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Una tesi di ricerca su un autore come Alexander von Humboldt non è certo impresa semplice.

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Avvertenza

Una tesi di ricerca su un autore come Alexander von Humboldt non è certo impresa semplice.

Intendiamo sottolinearlo sin dalla prima pagina non per mettere “le mani avanti” sui limiti di una

tesi di dottorato che, come qualsiasi lavoro di ricerca, è sempre soggetta a errori interni ed esterni, e

spesso diviene il punto di partenza, più che quello di arrivo, per ulteriori approfondimenti. Lo

sottolineamo però per preparare quasi il paziente lettore al presente lavoro. Il presupposto di

partenza, il dato di fatto ineludibile e difficilmente criticabile è questo: tra i diversi e tutti

interessanti spunti di ricerca che Alexander von Humboldt ha sparso davanti a se con la quasi

centenaria vita di scienza, e di pratica della scienza nelle più svariate forme (pubblicazioni,

congressi, esplorazioni, esperimenti, vita pubblica e politica), il ricercatore che vuole approfondire

la sua multiforme opera deve necessariamente decidere sin dall’inizio il taglio che intende

assegnare al proprio percorso analitico. E anche nel nostro caso si è scelto un taglio, una

spigolatura, un angolo di visuale, sull’enorme mole di letteratura primaria e secondaria – come usa

dirsi in termini tecnici – che appartiene al “secolo humboldtiano”. Questo aspetto resta forse

l’unico, fra le pagine a seguire, davvero difficilmente criticabile. Chi infatti può dire di essere in

grado di abbracciare con pienezza e completezza, se non in una vita di ricerca e di studio, il

significato di tutta l’opera humboldtiana? Ad essere ottimisti quindi anche questo lavoro sarà

annoverato semplicemente tra le centinaia di prodotti accademici sull’autore tedesco che ingrossano

la stanza della letteratura secondaria della Biblioteca di Berlino, e allungano la lista dei cataloghi

librari specializzati di istituti di ricerca, senza dare un convincente e fattivo apporto alla ricerca su

Humboldt. Da qui il convincimento di tentare almeno di muoversi oltre gli aspetti biografici –

seppur interessanti e stimolanti per comprendere la vita di uno scienziato che ha rivoluzionato

sotterraneamente il nostro modo di vedere la realtà – e di svincolarsi parzialmente dall’apprezzabile

letteratura italiana su Humboldt, per cercare invece di avvicinare l’opera del “novello scopritore

delle Americhe” – come emblematicamente recita il monumento a Humboldt all’ingresso

dell’Università di Berlino – da un punto di vista che sia originale nel metodo, più che nei singoli

contenuti. Ci si muove sempre nel rischio di focalizzare la propria attenzione su alcuni aspetti,

sottraendo ad altri, parimenti importanti, attenzione e completezza. Ma questo è anche il punto a

favore degli studiosi di Humboldt ed è un segno indelebile dell’eredità lasciata ai posteri dal

tedesco. Una mole così importante di materiale non finisce mai di suscitare, in chi ha il coraggio di

affrontarla, l’istinto ad operare connessioni e collegamenti con altri autori, altre opere a stampa, altri

concetti, altre discipline, altre immagini. Quando si entra nelle maglie di Humboldt non si fa altro

che iniziare una ricerca costantemente in divenire. Parrebbe proprio che l’idea di istituire un

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network di scienziati, istituzioni, ricerche, immaginata e messa in pratica da Humboldt nel corso

della sua longeva esistenza, abbia avuto davvero seguito, almeno tra coloro che sono affascinati

dalla sua opera e che continuano a dar vita a progetti su questo personaggio e sulle sue opere. Ci si

trova però a dover scrivere una tesi, cioè a dover mettere su carta tutte quelle idee che la lettura

multilingue delle opere di Humboldt, e di gran parte della bibliografia secondaria contemporanea,

hanno suscitato in tre intensi anni. Scrivere una tesi di storia della scienza su Humboldt vuol dire

anche sposare tesi storiografiche e modelli di lavoro che altri e più autorevoli studiosi hanno

impostato, e applicarli ad un certo materiale grezzo. La materia grezza, in questo caso, è di grande

valore. E come in altri casi, ci si trova quindi di fronte al rischio di plasmare un bel materiale in una

bruttissima opera. Bisogna quindi assegnare un titolo, una sorta di motto che riassuma in

pochissime parole chiave le centinaia di pagine. Grazie al titolo si possono mettere immediatamente

in risalto i nodi concettuali, che poi le pagine dovranno sciogliere. Anche in questo caso si è

rispettata la prassi e si sono scelti due termini forti: paesaggio e geobotanica. Termini amplissimi

certo, sui quali la letteratura specialistica ha prodotto una messe di materiale notevole. A partire da

questi si è deciso però di impostare un programma di ricerca che fosse, almeno nelle intenzioni, ben

preciso: mettere in risalto come nell’opera di Humboldt spazio, natura e paesaggio possano leggersi

come termini interscambiabili all’interno di un disegno culturale che intendeva mettere al centro del

proprio operare la comunicazione delle scoperte scientifiche con un linguaggio totalmente nuovo, in

una visione globale dei fatti di natura. A soccorso di questa tesi si è presa a testimonianza la

centralità assegnata dallo scienziato berlinese alla disciplina oggi praticata nel mondo accademico

col nome di fitogeografia, e che al tempo della sua prima apparizione istituzionale sembrava solo

una nuova costola della botanica. Analizzando il ruolo della fitogeografia in Humboldt si è giunti a

considerare il ruolo della rappresentazione visiva per gli sviluppi di quella specifica disciplina, ma

anche il ruolo avuto dalla fitogeografia per il trasferimento culturale del termine paesaggio dai

domini dell’arte e della letteratura a quelli della scienza. Crediamo infatti che sia proprio dal terreno

della geografia delle piante che si sviluppi la svolta culturale ottocentesca da una concezione del

paesaggio imbrigliata nelle maglie dei discorsi artistici e filosofici all’idea di esso come soggetto

scientifico a tutti gli effetti, degno degli interessi della nuova scuola geografica che con Humboldt

ha inizio. Faremo uso quindi delle immagini, per tentare di comprendere come le immagini siano

effettivamente parte integrante del testo scientifico, in un singolare connubio di scienza e arte che

rispecchia a pieno lo spirito humboldtiano di ricerca: uno spirito che considerava le varie

espressioni culturali sempre tra loro in connessione e prive di rigidi confini di appartenenza. Il

copioso utilizzo delle immagini vuole inserirsi in una tradizioni storiografica abbastanza recente in

Italia e oggi praticata con ottimi risultati; una tradizione che sempre più sta scoprendo il valore e il

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ruolo dei prodotti artistici e iconografici utilizzati da scienziati, per la comprensione di problematiche storiche. 1 Una parte sostanziale del secondo capitolo è infatti dedicata alla presentazione di alcune immagini che hanno un diretto e sostanziale rimando a una tipologia di rappresentazione resa universalmente nota da Humboldt dopo la stampa dal famoso grafico comparativo della vegetazione delle vette andine e dei paesi tropicali del 1805/1807. Con una sorta di biografia dell’immagine si mostrerà quindi l’eredità di un certo metodo grafico, che ha sviluppato e modificato l’idea stessa di paesaggio come entità scientifica, dopo averne individuato il setting nel quale l’immagine stessa si è formata ed è stata per la prima volta utilizzata. Infine, quasi a dimostrazione dell’eredità lasciata ai posteri, nell’ultimo capitolo verrà presa in considerazione la figura e l’opera paradigmatica di Filippo Parlatore, grande botanico e organizzatore di cultura italiana, che proprio grazie allo stimolo di Humboldt, si fece portavoce degli studi fitogeografici nell’Italia preunitaria e postunitaria. Analizzando infatti il percorso scientifico e intellettuale di questo studioso siciliano sarà possibile mettere in risalto come il tentativo di proseguire in Italia il percorso tracciato in Europa e nel mondo da Humboldt, sia stato tortuoso e non pienamente proficuo. Un progetto che abbiamo definito “fallito” di geobotanica universale, che mostra aspetti di grande interesse, ma anche dei limiti. Primo fra tutti l’assenza in Parlatore di un forte “spirito estetico” che permise a Humboldt di fondere efficacemente descrizione scientifica puntigliosa e narrazione pittoresca dei fatti di natura. Non si fa qui riferimento semplicemente all’assenza delle immagini in Parlatore – almeno nel Parlatore ufficiale, quello delle opere a stampa che possiamo leggere nelle biblioteche – e alla sua mai compiuta partecipazione alla redazione dell’ultimo volume di Kosmos, che probabilmente avrebbe consacrato in via definitiva quello che in Italia è stato definito un “trionfatore di congressi”. La riflessione è più ampia e certamente influenzata dal fatto che del vero Parlatore, quello ancora poco esplorato in profondità, si sa poco. Gli innumerevoli materiali parlatoriani sparsi per le biblioteche fiorentine e il grande fondo archivistico della Biblioteca comunale di Palermo sono ancora in gran parte da passare sotto la lente di ingrandimento. Certamente in quei materiali si potranno trovare indizi molto interessanti

1

In Italia, come ha ben sintetizzato Claudio Pogliano nel saggio Il contagio del visuale nella storia della scienza, in

«Contemporanea», anno IX, n.4, ottobre 2006, pp. 710-718, la cosiddetta “svolta iconica” nella storiografia specialistica ha avuto inizio con alcune singole opere occasionate da mostre o riunioni congressuali: La scienza a corte.

Collezionismo eclettico, natura e immagine a Mantova fra Rinascimento e Manierismo, a cura di L. Tongiorgi Tomasi

et alii, Bulzoni, Roma 1979; Immagine e natura. L’immagine naturalistica nei codici e nei libri a stampa della

Biblioteche Estense e Universitaria, Panini, Modena 1984. Nell’edizione della Storia della scienza moderna e

contemporanea, diretta da Paolo Rossi, 3 volumi, UTET, Torino 1988, molte sono le pagine dedicate al ruolo delle

immagini nello sviluppo delle diverse discipline (in particolare: vol. 1, pp. 112-116). Nel testo di Barsanti, G., La Scala,

la Mappa, l’Albero. Immagini e classificazione della natura fra Sei e Ottocento, Sansoni, Firenze 1992, le numerose

immagini vengono utilizzate non come semplice sussidio all’argomentazione ma come elementi portanti del volume. In

tempi più recenti sono usciti gli atti del convegno curati da Renato Mazzolini Non-Verbal Communication in Science

Prior to 1900, Olschki, Firenze 1993, mentre una serie di articoli e saggi in riviste dello stesso autore sono apparsi dal

1980 dimostrando una certa continuità di interesse per il tema del rapporto tra scienza e visuale.

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sull’attività polifonica di questo allievo italiano di Humboldt considerato tra i fondatori della geografia botanica in Italia e grande protagonista della storia della scienza dell’Ottocento. Già una parte di essi è stata ritrovata e se ne farà uso nell’ultimo capitolo. Perché quindi leggere ancora Humboldt e cercare connessioni con scienziati, magari italiani? Alla prima parte del quesito si può rispondere prendendo a prestito le parole che lo stesso Parlatore utilizza nei propri appunti inediti di studio, nella sezione intitolata “Pensieri”, citando Lucrezio: Edita doctrina sapientium templa serena; nei tempi presenti è bene di rifugiarsi nel tempio sereno della scienza. Per Parlatore – e le sue carte manoscritte lo dimostrano – il tempio sereno della scienza era proprio l’opera dello scienziato tedesco: di gran lunga l’autore più letto, studiato e citato. Alla seconda parte del quesito si può invece rispondere portando dei dati incontrovertibili: eccetto alcune significative pubblicazioni su Humboldt e l’Italia, restano ancora oggi per il ricercatore alcuni materiali archivistici che sarebbe interessante riscoprire, oltre che sentieri tematici ancora da percorrere.

Carteggi, assegnazioni di diplomi, onorificenze di accademie e società scientifiche italiane, piccoli cimeli humboldtiani, tracce dei suoi rapporti politici con gli stati preunitari, recensioni alle sue opere, taccuini del suo viaggio in Italia. Materiali che attendono di essere svelati proprio per evidenziare con forza il ruolo di Humboldt per lo sviluppo di certi filoni di ricerca scientifica anche in Italia. Per chi invece cerca oggi di argomentare le ragioni storiche, o meglio le ipotesi storiche, per un certo fatto culturale – nel nostro caso la moderna nozione di paesaggio – la lettura di Humboldt diviene la chiave di volta, l’anello fondamentale per comprendere l’ampio ed eterogeneo concetto di paesaggio inteso come prodotto delle stratificazioni umane e naturali che soltanto la Storia, nelle sue sfaccettature può mostrare. Non è un caso infatti che tutti coloro che in Italia si sono occupati in maniera sistematica di paesaggio, non soltanto geografi, abbiano fatto riferimento diretto a Humboldt e alla sua idea di paesaggio: Lucio Gambi, Aldo Sestini, Renato Biasutti, Sandro Pignatti, Rosario Assunto, 2 solo per fare alcuni nomi autorevoli. È stata proprio l’eterogeneità di

2

Lucio Gambi, grande geografo della seconda metà del Novecento ha riconosciuto a Humboldt il ruolo di pioniere nella nascita del moderno concetto di paesaggio e di quadro di natura; si veda: Gambi, L., I valori storici dei quadri ambientali in, Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, eadem, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973. Aldo Sestini, geografo fiorentino, ricoprì la cattedra di geografia a Firenze agli inizi del Novecento; si occupò prevalentemente di geografia fisica con particolare attenzione al tema del paesaggio italiano. Tra le sue opere: Geografia dell’Italia, Poligrafica Universitaria, Firenze 1937; Sestini A., Appunti per una definizione di paesaggio geografico in, Scritti geografici in onore di Carmelo Colamonico, s.e., Napoli 1963, pp. 272-286; eadem, Introduzione allo studio dell’ambiente. Fondamenti di geografia fisica, Franco Angeli, Milano 2003 (8° edizione).

Renato Biasutti, geografo italiano vissuto a cavallo tra il XIX e XX secolo, si è occupato dello studio del paesaggio e di alcuni suoi elementi antropici come la casa rurale. Nel famoso testo Il paesaggio terrestre, UTET, Torino 1947, egli allega la “Grande carta delle forme del paesaggio terrestre”, all’interno della quale vediamo applicati i principi humboldtiani del gradiente altitudine e latitudinale per distinguere i paesaggi terrestri in base a latitudine e morfologia.

Rosario Assunto, laureato in giurisprudenza, insegnò estetica a Urbino e storia della filosofia alla facoltà di Magistero di

Roma. Si interessò di paesaggio e di giardini con contributi pionieristici nel mondo dell’estetica italiana del novecento. I

numerosi riferimenti a Humboldt compaiono soprattutto nel volume Il paesaggio e l’estetica, Napoli, Gianni 1973, 2

voll. Sandro Pignatti, botanico italiano di fama internazionale, è attualmente professore onorario e socio dell’Accademia

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queste voci a spingerci nell’indagine storico scientifica sul paesaggio in Humboldt, che non può esulare dal confronto con i termini “spazio” e “natura”, se si vuole tentare di comprenderne la dimensione universale assegnata dallo scienziato tedesco.

dei Lincei. Si è interessato prevalentemente di fitogeografia ed ecologia. Nel manuale Ecologia del paesaggio, UTET,

Torino 1994, apre la propria trattazione riconoscendo il ruolo di Humboldt nello sviluppo dell’ecologia in connessione

proprio al problema dell’interpretazione dei caratteri paesaggistici.

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SINE QUIBUS NON

Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la fondamentale fiducia assegnatami dai docenti del

Dottorato di ricerca in Storia della scienza dell’Università di Pisa. A loro va la mia stima sincera per

avermi permesso innanzitutto di fare ricerca in questi ultimi tre anni. Spero di aver onorato la loro

liberalità, e la borsa di studio assegnatami a suo tempo! Ai professori Barsanti e Pogliano va quindi

un grazie particolare per l’ascolto, i consigli e gli stimoli intellettuali. Alla prof.ssa Agnese

Visconti, humboldtiana, maestra di vita e di ricerca, un grazie affettuoso per essere stata in questi

ultimi anni preziosa suggeritrice di progetti e spunti di lavoro. Al prof. Francesco Vallerani sono

grato invece per avermi ascoltato numerose volte e per l’opportunità di avermi fatto testare, tra i

suoi studenti, alcuni degli argomenti del presente lavoro. Senza le sue esplorazioni humboldtiane

nel paesaggio veneto non ci saremmo mai conosciuti. Alle mie famiglie, sparse per l’Europa, sono

grato per la vicinanza umana, l’interesse dimostrato e il sostegno concreto alle mie ricerche. Sono

debitore, infine, a mia moglie per aver sopportato libri, fotocopie e taccuini di appunti sparsi per la

casa nel bel mezzo delle scorazzate del nostro piccolo Federico: a lui – il vero fluido vitale, la vera

materia imponderabile di ogni nostra giornata – questa piccola grande fatica è dedicata.

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Introduzione

La ricerca storica sull’opera di Alexander von Humboldt, nel corso degli anni che vanno dal primo centenario della morte (1959) 3 alla ricorrenza recente dei cento cinquant’anni dalla scomparsa (2009), 4 ha messo in luce variegati aspetti del suo pensiero e della sua metodologia scientifica, evidenziando al contempo una compattezza e una coerenza interna per ciò che riguarda la particolare visione del mondo di questo scienziato. Se agli occhi di una parte della storiografia moderna e contemporanea la figura e l’opera di Humboldt sono apparsi come l’ultimo, glorioso, lampo di una tradizione di sapere erroneamente definita “enciclopedica” - per la vastità dei contenuti trattati e la padronanza delle argomentazioni nelle diverse branche del sapere - chi ha approfondito ad un secondo livello di completezza la sua opera, ha invece ben evidenziato il distacco con la tradizione dell’enciclopedismo che occupa, nel clima illuministico, parte della ricerca e della riflessione filosofica dell’ultimo quarto del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo in Germania. 5 Più che di conoscenza enciclopedica del mondo bisognerebbe parlare di conoscenza organica e universalistica del mondo; una visione complessa e unitaria della realtà che trova il proprio fondamento nel principio di mutua connessione e relazione continua dei fatti di natura. Una connessione non solo spaziale e momentanea bensì una connessione temporale, storica, di tutte le vicende del globo che l’esploratore riesce a ricostruire attraverso precise ricerche sul campo. La scienza, così come esercitata da Humboldt tramite la raccolta di dati, osservazioni continue e ripetute, esperimenti, scambio d’opinione tra scienziati, congressi, si libera da ogni tipo di dogma e preconcetto, non delle ipotesi ovviamente, per fondersi con la natura stessa, con la natura cosmica, che è l’unica a poter svelare le sue formidabili leggi. Si è giustamente evidenziato, soprattutto in Germania, come l’opera di Humboldt si distanzi dalla Naturphilosophie di Fichte, Schelling ed Hegel, da una parte, ma si distingua al contempo dalla scienza poetica di Goethe. Questo presupposto ha dato vigore ai sostenitori della storiografia positivista, che hanno cercato di

3

Nel 1959 vennero pubblicati in Italia due studi generici sull’Humboldt scienziato ed esploratore. Era il segno di un rinnovato interesse, anche se coincidente con il centenario della morte. Cfr. Steleanu A., Alessandro von Humboldt e la sua opera scientifica in, «Bollettino della società geografica italiana», serie 8, vol. 12, 1959, pp. 425-438. Almagià R., Alessandro von Humboldt in, «Le vie del mondo», a. 21, n.5, maggio 1959, pp. 493-502.

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Nel corso del Dottorato di ricerca in Storia della scienza il sottoscritto ha potuto partecipare alle celebrazioni del 2009 a Berlino, seguendo la settimana congressuale (27-31 luglio) organizzata dalla Freie Universität Berlin in collaborazione con la Humboldt State University. Nel corso dell’evento celebrativo, oltre ad ascoltare le più aggiornate ricerche in corso su Humboldt, poter visitare i luoghi humboldtiani di Berlino, scambiare opinioni e punti di vista sull’autore tedesco con alcuni studiosi di Humboldt provenienti da tutto il mondo, il sottoscritto ha preso parte attiva alle giornate congressuali con un contributo sull’analisi iconografica della tavola sulla Geografia delle piante equinoziali allegata all’Essai sur la géographie des plantes del 1805/1807.

5

Cfr. a titolo d’esempio il testo di Tega, W., L’unità del sapere e l’ideale enciclopedico nel pensiero moderno, Il

Mulino, Bologna 1983, cui si rimanda per l’apparato bibliografico sul tema.

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catalogare Humboldt tra coloro che senza mezzi termini praticarono un empirismo deciso nei territori delle scienze naturali: raccolta di dati, misurazioni, esperimenti e poco spazio alla speculazione. Ma leggendo con attenzione le opere di Humboldt, e il ruolo centrale assegnato alle scienze fisiche e matematiche, non si è indotti a pensare che lo scopo della scienza sia il dominio del mondo o una sua riduzione tecnicista, anzi la “ma tematizzazione del reale” passa in secondo piano rispetto alla “poesia della natura” che emerge nei suoi racconti di viaggio e nelle varie opere a stampa. Ed è proprio nell’esperienza del viaggio che vediamo concretizzarsi una nuova mentalità nel procedere scientifico. Nulla è scontato nell’esuberanza della natura tropicale o nell’estrema aridità del paesaggio ghiacciato delle Ande. La vita biologica, che pervade ogni luogo, anche il più remoto anfratto della crosta terrestre, diviene così occasione primaria di riflessione sulle leggi che regolano la vita dell’intera natura. Lo scienziato si trova spesso nei viaggi a dover ri-conoscere (specie animali e vegetali, fenomeno tellurici e atmosferici, reazioni chimiche e leggi fisiche) ciò che gli sta intorno, lo cataloga e lo disseziona, ma non per farne un freddo inventario o un sistema alla Linneo, che metta in luce le differenze formali sulle base delle quali la natura può essere suddivisa – e quindi le discipline possano essere rigidamente suddivise in base agli oggetti di proprio dominio –. Lo scopo del riconoscimento è quello di andare oltre la singola manifestazione naturale per tentare di delineare una periodicità o una ricorrenza di certi elementi dell’ecosistema che muta continuamente sotto i nostri occhi, anche a distanza di breve tempo. Nell’atto del riconoscimento emerge però anche ciò che non è possibile comparare con il “già noto”. In conseguenza di ciò l’esploratore si trova spesso a dover descrivere il nuovo, l’ignoto, entrare cioè nella dimensione della scoperta. Questa dimensione della scienza emerge con evidenza nelle esplorazioni geografiche. Si pensi per esempio ad uno dei casi geografici risolti da Humboldt: la biforcazione dell’Orinoco e il collegamento di questo sistema fluviale con quello amazzonico, che la storia e la leggenda avevano per varie ragioni offuscato. La scoperta è prima di tutto geografica.

Ma il percorso che ha portato alla scoperta è frutto di riflessioni scientifiche di prim’ordine.

Riflessioni sulla topografia dei luoghi, sulle leggi idrografiche, sulla consistenza dei suoli. A ciò aggiungiamo una grande intraprendenza e una tenacia nell’esplorazione che nella storia dei viaggi ha pochi eguali. La scoperta non è quindi qualcosa di casuale. E la scoperta ha delle conseguenze:

scientifiche, storiche, politiche, economiche. Tutte si intrecciano nella complessità del reale.

Dell’Humboldt esploratore e viaggiatore la storiografia geografica e scientifica se n’è occupata con

dovizia, soprattutto in occasione delle edizioni italiani di alcune opere a stampa. Per tale ragione si

eviterà di addentrarsi in questo ambito di approfondimento, se non per le necessarie riflessioni che

ci permetteranno di mettere in luce l’argomento principale del lavoro, ovvero il ruolo del paesaggio,

dello spazio naturale incontrato, descritto e rappresentato a seguito dell’esperienza esplorativa. Il

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paesaggio è però il perno della rivoluzione culturale che Humboldt avvia con le proprie riflessioni:

quella “fertile ambiguità” di cui l’autore tedesco fu l’artefice indiscusso 6 , e che gli aveva permesso di passare dall’estetico al razionale, basandosi su elementi che lo scienziato riconosce, identifica e misura grazie ad una precisa strumentazione. Il paesaggio scientifico -che è poi spazio geografico- diviene perciò rappresentazione inscindibile dalla realtà e dai suoi elementi. Esso assorbe e coinvolge l’osservatore nell’atto dell’esplorazione di un determinato luogo e incuriosisce chi non ha fatto esperienza diretta di quel dato territorio. Qui sta il distacco da una tradizione – quella geografica – che intendeva lo spazio solo come riduzione su carta di un determinato ambiente naturale racchiuso tra assi latitudinali e longitudinali. Una geografia, quella Settecentesca, che si occupava della trascrizione dello spazio naturale e non della lettura del paesaggio naturale.

Humboldt modifica, partendo proprio da una diversa concezione dei concetti di spazio e natura, desunti da una rilettura di Kant, i confini della ricerca geografica aprendo il campo a una geografia dei paesaggi che ancora oggi viene coltivata dagli specialisti di settore. Il rinnovamento nella concezione dello spazio geografico, l’idea stessa di natura e una forte propensione al riconoscimento dei tratti essenziali di un ambiente naturale (elementi per lo più naturalistici ma anche antropologici) conducono Humboldt a teorizzare una nuova scienza – la geognosia – che proprio sulla “geografia dei regni naturali” si fonda. Nella geobotanica – disciplina a fine Settecento misconosciuta dai botanici – Humboldt vede il vero motore per un rinnovamento nella concezione più generale di geografia e di storia naturale. “Tracciare relazione e connessioni” è il motto di questa rinnovata Erdkunde che assegna al paesaggio il compito di evidenziare questa continuità della natura. Una continuità storica e spaziale che le famiglie e le specie vegetali esemplificano magnificamente. Relazioni tra diverse specie che Humboldt identifica attraverso “associazioni vegetali”; connessioni tra elementi biologici presenti su diversi continenti, che possiamo comprendere attraverso la “migrazione di specie”; relazioni e connessioni tra ambiente naturale passato e ambiente naturale presente, che possiamo ricostruire attraverso fossili e relitti vegetali.

Descrizione della natura e storia della natura possono diventare - dati questi presupposti di partenza - “quadro”, ponendo attenzione alla distribuzione delle specie vegetali nell’ambiente, focalizzando cioè l’interesse dello sguardo sul manto vegetale che avvolge il globo e che, come primario elemento, attira lo sguardo dell’osservatore e dell’esploratore identificando la fisionomia di un luogo. Da qui la nascita della moderna fitogeografia, ma anche la nascita di un metodo di rappresentazione visuale del paesaggio particolarissimo, che “farà scuola” per tutta la geografia

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L’espressione “fertile ambiguità” l’abbiamo presa in prestito dalla relazione congressuale di Giuseppe Dematteis, al

congresso “La trasformazione dei paesaggi e il caso veneto”, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Palazzo Cavalli

Franchetti, Venezia, 6/7 marzo 2008.

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ottocentesca. Un paesaggio tridimensionale che inaugura uno stile cartografico basato sul

comparativismo, sulla possibilità cioè di confrontare diversi elementi naturali presenti in regioni

della terra molto distanti tra loro. Se i fenomeni della natura nelle diverse parti del globo possono

essere uniti da immaginarie linee di connessione, allora anche le scienze fisiche possono unirsi in

una grande intelaiatura che è la scienza del cosmo. Le linee di connessione entreranno nella

terminologia scientifica, e nella cartografia, con il nome di linee isoterme: linee non parallele

all’equatore ma, come le linee magnetiche, aventi angoli variabili che intersecano i paralleli

geografici collegando i punti del globo con medesime caratteristiche climatiche. Mentre la “scienza

del cosmo”, progetto ambizioso ed epocale, resterà un tentativo, un estremo tentativo, di unificare le

conoscenze sul globo in un secolo – l’Ottocento – nel quale le scoperte scientifiche spalancavano le

porte a una crescente e inesorabile specializzazione della conoscenza e della tecnica.

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