel tessuto sociale. Perciò alcune “good

practice” del sistema spagnolo, hanno buone probabilità di essere

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La trasferibilità di alcune buone pratiche nel sistema toscano presuppone dunque l’analisi di alcuni profili di fondo. Come abbiamo evidenziato anche precedentemente la Spagna ha sviluppato politiche e piani strategici ad hoc, promuovendo un maggiore coordinamento nella conduzione delle politiche tra autorità centrali e locali, in Italia, la politica di accoglienza – a parte le situazioni emergenziali – si è sviluppata prevalentemente a livello di Enti locali senza una reale direzione del Governo centrale.

Entrambi gli stati hanno affrontato un impreparazione iniziale dei rispettivi Governi a gestire il fenomeno a causa soprattutto del imprevedibilità del medesimo, dove è stata in parte sopperita dagli Enti locali ai quali è stata delegata politica di accoglienza e l’inserimento dei rifugiati nel territorio. Però una volta superato il momento iniziale di “emergenza”, la Spagna ha promosso una vera e propria politica del diritto di asilo, assegnando – come si diceva – un ruolo guida alle Comunità Autonome, invece l’Italia non è stata in grado di definire una politica di ampio respiro. Gli Enti regionali italiani, infatti, stentano ancora ad acquisire un ruolo definito di policy maker simile a quelli spagnoli.

Oggi la Regione Toscana dovrà ritenere prioritario favorire e consolidare il funzionamento della rete tra regione, Province, Enti Locali terzo settore e monitorare il fenomeno migratorio per migliorare accoglienza e integrazione.

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32 Elementi di attenzione

 Lavorare sul rafforzamento delle reti e delle relazioni interistituzionali. Esiste un rischio di sovrapposizioni, di delega da parte del pubblico all’associazionismo e al privato o viceversa di “competizione” tra i diversi soggetti.

 Lavorare su un’educazione interculturale diffusa attraverso un’attività di formazione estesa agli operatori delle PA in modo da migliorare l’efficacia dei servizi per rispondere ai bisogni dei rifugiati.

 Rafforzare ulteriormente il ruolo dei CTI, come soggetti che mettono in connessione attori istituzionali e gli attori del territorio: dare loro più spinta anche in fase di progettazione degli interventi

 Rafforzare ulteriormente la partecipazione delle comunità e delle associazioni straniere

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5.2.1 GLI INTERVENTI PROPOSTI IN AMBITO EUROPEO E NAZIONALE

In termini generali, la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, fondato sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, nonché sui principi di democrazia e dello Stato di diritto, nel quale la persona sia al centro della sua azione, costituisce l’opzione politica fondamentale dell’Unione Europea, espressa nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Tale opzione deve consolidarsi come fondamento legislativo a tutti i livelli (europeo, nazionale e locale) per la elaborazione di normative e per le prassi di applicazione in tutti gli ambiti concernenti asilo, migrazioni e cooperazione.

In particolare, la costruzione di un’Europa inclusiva e non refrattaria verso le popolazioni migranti deve operare un superamento dell’orientamento securitario che, a partire dal Consiglio di Tampere (1999), è andato affermandosi nelle politiche interne dell’Unione al fine di tutelare le frontiere degli Stati, spesso in contrasto con gli articoli della Carta dei diritti fondamentali. Tale orientamento, finalizzato ad arginare i flussi migratori, ha rafforzato prassi di controllo sulla popolazione migrante residente nei Paesi, accrescendo il ruolo degli organi di controllo e rendendo difficili i processi di integrazione.

Al tempo stesso, non appare possibile affrontare gli aspetti problematici connessi alle migrazioni senza una politica estera comune, in grado di considerare il fenomeno in un quadro di rapporti tra UE e Paesi terzi, sostenuta da reali ed efficaci politiche di cooperazione.

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34 DUE FRONTI DI INTERVENTO

Il fronte delle politiche di immigrazione, asilo e accoglienza

È necessario:

Recuperare il concetto di “sicurezza” quale è espresso nel Preambolo e all’art. 6 della Carta di Nizza, ossia unicamente funzionale alla persona senza alcun tipo di discriminazione. L’orientamento securitario assunto dalle politiche europee a cominciare dal Consiglio di Tempere ha visto un’eccessiva accentuazione della sicurezza degli Stati e delle frontiere rispetto a quella degli individui, tra cui migranti e profughi. È urgente correggere questa distorsione, conformando maggiormente politiche e normative al dettato della Carta di Nizza.

Ridefinire il senso della missione di Frontex e del programma Eurosur in termini di contrasto efficace alle reali minacce esterne espresse dalla criminalità internazionale, dai movimenti terroristici, dai traffici illeciti di armi, stupefacenti, di organi ed esseri umani (non va trascurata la presenza di organizzazioni malavitose nella catena di trasferimento dei migranti dai paesi di origine all’approdo in Europa con percorsi umilianti della dignità umana, vedi i centri di trattenimento organizzati in Libia).

Contrastare la riduzione delle risorse disponibili da parte del Quadro finanziario pluriennale 2014-2020 e orientarne maggiormente la destinazione verso programmi di accoglienza e integrazione sociale, limitandone la destinazione ad iniziative di “controllo”.

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Determinare criteri comuni di accesso all’asilo e standard di accoglienza condivisi da tutti gli Stati membri al fine di: - garantire la reale applicazione del diritto d’asilo,

- evitare la concentrazione dei rifugiati nei paesi maggiormente attrattivi,

- permettere la libera circolazione dei rifugiati tra i paesi UE; - attuare percorsi di tutela umanitaria finalizzati all’autonomizzazione economica e sociale dei profughi.

Promuovere e realizzare effettive politiche di inclusione sociale, attraverso un riequilibro finanziario e operativo tra prassi di controllo, di solidarietà e integrazione.

Fronte della politica estera, della cooperazione internazionale e della sicurezza esterna

Rimodulare il ruolo della cooperazione con i Paesi di provenienza e transito dei migranti (tra questi, anche i profughi) in rapporto alle condizioni (economiche, civili, democratiche) delle diverse nazioni e connesso con le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione22.

22 In questa prospettiva, la formulazione del Global approach (Consiglio di Hampton Court, 2005, e successiva Comunicazione The Global Approach to Migration and Mobility, 2011) ha rappresentato un passaggio significativo nel recupero di un rapporto di interdipendenza tra cooperazione e immigrazione, a cui non sono corrisposti, tuttavia, piani di azioni realmente efficaci.

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Rafforzare le linee di cooperazione dell’UE con i “paesi fragili” – ossia, quei paesi fuoriusciti da situazioni di crisi che muovono verso una condizione di stabilizzazione istituzionale – secondo una prospettiva che abbandoni il carattere “emergenziale” a favore di una strategia di sviluppo fondata sulla sostenibilità nel lungo periodo23.

INTERVENTI NAZIONALI

Procedere all’approvazione di una legge organica in materia di asilo.

Abolire il reato di “immigrazione illegale” (L. 94/2009) per i migranti che approdano in Italia in maniera irregolare, evitando la “condizione detentiva”, spesso prolungata nel tempo, all’interno dei Centri di identificazione ed espulsione.

Ridistribuire in maniera più trasversale le competenze ministeriali in materia di migrazioni e asilo, allo stato attuale troppo sbilanciate a favore del Ministero dell’Interno.

23 Tale prospettiva si inserisce nel programma New Deal for Fragile States, formulato dall’International Dialogue on Peace Building and State Building (IDPS) e sottoscritto dall’UE a Busan (2011) nel corso dell’OECD High Level Forum for Aid Effectiveness. Imperniato sul principio della “partnership”, tale programma consente ai Paesi che ricevono aiuti internazionali di collaborare con i donatori alla fase di elaborazione dei progetti di sviluppo e di mantenere la titolarità dell’implementazione degli stessi, al fine di garantirne una maggiore efficacia ed al contempo di consentire lo sviluppo di autonome strutture di amministrazione politica ed economica a livello nazionale e di evitare il rischio di incentivare la dipendenza dagli aiuti esterni. In particolare, in questo processo viene sottolineato il protagonismo che le CSOs (Civil Society Organisations) devono ricoprire, in modo che co-progettazione e risultati coinvolgano tutte le espressioni democratiche della popolazione, e non solo gli organi istituzionali e di governo. In questo contesto, risulta di notevole rilievo la valorizzazione delle diaspore (espresse nelle CSOs) il cui ruolo potrebbe assumere una centralità politica nelle azioni di State building comprese nei progetti di cooperazione.

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Superare il carattere “emergenziale”, spesso reiterato, che domina le risposte giuridiche e amministrative in materia di asilo, accoglienza e percorsi di tutela umanitaria, evitando “scorciatoie” amministrative che, in molti casi, impediscono adeguati strumenti di controllo e verifica sui servizi stessi.

Approvare una nuova legge italiana sulla cooperazione allo sviluppo che tenga conto dell’affermarsi e dell’efficacia della cooperazione decentrata che riconosca agli Enti Locali del Nord e del Sud del mondo la capacità sia di lavorare in comune sul rafforzamento istituzionale, sia di mobilitare le comunità ed i molti attori che sono impegnati in questo settore. La cooperazione decentrata permette, infatti, di agire direttamente sulle politiche di sviluppo locale favorendo la continuità dei risultati e mettendo in comunicazione diretta le istituzioni più prossime ai cittadini.

POPLLO LEDIO LM-88

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