• Non ci sono risultati.

Trapianti: normative a confronto e traffico di organi

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Trapianti: normative a confronto e traffico di organi"

Copied!
148
0
0

Testo completo

(1)

Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

_____________________________________________________________________________

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

“TRAPIANTI: NORMATIVE A CONFRONTO E

TRAFFICO DI ORGANI”

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

RELATORE

Chiar.ma Prof. Maria Antonietta Lombardi

CANDIDATO

(2)

2

INDICE

INTRODUZIONE ... 5

1.1 La storia del trapianto ... 5

1.2 Concetti di trapiantologia ... 9

1.3 La diagnosi e l’accertamento di morte ... 12

1.3.1 Storia della diagnosi di morte ... 13

1.3.2 I criteri per la diagnosi e l’accertamento di morte ... 15

1.4 La donazione da cadavere... 24

1.4.1 La donazione dopo morte circolatoria ... 24

1.5 La donazione da vivente ... 29

CAPITOLO 1 Il sistema trapianti: uno sguardo sul mondo ... 31

1.6 Il ruolo della World Health Organization (WHO) ... 32

1.6.1 I principi guida della WHO ... 34

1.6.2 La risoluzione di Madrid... 41

1.6.3 Il percorso critico per la donazione di organi ... 43

1.6.4 The Global Database on Donation and Transplantation ... 48

1.7 La politica dell’Unione Europea ... 50

1.7.1 Il piano d’azione per la donazione e il trapianto di organi ... 51

1.7.2 La direttiva 2010/45/UE relativa alle norme di qualità e sicurezza degli organi umani destinati ai trapianti ... 53

1.8 Focus sulla situazione di alcuni paesi stranieri... 54

1.8.1 Gli Stati Uniti d’America ... 55

(3)

3

1.8.3 La Spagna ... 59

1.8.4 L’Iran ... 63

1.8.5 La Cina ... 66

CAPITOLO 2 Il trapianto in Italia ... 69

2.1 La storia del trapianto in Italia ... 69

2.2 La legislazione ... 71

2.2.1 Evoluzione normativa ... 73

2.2.2 Il processo di donazione ... 81

2.2.3 Struttura organizzativa ... 83

2.3 Ultimi dati sulle attività di donazione e trapianto ... 92

CAPITOLO 3 Il traffico di organi ... 95

3.1 Breve storia del traffico di organi ... 97

3.2 Il traffico di organi ai nostri giorni ... 98

3.2.1 La portata del traffico ... 98

3.2.2 Le parti in causa nelle operazioni di traffico ... 100

3.2.3 Come funziona la rete del traffico ... 104

3.2.4 Aspetti economici del traffico di organi ... 106

3.2.5 I rischi per la salute ... 110

3.2.6 Alcuni casi recenti di traffico di organi ... 111

3.3 La normativa internazionale contro il traffico di organi ... 114

3.3.1 La World Health Organization (WHO) ... 114

3.3.2 L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ... 115

3.3.3 La World Medical Association (WMA) ... 116

(4)

4

3.3.5 Summit della Pontificia Accademia delle Scienze sul traffico di

organi e sul turismo dei trapianti ... 117

3.4 La normativa sovranazionale contro il traffico di organi ... 118

3.4.1 Il Consiglio Europeo (CoE) ... 118

3.4.2 L’Unione Europea ... 123

3.5 La normativa italiana contro il traffico di organi ... 126

3.5.1 Il traffico di organi da vivente ... 126

3.5.2 Il traffico di organi da cadavere ... 128

3.6 Considerazioni sul ruolo del medico nel traffico di organi ... 129

(5)

5

INTRODUZIONE

1.1 La storia del trapianto

Fin da tempi antichi prolungare la vita o risanare un paziente sostituendone gli organi malati con altri sani ha appassionato e stimolato numerosi studiosi, anche appartenenti a discipline differenti: leggende mitologiche, rappresentazioni artistiche e testi antichi evidenziano un interesse per il trapianto già nei secoli precedenti la venuta di Cristo.

Si narra che il primo trapianto sia stato effettuato intorno al III secolo d.C. per mano dei santi Cosma e Damiano che sostituirono, in un loro sacrestano, la gamba colpita da gangrena con quella sana di un Moro appena deceduto; l'evento, ovviamente, venne definito “miracolo”.

In realtà gli autotrapianti di tessuti vascolarizzati venivano già eseguiti nel II-III secolo a.C. e nel Susbruta Shamita, testo indiano dell'epoca, si descrive la tecnica di autotrapianto di tessuto cutaneo prelevato dall'avambraccio o dal collo per riparare mutilazioni del naso o dell'orecchio.

I trapianti escono dalla leggenda ed entrano nella storia grazie all'opera di Gaspare Tagliacozzi (1547-1599) che, nel trattato “De curtorum chirurgia per insitionem”, descrive la tecnica di rinoplastica condotta utilizzando un lembo cutaneo della superficie volare dell'avambraccio. Nonostante i numerosi autotrapianti eseguiti, Tagliacozzi non effettuò mai un allotrapianto di tessuto cutaneo poiché aveva intuito l'esistenza di una “forza” che avrebbe impedito il successo di un simile tentativo: solo quattro secoli più tardi questa “forza” verrà identificata nella reazione di rigetto.

Grazie agli studi di John Hunter (1728-1793), padre della chirurgia sperimentale, l'approccio al “problema trapianto” venne affrontato in modo scientifico con i

(6)

6

primi esperimenti condotti su modelli animali. In particolare Hunter utilizzò il trapianto di denti umani e speroni di polli in galline e galli.

La storia scientifica dei trapianti d'organo ha ufficialmente inizio nel 1902 con lo sviluppo della tecnica di anastomosi vascolare ad opera di Alexis Carrel. Carrel, premio Nobel nel 1912, con il contributo non riconosciuto di Charlie Gunthrie, effettuò in modelli animali il trapianto di organi vascolarizzati: rene, cuore, tiroide ed ovaio. Tuttavia, Carrel e Gunthrie, la cui attenzione era rivolta esclusivamente alla risoluzione di problemi tecnici presentati dal trapianto d'organo, non accennarono mai al problema del rigetto.

Fu Carl Williamson, nel 1928, a definire per la prima volta la differenza esistente tra auto ed allotrapianto documentando istologicamente un rigetto di rene in animale e focalizzando l'attenzione degli studiosi dell'epoca su quello che anche in seguito e per lungo tempo sarebbe rimasto il principale ostacolo che i pionieri del trapianto avrebbero dovuto affrontare.

La dimostrazione che la reazione di rigetto di un tessuto trapiantato fosse un fenomeno immunologico, caratterizzato da riconoscimento e specificità antigenica

non-self e da memoria, avvenne grazie agli studi di Peter Medawar, premio Nobel

nel 1960. Medawar, avendo eseguito durante la Seconda Guerra Mondiale numerosi innesti cutanei in pazienti gravemente ustionati, osservò che laddove erano stati effettuati successivi trapianti di cute da medesimo donatore a medesimo ricevente, il secondo trapianto veniva rigettato più rapidamente del primo. Egli dedusse inoltre come la natura del rigetto del primo trapianto fosse un evento sostenuto da meccanismi prevalentemente cellulari, mentre i successivi da meccanismi sia cellulari che umorali (Di Carlo & Soci, 2006).

Il trapianto di organi rappresenta una delle più importanti conquiste per quanto riguarda la chirurgia, sia per le modalità tecniche che per quanto riguarda quelle organizzative.

(7)

7

Tra gli anni venti e quaranta del ‘900 erano stati condotti esperimenti pionieristici isolati, con scarsi risultati, fino a che il perfezionamento delle tecniche non ha consentito di avviare la fase dei complessi interventi sostitutivi degli organi lesi. Lo sviluppo del trapianto di reni è progredito di pari passo con il miglioramento delle tecniche di dialisi extracorporea. Nel 1954 Joseph Murray realizzò a Boston il primo trapianto di rene tra gemelli omozigoti; nel 1959 avrebbe poi eseguito il primo allotrapianto e nel 1962 il primo trapianto di rene prelevato da cadavere. Nonostante i progressi delle tecniche chirurgiche pareva comunque insormontabile il problema del rigetto dell’organo. Per contrastarlo, si utilizzò inizialmente la total

body irradiation, prima che la terapia immunosoppressiva cominciasse a dare

risultati soddisfacenti, per cui venne poi introdotto, nel 1962, l’uso dell’azatioprina, che ridusse considerevolmente i casi di rigetto.

Negli stessi anni si faceva strada, oltre al trapianto di rene, anche quello di altri organi. Nel 1963 Thomas Starzl eseguì a Denver il primo trapianto ortotopico di fegato e nel 1967 riuscì a operare un caso con una discreta sopravvivenza (Armocida, Dionigi, Dionigi, Boni, & Rovera, 2011).

Il successo mediatico dei trapianti è da ascrivere a Christiaan Barnard, che nel 1967 a Città del Capo, eseguì il primo trapianto di cuore da uomo a uomo. Louis Washkansky, il trapiantato, sopravvisse diciotto giorni.

La grande svolta si ha nel 1971, con la scoperta da parte di Jean Francois Borel della Ciclosporina, potentissima molecola anti-rigetto, che ha permesso l’aumento della sopravvivenza dei trapiantati dal 20 al 70%. È la grande svolta per i trapianti, tanto che la trapiantologia viene suddivisa in era pre e post Ciclosporina (Pintaudi & Cefalù, 2010). Nel frattempo, le ricerche sul sistema immunitario sono continuate, grazie anche al lavoro del già citato Medawar, di Jean Dausset e di Ruggero Cepellini. I loro contributi, avendo definito molte delle peculiarità del sistema HLA (Human Leukocyte Antigen), resero possibile la caratterizzazione e il raffronto delle proprietà tissutali del donatore e del ricevente (Armocida, Dionigi, Dionigi, Boni, & Rovera, 2011).

(8)

8

Nella storia del trapianto di organi c’è stata anche un’importante evoluzione nelle tecniche di prelievo e conservazione degli organi stessi. Il prelievo di un organo dal corpo crea un inevitabile insulto ischemico le cui conseguenze possono andare da una disfunzione subclinica dell’organo a una ripresa funzionale ritardata o alla mancata ripresa funzionale. Il ruolo della temperatura in relazione all’ischemia degli organi era già emerso dagli esperimenti di trapianto negli animali che avevano dimostrato la riduzione del danno ischemico con l’uso esterno di soluzione fisiologica gelata o mediante l’instillazione nell’arteria dell’organo di fluidi refrigerati.

I metodi ipotermici iniziarono quindi a essere applicati al trapianto umano di rene e fegato. Benché all’inizio ci fosse stato un grande entusiasmo per la perfusione pulsatile ex vivo per un periodo di 24-48 ore, questa tecnica non portò di fatto significativi miglioramenti nella funzione dell’organo, anche se, ad oggi, si può osservare un rinnovato interesse grazie all’avvento delle nuove macchine impiegate per la conservazione del rene e altri organi prelevati da donatore a cuore non battente o di organi cosiddetti “marginali”. A partire dagli anni Ottanta e sino ai giorni nostri, l’immersione dell’organo in una soluzione refrigerata è diventata la tecnica prevalente di conservazione dopo il prelievo. Il principale progresso nella preservazione degli organi è stato lo sviluppo della soluzione di Collins, Euro-Collins e della soluzione dell’Università del Wisconsin. Quest’ultima, sviluppata da James Southard e dal chirurgo dei trapianti Folkert Belzer dell’Università del Wisconsin-Madison, è considerata la soluzione migliore sino dagli anni Ottanta (Grossi, 2016). In conclusione possiamo dire che la costante ed intensa attività di ricerca ed ovviamente i notevoli miglioramenti della tecnica chirurgica hanno permesso al trapianto d'organo di uscire dal campo esclusivamente sperimentale per diventare un caposaldo della terapia di malattie un tempo mortali.

(9)

9

1.2 Concetti di trapiantologia

Al fine di poter valutare in modo completo ed esauriente il tema degli aspetti medico-legali dei trapianti d’organo, è necessario comprendere a fondo la complessità del problema “trapianto” e soffermarsi brevemente sui principali concetti generali di trapiantologia su cui è importante far chiarezza prima di cimentarsi nello studio dell’argomento di tesi.

In cinquant’anni il trapianto è diventato una pratica di successo in tutto il mondo. Tuttavia sussistono sostanziali differenze tra i vari paesi anche per quanto riguarda la terminologia. Qui di seguito sono riportate le definizioni universali utilizzabili in questo ambito, ponendo una particolare attenzione sui possibili trapianti effettuabili in Italia per ciascuna categoria.

Nel 2007 la World Health Organization (WHO), insieme a The Transplantation

Society (TTS) e all’Organizacion Nacional de Trasplantes (ONT) in Spagna, ha

iniziato un processo di armonizzazione terminologica producendo un importante risultato: il "Global glossary of terms and definitions on donation and

transplantation". Questo documento ha l’obiettivo di chiarificare la

comunicazione in ambito di donazioni e trapianti e colmare le precedenti mancanze.

Il trapianto consiste in un trasferimento di cellule, tessuti o organi di origine umana da un donatore a un ricevente con l'obiettivo di ripristinare le funzioni del corpo.

Per donatore si intende un essere umano, vivente o cadavere, che sia una fonte di cellule, tessuti o organi a scopo di trapianto; mentre per ricevente l'essere umano in cui sono state trapiantate cellule, tessuti o organi umani allogenici (World Health Organization, 2009).

(10)

10

Si definisce organo una parte differenziata del corpo umano, formata da diversi tessuti, che mantiene la propria struttura, vascolarizzazione e capacità di sviluppare funzioni fisiologiche con un significativo livello di autonomia; una parte di

organo è altresì considerata un organo qualora la sua funzione sia quella di essere

utilizzato per lo stesso scopo dell’organo intero nel corpo umano, mantenendo i requisiti di struttura e vascolarizzazione (Unione Europea. Direttiva 2010/45/UE). In Italia gli organi che possono essere trapiantati sono (Centro Nazionale Trapianti): • cuore; • fegato; • intestino; • pancreas; • polmoni; • reni.

Per tessuti si intendono tutte le parti costituenti del corpo umano formate da cellule (Unione Europea. Direttiva 2004/23/CE).

In Italia è possibile nello specifico il trapianto di alcuni tessuti quali (Centro Nazionale Trapianti):

• cornea; • cute;

• arterie, valvole cardiache, vene; • ossa;

• muscoli; • tendini;

• membrana amniotica;

Infine, si definiscono cellule sia le cellule umane singole che un insieme di cellule umane non collegate da alcuna forma di tessuto connettivo (Unione Europea.

(11)

11

Direttiva 2004/23/CE). Per la legislazione italiana sono trapiantabili le sole cellule staminali ematopoietiche (Centro Nazionale Trapianti).

Sulla base delle caratteristiche del donatore possiamo inoltre parlare di “donatore vivente” e “donatore cadavere”

Per donatore vivente si intende un individuo vivente i cui organi, tessuti o cellule sono rimossi a scopo di trapianto. Sulla base delle possibili relazioni tra donatore vivente e ricevente si individuano donatori “non correlati”, se sono assenti sia legami genetici che emotivi col ricevente, o “correlati”. In particolare, i donatori correlati possono essere classificati in:

• Geneticamente correlati (“genetically related”) come i parenti di primo grado (genitore, fratello/sorella, figli), parenti di secondo grado (nonni, zii e nipoti) o parenti oltre il primo e il secondo grado (cugini).

• Emotivamente correlati (“emotionally related”) come il coniuge, i suoceri, i figli adottivi, gli amici.

Per donatore cadavere intendiamo un individuo dichiarato morto, secondo criteri medici stabiliti, da cui sono stati recuperati organi, tessuti o cellule a scopo di trapianto.

Quando un donatore viene dichiarato morto mediante i criteri neurologici si parla di donatore cadavere a cuore battente o donatore dopo morte encefalica (Donor

after Brain Death o DBD (World Health Organization, 2009)

Il donatore cadavere non a cuore battente o donatore dopo morte cardiaca (Donor

after Cardiac Death o DCD) è un donatore dichiarato morto, la cui morte è stata

diagnosticata mediante i criteri cardiopolmonari (World Health Organization, 2009).

In Italia è stata proposta di recente una classificazione generale dei donatori che supera la distinzione tra cuore battente o non battente e tra i criteri di determinazione della morte. Essa si basa sul tipo di perfusione precedente al prelievo che è l’elemento più importante ai fini della qualità degli organi da

(12)

12

trapiantare. Infatti la perfusione degli organi può essere naturale nei donatori a cuore battente, assente o artificiale nei donatori con il cuore fermo.

Si parla dunque di (Geraci & Procaccio, 2012):

• Deceased Donor with Natural Perfusion (DDNP);

• Deceased Donor with Artificial or Absent Perfusion (DDAP).

Il senso di quest’ultima classificazione sta nella possibilità di distinguere in modo chiaro ai fini clinici, organi che si presume siano stati ben perfusi grazie alla perfusione naturale (DDNP), da organi la cui perfusione è stata assente o artificiale (DDAP) (Centro Nazionale Trapianti, 2013).

1.3 La diagnosi e l’accertamento di morte

Prima di entrare a fondo nell’oggetto specifico della trattazione, è opportuno parlare della difficile e quanto mai discussa questione della diagnosi e dell’accertamento di morte. Questo argomento è eticamente molto importante per il rispetto della cosiddetta “dead donor rule”, secondo la quale gli organi devono essere prelevati dal paziente solo dopo la sua morte, in osservanza del principio etico “primum non nocḕre” che significa “per prima cosa, non nuocere” (Robertson, 1999).

Nella maggior parte dei paesi la diagnosi di morte è responsabilità legale di un medico (Shemie, 2007). Se si fa eccezione per i casi in cui abbiamo una devastazione fisica completa (decapitazioni, maciullamenti, disintegrazioni, etc.) essa non è un accadimento immediato ma un processo graduale (Macchiarelli, Arbarello, Cave Bondi, Di Luca, & Feola, 2006).

La morte può essere considerata in termini legali, etici, filosofici, sociali, culturali e religiosi, ma è soprattutto una questione medica: sono i medici che devono decidere in quale momento lungo questo processo la morte può essere dichiarata in modo appropriato.

(13)

13

1.3.1 Storia della diagnosi di morte

Gli uomini da sempre hanno utilizzato diversi criteri e strumenti per aiutarsi nella diagnosi di morte. Nei tempi antichi, per esempio, si valutava la vita di una persona sul fatto che essa respirasse o meno. Il legame tra respiro e vita è antichissimo e si trova sia nella Bibbia (Genesi 2:7) che nel Corano (sura 32:9). Shakespeare, invece, scrive di Re Lear che chiede uno specchio per assicurarsi della morte della moglie Cordelia: "Se il suo respiro appanna ed offusca il vetro, ebbene essa vive

ancora." (Re Lear, Atto V Scena III). Piume e candele sono state spesso utilizzate

per uno scopo simile. Il problema della diagnosi di morte si accentuò soprattutto nel diciottesimo secolo quando si arrivò a una vera e propria fobia di essere sepolti vivi. Emblematico fu il caso di George Washington: in base a quanto dichiarato nel 1740 da Jean-Jacques Winslow, secondo il quale la putrefazione era l’unico segno sicuro di decesso, egli richiese, prima di morire, di non essere seppellito finché i segni di putrefazione non fossero stati evidenti sul suo corpo. Questa paura portò persino alla costruzione di camere mortuarie e bare di sicurezza con meccanismi di allarme e rifornimento continuo d'aria (Bondenson, 2002). Nel 1846, a Parigi, il dottor Eugene Bouchut vinse il premio dell'Accademia delle Scienze per il miglior lavoro sui segni di morte e sui mezzi per prevenire la sepoltura di persone ancora in vita. Egli sostenne l'uso dello stetoscopio, inventato nel 1819 da Rene Laennec, come strumento per diagnosticare la morte. Bouchut riteneva infatti che potesse essere considerata morta una persona il cui battito cardiaco fosse stato assente per due minuti, estendendo poi a cinque minuti tale intervallo (Stethoscopes, 2009).

Nei decenni successivi, fu proposta l’idea per cui la perdita di attività elettrica e l'arresto della circolazione cerebrale avrebbero potuto essere ritenuti indici di morte nell’uomo. Con l'avvento della ventilazione meccanica, per la prima volta nella storia umana, nacque la necessità di diagnosticare la morte utilizzando criteri neurologici poiché tale tecnica impediva, di fatto, l'inevitabile collasso circolatorio che segue la cessazione della respirazione spontanea. Nel 1959 furono pubblicate

(14)

14

due importanti teorie a riguardo. Il gruppo di Pierre Wertheimer stilò i criteri per la “morte del sistema nervoso” e pochi mesi dopo Mollaret e Goulon coniarono il termine “coma dépassé” per uno stato di coma e apnea irreversibile (Powner, Ackerman, & Grenvik, 1996) (Mollaret & Goulon, 1959) (Wijdicks, 2001). Questi criteri sono stati ampiamente usati come indicatori dell’inutilità di un ulteriore contributo medico e per stabilire il momento in cui si sarebbe potuta interrompere la ventilazione. Nel 1963 il chirurgo belga Guy Alexandre, utilizzando criteri neurologici, eseguì il primo trapianto da un donatore a cuore battente mentre nel 1967 Christiaan Barnard il primo trapianto di cuore (si trattò di un caso di donazione dopo morte circolatoria in un paziente che aveva soddisfatto i criteri per il coma dépassé) (Machado, 2007) (Wijdicks, 2001).

Il rapporto dell'anno successivo del Comitato ad hoc della Scuola Medica di Harvard rappresentava il culmine di più di un decennio di ricerca e di dibattito sui criteri neurologici per la diagnosi di morte (Harvard Medical School ad Hoc Committee, 1968). Nello stesso anno, la World Health Assembly (WHA) stilò la Dichiarazione di Sydney che differenziava il significato di morte a livello cellulare e tissutale dalla quella della persona e sottolineava che la determinazione di morte rimaneva una responsabilità del medico (Machado, et al., 2007). Nonostante ciò, si sono alzate molte voci contrarie alla validità di questo tipo di criteri e, nell'ultimo decennio, la rapida diffusione della donazione di organi da individui considerati morti secondo i criteri cardiopolmonari (oggi nota come donazione dopo morte circolatoria o DCD), ha portato ad un nuovo dibattito sulla definizione e sull’accertamento della morte. È emersa dunque la necessità di un concetto medico della morte unificante, che combinasse tutti i criteri storici precedenti (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012).

Nel 2008 lo statunitense President’s Council on Bioethics ha vagliato tutte le motivazioni che potevano essere date per definire la morte encefalica come morte dell’individuo. Tale organismo ha concluso che la miglior prova per cui la morte encefalica equivale a quella umana sia la perdita di quella che è stata definita la “funzione fondamentale” di un essere vivente cioè l'opera di autoconservazione,

(15)

15

ovvero la necessità di mettersi in rapporto con il mondo circostante per soddisfare i bisogni primari dell'organismo. In un individuo questo rapporto si esplica con la capacità di respirazione spontanea, in combinazione con lo stato di coscienza. La perdita irreversibile di queste due funzioni equivale alla morte dell’individuo (President's Council on Bioethics, 2010).

Health Canada e il Canadian Blood Service, in collaborazione con la WHO, hanno

promosso un convegno che si è tenuto nel Maggio 2012 a Montreal dove sono state definite le linee guida internazionali per l’accertamento di morte. I trentadue partecipanti, esperti in materia provenienti da tutto il mondo, hanno proposto una definizione di morte universale che descrivesse in modo pratico e quantificabile la condizione di morte umana basata su standard biomedici misurabili e osservabili. Si è arrivati dunque a questa definizione operativa per cui: “Death occurs when

there is permanent loss of capacity for consciousness and loss of all brainstem functions. This may result from permanent cessation of circulation and/or after catastrophic brain injury. In the context of death determination, ‘permanent’ refers to loss of function that cannot resume spontaneously and will not be restored through intervention.” In altre parole per parlare di morte deve essere presente la

perdita permanente della capacità di coscienza e di tutte le funzioni del tronco encefalico. Questa perdita può essere conseguente a un arresto circolatorio permanente e/o a un danno cerebrale catastrofico. Quando si parla di determinazione di morte, “permanente” si intenda una perdita di funzione completa che non può ripresentarsi in modo spontaneo e che non potrà essere ripristinata mediante l’intervento medico (Shemie, et al., 2014).

1.3.2 I criteri per la diagnosi e l’accertamento di morte

Lo stato di coscienza e la respirazione spontanea sono entrambe funzioni di pertinenza encefalica e, a differenza di qualsiasi altro organo, il cervello è sia essenziale che insostituibile. Proprio per questo, si considera la morte encefalica come la morte dell’individuo nella sua totalità, sebbene non sia lecito intendere

(16)

16

che i criteri neurologici siano gli unici criteri appropriati per diagnosticare la morte.

Per la precisione, la morte va diagnosticata utilizzando i criteri più appropriati secondo le circostanze in cui un medico può essere chiamato a diagnosticarla. Al giorno d’oggi si possono distinguere tre serie di criteri e tutti possono essere utilizzati per dimostrare la perdita irreversibile della coscienza combinata con la perdita irreversibile della capacità di respirare.

Questi tre criteri sono: • Somatici;

• Cardiocircolatori; • Neurologici.

Nella comunità e laddove la morte sia avvenuta ore o giorni prima, i criteri somatici indicano in modo affidabile la perdita di queste due capacità essenziali. Quando la morte è più recente e soprattutto all'interno di un ambiente ospedaliero, è di solito diagnosticata mediante l'uso di criteri circolatori dopo l'arresto cardiorespiratorio. È solo all'interno dell'ambiente di terapia intensiva, dove viene utilizzata la ventilazione meccanica, che viene applicata la diagnosi di morte usando criteri neurologici (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012).

1.3.2.1 Diagnosi e accertamento di morte mediante i criteri somatici

I criteri somatici sono quelli che possono essere applicati mediante una semplice osservazione esterna del cadavere senza la necessità di ricercare la presenza di segni di vita. I criteri somatici, detti anche tanatologici, sono storicamente antichi e si basano su una modalità di esame fondata sull’analisi dei fenomeni post-mortali della struttura organica e dello stato fisico-chimico cui va incontro il corpo dopo la morte (Puccini, 1995). Questi segni, se considerati in rapporto al tempo, possono essere distinti in (Marinelli & Premate, 2006):

(17)

17

• immediati (cessazione definitiva delle funzioni respiratoria, circolatoria e nervosa, il cosiddetto “tripode vitale di Bichat”);

• consecutivi (raffreddamento, rigidità, ipostasi, disidratazione, acidificazione);

• trasformativi, a loro volta distinguibili in distruttivi e conservativi (autolisi, putrefazione, macerazione, mummificazione, saponificazione).

I criteri somatici, benché utili e sicuri per la diagnosi di morte in determinate situazioni, non sono pratici quando la morte è recente, considerando l'importanza di una diagnosi tempestiva con le sue implicazioni giuridiche e sociali (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012).

Il Regolamento di Polizia Mortuaria nel capo II, rubricato “Periodo di osservazione dei cadaveri” stabilisce, sulla base delle considerazioni supra menzionate, che “Nessun cadavere può essere chiuso in cassa, né sottoposto ad autopsia, a

trattamenti conservativi a conservazione in celle frigorifere, né essere inumato, tumulato, cremato, prima che siano trascorse 24 ore dal momento del decesso…”,

estendendo, con l’art. 9, tale limite temporale a 48 ore “nei casi di morte

improvvisa ed in quelli in cui si abbiano dubbi di morte apparente…” (Italia,

D.P.R. 10 Settembre 1990, n. 285).

1.3.2.2 Diagnosi e accertamento di morte mediante i criteri cardiocircolatori

I criteri cardiocircolatori di diagnosi di morte si fondano sull’assunto secondo il quale l’anossia, derivante dall’assenza di circolazione del sangue, ha come conseguenza danni strutturali ed irreversibili al cervello (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012). Per determinare la morte con criteri cardiologici occorre osservare un'assenza completa di battito cardiaco e di circolo per almeno il tempo necessario perché si abbia con certezza una necrosi encefalica tale da determinare la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali (Procaccio, Donadio, Bernasconi, Gianelli Castiglione, & Costa, 2009).

(18)

18

In Italia, nell’art.1 del DM (Salute) 11 Aprile 2008 si enuncia che “l’accertamento

della morte per arresto cardiaco può essere effettuato da un medico con il rilievo continuo dell’elettrocardiogramma protratto per non meno di venti minuti primi, registrato su supporto cartaceo o digitale” (Italia, Decreto 11 aprile 2008). L’Italia

assume un atteggiamento particolarmente prudenziale di fronte a questa problematica, rispetto alla situazione globale.

Gli studi di DeVita suggeriscono che sessantacinque secondi siano il tempo di osservazione più breve accettabile per la determinazione della morte dopo l'arresto cardiorespiratorio (DeVita, 2001). Tuttavia, per molti un periodo di osservazione così limitato è considerato inaccettabile (Bernat, 2008) (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012). DeVita ha raccomandato due minuti come tempo di osservazione minima e sicura e molte istituzioni in Australia e negli Stati Uniti hanno adottato questo standard minimo per la DCD (Australian and New Zealand Intensive Care Society, 2013) (Institute of Medicine, 2000). Canada e Regno Unito invece hanno adottato uno standard più conservativo di cinque minuti (Shemie, et al., 2006) (Academy of Medical Royal Colleges, 2008).

1.3.2.3 Diagnosi e accertamento di morte mediante i criteri neurologici

Lo standard neurologico di morte, nonostante l’assenza di modifiche in questi quaranta anni di applicazione in centinaia di migliaia di decessi in quasi tutti i Paesi del mondo, ha prodotto un’enorme mole di esperienza clinica e strumentale che ne permette oggi una documentata rivalutazione scientifica, filosofica, etica e morale sulla base di una consolidata pratica medica. Esso è giuridicamente riconosciuto come morte dell’individuo dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo, ad eccezione ad esempio di Pakistan e Romania (Wijdicks, 2002). Esistono differenze procedurali e divergenze caratteristiche (come in Giappone, dove la nozione di morte cerebrale deve essere oggetto di un atto di autonomia privata per esplicare i suoi effetti legali) che risentono delle varie culture, religioni e tradizioni medico

(19)

19

legali e giuridiche (Kimura, 1998), ma non intaccano il “core” dei criteri stilati ad Harvard nel 1968.

L’accertamento di morte encefalica si basa su tre fondamenti (Zanello, Pintaudi, Testoni, & Vincenzi, 2010):

• l’esplorazione neurologica encefalica; • gli esami strumentali confirmatori;

• la documentazione dell’irreversibilità (periodo di accertamento).

L’esame clinico neurologico, basato sulla semeiologia (ricerca di segni e sintomi) del sistema nervoso, rimane il modello standard di valutazione medica per la determinazione della morte. Prima di metterlo in atto è necessario stabilire quale sia stata la causa capace di procurare i danni strutturali al cervello che hanno portato a una perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali. Infatti, in alcuni casi, a seconda della natura del danno, sono necessari un periodo più lungo di osservazione clinica o degli approfondimenti diagnostici strumentali per essere certi dell’irreversibilità della condizione, ad esempio in caso di insulto cerebrale anossico.

Inoltre devono essere escluse tutte quelle condizioni reversibili capaci di mimare o confondere la diagnosi di morte secondo lo standard neurologico: ad esempio determinati farmaci (come quelli ad azione depressoria a livello cerebrale e neuromuscolare) e turbe cardiovascolari, endocrine, metaboliche e dell’omeostasi termica. Solo dopo queste accortezze si passa al vero e proprio esame clinico del paziente che dimostri lo stato di incoscienza, l’apnea e l’assenza dei riflessi del tronco encefalico. Si ricerca l’attività del tronco encefalico perché è quella più importante, più protetta e l’ultima ad essere distrutta (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012). Se viene documentata ed accertata l’abolizione di tutte le funzioni del tronco, siamo assolutamente certi della morte (Jørgensen, 1973). L’esame clinico, per parlare di diagnosi di morte, deve dimostrare innanzitutto un punteggio del paziente pari a tre sulla “Glasgow Coma Scale”, segno della perdita

(20)

20

delle funzioni del sistema di attivazione reticolare e di tutti gli altri centri della coscienza. Deve essere quindi effettuato un test dell’apnea che vada a verificare l’assenza della respirazione spontanea e, di conseguenza, la perdita della funzionalità dei centri respiratori localizzati nel midollo allungato o associati ad esso. Il test dell'apnea deve essere preferibilmente eseguito dopo la verifica dell’assenza dei riflessi del tronco encefalico. Per testarne la presenza o assenza si tenta di evocarli, ovvero si cerca di produrli mediante stimoli esterni che arrivano al cervello attraverso le vie afferenti e producono una determinata reazione attraverso le vie efferenti (Gardiner, Shemie, Manara, & Opdam, 2012).

In Italia i riflessi che devono essere verificati sono (Italia, Decreto 11 aprile 2008) (Zanello, Pintaudi, Testoni, & Vincenzi, 2010):

• Riflesso fotomotore della pupilla: in condizioni normali e in assenza di stimolazione luminosa, essa si presenta midriatica, ovvero dilatata; allo stesso modo in presenza di essa, appare miotica, ovvero ristretta. I soggetti in morte cerebrale non rispondono allo stimolo luminoso e presentano le pupille persistentemente dilatate. Il suddetto riflesso è mediato dal nervo ottico (II paio di nervi cranici) per quanto riguarda la via afferente e dal nervo oculomotore (III paio) per quanto riguarda l’efferente.

• Riflesso corneale: in un soggetto in vita la cui cornea viene stimolata con un corpo estraneo, si attiva un meccanismo di difesa che porta alla chiusura automatica della palpebra. I nervi stimolati in questo caso sono il trigemino (V paio) per la via afferente e il faciale (VII paio) per la via efferente. • Reazioni a stimoli dolorifici portati nel territorio d’innervazione del

trigemino: viene esplorata la risposta motoria e vegetativa alla

stimolazione dolorosa apportata nel territorio del V nervo cranico (cute della fronte e del volto anteriore al ramo mandibolare). Applicando stimoli dolorifici intensi su sedi facciali specifiche si valuta l’areattività tipica del coma.

(21)

21

• Risposta motoria nel territorio del faciale allo stimolo doloroso

ovunque apportato: si valuta l’areattività del coma apportando stimoli

dolorifici intensi su qualsiasi parte del corpo (arti, collo, volto). Di norma alla stimolazione dolorosa corrisponde una risposta motoria nel territorio innervato dal VII nervo cranico con la comparsa di smorfie. Nell’individuo in morte encefalica questa risposta non è presente.

• Riflesso oculo-vestibolare: viene valutato iniettando con una siringa dell’acqua fredda nel condotto uditivo. In un soggetto vivo la reazione che si osserva è la deviazione coniugata degli occhi dallo stesso lato dell’iniezione o la comparsa di nistagmo. In questo caso sono stimolati il nervo vestibolare (VIII paio) per la via afferente e i nervi oculomotore e abducente (III e VI paio) per la via efferente.

• Riflesso faringeo: se si stimolano la parte posteriore della lingua e la parete della faringe con un abbassalingua o sondino di grosso calibro si ha come risposta immediata il conato di vomito; nello stato di morte encefalica, questo riflesso del tronco encefalico non è evocabile. L’innervazione specifica è presieduta dal IX e XII.

• Riflesso carenale: in condizioni di normalità, un corpo estraneo penetrato nelle alte vie aeree provoca il riflesso della tosse (l’innervazione preposta è a carico dei nervi cranici IX-X-XI e integrazioni spinali). Per la diagnosi di morte, il riflesso carenale viene esplorato con l’inserimento di un sondino nel tubo tracheale, avendo cura di progredire sino oltre l’apice distale dello stesso. La mancata evocazione del riflesso è indice di spegnimento delle funzioni encefaliche.

Come già accennato, un’importante verifica dell’integrità del tronco è il test

dell’apnea. La nostra capacità di respirare è controllata sia da meccanismi

volontari che involontari per cui noi possiamo modificare le impostazioni automatiche del nostro cervello sulla respirazione solo parzialmente, regolando volontariamente la frequenza respiratoria rispetto a un dato momento. C’è però un

(22)

22

limite a questa condizione, oltre il quale, il nostro cervello ci impone di respirare per garantire la nostra sopravvivenza. Questo limite riguarda la concentrazione di anidride carbonica (pCO₂) e il valore di pH nel sangue arterioso, i cui valori soglia corrispondono rispettivamente a 60 mmHg e 7.40. Il test dell’apnea ha lo scopo di produrre una condizione di accumulo di anidride carbonica che porti al raggiungimento di tale limite per verificare l’attivazione o meno di un atto inspiratorio (Venettoni, et al.).

Il test può essere svolto tecnicamente in vari modi ma la modalità più classica consiste nella preossigenazione con ventilazione in ossigeno puro per alcuni minuti, misura del valore di pCO₂ iniziale all’emogasanalisi (e stima del tempo di attesa presunto), distacco dalla ventilazione meccanica, somministrazione di ossigeno intratracheale ad alto flusso (6 L/min) con un sondino posto all’interno del tubo tracheale per generare ossigenazione apneica per diffusione, attesa della generazione di ipercapnia arteriosa con controllo frequente dei valori, raggiungimento dei valori di CO₂ e pH arteriosi richiesti, valutazione dell’esito del test con ricerca e rilievo della presenza o assenza di movimenti ventilatori (sussistenza dell’apnea), quindi ripresa della ventilazione meccanica (Zanello, Pintaudi, Testoni, & Vincenzi, 2010).

Nei paesi di lingua anglosassone, come ad esempio in Gran Bretagna, USA, Canada, Australia etc., le suddette prove sono sufficienti per fare una diagnosi di morte con certezza (Wijdicks, 2002) (Wijdicks, 2010). In Italia è obbligatoria per legge l’esecuzione dell’elettroencefalogramma, per valutare l’assenza di attività elettrica cerebrale e, in specifiche situazioni previste dall’articolo 2, comma 2 del DM dell’11 Aprile 2008, è necessario il riscontro dell’assenza del flusso ematico cerebrale (Aggiornamento del decreto 22 agosto 1994, n. 582 relativo al “Regolamento recante le modalità per l'accertamento e la certificazione di

morte”).

Le divergenze maggiori nelle linee guida per la diagnosi di morte nei vari paesi riguardano soprattutto (Shemie, et al., 2014):

(23)

23 • aspetti procedurali del test di apnea;

• impatto delle terapie farmacologiche depressorie il sistema nervoso centrale;

• tempo di osservazione; • criteri relativi all'età;

• livello richiesto di esperienza medica;

• disposizioni per la morte cerebrale anossico-ischemica; • effetto dell'ipotermia terapeutica;

• test confermativi, supplementari o ausiliari (EEG, test del flusso sanguigno cerebrale);

• ora della morte.

Il cittadino italiano gode di una legislazione particolarmente garantista per quanto riguarda l’accertamento di morte. L'ultima legge n. 578/93 definisce la morte come perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo e il Decreto n. 582/94 rivisto nel 2008, con le collegate linee guida scientifiche, stabilisce le procedure di determinazione ed accertamento di morte con standard neurologico o cardiaco, tenendo conto degli avanzamenti tecnologici della medicina, in modo estremamente prudente, con ridondanti garanzie procedurali clinico-strumentali e medico legali. Importante da sottolineare è che la legge del 1993 è assolutamente indipendente dalle attività di prelievo e trapianto d'organi. L'accertamento è obbligatorio in ogni caso identificato, a prescindere dalla possibilità di prelievo. Qui di seguito sono riportati alcuni aspetti del processo di determinazione e accertamento di morte in Italia in senso temporale. Innanzitutto nessun medico può dichiarare da solo la morte di un individuo con criteri neurologici: quando identifica i criteri neurologici clinici e strumentali di morte deve richiedere alla Direzione Sanitaria la convocazione di un Collegio Medico di tre specialisti che, ai sensi dell’art. 2, comma 5 della legge n. 578/93, deve essere costituito da un medico legale o, in mancanza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomo‐patologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un

(24)

24

medico neurofisiopatologo o, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia, tutti dipendenti del sistema sanitario nazionale. Il Collegio quindi in modo unanime (Italia, Decreto 11 Aprile 2008):

• verifica che siano assenti dei fattori potenzialmente confondenti che portano a richiedere l'effettuazione del test di assenza di flusso ematico cerebrale (ad esempio in caso di una incerta eziologia del danno cerebrale, della presenza di farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, dell’impossibilità di effettuare un esame clinico completo, l’età inferiore ad un anno);

• si accerta per almeno sei ore la persistenza dello standard neurologico clinico (stato di incoscienza, assenza di respirazione spontanea e di qualsiasi minima reattività dei nervi cranici) ed elettroencefalografico (assenza di attività elettrica cerebrale);

• al termine del periodo di osservazione, che ha invero un significato di garanzia e non ha motivazione fisiopatologica, il Collegio certifica la morte. L'ora del decesso è quella in cui si è determinato lo standard neurologico ed ha avuto dunque inizio il periodo di osservazione.

1.4 La donazione da cadavere

1.4.1 La donazione dopo morte circolatoria

Il donatore dopo morte cardiaca o donatore dopo morte circolatoria (DCD), è un tipo di donatore ampiamente ricercato agli albori della trapiantologia moderna, quando rappresentava una delle poche fonti di organi insieme al donatore vivente. In seguito, questo tipo di donatore aveva perso interesse in ambito trapiantologico dal momento che l’ampia accettazione del concetto e dei criteri di morte encefalica hanno portato a utilizzare gli organi provenienti prevalentemente da donatori di quest’ultimo tipo. Al giorno d’oggi però, la carenza di organi per il trapianto e i

(25)

25

risultati promettenti con organi trapiantati da questi donatori hanno rinnovato l'interesse per il DCD (Domínguez-Gil, et al., 2011).

Il primo workshop internazionale a riguardo, tenutosi a Maastricht nel 1995, ha identificato quattro categorie di DCD. A seconda del contesto in cui è determinata la cessazione irreversibile delle funzioni respiratorie e circolatorie si individuano due tipi di DCD: “controllato” e “non controllato”.

In particolare, il DCD non controllato può essere distinto in (Koostra, Daemen , & Oomen, 1995):

I. Morto all'arrivo. Include vittime di morte, sia traumatica che non, che si verificano all'ospedale e che, per ovvie ragioni, non sono state rianimate. II. Rianimazione non riuscita. Comprende i pazienti con arresto cardiaco e in

cui la rianimazione cardiopolmonare è stata applicata e non ha avuto successo. L'arresto cardiaco si verifica all'interno dell'ospedale, alla presenza del personale sanitario con immediata iniziazione della rianimazione cardiopolmonare.

Invece il DCD controllato (Fig. 1) può provenire da:

III. Arresto cardiaco atteso. Comprende i pazienti in cui viene applicata la sospensione delle terapie di sostentamento della vita, come concordato prima all'interno del team sanitario e con i parenti o i rappresentanti del paziente.

IV. Arresto cardiaco durante la morte cerebrale. Comprende i pazienti soggetti ad arresto cardiaco nel processo di determinazione della morte per criteri neurologici o dopo che tale determinazione è stata eseguita ma comunque prima del trasferimento alla sala operatoria.

(26)

26

Questa classificazione è stata usata in tutto il mondo negli ultimi quindici anni ed ha il vantaggio di caratterizzare bene il DCD, oltre ai vantaggi della semplicità e dell'utilità. Fino ad oggi sono state apportate varie modifiche a questa prima classificazione che rimane comunque la più utilizzata. Una proposta di modifica giunse da parte di un consesso di Madrid nel 2011 per adattarla alla realtà e all'esperienza spagnola con le categorie I e II. Una categorizzazione modificata e più completa fu proposta da Detry e collaboratori, che definirono meglio le diverse situazioni incontrate nei diversi gruppi e paesi con programmi DCD attivi (Detry, et al., 2012).

Un’ulteriore classificazione, simile alla vecchia classificazione di Maastricht, è belga e presenta una quinta categoria, compresa tra i DCD controllati: il donatore post eutanasia. Questa categoria include i pazienti che acconsentono alla morte circolatoria medicalmente assistita. L'eutanasia è legalmente approvata in alcuni paesi e definita come "atto praticato da terzi che deliberatamente mette fine alla

vita di una persona, su richiesta di quest’ultima" (Evrard, 2014). Il prelievo di

organi in soggetti richiedenti eutanasia che ne hanno espresso disponibilità è consentito esclusivamente per donazioni dopo morte circolatoria. Sebbene la maggior parte dei pazienti che richiedono l’eutanasia in Belgio e nei Paesi Bassi siano pazienti affetti da cancro, dunque non candidabili alla donazione DCD, una piccola parte presenta deficit neurologici severi e stabili, non trasmissibile attraverso la donazione di organi. Questi pazienti sono potenziali DCD.

La maggior parte delle pratiche di eutanasia viene eseguita a casa dal medico di famiglia ma, poiché devono essere prelevati gli organi, questa deve essere eseguita in una sala operatoria o in una sala di preparazione vicino a quest’ultima per consentire la presenza della famiglia al momento della morte (Evrard, 2014). Nella 6th International Conference on Organ Donation after Circulatory Death, tenutasi a Parigi nel febbraio 2013, la classificazione originaria di Maastricht è stata modificata ulteriormente conservando le quattro categorie originarie e creando alcune sottocategorie (Fig. 2) (Thuong, et al., 2016).

(27)

27

Dati di letteratura evidenziano la costante crescita di questo tipo di donazione negli Figura 2. Classificazione dei donatori in asistolia secondo Maastricht modificata (Thuong, et al., 2016)

I - Arresto cardiocircolatorio non testimoniato I A: intraospedaliero

I B: extraospedaliero

Questa categoria comprende i casi di arresto cardiocircolatorio (ACC) improvviso e inatteso senza nessun tentativo di rianimazione da parte di un team medico che ne constata la morte (cosiddetti “giunti cadavere” in Pronto Soccorso); in questi casi il tempo di ischemia calda (WIT: warm ischemia time) va considerato rispetto alle raccomandazioni locali in vigore; l’ACC può avvenire dentro fuori l’ospedale.

Si tratta di vittime di incidenti o di morti per suicidio (alcuni centri escludono questa categoria di donatori), che sono trovati morti sulla scena d’intervento e la cui rianimazione è giudicata inutile.

Il problema con questi donatori è la determinazione del tempo di ischemia calda in relazione alla precisa datazione del decesso, e l’impossibilità di contattare i familiari in tempo utile. Si tratta evidentemente di donatori “non controllati”.

II – Arresto cardiocircolatorio testimoniato II A: intraospedaliero

II B: extraospedaliero

Questa categoria comprende i casi di ACC improvviso, inatteso e irreversibile, di qualunque causa, in cui la rianimazione praticata da un team medico è risultata inefficace; l’ACC può avvenire dentro o fuori l’ospedale.

Costituiscono una buona parte del pool di DCD nei paesi latini dell’Europa (Spagna, Francia, Italia), e sono per lo più vittime di morte cardiaca improvvisa o di traumi cerebrali imponenti, giunti al reparto di Pronto

Soccorso già sottoposti a RCP-ACLS durante il trasporto.

In questi casi è più agevole la constatazione del decesso perché il personale sanitario può fornire indicazioni sul momento dell’arresto cardiaco.

Data l’eterogeneità del gruppo, i tempi di ischemia calda sono molto variabili da caso a caso.

Il sottogruppo II A sostituisce la categoria V proposta Gruppo di Studio dell’Hospital Clinico San Carlos di Madrid. Si tratta di donatori “non controllati”.

III – Morte cardiocircolatoria attesa

Questo gruppo comprende pazienti in fin di vita, con prognosi infausta (es. lesioni cerebrali disastrose con un quadro simile alla morte encefalica, ma con persistenza di qualche minima attività che impedisce l’accertamento con criteri neurologici). In questi casi, in accordo con la famiglia o con la volontà espressa in vita dal soggetto stesso, viene presa la decisione di pianificare la sospensione del trattamento di sostegno vitale, dopo di che si aspetta l’ACC. È una situazione che si presenta soprattutto nei reparti di terapia intensiva. Costituisce la maggior parte dei donatori nel Nord America (USA e Canada) e nell’Europa del Nord (Belgio, Olanda, Gran Bretagna).

La morte a seguito di eutanasia, che nella stragrande maggioranza dei Paesi costituisce un reato, è esclusa. Si tratta di donatori “controllati”.

IV –Diagnosi alternativa di morte in corso di procedura

IV A: Morte cardiocircolatoria in corso di /dopo accertamento di morte encefalica.

Questo gruppo comprende: (a) donatori in cui si verifica un ACC improvviso durante o dopo la fase di accertamento della morte con standard neurologico, ma prima del prelievo; (b) donatori dopo il completamento dell’accertamento di morte con standard neurologico che presentano un ACC pianificato dopo sospensione del supporto vitale. Questi ultimi sono i donatori più diffusi in Giappone per le peculiarità legislative. In Europa i donatori di Categoria IV A costituiscono solo casi sporadici.

Si tratta di soggetti in cui già è stato ottenuto il consenso.

Si tratta di donatori “non controllati” (a) o “controllati” (b) a seconda della modalità di insorgenza dell’ACC (improvviso o pianificato).

IV B: Morte in corso di ECLS (ECMO prior to death).

È una categoria di donatori del tutto peculiare possibile soltanto in strutture in cui sia attivo un protocollo di ECLS (extracorporeal life support) con uso di ECMO. Non rientra infatti a pieno titolo in nessuna delle categorie precedenti. Ha la caratteristica di configurarsi in una fase “non acuta” di trattamento. Non rientra neppure nella categoria II A (ACC testimoniato intraospedaliero) in quanto l’arresto cardiaco è già avvenuto (l’attività di pompa cardiaca può essere assente o gravemente insufficiente) e l’ECMO già in funzione per la cura del paziente. In questi casi l’accertamento di morte può essere effettuato con standard neurologico o cardiaco in base alla persistenza di attività cardiaca e alla efficacia dell’ECMO. È stata proposta dal gruppo di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, sulla base dell’esperienza maturata con il Programma Alba.

(28)

28

Stati Uniti e come sia la più importante fonte di organi da donatore cadavere nei paesi asiatici quali il Giappone (Liu, et al., 2008). Uno studio del 2011 di Domínguez-Gil e collaboratori a nome del Comitato Europeo sul trapianto di organi, ha descritto la situazione attuale della donazione dopo la morte circolatoria tra gli Stati membri del Consiglio Europeo (Fig. 3). I risultati evidenziano che solo dieci dei ventisette paesi partecipanti hanno confermato l'attività DCD: la più alta, principalmente controllata, è descritta in Belgio, Paesi Bassi e Regno Unito e quindi Francia e Spagna dov’è soprattutto non controllata. Durante il periodo compreso tra il 2000 e il 2009 la donazione dopo morte encefalica, pur essendo aumentata nella maggior parte dei paesi europei, è diminuita del 20% nei tre Stati con una predominante attività DCD controllata. In sei paesi la DCD è stata proibita per legge (Finlandia, Germania, Grecia, Polonia, Portogallo e Lussemburgo), mentre dieci paesi hanno giustificato la mancanza di un programma di DCD per difficoltà organizzative; altri due, infine, per la mancanza di competenze tecniche (Domínguez-Gil, et al., 2011).

Figura 3. Stati membri del Consiglio Europeo che hanno partecipato all'indagine (colorati). Paesi che effettuano donazione dopo morte circolatoria (verde): Francia, Belgio, Repubblica Ceca, Italia, Austria, Lettonia, Paesi Bassi, Spagna, Svizzera, Regno Unito. Paesi che progettano di avviare un programma di DCD (giallo): Cipro, Estonia, Lussemburgo, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia e Svezia. Paesi con attività DCD non presente e non in programma (rosso): Bosnia-Erzegovina, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Lituania e Turchia (Domínguez-Gil, et al., 2011).

(29)

29

La legge italiana sostiene che dopo venti minuti in assenza di attività cardiocircolatoria, che corrispondono a quello che gli anglosassoni definiscono il “no touch period”, si ha la certezza che l’encefalo abbia cessato irreversibilmente di funzionare; nello stesso periodo tutti gli organi sono sottoposti ad ischemia. La resistenza a questa condizione di ischemia è diversa da organo ad organo: essa dipende dai danni progressivi che l’organo può subire e che lo portano alla perdita dell’integrità morfologica e funzionale. Ad esempio i reni resistono più del fegato, il quale resiste più del cuore; il più resistente è il polmone che riesce ad estrarre ossigeno dagli alveoli, se ventilati, anche in assenza di circolazione.

Risulta evidente che la conservazione della funzionalità sia una condizione imprescindibile per un’efficace donazione a scopo di trapianto. Per questo motivo il vincolo legislativo dei “venti minuti” pone l’Italia in una posizione particolare rispetto al resto del mondo: da una parte risulta la più garantista per quanto riguarda la certezza di morte, dall’altra risulta la più problematica per quanto concerne la qualità degli organi che devono essere trapiantati (Centro Nazionale Trapianti, 2013).

1.5 La donazione da vivente

La donazione da vivente rappresenta una valida opportunità che si aggiunge alla donazione da cadavere per organi e tessuti pur non sostituendola, mentre rappresenta l’unica opzione per la donazione di cellule staminali emopoietiche. In Italia le procedure di fattibilità sono molto rigide e prevedono una serie di accertamenti sia clinici, sia motivazionali. Sul donatore sono effettuati degli accertamenti clinici per escludere la presenza di specifici fattori di rischio in relazione a precedenti patologie e accertamenti immunologici che evidenzino il grado di compatibilità tra donatore e ricevente. Viene inoltre effettuato un accertamento che verifichi le motivazioni della donazione, la conoscenza di potenziali fattori, l’esistenza di un legame affettivo con il ricevente e la reale disponibilità di un consenso libero e informato (Centro Nazionale Trapianti).

(30)

30

La donazione da vivente contribuisce significativamente ai programmi di trapianto renale, e in misura minore a quelli di trapianto di fegato, offrendo numerosi vantaggi. Per esempio, il trapianto diventa elettivo e può essere programmato per il momento in cui il paziente lo necessita, inoltre si hanno risultati migliori rispetto a quelli con un organo che proviene da donatore cadavere (Rudge, Matesanz, Delmonico, & Chapman, 2012). Tuttavia tale pratica non è scevra da complicanze. Infatti il tasso di mortalità per i donatori viventi di rene è circa di 1:3-5,000 (Ratner & Sandoval, 2010), mentre per quelli di fegato può essere pari a 1:200 (Brown, 2008). La donazione da vivente può inoltre aprire anche la strada a un problema di tipo “etico-morale”: la commercializzazione e il traffico di organi. Il sempre più ampio ricorso alla donazione da vivente è confermato da recenti ricerche secondo le quali Paesi Bassi, Turchia, Norvegia e Stati Uniti svolgono oltre venti trapianti di rene da donatore vivente all’anno per milione di abitanti (in inglese: “per million

of population” o pmp); nel Regno Unito la cifra è di 15.9 pmp, mentre in Spagna

e in Francia il tasso è di circa 5 pmp (Rudge, Matesanz, Delmonico, & Chapman, 2012).

(31)

31

CAPITOLO

1

I

L SISTEMA TRAPIANTI

:

UNO SGUARDO SUL MONDO

In circa cinquant’anni il trapianto di organi è diventato una pratica di grande successo a livello mondiale. Dal momento che ogni paese possiede una propria legislazione, esistono grandi differenze tra gli Stati per quanto riguarda l’accessibilità, il livello di sicurezza, la qualità, l’efficacia della donazione e la procedura del trapianto stesso.

Negli ultimi quindici anni, la donazione e il trapianto di organi sono stati oggetto di esteso interesse internazionale a livello sia governativo che professionale, soprattutto per due fattori principali. In primo luogo, per la carenza globale di organi trapiantabili e per l'ampia varietà a livello internazionale nell'attività di donazione e di trapianto. In secondo luogo, per la necessità di garantire uno sviluppo che ponga le proprie fondamenta sul rispetto delle leggi e dell’etica. Per effettuare una revisione globale del trapianto di organi è necessario tener conto sia delle donazioni da cadavere che delle donazioni da vivente. Infatti, sebbene la donazione da cadavere non riesca a soddisfare le richieste di organi in tutti i paesi, in molti è praticamente inesistente. Questo ha portato ad un impiego sempre maggiore di donatori viventi come fonte di reni e, più recentemente, anche di fegato. Come esiste un forte interesse per tentare di ridurre la donazione da vivente proprio per le problematiche, talora inaccettabili, a cui può condurre, allo stesso tempo si pone l’accento sulla necessità del raggiungimento dell’autosufficienza per tutti i paesi, istituendo programmi efficaci per incentivare la donazione da cadavere.

La reazione internazionale di fronte a queste esigenze ha portato a diverse risposte, sia di tipo governativo che tecnico-professionali, da parte della World Health

(32)

32

Transplantation Society e l’International Society of Nephrology (Rudge,

Matesanz, Delmonico, & Chapman, 2012).

1.6 Il ruolo della World Health Organization (WHO)

L’interessamento della WHO verso il trapianto vede i suoi albori durante la quarantesima World Health Assembly (1987) in cui emerse la necessità di creare delle direttive per contrastare la piaga mondiale del traffico di organi. Questo processo portò all’approvazione, nel 1991, dei “WHO Guiding Principles on

Human Organ Transplantation”, un catalogo di princìpi guida volti ad orientare i

codici di deontologia medica e le prassi cliniche nonché le scelte dei governi di più di cinquanta paesi nell’elaborazione ed attuazione della normativa e delle politiche nazionali riguardanti le attività trapiantologiche (World Health Organization, 1991).

Alla luce dei progressi nel campo della medicina dei trapianti, nel 2004 la cinquantasettesima World Health Assembly, nella risoluzione 57.18, portò alla creazione di un database speciale volto a facilitare la raccolta e l’organizzazione delle conoscenze sul trapianto (Fifty-Seventh World Health Assembly, 2004). Questa risorsa comprende un osservatorio globale sulla donazione e sul trapianto, sviluppato in collaborazione con l’Organizacion Nacional de Trasplantes (ONT) e lanciato su internet nel 2006, come strumento per monitorare le attività e le pratiche di trapianto a livello globale e per favorirne la trasparenza.

In risposta alle richieste della risoluzione 57.18 e al problema della diffusa carenza di organi, sono state ideate nuove metodologie per aumentare la donazione, sempre nell’ottica del rispetto del donatore e del ricevente. Un esempio è stato l’importante analisi compiuta dalla WHO, in collaborazione con The Transplantation Society, sulla donazione da vivente, approfondendo questioni tecniche ed etiche. I forum che si sono tenuti per discutere di questa tematica, tra cui quello che si è tenuto ad Amsterdam nel 2004, hanno stabilito dei criteri minimi per determinare l'idoneità dei donatori viventi e hanno portato alla definizione degli obblighi professionali

(33)

33

dei medici, i quali devono trattare i donatori come pazienti, fornendo loro un adeguato follow-up e le cure necessarie per eventuali problemi conseguenti alla donazione (Ethics Committee of the Transplantation Society, 2004).

Nel 2008 a Istanbul, in Turchia, in una riunione organizzata da The

Transplantation Society e dall’International Society of Nephrology, più di

centocinquanta rappresentanti di organismi scientifici e medici di tutto il mondo, funzionari governativi, sociologi ed esperti di bioetica, hanno discusso sui sempre più crescenti fenomeni del "turismo del trapianto" e del “traffico di organi" dichiarando che queste pratiche violano i principi di equità, giustizia e rispetto della dignità umana e per questo devono essere vietate. Infatti in alcuni paesi esistono dei centri che fanno apertamente uso di internet e altri mezzi di comunicazione per promuovere viaggi con la prospettiva di comprarsi un organo e sottoporsi a un trapianto a prezzi estremamente vantaggiosi. Allo stesso tempo il contrabbando di cellule, tessuti e organi a fini di trapianto, per non parlare delle tratte degli esseri umani che vengono forzati ad essere “donatori”, continua ad essere un serio problema. Nonostante che la legislazione di molti paesi reputi il commercio di organi un’attività illegale, alcuni di questi incoraggiano il trapianto al di fuori delle proprie frontiere per reperire gli organi più facilmente. (Steering Committee of the Istanbul Summit, 2008).

Di fronte a questa realtà, come richiesto dalla risoluzione 57.18, sono stati quindi revisionati alcuni princìpi e ne è risultato un rafforzamento della convinzione per cui la ricerca di un profitto pregiudichi il risultato del trapianto, anziché recare qualche vantaggio, così da incentivare il rispetto del donatore e del ricevente. Successivamente adeguata alle prassi emergenti in materia di donazioni da viventi ed uso di cellule e tessuti, una seconda versione aggiornata di tale catalogo veniva adottata nel 2010 come Guiding Principles on Human Cell, Tissue and Organ

(34)

34

Questi princìpi guida dovrebbero fornire un quadro ordinato, etico e accettabile per il reperimento e il trapianto di cellule, tessuti e organi umani a scopo terapeutico. Ogni giurisdizione ha il potere di determinare in che modo possano essere attuati tali principi, i quali non si applicano al trapianto di gameti, tessuti ovarici o testicolari, embrioni per scopi riproduttivi, al sangue e alle sue componenti.

1.6.1 I principi guida della WHO

I principi guida sono in totale undici e ciascuno di essi è accompagnato da un commento esplicativo.

1.6.1.1 Il primo principio guida

Il primo dei princìpi sostiene che le cellule, i tessuti e gli organi possono essere prelevati ai fini di trapianto dai donatori cadavere solo nel caso in cui sia stato ottenuto il consenso richiesto dalla legge e non vi sia motivo di ritenere che la persona in questione fosse stata contraria al prelievo in vita.

Il consenso è la pietra miliare dell’etica in tutti gli interventi medici. Le autorità nazionali sono responsabili della definizione del processo di ottenimento e di registrazione dell'autorizzazione per la donazione di cellule, tessuti e organi alla luce degli standard etici internazionali, del modo in cui è organizzato il prelievo nel proprio paese e il ruolo concreto del consenso come garanzia contro gli abusi e violazioni della sicurezza.

Se il consenso al prelievo di organi e tessuti da parte del defunto sia "esplicito" o "presunto" dipende dalle tradizioni sociali, mediche e culturali di ciascun paese. Sotto entrambi i sistemi, qualsiasi indicazione che esprima l'opposizione al prelievo farà sì che questo non venga effettuato.

In un regime di esplicito consenso - talvolta definito "opting in" - le cellule, i tessuti o gli organi possono essere rimossi da un donatore cadavere se la persona ha espressamente acconsentito al prelievo durante la sua vita. A seconda del diritto

(35)

35

nazionale, tale consenso può essere fatto oralmente o tramite dichiarazioni scritte di volontà. Quando il defunto non ha né acconsentito in modo esplicito né chiaramente espresso opposizione al prelievo dell'organo, l'autorizzazione deve essere ottenuta dagli aventi diritto, di solito un familiare.

Il sistema di consenso presunto, chiamato anche “opting out”, permette il prelievo dal defunto per il trapianto e, in alcuni paesi, anche per la ricerca scientifica, a meno che la persona non abbia espresso la sua opposizione prima della morte. Tenuto conto dell'importanza etica del consenso, un tale sistema dovrebbe garantire che le persone siano pienamente informate sull’argomento e abbiano a disposizione metodi semplici per esprimere la propria scelta.

Sebbene il consenso esplicito non sia richiesto prima del prelievo in un sistema di

opt-out, i medici possono essere riluttanti a procedere se i parenti si oppongono

alla donazione; allo stesso modo, nei sistemi opt-in si cerca tipicamente l'autorizzazione della famiglia anche quando il defunto ha dato il consenso

pre-mortem.

1.6.1.2 Il secondo principio guida

Il secondo principio sostiene che nessun medico che accerti la morte di un donatore potenziale dovrebbe essere direttamente coinvolto nel prelievo di cellule, tessuti o organi o nelle successive procedure di trapianto né essere responsabile della cura del ricevente.

Questo principio è stato pensato per evitare l’instaurarsi di un conflitto di interesse nel caso in cui il medico o i medici che determinano la morte di un donatore potenziale siano anche responsabili della cura di pazienti il cui benessere dipendesse da cellule, tessuti o organi trapiantati da quel donatore.

Le autorità nazionali hanno il compito di definire gli standard legali per determinare la morte e precisare come saranno elaborati e applicati i criteri e il processo di determinazione della morte.

Riferimenti

Documenti correlati

Il superamento della sofferenza mentale non ha forse avuto gli stessi progressi della scienza, ma sono innegabili gli innumerevoli tentativi che l’essere umano

La concezione dell’essere umano, delle sue possibilità, della sua coscienza che nel corso di migliaia di anni di evoluzione lo ha sempre più differenziato dagli altri esseri viventi,

Organi proposti, prelevati e utilizzati provenienti dalla Liguria.. donatori

La gestione e la conservazione dei dati personali raccolti dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro avviene su server ubicati all’interno dell’Università e/o su server

Il sistema CIEonLine, dopo aver validato i dati presenti nella richiesta, provvede alla trasmissione telematica della dichiarazione di volontà al Sistema Informativo Trapianti

DONAZIONE DI ORGANI DA VIVENTE E DIFFERENZE DI GENERE.. DATI SISTEMA INFORMATIVO

Dall’ 1/1/2001 i candidati a ricevere il trapianto di rene da donatore vivente vengono registrati presso il Centro di Riferimento regionale o interregionale ed informati

Copia della documentazione (verbale di costituzione, piani e programmi) deve essere inviata entro 15 giorni alla Sezione provinciale o similare, al Consiglio Direttivo Regionale