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Un marziano all Ariston. Mahmood tra televisione, musica, politica e identità (doi: /94687)

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Luca Barra, Giacomo Manzoli, Marco Santoro, Marco Solaroli

Un marziano all’Ariston. Mahmood tra televisione, musica, politica e identit` a

(doi: 10.1405/94687)

Studi culturali (ISSN 1824-369X) Fascicolo 2, agosto 2019

Ente di afferenza:

UNIVERSITA STUDI CAGLIARI BIBLIOTECA (unicadm)

Copyright c by Societ`a editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati.

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Licenza d’uso

L’articolo `e messo a disposizione dell’utente in licenza per uso esclusivamente privato e personale, senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali. Salvo quanto espressamente previsto dalla

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Un marziano all’Ariston

Mahmood tra televisione, musica, politica e identità

di Luca Barra, Giacomo Manzoli, Marco Santoro, Marco Solaroli

A Martian in Sanremo. Mahmood between television, music, politics and identity

This paper deals with the 2019 Sanremo Music Festival’s winner, Mahmood. By briefly reconstructing the multiple discursive frames and media debates around his success, as well as their performative effects, this case study offers the possibility to shed some light on some deeper ongoing transformations happening through Italian popular culture and national identity, and on the roles played by «second generation» Italian artists (with im- migrant parents). In particular, the paper pays attention to four major dimensions: lyrics, music, television and (social) media, and politics. On this basis, the work suggests further research on «trans-national-popular» culture and TV music festivals as political media rituals.

Keywords: Festival, Sanremo, Television, Music, Immigration, Identity

Non esiste identità che sia senza una relazione dialogica con l’Altro.

L’Altro non è solo all’esterno, ma anche all’interno del sé, dell’identità.

Stuart Hall

1. Introduzione. Il «caso Mahmood»

È possibile interpretare la vittoria di Mahmood nella 69a edizione del Festival di Sanremo (2019) e il conseguente, dibattuto successo non soltanto musicale del personaggio come sintomo di più ampie e profonde trasformazioni in corso nel- la cultura (non solo popular) italiana e nel concetto stesso di identità nazionale italiana? Le prossime pagine offrono una sintetica analisi del «caso Mahmood», un esempio significativo di cortocircuito, condensazione e rifrazione di molteplici conflitti discorsivi e tensioni interpretative incorporatesi in un ventiseienne di

Questo articolo è frutto di un progetto di ricerca congiunto e di un confronto intellettuale che ha coinvolto i quattro autori in misura uguale. Per sole ragioni formali, si segnala che Luca Barra ha scritto il § 3, Giacomo Manzoli il § 2, Marco Santoro i §§ 1 e 5, Marco Solaroli il § 4.

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nome Alessandro, nato in Italia da madre sarda e padre egiziano, residente a Gra- tosoglio, quartiere popolare della periferia milanese e (co)autore di una canzone,

«Soldi», in cui al ritmo di un beat originale e ipnotico e una melodia accattivante ma tutt’altro che cantabile, denuncia l’ipocrisia del padre che ha abbandonato la famiglia e si ripresenta solo per esigenze economiche. Consacrata dalla «critica»

apparentemente contro il parere «popolare», la performance di Mahmood ha ge- nerato un ampio dibattito pubblico, con interventi di noti esponenti del mondo politico, intellettuale, artistico e perfino religioso italiano. La canzone e il suo cantore sono stati rapidamente premiati anche dagli ascoltatori, e (ri)assorbiti e (re)inquadrati da televisione e altri media, fino alla partecipazione di succes- so (con un secondo posto), in rappresentanza dell’Italia, all’Eurovision Song Contest 2019 a Tel Aviv, in una operazione che potrebbe ben definirsi non solo gramscianamente nazional-popolare ma, adottando un termine che sarà ripreso in seguito, «trans-nazional-popolare».

Al di là delle polemiche della prima ora, il caso Mahmood offre la possibilità di approfondire il ruolo delle forme musicali, della televisione di intrattenimento e dei linguaggi mediali contemporanei all’interno dei processi sociali, politici e mediali di produzione, circolazione e riarticolazione discorsiva dell’«identità» na- zionale (culturale, territoriale, storica, etnica, perfino «razziale») italiana, in rapporto a un’«alterità» definita, specie nel discorso politico dominante, in modo generico.

Tale contrapposizione, intrisa di implicazioni sociali e politiche, è particolarmente evidente nei processi di rappresentazione mediale e costruzione identitaria di una generazione di giovani cantanti e musicisti italiani, di crescente successo, etichettati primariamente come «immigrati», «figli di immigrati», di «seconda generazione».

Appuntamento annuale, insieme televisivo e musicale, il Festival di San- remo continua infatti a occupare una posizione di rilievo nell’immaginario po- polare italiano, quale grande cerimonia mediale (Dayan e Katz 1995) attraverso cui si sostanzia, in modo piuttosto banale e per questo importante (Billig 1995), la «comunità immaginata» nazionale (Anderson 1991) degli italiani1. Dalla sua nascita, nel 1951, Sanremo è un rito, un luogo di negoziazione, confronto, e talora scontro, tra tradizione e innovazione, inerzia e mutamento, non solo nel campo delle canzoni o dell’intrattenimento televisivo, ma in quello intellettuale e in senso ampio culturale. Per questa funzione, il festival ligure è concepibile da un lato come istituzione se non proprio politica almeno politicamente rilevante, dispositivo di produzione di egemonia nella sfera pubblico-mediale, e dall’altro come arena o meglio palcoscenico in cui si combattono «lotte simboliche» e si negoziano valori, confini e gerarchie culturali.

1 Sul Festival di Sanremo si vedano tra gli altri Anselmi 2009; Borgna 1997; Facci e Soddu 2011;

Campus 2015; Tomatis 2019. Manca a oggi uno studio critico e sistematico di un’istituzione centrale della vita culturale italiana.

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La scelta di un palco come quello dell’Ariston, il cinema-teatro in cui si svolge dal 1977 il Festival di Sanremo, non è quindi mai neutrale – non lo è oggi, come non lo era ai tempi di Luigi Tenco, altro «marziano» approdato al Festival quando ancora questo si teneva al Casinò Municipale, anche lui per cantare come Mahmood gli effetti umani e sociali dell’emigrazione, quando questa riguardava gli italiani. Era il 1967, e da quell’edizione tragica prese il via quella intellettualiz- zazione del mondo della canzone italiana che avrebbe portato alla consacrazione della figura del cantautore da un lato e all’invenzione della categoria di canzone d’autore dall’altro – epitome nel campo della musica popular di quelle strategie di distinzione culturale e quindi di appropriazione colta che intorno a Mahmood e alla sua canzone, e a ciò che entrambi possono rappresentare, si sono ancora una volta riannodate (Santoro 2010).

Certo, Mahmood non è stato il primo «italiano di seconda generazione» a calcare il palco di Sanremo, basti ricordare il vincitore dell’edizione 2018, Ermal Meta2, cantautore di origini albanesi, e che Malika Ayane, di padre marocchino, aveva ottenuto il secondo posto nel 2009, per vincere l’anno successivo il Premio della critica. Ma è solo con la vittoria di Mahmood che la questione dell’identità nazionale (ed etnica, forse persino religiosa) ha acquisito un esplicito significato politico, complice anche – ci limitiamo qui a indicarla come ipotesi di ricerca, peraltro banale – la congiuntura politica che vede al governo, come potente e seguitissimo ministro dell’interno nonché vice-presidente del consiglio, un campione del fronte sovranista e anti-immigrazione. Le prossime pagine si pro- pongono dunque di suggerire un’interpretazione critica del processo conflittuale e apparentemente contradditorio di costruzione dell’alterità musicale, culturale- etnica e politica del vincitore dell’ultima edizione di Sanremo, considerato un palcoscenico anche metaforico che periodicamente svolge un rilevante ruolo performativo, rituale e politico nel processo di costruzione identitaria nazionale.

2. Discorsi (inter)testuali e immaginario contemporaneo

Un piccolo passo indietro. Il 1o gennaio 2016 esce sugli schermi cinematografici italiani la commedia Quo vado?, diretta da Gennaro Nunziante e scritta e inter- pretata dall’attore comico Luca Medici, meglio conosciuto come Checco Zalone.

Il film polverizzerà ogni record, diventando – con oltre 65 milioni di euro al box office – il film che ha meglio incassato sul mercato italiano in senso assoluto (superando perfino Avatar di James Cameron). La storia racconta di un italiano

2 Peraltro in coppia con l’italianissimo Fabrizio Moro (non un dettaglio). Vale la pena ricordare che molti anni prima, nel 1978, aveva partecipato a Sanremo anche Anna Oxa, di padre albanese (il cui vero cognome è Hoxha).

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pervicacemente ancorato alle sue radici etniche, precisamente pugliesi, ovvero saldamente legato al mito del «posto fisso», a tempo indeterminato. Per non rinun- ciare al privilegio tipico della Prima Repubblica, l’uomo inseguirà il posto fisso – rivelatosi mobilissimo – in giro per il mondo. A un certo punto, in Norvegia, un sentimento amoroso lo rende particolarmente predisposto all’integrazione con la gelida e civilissima popolazione del posto. Zalone è fermamente intenzionato a diventare norvegese, si fa crescere un pizzetto biondo, impara la lingua locale e rispetta tutti i dettami del politicamente corretto di quel paese remoto ed educato.

Finché una sera, all’improvviso, la tv gli porta davanti agli occhi (e alle orecchie) la performance sanremese della ricostituita coppia canora composta da Albano Carrisi e Romina Power, che nell’inverno del 2015 erano tornati a cantare Feli- cità sul palco dell’Ariston. La visione di questa coppia (peraltro internazionale), divenuta uno degli emblemi della canzone italiana più nazional-popolare, fa commuovere Checco fino alle lacrime e apre una crepa da cui prorompe tutta la sua profondissima identità culturale nazionale così radicalmente negata e repressa.

Da quel momento si avvia una spirale regressiva fatta di cibo italiano, suonate di clacson, parcheggi in doppia fila e rimpianto nostalgico per la patria lontana.

Alla fine, il protagonista lascerà il posto fisso e troverà un punto di compromesso fra la propria «italianità» tradizionale e la sua proiezione in uno scenario globale, facendo una figlia, nata in Africa e destinata a crescere lontano da una patria tale solo per lo ius sanguinis, con fratelli e sorelle meticci, mentre i genitori si impegnano in programmi di cooperazione internazionale.

Tre anni dopo, la notte del 9 febbraio 2019, la 69a edizione del Festival di Sanremo proclamava la canzone vincitrice e attribuiva il premio al brano «Soldi»

cantato da Mahmood, pseudonimo di Alessandro Mahmoud (con il dittongo «ou»

che diventa «oo», in un anglismo che in parte esplicita il significato emergente dalla pronuncia, «my mood»), e scritta dallo stesso cantante assieme al musicista Dardust (alias Dario Faini) e al produttore Charlie Charles (alias Paolo Alberto Monachetti). Dario Faini, nato ad Ascoli Piceno nel 1976, è stato autore di brani per buona parte dei principali artisti pop italiani contemporanei ed era presente in gara anche con il brano degli Ex-Otago, «Solo una canzone». «Soldi» segue una linea melodica tradizionale, innovandola con un ritmo dance, influenze arabeg- gianti (che sono ulteriormente enfatizzate nel cantato, «vocina in stile un po’

muezzin», come la definisce lo stesso Mahmood3) e un arrangiamento ironico in cui particolare attenzione è dedicata al cosiddetto drop (la parte intermedia, che lancia la parte «da ricordare» del brano) e a elementi ritmici come il clap, l’ap- plauso, che nella performance dal vivo viene fatto dall’orchestra, con notevole effetto scenografico. Dal punto di vista del testo, invece, la canzone presenta una scrittura abbastanza vicina a quella del rap, con una metrica instabile, che

3 www.youtube.com/watch?v=P0b_9nYeGcs (ultimo accesso: 1 luglio 2019).

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non di rado inserisce settenari che diventano novenari o novenari che diventano endecasillabi grazie alla ripetizione di alcune parole brevi («soldi, soldi» oppure

«tardi, tardi») e rime baciate o alternate spesso forzate per funzionare anche con assonanze ardite e parole straniere («Ramadan» con «Jackie Chan»…). Ma il ritmo con cui i versi sono scanditi non sembra appartenere alla tradizione rap, ammette il cantante a Vanity Fair prima del Festival (1/2/2019): «Sono un cantautore…

moroccan pop. Che genere faccio? Pop, rap, indie? Quello che mi distingue sono le sonorità mediorientali che affiorano qua e là. A 5 anni ascoltavo le cassette di musica araba di mio padre e Lucio Battisti».

La generale descrizione, dalle venature fortemente autobiografiche, del rapporto fra padre e figlio, che costituisce l’ossatura di «Soldi» era già stata al centro del brano «Gioventù bruciata» che gli aveva regalato la vittoria a Sanremo Giovani4. Entrambe le canzoni presentano un testo in seconda persona, scritto rivolgendosi al padre assente, e mischiano elementi di biografia familiare (come l’autore sottolinea spesso) con un campionario di sensazioni riconducibili alla costante alternanza fra nostalgia della figura paterna (il caro ricordo infantile), risentimento per l’abbandono (l’accusa di tradimento e ipocrisia) e commossa gratitudine per la madre disposta al sacrificio e al sostegno. La vicinanza fra le due canzoni è tale da far pensare a un dittico: dove l’elemento dello scontro fra culture affiora con forza nell’impietoso raffronto fra «santità» della madre (italiana) e pes- simo comportamento di un padre che dissemina figli in quattro diversi matrimoni («Gioventù bruciata») e si ricorda dei figli solo quando si tratta di soddisfare bisogni materiali («Volevi solo soldi, soldi, soldi», nella canzone più recente, e «Correvi nel deserto con lo zaino Invicta ma / non serve correre se oltre i soldi, non hai più fiato, né felicità» in quella del 2018). Tuttavia, se l’italianità della madre resta un elemento puramente paratestuale (peraltro, è sempre indicata come «sarda»

in tutte le interviste), il richiamo alle origini arabe si intensifica e quello che al principio è il desiderio di «fare un tuffo nel Mar Rosso» diventa l’inserimento di una frase in arabo («Waladi waladi habibi ta’aleena», «figlio mio, figlio mio, amore, vieni qui») che Mahmood teme di non pronunciare correttamente dato che non parla la lingua. In definitiva, se da un lato è innegabile che emerge una diffidenza strutturale verso gli elementi della cultura araba di cui è portatore il pessimo padre del protagonista dei due brani5, dall’altro lato traspare pure un elemento di chiaris- sima fascinazione per la patria paterna immaginaria e fortemente standardizzata.

Alla quale si accompagna una volontà di riappropriazione di un versante delle proprie origini al contempo dolcemente familiare e brutalmente estraneo, fino a qualcosa che potremmo quasi definire «l’invenzione di una tradizione familiare».

4 Lo stesso tema era al centro della canzone con cui Ermal Meta si era fatto conoscere come solista al pubblico italiano nel 2014 (Lettera a mio padre).

5 Sul tema dell’assenza della figura paterna, già centrale negli studi sulle subculture urbane e sulle dimensioni socio-strutturali della cultura, anche artistica, afroamericana, cfr. Harris 2002.

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Il tutto inscritto nel frame di una condizione disagiata e marginale («In periferia fa molto caldo» e «Che ne sanno loro della violenza» sono gli incipit delle due canzoni) che peraltro Mahmoud (con il dittongo) si premura di normalizzare nelle interviste, dove chiarisce di aver avuto normali infanzia e adolescenza da working class, circondato comunque dall’affetto della numerosa famiglia materna, ma che nei testi pare funzionale a dare sostanza all’espressione di un dolore e a un processo che tecnicamente è di auto-vittimizzazione (indipendentemente dal fatto che sia motivato o meno).

3. Discorsi televisivi e mediali

L’inattesa vittoria di Mahmood a Sanremo ha dato origine a un intrico di discorsi di vario genere, tanto da far assumere alla sua figura una valenza quasi metafori- ca: quella di un alieno (data anche l’importanza dell’aspetto identitario), o di un

«marziano all’Ariston» (per citare il racconto ormai classico di Flaiano, 1956), che in modo più o meno consapevole è riuscito a mettere in primo piano e a sottoli- neare tutta una serie di dinamiche altrimenti spesso date per scontate, rendendo più esplicite del consueto le forme di mediazione e intermediazione adottate dal sistema televisivo, digitale e mediale nel suo insieme.

Impiegando una chiave di lettura attenta alle forme e alle necessità del lin- guaggio e dell’industria televisiva come alle ondate di un discorso e una narrazione che rimbalzano costantemente tra il piccolo schermo e altri strumenti comuni- cativi, per comprendere meglio il fenomeno Mahmood si possono individuare, abbozzandole brevemente senza pretese di esaustività, quattro principali linee di dibattito, nuclei discorsivi che hanno inquadrato e contribuito a dare forma a un personaggio (un cantante, ma anche una celebrità in fieri) che per la prima volta si affacciava davanti a una platea di massa.

In primo luogo, la vittoria sanremese di Mahmood è stata subito interpretata, nei media, come il riproporsi e rinnovarsi di uno scontro tra élite e massa che da tempo attraversa gli spazi digitali e la discussione politica, contrapponendo i

«pochi», portatori di una competenza o una distinzione, a un mainstream che si confonde con il «popolo». La prevalenza a sorpresa rispetto al vincitore annunciato, il giovane cantante Ultimo, arrivato secondo, e il ruolo cruciale nei meccanismi di valutazione della giuria (chiamata «d’onore») e della sala stampa (composta dai giornalisti accreditati), capaci di modificare il risultato del solo televoto, sono stati ampiamente sottolineati per mettere in evidenza la polarizzazione apparente e il presunto tradimento del desiderio popolare6. Alcune immagini riprese in sala

6 A puro titolo di esempio, si possono citare titoli, di testate cartacee e online, come «Ribaltone a Sanremo», «Sanremo all’ultimo voto ma c’è lo scandalo giuria», «Mahmood vince Sanremo, ma il preferito

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stampa, a sottolinearne sia il tifo sfrenato per Mahmood sia alcuni scontri «a caldo», in coda alla serata finale, con Ultimo e Il Volo, il gruppo terzo classificato, hanno rafforzato ulteriormente il frame. Dopo una prima fase, però, la sottolineatura di tale divaricazione nei gusti è tornata soprattutto per essere puntualmente smentita, grazie all’immediata popolarità del personaggio-Mahmood, ai primi posti in classifica ottenuti sia dal singolo sia dall’album Gioventù bruciata, dai record infranti sulle piattaforme digitali di streaming (Spotify), e ancora dalla validazione del successo passata da un ampio riconoscimento internazionale e dal secondo posto ottenuto all’Eurovision Song Contest di Tel Aviv (per ironia della sorte, stavolta, con un risultato migliore al televoto e leggermente inferiore da parte delle giurie locali)7.

Una seconda chiave di lettura è quella propriamente televisiva, sottolinean- do la dinamica del successo musicale nell’epoca dei talent show (e cercando in qualche modo di ricostruirne, ex post, alla luce dei risultati ottenuti, una specie di «epica» adattata al contemporaneo). Rientrano in tale tipologia discorsiva la frequente enfasi sul famigerato «percorso» compiuto dal cantante, sull’insistenza e sulla convinzione necessarie ad arrivare, finalmente, alla vittoria, proprio come ogni concorrente di un talent, «diamante grezzo» che puntata dopo puntata sarà scoperto fino all’incoronazione finale. Le vicende musical-televisive del futuro vincitore dell’Ariston costituiscono allora una storia nella storia: il tentativo a X Factor, nella sesta edizione (2012), nella squadra di Simona Ventura, durato il tempo del ripescaggio e per una sola puntata; la presenza ancora acerba in un Sanremo Giovani già affollato di futuri vincitori (2016); il ritorno a Sanremo Giovani nel 2018, stavolta coronato da vittoria (e serve notare come anche in questo caso la valutazione di giurie e sala stampa sia stata determinante); e poi, finalmente, l’approdo al Festival. La meccanica del successo, prima per tentativi e poi con un piano di azione più chiaro, va di pari passo con il ruolo dei pro- duttori nella costruzione del progetto musicale e una crescente attenzione alla comunicazione. E subito dopo la vittoria, a coronamento del percorso, sono ancora le istanze più classiche a farsi carico di raccontare e introdurre la figura ancora estranea di Mahmood nell’onnivoro ventre della tv nazional-popolare:

già il giorno dopo la vittoria, il cantante partecipa a due show ai poli opposti del mainstream, la Domenica in di Mara Venier e Che tempo che fa di Fabio Fazio.

Un terzo nucleo discorsivo si è servito invece, in chiave positiva o negativa, di Mahmood come di un simbolo che rappresenta istanze più ampie, e ha messo in primo piano la figura degli interlocutori e le loro logiche specifiche, rispetto alle quali il coinvolgimento del vincitore di Sanremo è strumentale. Da un lato, rientra

dal televoto era Ultimo», o persino «Con Mahmood le élite si prendono la prima grande rivincita dopo il 4 marzo 2018 [data delle elezioni politiche]».

7 Un altro titolo di quotidiano: «Ma non era il pupillo delle élite? Mahmood secondo in Europa, e col televoto».

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in questo filone l’intermediazione giornalistica, di vario genere, che allo stesso modo dei conduttori tv citati si «prende in carico», con tonalità diverse, di presentare il cantante, e soprattutto il personaggio, a una platea più ampia. Si possono citare i settimanali di gossip, impegnati anch’essi nel ribadire una nazional-popolarità acquisita: l’eccezione (confermativa, a suo modo) è quella di Chi, che tenta un outing che però cade nel vuoto, dal momento che non è quella legata al gender la frattura più rilevante nel descrivere la personalità in fieri. O si può indicare il dialogo alla pari, guidato da Antonio Dikele Di Stefano, tra Mahmood ed Enrico Mentana, in un video branded content finanziato da Lavazza (del ciclo Basement Café)8, dove emergono l’aspetto identitario (questo sì, frattura rilevante) e l’inge- nuità generazionale. Dall’altro, anche la politica mediatizzata, sui social e in tv, si appropria subito di Mahmood e, inserendosi tangenzialmente nello scontro pre- sunto tra élite e massa, sottolinea la frattura legata al colore della pelle, all’identità italiana, al rapporto con la nazione, ma anche con la città (Milano) e in particolare con la periferia. Per fare qualche esempio, si inseriscono qui sia il tweet a caldo del vice-premier Matteo Salvini, che dichiara di preferire Ultimo e insinua dubbi sulla canzone «italiana» risultata vincitrice al Festival – «#Mahmood……… mah……… La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto #Ultimo, voi che dite?? #Sanremo2019»

–, sia la risposta indiretta dell’ex compagna Elisa Isoardi, elogio della diversità e dell’incrocio tra culture9. Lo scontro si ricomporrà, qualche settimana dopo, con la presenza congiunta di Salvini e di Mahmood sul palco del Maurizio Costanzo Show e una loro stretta di mano chiesta dal conduttore. Sull’altro versante dello spettro politico, e rispetto all’identità «locale», si segnala la chiacchierata pubblica tra il cantante e il sindaco di centrosinistra di Milano, Beppe Sala.

Infine, attorno alla figura di Mahmood e alla sua vittoria sanremese, si sono articolate poi alcune dinamiche tipiche del discorso negli spazi digitali, puntual- mente ripreso poi dai media di massa, legate ai cicli di indignazione e ai loro possibili correttivi. Qui l’alieno Mahmood è presentato come al centro di imme- diati pregiudizi, legati alla sua figura, al suo corpo e alla sua storia, anche per chi dovrebbe avere gli strumenti giusti per superarli (l’élite è meno élite del previsto);

segue la controffensiva, impetuosa e a volte grossolana, contro il pregiudizio e chi se ne è fatto portatore; infine, solo in seguito e in misura minore, si ristabiliscono in modo lento e inefficace i dati di contesto, a sottolineare come il pregiudizio fosse nato da un equivoco. È successo subito dopo la vittoria a Sanremo, con la diffusione del video di una giornalista che gli chiedeva conto della sua nazionalità, divenuto virale10, ma che risaliva in realtà ad alcuni mesi prima, quando la noto-

8 www.youtube.com/watch?v=JXF1vkuKTIA (ultimo accesso: 1 luglio 2019).

9 Su Instagram, a corredo di una foto del cantante, e rilanciato anche su Twitter: «Mahmood ha appena vinto il festival di Sanremo. La dimostrazione che l’incontro di culture differenti genera bellezza #top #culture».

10 «Cosa c’è che ti manca del tuo paese?» «Il mio paese è l’Italia, sai? Io sono nato qua e cresciuto qua», https://youtu.be/BYeBb1FD1jM (ultimo accesso: 1 luglio 2019).

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rietà di Mahmood era molto inferiore. Ed è successo ancora durante Eurovision, con un video di domande della sala stampa internazionale soprattutto maldestre (alla ricerca di risposte sul testo della canzone non contenute nei materiali lasciati ai giornalisti), montate e tradotte per sottolinearne l’inopportunità e la mancata comprensione delle vicende personali del cantante11.

Anche solo da questa rapida ricognizione di alcuni tra i frame in cui è stata collocata sulla tv e sui media la figura di Mahmood, e sui discorsi sviluppatisi all’interno e in opposizione ai frame, emerge con evidenza la molteplicità di fattori musicali, televisivi, culturali, sociali e politici, tra loro connessi e talora confusi.

Il personaggio «funziona», si impone rapidamente e con successo, anche perché consente il disvelamento di temi al centro del dibattito contemporaneo (i flussi migratori, le forme di cittadinanza, l’identità «razziale» e di genere, le periferie, le nuove famiglie, il rapporto difficile con il padre), ma lo fa in modo almeno apparentemente «semplice», immediato, e per questo più adatto al mainstream.

4. Discorsi musicali e culturali-etnici

Sulla base dei discorsi testuali e mediali finora ricostruiti, si può affermare che una parte significativa del dibattito intorno a Mahmood sia riconducibile al suo statuto di figura liminale, «marziana», fondata sulla percezione pubblica di un’alterità identitaria (artistica e culturale) – in quanto tale potenziale prisma di lettura di mutamenti sociali e culturali in atto. L’intreccio tra discorso mediale e musicale è proseguito anche a distanza di un mese dal Festival, quando il Venerdì di Repub- blica ha pubblicato una copertina dal titolo «Italiani veri», con un approfondimento su «13 musicisti tutti con un po’ di Africa nelle vene ma nati o cresciuti qui», a comprendere Mahmood, il rapper romano Amir (anche lui con padre egiziano e madre italiana) e il rapper romano Rancore (con padre croato e madre egiziana), presente a Sanremo con Daniele Silvestri, con cui ha vinto i premi di critica e sala stampa – confermando una nota strategia di legittimazione culturale del rap nel rapporto con la canzone d’autore italiana (Santoro e Solaroli 2007).

Dal punto di vista musicale, le produzioni di questi artisti, compreso Mah- mood, presentano vari elementi che li pongono in diretta relazione con il campo hip hop. Anche se le scelte metriche e sonore non sembrano strettamente ricondu- cibili alla forma della musica rap, come per Mahmood, le pratiche di produzione culturale appaiono come il risultato di un articolato processo di rielaborazione creativa di tecniche produttive (come l’utilizzo di campioni musicali e l’attenzione

11 www.youtube.com/watch?v=4Zy7rbZ9lyg (ultimo accesso: 1 luglio 2019). Il titolo del video, confezionato da Repubblica.it, è «Le domande assurde dei cronisti a Mahmood all’Eurovision: “Vivi ancora nel ghetto?”».

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alla struttura metrica in rima) e temi narrativi ascrivibili al campo hip hop, e di convenzioni musicali tipiche di un più ampio insieme di forme di musica «black»

assimilabili sotto l’etichetta di «race music» (Ramsey 2003). Ricontestualizzando il termine originariamente coniato per indicare l’identità «razziale» della musica nera negli anni Venti del Novecento, l’espressione può essere oggi mobilitata in riferimento a «diversi generi musicali del secondo dopoguerra, inclusi il jazz, il gospel, il rhythm and blues, e le loro evoluzioni stilistiche» (ivi, 3). Anche il mi- lieu sociale e artistico di Mahmood rivela un grado di forte vicinanza, se non di diretta appartenenza, al campo hip hop: il produttore Charlie Charles, uno dei più influenti producer di artisti hip hop e singoli (t)rap italiani; le collaborazioni con Fabri Fibra e Gué Pequeno; le influenze artistiche, spesso esplicitamente evocate nelle interviste, di artisti come Beyoncé e soprattutto Frank Ocean.

In termini di contenuto, Mahmood rappresenta l’ultimo e più visibile caso di un filone crescente di artisti, soprattutto nel campo hip hop italiano, che hanno affrontato tematiche migratorie, di alterità, sradicamento, razzismo e conflittuale costruzione identitaria. Negli anni Novanta tali produzioni musicali partivano dalla condizione culturale e politica di immigrato meridionale in Nord Italia, per instaurare alleanze metaforiche con altre condizioni di marginalità. «Lo Straniero»

(1994) dei Sangue Misto affermava: «On & on... la mia posizione è di straniero nella mia nazione / Io quando andavo a scuola da bambino / la gente nella classe mi chiamava marocchino, terrone / ‘Muto! Torna un po’ da dove sei venuto!’ / È questa la prima roba che ho imparato in assoluto». Dall’inizio del nuovo millennio, tale condizione è stata espressa con sempre più costanza da una generazione di giovani nati o cresciuti in Italia da genitori immigrati. Riprendendo esplicitamente i testi dei Sangue Misto, Amir cantava «S.o.s bilancio negativo / Se me chiamano straniero nel posto dove vivo / S.o.s. pronto all’esecuzione / Se me chiamano straniero nella mia nazione» («Straniero nella mia nazione», 2006); «La gente mi ha confuso con un immigrato / Con la faccia da straniero nella mia nazione / Mi danno dello straniero per il mio cognome / […] Se il futuro qui è la mia seconda generazione» («Non sono un immigrato», 2009); «I miei fratelli sono afro fieri, maghreb e cinesi, filippini con i piedi qua e il sangue da altri paesi» («Ius Music», 2014). Tale condizione generazionale è divenuta oggetto di strategie discografi- che dalla seconda metà del primo decennio degli anni Duemila, quando il rap ha iniziato a entrare con forza nel mercato musicale italiano. Nelle parole di Amir,

Quando ero alla Virgin, i primi comunicati stampa che volevano lanciare, e io non ho voluto, dicevano «Amir rappresenta il dolore dei ragazzi sbarcati in questo paese». Ma io non sono sbarcato in questo paese, ci sono nato! […]

Volevano fare un video in Marocco […] Un buon compromesso alla fine è stato il video della canzone Shimi […] ci sono io con altri due che girano con me, un ebreo, un nero e un nordafricano […] Mi hanno fatto contento […]

e hanno ottenuto quello che volevano, perché potevano dire che il video

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era ispirato al film L’odio (di Kassovitz), che parla di banlieue, di giovani immigrati in Francia, di conflitti d’identità (Solaroli 2010).

Il processo di costruzione sociale e discografica di un genere prodotto da cosiddette seconde generazioni è proseguito con costanza negli ultimi anni. Il (t)rapper Tommy Kuti, nigeriano laureato a Cambridge e residente a Brescia, ha pubblicato il disco «Italiano vero», trainato dalla canzone #Afroitaliano: «Ho la pelle scura e l’accento bresciano / Un cognome straniero e comunque italiano».

Il tema è stato poi declinato con particolari sfumature dal milanese (con genitori tunisini) Ghali: «Quando il dovere mi chiama / Rispondo e dico “son qua” / Quan- do mi dicon “vai a casa” / Rispondo “sono già qua”» («Cara Italia», 2018). E dallo stesso Mahmood: «Mi chiedi cosa faccio / Scrivo a casa non rubo non spaccio»

(«Sabbie mobili», 2019); «Una nuova Africa sta arrivando» («Africa», inedito, 2019).

Questa breve ricostruzione suggerisce come la produzione musicale di cui Mahmood è un caso particolarmente articolato e visibile possa essere interpretata come forma di empowerment identitario generazionale tramite appropriazione autoriflessiva e ridiscorsivizzazione creativa di narrazioni mediali e politiche domi- nanti. Il caso Mahmood presenta forti affinità con i processi e le forme attraverso cui la rappresentazione simbolica dell’«alterità» espressa con la musica ha occupato una posizione centrale nel campo culturale dell’hip hop negli Stati Uniti, e più in generale nella storia della cultura afroamericana, dai suoi albori. Già tra la fine del

xix e l’inizio del xx secolo W.E.B. Du Bois (1897) aveva elaborato la metafora della

«doppia-coscienza» per descrivere la duplicità dell’esperienza del popolo nero nella società statunitense: l’uomo e la donna neri come membri di una distinta comunità ancorata alla percezione della «razza» e contemporaneamente di una più ampia cultura civica chiamata America. Il concetto di doppia-coscienza era quindi fondato su una peculiare esperienza originatasi in epoca coloniale come tensione tra due poli identitari, nazionale (americano/a) e razziale (nero/a), per cui essere afro-americano significava essere «nato con un velo, e dotato di una seconda vista in questo mondo americano […] questo senso di guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri» (Du Bois 1897; trad. it. 2004, 311). Più recentemente, analizzando lo sviluppo del jazz in America negli anni Venti, Michael Eric Dyson ha proposto una fertile applicazione del concetto in ambito musicale:

Le priorità estetiche e le riflessioni intellettuali degli artisti neri […] fornirono ai giovani bianchi un prisma diverso e stimolante attraverso cui vedere se stessi […]. Du Bois aveva scritto […] che è una strana cosa vedere se stessi, cioè, il sé nero, attraverso la lente di un altro mondo, un mondo che era in vari modi un mondo straniero, giudicante, ostile. Ma quel che accade con la musica e la cultura jazz è che il prisma viene invertito, metaforicamente parlando, così che ora […] la cultura nera fornisce la lente attraverso cui molti bianchi iniziano a vedere e capire se stessi (Dyson 2003, 188-193).

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L’idea della doppia-coscienza può quindi essere interpretata come una competenza culturale necessaria per negoziare simultaneamente due fondanti componenti identitarie – dietro e davanti al Velo – ed essere in grado di operare efficacemente in contesti socio-culturali in trasformazione. La metafora del Velo non si riferisce solo alla peculiare, storicamente determinata, barriera sociale tra bianchi e neri, ma suggerisce anche la rilevanza di forme simboliche, e quindi di attori e contesti di produzione e mediazione culturale quali il Festival di Sanre- mo, nel processo di identificazione, visibilità e consapevolezza dei confini che strutturano il processo di costruzione identitaria nazionale.

Attraverso il palcoscenico e lo «schermo» di Sanremo, il «velo» identitario diventa visibile anche grazie a un eterogeneo insieme di dispositivi poetico-espres- sivi, linguistici – l’inserimento di titoli o estratti verbali in arabo (e più in generale di forme di neoplurilinguismo, cfr. Ferrari 2018) – e tematici – il dissolvimento della figura paterna (e il ruolo cruciale di quella materna) – presenti già negli album di Amir, in diverse canzoni di Ghali («sti padri che non sanno farlo e ci rendono bastardi», «Willy Willy», 2016), come nel brano vincitore a Sanremo e nell’intero album di esordio di Mahmood. La rilevanza del tema del distacco generazionale (presente anche nella performance sanremese del rapper Anastasio) e dell’assenza della figura paterna suggerisce di approfondirne anche la dimensione politico- metaforica. Da un lato, è chiaro che il successo di artisti italiani figli di immigrati si presta a essere strumentalmente incorniciato come eccezione che conferma la regola del discorso politico dominante: in questo, la strategica stretta di mano di Salvini a Mahmood al Maurizio Costanzo Show è strutturalmente omogenea all’insistente stretta di mano di Borghezio ad Amir, definito esempio di «perfetta integrazione» rispetto al padre egiziano finito in carcere, in una puntata della tra- smissione tv Tetris più di un decennio prima (2007). Dall’altro, il tema andrebbe indagato in relazione alla più ampia cornice discorsiva della «(madre)patria» e al ruolo della musica – poiché «lo sviluppo di una nazione è sempre fondato sulla costruzione di un campo di suoni significativi» che permettono «agli esseri umani di cercare una identità nazionale [… e] raggiungere un vocabolario di possibilità nazionali» (Baker 1987, 71-73).

5. Conclusioni

Il Festival di Sanremo, edizione 2019, sarà ricordato come quello della vittoria, per la prima volta, di un cantante e una canzone la cui identità nazionale non è data per scontata: un aspetto non secondario per un evento dedicato alla «canzone italiana». L’ampio dibattito pubblico scatenatosi dal momento della proclamazione del vincitore ha contribuito a gettar luce sulla percezione pubblica dell’alterità (musicale, culturale-etnica e politica), offrendo spunti interpretativi sui processi

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di costruzione identitaria in mutamento e sul ruolo della cerimonia mediale che si svolge annualmente sul palco dell’Ariston.

In primo luogo, si è infatti confermata con forza la natura di rituale mediale e insieme politico del Festival (Santoro 2010). Se si ammette che le canzoni sono simboli politici (Street 2012), che quindi contribuiscono alla formazione del si- stema simbolico attraverso cui la gente interpreta il mondo e costruisce la realtà politica, ma anche, eventualmente, prova a cambiarla, Sanremo può allora ben essere qualcosa di più della più grande manifestazione canora italiana: piuttosto, è un’istituzione – una delle più influenti ed efficaci, ben al di là del breve periodo di tempo che occupa materialmente nei palinsesti televisivi e sugli altri media – che ritualisticamente partecipa, in forme e modi più o meno consensuali ovvero conflittuali a seconda della congiuntura politica, alla riproduzione e trasformazione del sistema simbolico dell’identità nazionale. Al contempo, il caso Mahmood ha anche gettato luce sui processi con cui oggi si mettono in scena, si problema- tizzano e si decostruiscono, quelle «comunità immaginate» che sono le identità nazionali: e questo tramite quegli apparentemente effimeri oggetti culturali che sono le «canzoni», sistemi di significato condiviso racchiusi in una forma (nella definizione di Wendy Griswold) a elevata circolazione e dal forte impatto emo- tivo, trasmesse ma anche ricevute e discusse, commentate, interpretate, tramite forme di comunicazione digitale pervasive quali i social media (Airoldi 2016)12.

Infine, un ultimo elemento concettuale emerso dalle dimensioni mediali e musicali del caso in esame concerne la prospettiva trans-nazional-popolare dei processi di costruzione identitaria. Le lotte simboliche per l’egemonia e la defi- nizione dei confini della comunità immaginata nazionale assumono sempre più connotazioni globali e digitali – come suggerito tra l’altro dagli effetti, da approfon- dire, del successo di Mahmood (oltre al secondo posto, il premio per la migliore composizione) all’Eurovision Song Contest 2019 sul piano di quella comunità immaginata che è la «nazione italiana». Particolarmente visibile e dibattuto, il «caso Mahmood» si rivela pertanto espressione di profonde trasformazioni sociali e simboliche in atto e, quindi, foriero di ulteriori possibili sviluppi di ricerca futuri.

Luca Barra

Università di Bologna Dipartimento delle Arti Via Barberia 4

40123 Bologna luca.barra@unibo.it

12 Per quanto qui soltanto accennato, il ruolo di alter giocato da Ultimo, cantautore romano che i pronostici davano per vincitore e arrivato secondo, nella generazione del «caso Mahmood» non può essere minimizzato, rappresentando la controparte insieme “popolare” (perché proveniente da uno dei quartieri più popolari della capitale, San Basilio) e “nazionale” (perché di indubbia origine italiana).

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Giacomo Manzoli Università di Bologna Dipartimento delle Arti Via Barberia 4

40123 Bologna

giacomo.manzoli@unibo.it

Marco Santoro Università di Bologna Dipartimento delle Arti Via Barberia 4

40123 Bologna

marco.santoro@unibo.it

Marco Solaroli Università di Bologna Dipartimento delle Arti Via Barberia 4

40123 Bologna

marco.solaroli@unibo.it

Riferimenti bibliografici

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