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Packer si cimenta anche nell‘editoria in veste di curatore dell‘antologia The Fight Is for Democracy

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Academic year: 2021

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1 INTRODUZIONE

Il presente lavoro propone un‘analisi del dramma Betrayed, scritto dal giornalista statunitense George Packer e la sua traduzione integrale. Accanto al suo repertorio da giornalista per The New Yorker, e autore di numerosi articoli, Packer sfoggia anche un eccezionale curriculum da scrittore, che include libri di successo, tra cui spicca uno dei titoli usciti più di recente – Blood of the Liberals – con cui ha vinto il prestigioso premio giornalistico intitolato a Robert Kennedy nel 2001. Una delle sue ultime conquiste è il premio del New York Times per miglior libro dell‘anno con The Assassins’ Gate, pubblicato nel 2005. Packer si cimenta anche nell‘editoria in veste di curatore dell‘antologia The Fight Is for Democracy. Il giornalista statunitense è membro della Guggenheim Fellowship Memorial Foundation (che ogni anno a partire dal 1925 concede un premio in memoria di John Simon Guggenheim per eccezionali capacità e meriti particolari nel campo della produzione culturale) per la stagione 2001-2002. In veste di reporter, seguendo in particolar modo la guerra in Iraq, Packer, grazie alla passione con la quale si dedica al proprio lavoro, si aggiudica quattro premi della Overseas Press Club – l‘associazione fondata da un gruppo di corrispondenti esteri che premia i migliori risultati ottenuti nel campo del giornalismo.

L‘incontro con la scrittura di un giornalista eccezionale, quale è indubbiamente George Packer, rappresenta una rivelazione dal punto di vista stilistico ed emotivo;

Betrayed è un‘opera impregnata di forte impegno politico, che porta alla riconsiderazione del mondo circostante e della prospettiva da cui si è soliti percepirlo.

Ad aggiungere spessore alla complessità di Betrayed è il particolare genere a cui appartiene: il teatro documentario. Tutti questi aspetti caratteristici fanno di Betrayed un testo che a primo acchito può sembrare poco complesso da tradurre, e addirittura privo di difficoltà evidenti, ma che nasconde nella sua struttura profonda una rete di problematiche che gradualmente si trasformano in vere e proprie sfide per la resa linguistica in italiano.

Dal tema più pressante trattato da George Packer in Betrayed – la condizione dell‘interprete di guerra – gradualmente si passa alla riflessione sull‘importanza della traduzione in zone di conflitto. Sebbene Packer abbia ambientato il suo dramma nell‘Iraq occupato dagli Stati Uniti, la valenza delle sue riflessioni e ricerche sulla figura dell‘interprete è potenzialmente estendibile ad altri scenari conflittuali. Uno degli effetti

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2 più importanti del dramma packeriano è che la figura dell‘interprete di guerra esce dall‘oscurità e dell‘oblio in cui è stata finora immersa. Essa viene così ad assicurarsi uno spazio in cui viene analizzata non solo in quanto supporto tecnico e mediazione neutrale, ma in quanto essere umano in carne ed ossa. Carol Maier descrive il fenomeno nei termini seguenti:

The last two decades have brought significant changes for translators, who now find themselves in more visible situations, doing work undoubtedly considered‘useful‘

[…] Recent world events have also prompted global awareness of the need for qualified translators and interpreters. (Salama-Carr 2007: 253-254)

Nonostante il fatto che l‘interprete di guerra, con la sua competenza linguistica,

contribuisca a risolvere i conflitti, il modo di considerarlo nell‘assodata concezione di traditore è ancora una prassi comune. Il fenomeno concerne non solo la letteratura, il teatro, ma anche il grande schermo. Da Translations (1980) di Brian Friel a The Prisoner’s Dilemma (2001) di David Edgar, l‘interprete è sempre rappresentato come un personaggio ibrido che combina in sé due nature controverse. Il film The Interpreter (2005), diretto da Sidney Pollack, disegna e sintetizza meglio il ruolo controverso dell‘interprete moderno. Interpretato da Nicole Kidman nel ruolo della protagonista Silvia Broome, The Interpreter dimostra la natura dell‘interprete definita da Michael Cronin ‗polyidentity.‘ (Cronin 2006: 117)

Negli ultimi tempi esiste una vasta letteratura sull‘argomento che comprende testi critici che sottopongono ad un esame minuzioso non solo la rilevanza e il valore della traduzione, ma analizzano anche la figura dell‘interprete e la sua collocazione in vari contesti, riservando una particolare attenzione alle situazioni di conflitto. In senso tradizionale, l‘interprete viene spesso considerato un mediatore linguistico che assiste due parti che non condividono la stessa lingua, ma questa figura, in realtà, ha subito una trasformazione sempre più fondamentale in quanto considerata una figura sospetta, che esprime al massimo la dicotomia traduttore-traditore. Se da una parte l‘interprete è un personaggio di cui non si può e non ci si deve fidare, dall‘altra, operando nei contesti di conflitto, l‘interprete vive un suo conflitto interiore. Zrinka Stahuljak dedica un saggio all‘argomento, analizzando il dilemma vissuto dagli interpreti che partecipano a missioni di pace, con una speciale attenzione al conflitto in Bosnia. Hilary Footitt e Michael Kelly (Footitt/Kelly 2012a; 2012b) partecipano attivamente al dibattito con due

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3 contributi interessanti riservati al ruolo degli interpreti nelle zone di guerra, esplorando a fondo i diversi conflitti a livello mondiale e interessandosi alla funzione degli interpreti nei vari stadi di un conflitto. Moira Inghilleri (Inghilleri 2008; 2010) fornisce due contributi, interessandosi alle motivazioni che spingono gli interpreti a scegliere di esercitare questo mestiere, e le scelte etiche che esso inevitabilmente comporta, mettendo in relazione il concetto di etica della guerra, concepito sostanzialmente in due maniere, in un primo momento dai militari, e in un secondo, dagli interpreti con cui si trovano a lavorare a stretto contatto. Barbara Moser-Mercer (Moser-Mercer 2008) si concentra sull‘analisi dell‘esigenza di ideare dei progetti per la preparazione di figure professionali pronte ad essere inserite nei vari contesti di guerra o post-guerra. Jerry Palmer (Palmer 2007) mette in relazione il legame professionale che esiste tra giornalisti e reporter che operano in zone di conflitto e i loro fixers. Da questa reciproca collaborazione, stando ai saggi dedicati all‘argomento da Mona Baker (2010), viene a determinarsi il modo in cui gli interpreti vengono raccontati dai diversi partecipanti di un conflitto, incasellando la figura dell‘interprete in due profili principali – vittima o traditore. La figura dell‘interprete e la sua condizione di intermediario fra diverse culture portano a un nuovo modo di considerare il ruolo esercitato dalla traduzione in zone di conflitto. Un contributo importante in questo campo proviene da Emily Apter (Apter 2006), da cui emerge un‘idea della traduzione in quanto essa stessa ―a matter of war and peace.‖ (Apter 2006: 3)

A questi e altri contributi si attingerà per fornire alcuni strumenti e linee guida per tentare di definire un quadro generale della situazione sulla figura dell‘interprete in zone di conflitto, in contemporanea al tentativo di offrire una traduzione adeguata al primo e sinora unico dramma nella carriera di scrittore di George Packer.

Oltre la traduzione integrale di Betrayed, questo lavoro si concentra anche sulla traduzione di due scene del testo di Gregory Burke, Black Watch. Nelle due scene, intitolate Pub 4 e Suicide, la figura dell‘interprete è una presenza invisibile. In questo senso Burke si discosta dall‘idea proposta da Packer dell‘interprete come protagonista assoluto e indiscutibile. Oltre a questo particolare, il testo di Burke propone una lettura politica diversa rispetto a quella che traspare dalle pagine del testo packeriano. Se George Packer pone l‘accento sulla narrative della guerra giusta, Gregory Burke, nel suo testo, offre in questo senso una prospettiva opposta.

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4 CAPITOLO PRIMO

DALLARTICOLO ALLA SCENA

1.1. L’articolo ‹The Betrayed – 'The Iraqis Who Trusted America the Most'›

Per identificare le origini dello spettacolo Betrayed è necessario ritornare al gennaio del 2007, quando il giornalista americano compie la sua sesta visita in Iraq dall‘inizio della seconda guerra del Golfo. Questo suo ultimo soggiorno ispira la realizzazione dell‘articolo per il New Yorker, intitolato ―The Betrayed – 'The Iraqis Who Trusted America the Most'‖. Esso appare nel marzo dello stesso anno, ed è dedicato agli interpreti iracheni che ogni giorno svolgevano la loro opera di intermediari fra il loro popolo e le forze militari statunitensi, ―that tiny minority of mostly young men and women who had embraced the American project in Iraq so enthusiastically that they were willing to risk their lives for it‖ (Packer 2008: vii).

Dopo una parte introduttiva, l‘articolo viene suddiviso in sette sezioni principali – My time will come; A person in between; Badges; Corridors of power; The heart of your allies; Johnson’s list, Evacuation, i cui titoli fungono da parole chiave nel tentativo packeriano di raccontare in sedicimila parole la guerra irachena, vista con gli occhi di quelli che l‘hanno vissuta in prima persona.

Sin dalle prime righe l‘articolo introduce il lettore nell‘ambiente spettrale del Palestine Hotel di Baghdad, dove il giornalista statunitense incontra per la prima volta due dei tanti interpreti intervistati, Othman e Laith. L‘aria che si respira nell‘albergo è quella di un tempo glorioso ormai remoto, i cui fantasmi ritornano a tormentare il racconto degli interpreti. Ad accompagnare la malinconia e l‘inquietudine dei loro racconti è la famosa canzone del gruppo americano The Spaniels, ―Goodnight, Sweetheart, Goodnight‖, intonata dalla cassiera, Taja, che Packer ha conosciuto durante la sua prima visita in Iraq. Sono solo queste note celebri a rievocare le immagini del Palestine Hotel nel periodo dopo la caduta di Saddam Hussein; quello che avrebbe dovuto essere il periodo della rinascita. Richiamare alla memoria queste immagini è in forte contrasto con l‘ambiente circostante in cui si svolge l‘intervista: l‘albergo vuoto; nella hall un secchio che raccoglie l‘acqua piovana; i souvenir esposti nelle vetrine del negozio, coperti da strati di polvere; il ristorante chiuso.

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5 Tuttavia, l‘albergo rimane l‘unico posto relativamente sicuro in cui è possibile incontrare uno straniero. I due interpreti raccontano delle difficoltà giornaliere che devono affrontare gli iracheni che si sono macchiati della colpa di aver collaborato con gli americani. Othman ricorda il periodo in cui la città era devastata dagli scontri tra sunniti e sciiti, il terrore di vedere il fratello quasi ucciso in una sparatoria, altri membri della famiglia minacciati, e i suoi due fratellini minori rapiti dagli insorti. In quei tristi giorni era impossibile raggiungere l‘albergo in meno di tre giorni, nonostante la sua casa si trovasse a soli cinque chilometri di distanza.

La sua storia è simile a quella di tanti altri iracheni che si sono trovati a vivere in una Baghdad che ogni giorno prendeva sempre più le sembianze di un deserto, in cui coloro che avevano collaborato con gli americani avevano ben poche possibilità di sopravvivere. Come spiega Packer:

Most of the people Othman and Laith knew had left Iraq. House by house, Baghdad was being abandoned. Othman was considering his options: move his parents from their house (in an insurgent stronghold) to his sister‘s house (in the midst of civil war); move his parents and brothers to Syria (where there was no work) and live with his friend in Jordan (going crazy with boredom while watching his savings dwindle); go to London and ask for asylum (and probably be sent back); stay in Baghdad for six more months until he could begin a scholarship that he‘d won, to study journalism in America (or get killed waiting). Beneath his calm good humor, Othman was paralyzed—he didn‘t want to leave Baghdad and his family, but staying had become impossible. Every day, he changed his mind. (Packer 2007)

Packer descrive una realtà in cui gran parte degli iracheni vive costretta a condurre una vita di isolamento ai margini della società, in un paese che non sente più come proprio.

In una sua recensione, Marc Chou in poche parole centra il tema più pressante dell‘articolo in questi termini:

This is, in short, the crux of Packer‘s article: the life of the outsider, the non-belonger who lives exiled from their homeland. Today, Iraq is a land of non-belongers. (Chou 2009: 3)

Dopo questa prima parte introduttiva, l‘articolo prende in considerazione la testimonianza di un altro interprete – Firas. Dalle sue parole traspare il sistema di clientelismo che aveva caratterizzato l‘epoca di Saddam. Questo sistema ha impedito a giovani e talentuosi iracheni di procurarsi un buon posto di lavoro, e li ha incatenati a

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6 una vita miserabile e insoddisfacente. L‘arrivo degli americani era percepito come l‘unica e irrepetibile opportunità per riuscire finalmente a realizzarsi:

Thousands of Iraqis converged on the Palestine Hotel and, later, the Green Zone, in search of work with the Americans. In the chaos of the early days, a demonstrable ability to speak English—sometimes in a chance encounter with a street patrol—was enough to get you hired by an enterprising Marine captain. Firas began working in military intelligence. Almost all the Iraqis who were hired became interpreters, and American soldiers called them ―terps,‖ often giving them nicknames for convenience and, later, security (Firas became Phil). But what the Iraqis had to offer went well beyond linguistic ability: each of them was, potentially, a cultural adviser, an intelligence officer, a policy analyst. Firas told the soldiers not to point with their feet, not to ask to be introduced to someone‘s sister. Interpreters assumed that their perspective would be valuable to foreigners who knew little or nothing of Iraq.

(Packer 2007)

Nonostante tutto ciò, gli americani si limitavano a servirsi delle loro abilità linguistiche senza però prendere in considerazione la loro conoscenza del luogo e delle persone; essi non davano ascolto ai consigli che gli iracheni potevano dare loro su eventuali depositi segreti di armi e possibili attacchi pianificati dagli insorti, poiché fondamentalmente non intendevano fidarsi di loro, come dimostra la testimonianza di Ali, un altro interprete intervistato da Packer. Ali, nato e cresciuto in Pennsylvania e Oklahoma, ha successivamente deciso di ritornare a Baghdad con la sua famiglia per un breve periodo, ma la loro visita coincide con il momento in cui scoppia la guerra con l‘Iran, e quindi viene loro impedito di lasciare il paese. Ali inizia allora a lavorare come interprete. La sua testimonianza è fondamentale, poiché rivela l‘assoluta noncuranza degli americani verso le informazioni preziose da lui fornite. Packer riporta le sue parole come segue:

Ali found that, although many soldiers were friendly, they often ignored information and advice from their Iraqi employees. Interpreters would give them names of insurgents, and nothing would happen. When Ali suggested that soldiers buy up locals‘ rocket-propelled grenade launchers so that they would not fall into the hands of insurgents, he was disregarded. (Packer 2007)

In altri termini, il rapporto tra gli americani e i loro collaboratori iracheni potrebbe essere sintetizzato con queste due semplici parole: sfiducia e diffidenza, che però talvolta non sono sufficienti a cogliere tutte le sfumature di una realtà molto più profonda e pericolosa che oscilla fra l‘odio, l‘indifferenza e il senso di superiorità di chi

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7 si crede detentore dei principi fondamentali della democrazia. Intervistato da Packer, Ali dà libero sfogo alle proprie impressioni:

When interpreters drove onto the base, their cars were searched, and at the end of their shift they would sometimes find their car doors unlocked or a mirror broken—

the cars had been searched again. ―People came with true faces to the Americans, with complete loyalty,‖ Ali said. ―But, from the beginning, they didn‘t trust us.‖

(Packer 2007)

La sezione successiva dell‘articolo, intitolata A person in between, tratta la posizione ambigua che col tempo assumono gli interpreti, attraverso la metafora dell‘in betweenness. Aameel, la parola araba per collaboratore, assume una connotazione sempre più negativa, grazie alla campagna diffamatoria promossa dal partito Baath contro gli iracheni che collaborano con gli americani. Packer descrive la situazione in questi termini:

Early in the occupation, the Baathists in Ali‘s neighborhood, who at first had been cowed by the Americans‘ arrival, began a shrewd whispering campaign. They told their neighbors that the Iraqi interpreters who went along on raids were feeding the Americans false information, urging the abuse of Iraqis, stealing houses, and raping women. In the market, a Baathist would point at an Iraqi riding in the back of a Humvee and say, ―He‘s a traitor, a thug.‖ Such rumors were repeated often enough that people began to believe them, especially as the promised benefits of the American occupation failed to materialize. Before long, Ali told me, the Baathists

―made the reputation of the interpreter very, very low—worse than the Americans‘.‖

(Packer 2007)

Nella quinta sezione intitolata Badges, George Packer affronta il problema della sicurezza, in pratica inesistente, riservata ai collaboratori iracheni. Nel gennaio del 2004 un incidente all‘ingresso della Zona Verde, la Porta degli Assassini, provoca la morte di venticinque iracheni che fanno la fila per entrare. Dopo questo attentato, gli interpreti iracheni diventano facile bersaglio per il fuoco degli insorti. Anche sette amici di Ali sono stati vittima di questi attacchi. A questo punto, come Packer sottolinea, tra gli iracheni si diffonde la convinzione che la loro incolumità non rientri fra le priorità dell‘amministrazione americana:

In Mosul, insurgents circulated a DVD showing the decapitations of two military interpreters. American soldiers stationed there expressed sympathy to their Iraqi employees, but, one interpreter told me, there was ―no real reaction‖: no offer of protection, in the form of a weapons permit or a place to live on base. He said, ―The soldiers I worked with were friends and they felt sorry for us—they were good

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8 people—but they couldn‘t help. The people above them didn‘t care. Or maybe the people above them didn‘t care.‖ This story repeated itself across the country: Iraqi employees of the U.S. military began to be kidnapped and killed in large numbers, and there was essentially no American response. (Packer 2007)

Durante il conflitto iracheno, gli Stati Uniti usufruiscono dei servizi della Titan Corporation, che si occupa degli iracheni assunti con un contratto di lavoro. Dalle ricerche svolte da Packer, emerge un fatto sorprendente – la Titan Corporation non garantisce in nessun modo il trattamento adeguato ai collaboratori assunti. Packer riporta diverse esperienze a sostegno di quanto afferma: cita il caso di un interprete coinvolto in un‘esplosione durante la quale riporta ustioni di primo e secondo grado su mani e piedi, a cui la Titan Corporation rifiuta di rimborsare le spese durante il periodo di convalescenza. Inoltre, riferisce di una donna minacciata da un vecchio compagno di università che aveva scoperto la sua collaborazione con gli americani; spaventata la donna si rivolge alla Titan che, nonostante indichi la sicurezza dei collaboratori come una massima priorità, le presenta come unica alternativa la possibilità di trasferirsi o lasciare il lavoro:

―You have two choices: move or quit.‖ She told him that if she quit and stayed home, her life would be in danger. ―That‘s not my business,‖ the representative said. (A Titan spokesperson said, ―The safety and welfare of all employees, including, of course, contract workers, is the highest priority.‖) (Packer 2007)

Sono in realtà in pochi nell‘ambiente statunitense a rendersi conto della gravità della situazione che coinvolge migliaia di collaboratori iracheni. Da una corrispondenza tra Packer e un ufficiale del Dipartimento di Stato, emerge la consapevolezza della situazione che sfortunatamente solo pochi hanno percepito:

In an e-mail to me, he [the official] said, ―Most of them have lived secret lives for so long that they are truly a unique ‗homeless‘ population in Iraq‘s war zone—

dependent on us for security and not convinced we will take care of them when we leave.‖ It‘s as if the Americans never imagined that the intimidation and murder of interpreters by other Iraqis would undermine the larger American effort, by destroying the confidence of Iraqis who wanted to give it support. The problem was treated as managerial, not moral or political. (Packer 2007)

Nel gennaio del 2005, un collaboratore nella sezione politica, Riyadh Hamid, viene barbaramente ucciso mentre rincasa dal lavoro. Alcuni giorni dopo questo episodio l‘ambasciatore, John Negroponte, incontra gli iracheni che lavorano nella sezione

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9 politica. Durante questo incontro gli interpreti avanzano la richiesta di una maggiore sicurezza che secondo loro poteva essere raggiunta attraverso un badge diverso, che avrebbe permesso loro di entrare nella Zona Verde in tempi brevi, anziché continuare a fare la fila all‘ingresso della Zona Verde. In quest‘occasione Negroponte non assume nessuna responsabilità, lasciando all‘ufficiale regionale addetto alla sicurezza di allora, John Frese, decidere la loro sorte. L‘esito è banale e scontato: ―My top priority is Embassy security, and I won‘t jeopardize it, no matter what,‖ Frese told them, and the Iraqis understood that this security did not extend to them—if anything, they were part of the threat.‖ (Packer 2007)

La figura dell‘ufficiale regionale addetto alla sicurezza (in inglese RSO), gioca un ruolo importante nel sistema della sicurezza a Baghdad. Fra i suoi compiti rientrano concedere o revocare NOS (nulla osta sicurezza), fornire i permessi ai politici per lasciare la Zona Verde, indagare sui membri e i collaboratori nella sezione politica. Alle volte, i poteri garantiti da questa posizione diventano occasione per beffarsi e persino maltrattare gli iracheni. Come rivela uno degli interpreti intervistati da Packer: ― The word ―security‖ was ubiquitous—a ―magical word,‖ one Iraqi said, that could justify anything.‖ (Packer 2007) Solo ai collaboratori iracheni provenienti dalla Zona Rossa era riservato un test annuale alla macchina della verità. Packer riporta altre restrizioni a cui erano sottoposti gli iracheni:

Iraqi staff members were not allowed into the gym or the food court near the Embassy. Banned from the military PX, they had to ask an American supervisor to buy them a pair of sunglasses or underwear. These petty humiliations were compounded by security officers who easily crossed the line between vigilance and bullying. (Packer 2007)

Un ufficiale del dipartimento di Stato conferma a Packer che il problema della sicurezza è rimasto irrisolto fino al 2006; da allora in poi, al personale militare sono state date istruzioni che garantiscono agli iracheni l‘ingresso prioritario nella Zona Verde.

Nonostante ciò, gran parte dei militari si rifiuta di eseguire correttamente questo ordine.

La quarta sezione dell‘articolo, Corridors of power, è un‘aspra critica all‘amministrazione statunitense per non aver elaborato un piano per la sicurezza dei collaboratori iracheni. Nell‘ottobre del 2004 quattro americani e due iracheni perdono la vita in un incidente che ha preso di mira il bar situato nel centro commerciale della Zona Verde. Questo incidente alimenta la paura che all‘interno della Zona Verde ci siano dei

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10 traditori. L‘occasione dell‘incidente alimenta un senso di sospetto nei confronti dei rappresentanti iracheni che lavorano nella Zona Verde. Kirk Johnson, che all‘epoca lavora a Baghdad, ricorda come la percezione della presenza irachena assume una connotazione sempre più negativa. La minaccia è individuata nella presenza irachena, ma è anche un‘occasione per rendersi conto che la situazione in cui è immerso il paese fuori dalla Zona Verde viene percepita in maniera radicalmente diversa da chi sta dentro le mura di protezione del bunker americano:

The Iraqi employees became perceived as part of an undifferentiated menace. They also induced a deeper, more elusive form of paranoia. As Johnson put it, ―Not that we thought they‘d do us bodily harm, but they represented the reality beyond those blast walls. You keep your distance from these Iraqis, because if you get close you start to discover it‘s absolute bullshit—the lives of people in Baghdad aren‘t safer, in spite of our trend lines or ginned-up reports by contractors that tell you everything is going great.‖ (Packer 2007)

Packer fa ricorso ad una similitudine per descrivere la situazione che caratterizza la vita privata e lavorativa degli iracheni: ―The Iraqis who saw both sides of the Green Zone gates had to be as alert as prey in a jungle of predators‖. (Packer 2007) A prova di questa situazione viene portata la testimonianza di Ahmed, uno sciita curdo che ha il compito di occuparsi delle problematiche che coinvolgono la popolazione sciita e fornire informazioni su di essa all‘amministrazione americana. Per essere in grado di svolgere il suo lavoro, Ahmed deve nascondere la propria identità, talvolta mascherandosi da lavoratore proveniente dalla Korea oppure da giornalista che lavora per una televisione irachena. I collaboratori iracheni non possono rivelare la verità sul lavoro che svolgono; una parola di troppo potrebbe costargli la vita. Gli iracheni sono costretti a prendere una serie di provvedimenti che garantisca loro un minimo di sicurezza. Anche un indumento banale come la giacca potrebbe trasformarsi in bersaglio che li identifica come traditori agli occhi dei loro connazionali. Lo stesso vale per i cellulari e i badge forniti dall‘ambasciata, che si rivelano un‘arma a doppio taglio; la lingua inglese che gli ha permesso di lavorare per l‘amministrazione statunitense comporta il grosso rischio di etichettarli per la vita come traditori. Ahmed esprime nei termini seguenti le difficoltà e le costrizioni giornaliere che comporta la scelta di lavorare per gli americani:

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11 Ahmed took two taxis to the Green Zone, then walked the last few hundred yards, or drove a different route every day. He carried a decoy phone and hid his Embassy phone in his car. He had always loved the idea of wearing a jacket and tie in an official job, but he had to keep them in his office at the Embassy—it was impossible to drive to work dressed like that. Ahmed and the other Iraqis entered code names for friends and colleagues into their phones, in case they were kidnapped. Whenever they got a call in public from an American contact, they answered in Arabic and immediately hung up. They communicated mostly by text message. They never spoke English in front of their children. One Iraqi employee slept in his car in the Green Zone parking lot for several nights, because it was too dangerous to go home.

(Packer 2007)

Queste storie hanno indubbiamente dell‘incredibile, rivelano un paradosso che esiste fuori e dentro la Zona Verde. L‘assurdità della situazione ha maggiori ripercussioni su quegli iracheni che si sono prestati a lavorare fianco a fianco con gli americani, ma che si trovano a rischiare la vita grazie al senso di diffidenza che pervade i loro datori di lavoro. La situazione si aggrava fortemente nel momento in cui persino i loro connazionali assumono lo stesso atteggiamento.

L‘interprete ventiseienne sciita Hussein è la persona che facilita i contatti tra gli americani e i sadristi. Per descrivere la condizione in cui lavora, Hussein ricorre all‘ironia della metafora: ―I‘m James Bond, without the nice lady or the famous gadgets.‖ (Packer 2007) La sua vita è senz‘altro paragonabile a una vita da fantasma, che vive con la valigia in mano, pronto a scappare ogni volta che qualcuno è vicino a scoprire il suo lavoro. La vita dei collaboratori iracheni si trasforma in una vita di isolamento, quasi una schizofrenica bipartizione della personalità; una bipartizione della vita pubblica e privata, necessaria per la sopravvivenza. Una situazione del genere ben presto sfocia in una completa cancellazione della vita privata, che si riduce a quella lavorativa. Packer descrive nei minimi particolari la vita che Hussein è costretto a condurre per proteggersi:

He[Hussein] worked out of a series of rented rooms, seldom going out in public, relying on his cell phone and his laptop, keeping a small ―runaway bag‖ with him in case he needed to leave quickly (a neighbor once informed him that some strangers had asked who lived there, and Hussein moved out the same day). Every few days, he brought his laundry to his parents‘ house. He stopped seeing friends, and his life winnowed down to his work. ―You have to live two separate lives, one visible and the other one invisible,‖ Hussein told me when we spoke in Erbil. (He insisted on meeting in Kurdistan, because there was nowhere else in Iraq that he felt safe being seen with me.) ―You have to always be aware of the car behind you. When you want to park, you make sure that the car passes you. You‘re always afraid of a person staring at you in an abnormal way.‖ (Packer 2007)

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12 Alcune minacce ricevute da Hussein lo portano a concludere che: ―The stamp that comes to you will never go—you will stay a spy.‖ (Packer 2007) La prima è una scritta sulla porta di casa, seguita da un biglietto dello stesso contenuto: ―Leave your job or we‘ll kill you.‖ (Packer 2007) La terza arriva puntualmente a dicembre, a seguito dell‘uccisione del leader della milizia locale, uno dei contatti di Hussein. Il solo fatto di aver lavorato come interprete per gli americani basta per trasformare Hussein nel bersaglio di minacce e sospetti. Hussein si vede costretto a valutare l‘ipotesi di lasciare l‘Iraq dopo che il suo supervisore si dimostra indifferente alle intimidazioni da lui denunciate. Come Hussein stesso afferma, il destino dei collaboratori è: ―You are now belonging to no side.‖ (Packer 2007)

Questa situazione sfocia in un‘ondata migratoria di iracheni verso i paesi vicini. Packer racconta che nel periodo successivo al giugno del 2006, il numero di iracheni impiegati all‘ambasciata scende drasticamente da nove a quattro. Gli americani fanno fronte a questo effetto migratorio sostituendo il personale iracheno con personale proveniente dalla Giordania. Il loro trattamento, inoltre, si differenzia drasticamente da quello riservato al personale iracheno, poiché i giordani vengono considerati fondamentalmente più affidabili. Packer sottolinea così le maggiori differenze:

The switch was deeply unpopular with the remaining Iraqis, who understood that it involved the fundamental issue of trust: Jordanians could be housed in the Green Zone without fear (Iraqis could secure temporary housing for only a limited time);

Jordanians were issued badges that allowed them into the Embassy without being searched; they weren‘t subject to threat and blackmail, because they lived inside the Green Zone. In every way, Jordanians were easier to deal with. But they also knew nothing about Iraq. (Packer 2007)

In una conversazione con un ufficiale del Dipartimento di Stato, Packer riporta il paradosso di questa decisione, citando la sua dichiarazione:

―I don‘t know why it‘s better to have these people flown into Iraq and secure them in the Green Zone,‖ a State Department official said. ―Why wouldn‘t we bring Iraqis into the Green Zone and give them housing and secure them?‖ He added, ―We‘re depriving people of jobs and we‘re getting them whacked. It‘s not a pretty picture.‖

(Packer 2007)

In questa sezione il giornalista americano nomina il motivo principale che lo ha spinto a indagare sulla situazione dei collaboratori iracheni. L‘evento che lo ha fatto riflettere è

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13 la pubblicazione di un rapporto intitolato ‗Public Affairs Staff Show Strains of Social Discord‘, che ha trovato spazio anche sulle pagine del The Washington Post, scritta da un ufficiale del Dipartimento di Stato, in cui viene fatto chiaro riferimento alle responsabilità degli Stati Uniti nei confronti dei collaboratori iracheni. Di questa relazione è una la frase che colpisce il giornalista in modo particolare: ―A few staff members approached us to ask what provisions we would make for them if we evacuate.‖ (Packer 2007) Nella sua prima visita successiva in Iraq, Packer si prefissa l‘obiettivo di scoprire quali sono le intenzioni dell‘amministrazione americana per far fronte alle problematiche sorte con i collaboratori iracheni, e se sono stati elaborati dei piani e strategie per garantire un‘adeguata protezione a queste persone. Il fatto che sorprende il giornalista è che nessun rappresentante dell‘amministrazione americana a Baghdad è disposto a rilasciare interviste e dichiarazioni su questi argomenti. Le dichiarazioni ufficiali, come ha avuto modo di costatare personalmente il giornalista americano, non corrispondono alla reale situazione in cui è immerso il paese:

No one at the Embassy was willing to speak on the record about Iraqi staff, except an official spokesman, Lou Fintor, who read me a statement: ―Like all residents of Baghdad, our local employees must attempt to maintain their daily routines despite the disruptions caused by terrorists, extremists, and criminals. The new Iraqi government is taking steps to improve the security situation and essential services in Baghdad. The Iraq security forces, in coördination with coalition forces, are now engaged in a wide-range effort to stabilize the security situation in Baghdad.[…]

President Bush strongly reaffirmed our commitment to work with the government of Iraq to answer the needs of all Iraqis.‖ (Packer 2007)

Fra i pochi che sono disposti a rilasciare commenti, Packer riesce ad ottenere interviste con due ufficiali che preferiscono mantenere l‘anonimato. Anziché discutere della situazione di emergenza degli iracheni, uno degli ufficiali cita una serie di privilegi di cui godono i collaboratori degli americani: un‘abbondante cena in occasione della festa del ringraziamento, un aumento dello stipendio pari al trentacinque percento. Nel momento in cui la domanda di Packer tocca da vicino le problematiche connesse alla sicurezza, il secondo ufficiale esprime la convinzione che qualora dovessero verificarsi casi estremi, agli iracheni in questione sarà garantito un trattamento adeguato:

When I asked about contingency plans for evacuation, the second official refused to discuss it on security grounds, but he said, ―If we reach that point and have people in danger, the Ambassador would go to the Secretary of State and ask that they be

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14 evacuated, and I think they would do it.‖ The department was reviewing the possibility of issuing special immigrant visas. (Packer 2007)

Il sapore che lasciano a George Packer le suddette interviste è troppo amaro perché si possa accettare. Lui stesso dichiara con fermezza che l‘unico sentimento che ha provato in quegli istanti è stato il senso di vergogna che ha continuato a pervaderlo anche dopo le interviste; è un sentimento che esige una presa di posizione e voglia di agire. Durante questa sua prima visita nella capitale irachena, Packer ha gli strumenti per identificare lo sbaglio più grande commesso dall‘amministrazione americana. Si tratta dell‘esecuzione della guerra e delle priorità su cui essa si basa. A questo proposito, George Packer esprime la sua opinione nei termini seguenti :

The problem lay not with the individuals but with the institution and, beyond that, with the politics of the American project in Iraq, which from the beginning has been conducted under the illusion that controlling the message mattered more than the reality. (Packer 2007)

La sezione intitolata The heart of your allies racconta del periodo successivo al bombardamento alla moschea di Samarra nel 2006. Packer descrive una Baghdad deserta e spaccata in due dagli scontri fra insorti sciiti e sunniti. È questa la realtà in cui circa quaranta mila persone al mese si vedono costrette a partire per la Siria o la Giordania. La pulizia su basi etniche e religiose non fa che contribuire ad aumentare i flussi migratori. Se per la popolazione civile questa situazione è difficile da gestire, per gli interpreti iracheni essa sconfina nella pura follia. Gli interpreti intervistati da Packer – Ali, Firas e Ahmed – raccontano di una vita appesa a un filo sottile, una vita da facile preda in cui vivere o morire è quasi la stessa cosa.Firas paragona la paura a un senso di agghiacciante, apatica attesa della morte, nei confronti del quale l‘unica via ragionevole di uscita è concentrarsi meccanicamente sul lavoro:

Just going to work in the morning required an extraordinary ability to disregard danger. Panic, Firas realized, could trap you: when the threat came, you felt you were a dead man no matter where you turned, and your mind froze and you sat at home waiting for them to come for you. In order to function, Firas simply blocked out the fear. ―My friends at work became the only friends I have,‖ he said. ―My entertainment is at work, my pleasure is at work, everything is at work.‖ (Packer 2007)

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15 Nel periodo successivo al bombardamento alla moschea di Askariya (22.02.2006), il quartiere di Ahmed si trova sotto il comando dei sadristi, che effettuano continui controlli ai posti di blocco. In diverse occasioni, Ahmed viene fermato da sconosciuti che vogliono informarsi sul suo stato di salute. Ahmed ricorda di una sera in cui durante una conversazione con l‘ufficiale americano con cui lavora, Oliver Moss, Ahmed sente una frase che suona come una condanna: ―Ahmed, I know you work for us, but if something happens to you we won‘t be able to do anything for you.‖ (Packer 2007) Questa frase sintetizza la situazione generale dei collaboratori iracheni. Nonostante Ahmed avesse richiesto un posto letto nella Zona Verde, esso gli è stato rifiutato.

In un secondo momento Ahmed racconta dell‘esperienza che lo ha visto protagonista di un episodio che finisce per costargli il lavoro. Ahmed viene contattato da un membro del parlamento sciita che gli chiede il favore di indagare su un membro dell‘Esercito del Mahdi, detenuto dagli americani. Ahmed ricorda che questo tipo di favore non era raro, ed era un modo per dimostrare diponibilità verso i propri connazionali. Ahmed usa la sua posizione per fornire le informazioni richieste dal suo conoscente, ma viene scoperto e viene costretto ad affrontare la macchina della verità. L‘addetto alla sicurezza all‘epoca è Barry Hale, che sottopone Ahmed a un interrogatorio di un‘ora e mezza in cui cerca di dimostrare la sua colpevolezza e smascherarlo come traditore. Il consigliere politico Robert Ford riesce ad evitare il licenziamento ad Ahmedm, ma in seguito alla sua partenza, Hale riesce comunque a farlo licenziare, grazie anche a Margaret Scobbey, la sostituta di Robert Ford dopo la sua definitiva partenza. Anche in questa occasione gli americani dimostrano di non conoscere l‘Iraq nel modo in cui dovrebbero; Ahmed viene licenziato perché sospettato di passare informazioni ai sadristi, i quali lo ucciderebbero se sapessero per chi in realtà lavora. Il caso di Ahmed viene archiviato in fretta e furia per motivi di ―privacy and security.‖ (Packer 2007) Si legge l‘amarezza nelle parole di Firas quando conclude che, nonostante tutto, gli iracheni saranno sempre e comunque dei traditori agli occhi degli americani. L‘esperienza con gli americani in cui hanno sacrificato tutto li porta adesso a sentirsi completamente abbandonati alla loro sorte:

―I think the U.S. is still in a war. I don‘t think you‘re going to win this war if you don‘t win the hearts of your allies[…]For Firas, it meant that, no matter how long he worked with the Americans and how many risks he took, he, too, would ultimately be discarded. He began to tell himself, ―My turn is coming, my turn is coming‖—a perverse echo of his mantra before the fall of Saddam. The Iraqis now felt that, as Ali said, ―Heaven doesn‘t want us and Hell doesn‘t want us. Where will we go?‖ If the Americans were turning against them, they had no friends at all. (Packer 2007)

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16 In un incontro con l‘ambasciatore Zalmay Khalilzad, a cui è presente anche Firas, gli iracheni chiedono un intervento risolutore. L‘ambasciatore risponde con una frase che suscita rabbia e indignazione: ―We want the good Iraqi people to stay in the country.‖

(Packer 2007) Durante questo incontro Firas è l‘ultimo ad esprimere la sua opinione.

Nella sua affermazione è sintetizzata la disperazione che ogni giorno vivono gli iracheni: We are tense all the time, we don‘t know what we are doing, right or wrong.

Some Iraqis are more afraid in the Embassy than in the Red Zone.‖ (Packer 2007) La penultima sezione, Johnson’s list, si apre con la testimonianza di Yaghdan, un altro collaboratore iracheno. Yaghdan racconta della terribile esperienza di aver trovato un biglietto con la scritta in arabo: ―We will cut off heads and throw them in the garbage‖ (Packer 2007), davanti alla porta del garage di casa sua, accompagnata dalla testa mozzata di un cane. Questo è un chiaro messaggio da parte degli insorti che hanno scoperto il suo legame con gli americani. Nel momento in cui Yaghdan si rivolge all‘USAID per cercare aiuto, in cambio gli viene offerta una sistemazione provvisoria nella Zona Verde per un periodo non superiore a sei mesi. Yaghdan si vede costretto a lasciare l‘Iraq e trasferirsi a Dubai. A Dubai Yaghdan e la sua giovane moglie cercano di ricominciare una nuova vita. Yaghdan inizia a cercare un lavoro, ma presto il suo entusiasmo sfuma davanti alla realtà con la quale si trova a scontrarsi. I suoi colloqui di lavoro hanno sempre lo stesso esito negativo. Anche fuori dall‘Iraq sembra essersi diffusa la convinzione che gli iracheni che hanno collaborato con gli americani siano dei traditori:

―Did you work in the U.S.?‖ the interviewer asked him. Yaghdan said that his work had been in Iraq. ―Oh, in Iraq . . .‖ He could feel the interviewer pulling back. A man at another office said, ―Oh, you worked against Saddam? You betrayed Saddam? The American people are stealing Iraq.‖ Yaghdan, who is not given to bitterness, finally lost his cool: ―No, the Arab people are stealing Iraq!‖ He didn‘t get the job. He was amazed—even in cosmopolitan Dubai, people loved Saddam, especially after his botched execution, in late December. Yaghdan‘s résumé was an encumbrance. Iraqis were considered bad Arabs, and Iraqis who worked with the Americans were traitors.

(Packer 2007)

Nel periodo in cui Yaghdan incontra Packer, il suo visto sta per scadere. Per rinnovarlo Yaghdan va ad Amman dove incontra Packer. Presto si viene a sapere che gli Emirati

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17 Arabi non concederanno più visti agli iracheni. Nel frattempo Yaghdan riceve un offerta di lavoro in Qatar, ma il paese non gli concederà un visto se non è in possesso di un permesso rilasciato dal Ministero degli Interni iracheno che in quel periodo è nelle mani dei leader sciiti da cui sono arrivate le minacce a Yaghdan. L‘unica sua possibilità di scampo è ricevere un‘offerta di lavoro negli Stati Uniti, cosa al momento impossibile.

Yaghdan si trova costretto a tornare in Iraq dato che le vie legali per ottenere un visto si sono di colpo esaurite. Davanti a questa possibilità, Yaghdan afferma: ―It‘s like taking the decision to commit suicide.‖ (Packer 2007)

In questa sezione Packer riserva uno spazio alla figura di Kirk Johnson, l‘ufficiale della USAID prima operante a Baghdad, e poi a Fallujah. In seguito ad una caduta dalla finestra dell‘albergo in cui risiedeva, probabilmente causata dal forte disturbo psichico ed emotivo provocatogli dall‘esperienza in Iraq, si trasferisce a Boston, dove inizia la sua attività di sostegno agli iracheni abbandonati. Johnson prende seriamente la storia di Yaghdan, che aveva conosciuto a Baghdad, e decide di impegnarsi per aiutarlo. La prima cosa che fa è scrivere al membro del Congresso, Dennis Hastert, che purtroppo non può aiutarlo. Johnson scrive un articolo che viene pubblicato sul Los Angeles Times, dopodiché un suo collega a Baghdad diffonde la notizia. Da allora sono in molti gli iracheni che cercano un contatto con Johnson. Presto la lista che contiene i nomi degli iracheni che si nascondo in diversi paesi conta più di mille nomi. Johnson decide di portare questa lista e le prove delle minacce fornitegli dagli iracheni a Washington.

Un collega di Johnson che all‘inizio si era dimostrato scettico nei confronti della sua impresa, conclude: ―Interesting what a snowball rolled down a hill can cause. This is your baby. Good going.‖ (Packer 2007) Gli sforzi e l‘impegno di Johnson danno i loro frutti; il governo americano si impegna a fornire un visto speciale agli iracheni che hanno collaborato con gli americani. Fra le altre promesse c‘è quella di garantire l‘ingresso a circa due o tre milioni di iracheni negli Stati Uniti, stanziando diciotto milioni di dollari per progetti come questo. La lista di Johnson pone solide basi per un graduale miglioramento della loro situazione. Sebbene uno dei suoi colleghi gli faccia notare che accogliere migliaia di iracheni significherebbe ammettere il fallimento, Johnson risponde a Packer citando Gerald Ford e la guerra in Vietnam:

―This is the brink right now, where our partners over there are running for their lives,‖ he [Johnson]said. ―I defy anyone to give me the counter-argument for why we shouldn‘t let these people in.‖ He quoted something that President Gerald Ford once said about his decision to admit a hundred and thirty thousand Vietnamese after the

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18 fall of Saigon: ―To do less would have added moral shame to humiliation.‖ (Packer 2007)

L‘ultima sezione dell‘articolo packeriano si intitola Evacuation. In quest‘ultima parte il giornalista americano traccia un paragone con la situazione in Vietnam nel 1975.

Il giornalista racconta della campagna promossa da Al Jazeera attraverso la diffusione di un filmato che documenta il modo in cui anziani e bambini sono stati respinti dai militari americani durante l‘evacuazione di Saigon dell‘aprile 1975. Il video è un chiaro tentativo intimidatorio rivolti ai collaboratori americani, in quanto prefigurazione del loro destino:

In 2005, Al Jazeera aired a typically heavy-handed piece about the American evacuation from Saigon, in April, 1975, rebroadcasting the famous footage of children and old people being pushed back by marines from the Embassy gates, and kicked or punched as they tried to climb onto helicopters. The message for Iraqis working with Americans was clear, and when some of those who worked at U.S.A.I.D. saw the program they were horrified. The next day at work, a small group of them met to talk about it. ―Al Jazeera has their own propaganda. Don‘t believe it,‖

said Ibrahim, the Iraqi who is now hiding out in Cairo. (Packer 2007)

Packer ha avuto modo di intervistare Frank Snepp, capo analista della CIA all‘ambasciata americana a Saigon. Nel suo libro Decent Interval, uscito nel 1977, Snepp parla dell‘inadeguata pianificazione dell‘evacuazione di Saigon. Nel libro è pubblicata anche una foto di Snepp scattata tre giorni dopo l‘evacuazione nel Mar Cinese Meridionale. Alla domanda di Packer su che cosa pensasse nel momento in cui è stato immortalato, Snepp risponde:

―I was overwhelmed with guilt,‖ he said. ―I kept hearing the voices on the C.I.A.

radios of our agents in the field, our Vietnamese friends we wouldn‘t be able to rescue. And I had to understand how I had been made a party to this. I had been brought up in the Old South, in a chivalric tradition that comes out of the Civil War—you do not abandon your own. And that‘s exactly what I had done. It hasn‘t left me to this day.‖ (Packer 2007)

Tracciando il paragone tra l‘Iraq e il Vietnam, Packer è convinto che la situazione irachena sia molto più disperata da quella in Vietnam. Un primo motivo è il fatto che, mentre in Vietnam gli americani avevano instaurato un rapporto umano con i vietnamiti – avevano amici, fidanzate, mogli – in Iraq il rapporto si basa solamente su rapporti di lavoro. Gli americani in Saigon, Snepp incluso, avevano più volte rischiato la vita per

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19 salvare i vietnamiti; in Iraq, dice Packer: ―Americans in Baghdad don‘t have such discipline problems.‖ (Packer 2007) È molto più facile per la politica americana rifiutare di assumersi le responsabilità del caso: come spiega Packer: ―It‘s easier for the U.S. government to leave them to their fate while telling itself that ‗the good Iraqis‘ are needed to build the new Iraq.‖ (Packer 2007) A proposito della sua opinione sulla situazione irachena Snepp risponde con fermezza:

―If they want to keep their conscience clean, they better start making lists of people they must help,‖ he said. ―They should also not be cautious in questioning their superiors, and that‘s a very hard thing to do in a rigid environment.‖ (Packer 2007)

In un‘intervista realizzata da Packer con Richard Armitage, Vicesegretario di Stato di Colin Powell, emerge la convinzione che accogliere un gran numero di iracheni negli Stati Uniti significherebbe tradire la politica del presidente Bush. In più, sussiste il fattore della paura suscitata dal terrorismo islamico, una teoria che Bush ha alimentato con tutte le sue forze:

When I met Armitage recently, at his office in Arlington, Virginia, he was not confident that Iraqis would be similarly resettled. ―I guarantee you no one‘s thinking about it now, because it‘s so fatalistic and you‘d be considered sort of a traitor to the President‘s policy,‖ he said. ―I don‘t see us taking them in this time, because, notwithstanding what we may owe people, you‘re not going to bring in large numbers of Arabs to the United States, given the fact that for the last six years the President has scared the pants off the American public with fears of Islamic terrorism.‖ (Packer 2007)

Mentre Packer si trova ancora a Baghdad, l‘amministrazione americana presenta un nuovo piano per ristabilire il paese. Fra le priorità di questo nuovo progetto sono stabilire la pace tra i gruppi di insorti, convincere le famiglie sfollate a ritornare nelle loro case, garantire nuovi posti di lavoro. Il colonello Steven Miska confessa a Packer che questa nuova strategia è un ―an attempt to get Americans off the big bases and into Iraqi neighborhoods, where they would occupy small combat outposts on the fault lines of sectarian conflicts and, for the first time, make the protection of civilians a central goal.‖ (Packer 2007) Packer fa notare che questa nuova strategia è in contrasto con la linea seguita dall‘amministrazione in precedenza. Questo nuovo piano deve comunque scontrarsi con alcuni possibili ostacoli. Uno di essi viene definito in questi termini da un ufficiale che ha trascorso gli ultimi tre anni in Iraq:

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―The success of the American strategy is based on a premise that is fundamentally flawed,‖ he said. ―The premise is that the U.S. and Iraqi governments are working toward the same goal. It‘s simply not the case.‖ Shia politicians, the official said, want ―to hold on to their majority as long as they can.‖ Their interest isn‘t democracy but power. Meanwhile, Sunni politicians want ―to say no to everything,‖ the official said; the insurgency is politically intractable. (Packer 2007)

Un secondo ostacolo individuato da Packer sta nel fatto che la guerra in Iraq si è ormai trasformata in un argomento tedioso per l‘opinione pubblica statunitense. Packer riporta le parole dell‘opinionista Charles Krauthammer che vede negli iracheni il vero motivo del fallimento della guerra: ―We midwifed their freedom. They chose civil war.‖

L‘opinione è condivisa anche da John Edwards, candidato del partito democratico, che si esprime nei termini seguenti:

―We‘ve done our part, and now it‘s time for them to step up to the plate,‖ he recently told this magazine. ―When they‘re doing it to each other, and America‘s not there and not fomenting the situation, I think the odds are better of the place stabilizing.‖

America is pulling away from Iraq in the fitful, irritable manner of someone trying to wake up from an unpleasant sleep. (Packer 2009)

Se la guerra irachena è paragonabile ad un brutto sogno, come afferma un ufficiale dell‘ambasciata che Packer incontra nell‘ultimo giorno trascorso a Baghdad, è il giornalista americano ad affermare che tuttavia, al risveglio migliaia di iracheni che hanno aderito al progetto americano non possono più vivere nel loro paese.

La Svezia è il paese che ha aperto i confini agli iracheni; dall‘inizio della guerra sono circa ventimila gli iracheni partiti per la Svezia. Packer incontra Firas a Malmö, dove lui e Ahmed, come tanti altri iracheni, sperano di iniziare una nuova vita. Firas era convinto che l‘arrivo degli americani in Iraq avrebbe significato l‘inizio di una nuova vita nel suo paese, ma la realtà dei fatti lo ha costretto a rinascere una seconda volta, sperando di ritrovare la normalità che ha sempre sognato:

When I joked that he would be bored living here, he laughed grimly and said, ―Good.

I want to be like other people—normal. How long before I can be afraid or shocked?

There is nothing that makes me afraid or shocked anymore.‖(Packer 2007)

Il finale è probabilmente la parte più importante dell‘intero articolo. Quello che colpisce è che nonostante tutto nelle parole degli iracheni non si legge un senso di tradimento,

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21 non traspare una nota di rabbia o voglia di vendetta. Alla domanda di Packer se Firas si sente tradito dagli americani, egli dà una riposta inaspettata che colpisce più di qualsiasi altra punizione:

―I have this nature—I don‘t expect a lot from people,‖ Firas said. ―Not betrayed, no, not disappointed. I can never blame the Americans alone. It‘s the Iraqis who destroyed their country, with the help of the Americans, under the American eye.‖ I was about to say that he deserved better, but Firas was lost in thought. ―To this moment,‖ he said, ―I dream about America.‖ (Packer 2007)

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