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Università degli Studi di Verona Scuola di Medicina e Chirurgia - Corso di Laurea in Infermieristica AA 2016/2017

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Università degli Studi di Verona – Scuola di Medicina e Chirurgia - Corso di Laurea in Infermieristica – AA 2016/2017

Insegnamento “La relazione di aiuto nei processi assistenziali”

MODULO: “PRINCIPI E TECNICHE DELLA RELAZIONE ASSISTENZIALE”

Dispensa a integrazione dei contenuti teorici presenti nel Capitolo 3 “La relazione nel processo assistenziale”

Trattato di Cure Infermieristiche (2011)

A cura dei docenti L. Cunico e F. Todesco

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 L. 22.04.1941 n. 633)

“Senza regolare autorizzazione degli Autori è vietato riprodurre questa dispensa, anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, comprese le fotocopie, neppure per uso interno o didattico.

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PREMESSA

Il presente contributo ha l’obiettivo di integrare parte dei contenuti teorici non presenti nel Capitolo 3°- “ La relazione nel processo assistenziale” - del Trattato di Cure Infermieristiche (a cura di Saiani e Brugnolli, 2011).

L’intento è quello di offrire agli studenti in Infermieristica una sintesi delle conoscenze (modelli, teorie, principi) relative ai meccanismi psicologici e fisiologici sottostanti al processo di interazione con gli altri.

Nella dispensa sono stati descritti: il processo di percezione sociale, come costruiamo le prime impressioni, il processo di comunicazione, seguito da un approfondimento sul processo di comunicazione nella relazione interpersonale, ed infine una descrizione sulla varie forme di comunicazione (verbale, para-verbale, non verbale).

Nella seconda parte di questa dispensa sono state descritte le abilità sociali nell’interazione sociale e le abilità necessarie per comunicare in modo efficace, cosa s’intende per capacità di ascolto, la descrizione di quelle che sono le abilità relazionali necessarie per la gestione di un colloquio centrato sul paziente.

Nella terza parte invece sono state descritte le strutture del linguaggio profonda e superficiale (cancellazioni, generalizzazioni, distorsioni), la realtà e le sue rappresentazioni, i sistemi rappresentazionali VAK, il metodo GRG, e infine la finestra di Johari.

Infine nella quarta ed ultima parte delle dispensa, sono descritte: situazioni che riguardano ambiti problematici della comunicazione nell’assistenza con persone portatrici di deficit sensoriali (persone non udenti, persone non vedenti, persone con disturbo del linguaggio, pazienti anziani affetti da demenza), con persone aggressive, persone che subiscono un lutto.

Il presente contributo, il capitolo 3° del Trattato di Cure infermieristiche, altri articoli forniti dalla docente durante le lezioni, sono le fonti per la preparazione all’esame di profitto.

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1. PERCEZIONE DELLA REALTÀ E PERCEZIONE INTERPERSONALE

Todesco F. 2016, Appunti delle lezioni di Principi e tecniche della relazione assistenziale AA 2016/2017

La percezione della realtà

I processi che governano la nostra percezione ci portano già per se stessi ad interpretare la realtà (Giuspoli 2011). In genere noi immaginiamo il processo percettivo come un processo lineare. Il momento di inizio, l’origine o la fonte, è l’ambiente in cui siamo immersi. I nostri organi di senso sarebbero come delle finestre che lasciano passare delle informazioni che il nostro cervello elabora e interpreta. Questa è la concezione più diffusa dell’attività percettiva, almeno fino ai primi decenni del ‘900. Ma ancora oggi viene presupposta in molti ambienti scientifici e nelle credenze naturali che ognuno di noi porta con sé relativamente al proprio modo di vedere e interpretare la realtà. Secondo questo modello, dunque, il soggetto registra (passivamente) informazioni dall’ambiente e successivamente struttura queste informazioni o questi dati mediante delle leggi associative predisposizioni proprie. Questo modello “lineare” di fatto non è corretto. Al massimo questo modello può essere utile per l’interpretazione neurofisiologica. In generale questo modello teorico si è venuto profondamente a modificare. Ciò che è avvenuto, può essere considerato una sorta di

“rivoluzione copernicana” nel campo degli studi di neurofisiologia (a partire dagli anni ’20-30 del XIX sec.; partic. importanza gli studi di Müller). Talli studi hanno mostrato come la percezione non consiste solo nella traduzione e nella trasmissione alla coscienza di informazioni date nell’ambiente esterno. Il sistema nervoso in generale ha invece parte attiva anche nella generazione delle sensazioni oltre che nella loro organizzazione in rappresentazioni percettive del mondo.

Pensiamo anzitutto al ruolo dell’attenzione nei processi percettivi. Sappiamo che tutti, a livello più o meno conscio operiamo una importantissima opera di selezione di quei contatti che possono risultare “utili” o “significativi” per noi. Si tratta quindi fin dall’inizio di una

“SELEZIONE ATTIVA” che focalizza l’attenzione su ciò di cui (più o meno consciamente) abbiamo bisogno. Questo risulta ben visibile nel nostro comportamento. Pensiamo al modo in cui noi, più o meno consapevolmente, disponiamo o orientiamo i nostri organi di senso, selezionando consapevolmente le direzioni cui esporre i nostri organi visivi, acustici, tattili, olfattivi.

La Gestaltpsychologie (detta “psicologia della forma”) ha studiato a fondo i processi automatici attraverso cui la psiche supporta i nostri modi di prestare attenzione, ad es.

mettendo in primo piano, in modo flessibile, una sensazione riconosciuta rispetto ad una miriade di altre contemporanee, che vengono lasciate automaticamente sullo sfondo.

Noi impariamo a conoscere percettivamente il mondo interpretando i dati sensoriali secondo determinate “unità di senso” percettive: sono “modi di raffigurarsi qualcosa” (il tedesco Gestalt significa proprio “figura”, “configurazione”). Anzitutto impariamo a distinguere una figura da ciò che diciamo sfondo…

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Prendiamo ad es. il disegno di Escher che pone a tema questo processo percettivo.

Di solito la distinzione figura-sfondo è evidente (come ai bordi del disegno di Escher); quando invece non è evidente, perché non c’è sfondo (come nel centro di questo disegno), allora tenderemo noi a diversificare il percepito in un oggetto e uno sfondo, cosa che però si presenta come un’ipotesi da verificare, così che noi tendiamo ad alternare oggetto e sfondo soprattutto dove il contrasto è più marcato1.

Rispetto agli studi svolti in campo psicologico, questi processi percettivi, come la distinzione figura-sfondo, sono oggi studiati soprattutto a livello di sistema nervoso.

Il problema dal punto di vista neurale è questo: se i nostri sensi, ad es. i nostri occhi, sono costantemente sottoposti a un bombardamento di particelle, come riusciamo noi a concentrare lo sguardo su un unico oggetto, o su un particolare di un oggetto (ad es. il modo in cui un paziente sta facendo una smorfia, di disappunto o di dolore, con la bocca?).

Ebbene, da alcuni anni un gruppo di ricerca dell’Università di Stanford (guidato da Tirin Moore e Katherine Armstrong) ha mostrato la presenza di circuiti neuronali che controllano i movimenti degli occhi e che svolgono una duplice funzione:

1. programmano il movimento dell’occhio verso il punto su cui focalizzare l’attenzione (ad es. l’attenzione si sposta dalla posizione dell’ago che ho inserito all’espressione del volto e della bocca del paziente);

2. amplificano i segnali visivi e acustici provenienti dall’area su cui gli occhi si stanno spostando, inibendo la miriade di stimoli visivi che costantemente potrebbero distrarre il movimento degli occhi in mille altre direzioni. Questi circuiti funzionano come una sorta di selettori degli stimoli e al tempo stesso come loro amplificatori, ma in modo dinamico, al servizio di ciò verso cui noi (più o meno volontariamente) stiamo per volgere la nostra attenzione.

Quindi, la selezione di ciò cui prestiamo attenzione non avviene a posteriori, dopo che abbiamo immagazzinato nella nostra testa tutti i dati ambientali, decidendo poi di tenerne solo alcuni cui siamo particolarmente interessati. In realtà l’opera di selezione svolta dai processi attentivi è svolta in origine, prima di percepire gli oggetti.

Un’altra opera di selezione che avviene nel subconscio riguarda la coerenza degli stimoli:

ancora prima di percepire un oggetto il cervello scarta quelle informazioni che ritiene contraddittorie rispetto alla immagine che prevede di generare. Consideriamo ad es. la rivalità binoculare: per fornirci la nostra visione “stereoscopica”, il nostro cervello elabora in

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non consentire tale armonizzazione in 3D, allora avviene un fatto sorprendente: il cervello sceglie le informazioni di un solo occhio e scarta quelle provenienti dall’altro.

Da tempo si sta studiando con molta attenzione quel lato importante della attività percettiva che viene detta di “pre-afferenza”.

Si è ormai superato il modello di causalità lineare (stimolo → percezione) per affermare un concetto sistemico di causalità. Si considera cioè il modo in cui l’intero organismo si prepara a percepire, reagisce e si adatta a quanto percepisce, in un processo di continua conferma o smentita delle sensazioni precedenti (Cosa succede nello specifico? La corteccia seleziona costantemente “scenari di percezioni possibili” quale sfondo in aggiornamento ad es. nel vedere un corridoio via via che lo percorro). Attualmente viene studiato in modo particolare come il cervello tenda a costruire un’immagine stabile dell’ambiente esterno e degli oggetti che noi osserviamo quando siamo in movimento (ad es. se stiamo camminando verso un paziente, una serie di operazioni neurali complesse accompagnano la nostra sensazione che il paziente abbia sempre la stessa dimensione, anche se le informazioni impresse si riferiscono ad un’immagine via via più grande).

Cosa si intende per percezione interpersonale?

Per percezione interpersonale si intende il processo attraverso il quale un individuo cerca di capire chi è l’altro (Castelli).

Relazionarsi con una bambino piuttosto che con un adulto o un anziano sia esso malato o sano è molto differente, ma cosa determina tale differenza?

E’ stato dimostrato che, è la percezione di chi o cosa l’altra persona sia esattamente a guidare il nostro comportamento verso l’altro. Infatti, il fatto stesso che noi abbiamo consapevolezza che si sta per interagire con una signora anziana piuttosto che con un bambino è sufficiente per evocare in noi un certo tipo di comportamento e inibirne degli altri. Ma le nostre interazioni sono guidate oltre che dalla nostra percezione anche dalle nostre valutazioni degli altri, infatti trattiamo in modo differente i nostri amici dai nostri avversari, oppure i nostri superiori. E’ interessante ricordare come il nostro comportamento dipende non solo dalle caratteristiche oggettive (età, sesso, condizioni di salute, gruppi sociali di appartenenza ecc.), ma anche dalle nostra percezione di esse e saranno appunto queste percezioni che in parte creeranno le nostre opinioni sugli altri ed i nostri sentimenti nei loro confronti. Ma poiché i processi di percezione e valutazione sono sempre reciproci, ne consegue che l’interazione sarà il risultato non solo dei comportamenti dei due partecipanti, ma dai modi in cui i due si percepiscono.

Se uno degli aspetti che può condizionare maggiormente il nostro approccio con l’altro è la percezione che abbiamo dell’altro, possiamo anche dire che sarà tale percezione che andrà a determinare il nostro comportamento nei riguardi dell’altro2 e se pensiamo al fatto che la percezione è bidirezionale ne consegue che l’altro a sua volta sarà condizionato nel suo approccio con me dalla sua percezione, pertanto in un ottica di relazione asimmetrica (come ad esempio la relazione assistenziale) è necessario che l’operatore sanitario abbia una piena consapevolezza dei meccanismi che stanno alla base delle percezione interpersonale, in modo tale da tenere monitorato ciò che sta accedendo nella relazione nel momento stesso in cui questa è in corso.

Sempre Castelli afferma che la nostra percezione verso l’altro è prima di tutto visiva, ciò infatti ci permette di ricevere numerose informazioni sull’altro anche se non si riesce di fatto ad utilizzare tutti gli elementi che si sono osservati in quanto si effettua inconsciamente una selezione detta anche inferenza. Cosa si intende per inferenza? E quando possiamo dire che applichiamo tale meccanismo ? (quello di fare un inferenza).

2 “Com’è la tua percezione così sarà la tua azione” ( A. De Mello 1995 Shock di un minuto)

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L’inferenza è un meccanismo che utilizziamo per organizzare e dare senso ai dati in entrata;

la elaboriamo ad esempio tutte le volte che a partire da due elementi dati coerenti fra loro (siano essi visivi, uditivi e/o cinestetici) ne deduciamo un terzo, coerente con i primi due, senza averne la prova.

Sulla base di queste informazioni visive (che sono limitate), noi in genere cerchiamo di organizzare un primo quadro coerente di come può essere l’altro, ma poiché queste informazioni sono poche queste vengono integrate con altre che, si combinano bene con le nostre esperienze precedenti ad esse collegate.

Le informazioni coerenti tra loro, agiscono come un filtro, rifiutando le informazioni che sono contraddittorie o incoerenti rispetto alle informazioni prevalenti. In alcuni casi l’incoerenza può essere tale da impedirci di notare un nuovo dato, oppure portarci ad ignorare o dimenticare il nuovo dato. Infatti è più probabile che continueremo a notare su nuovi dati solo quelli che si conciliano con i nostri preconcetti.

Sembrerebbe che l’insieme delle leggi che presiedono e regolano la nostra percezione, operino allo scopo di mantenere una coerenza tra le varie percezioni che a loro volta sono legate al fatto che ognuno di noi cerca un’armonia tra i suoi diversi pensieri, emozioni comportamenti e alla stabilità, intesa come la tendenza a mantenere stabili nel tempo le nostre percezioni. Ciò spiega quindi la persistenza delle nostre prime impressioni.

Hanghers (1972) sostiene che una volta che si sono organizzati dei dati secondo un sistema, a noi coerente, accede però che questo meccanismo influenzi il funzionamento del filtro selettore dei dati che successivamente si andranno a raccogliere facendo si che vengano fatte passare solo delle informazioni coerenti con l’interpretazione fatta (in un primo momento) e non vengano invece selezionate le informazioni che risultano non essere coerenti con la prima interpretazione dei dati che si sono raccolti.

Attraverso l’elaborazione di tali inferenze attribuiamo agli altri delle caratteristiche di personalità, di atteggiamento oppure delle intenzioni, e questo perché ciascuno di noi è di fatto portatore di una schema di interpretazione, o teorie implicite della personalità poiché ciascuno di noi (per dare rapidamente un significato a tutti i dati in entrata, siano essi visivi, uditici o cinesici, come le espressioni del viso o i movimenti del corpo), sarà portato a mettere in relazione sulla base di schemi pre-costruiti le caratteristiche di una persona, i suoi gesti, le sue espressioni ed a dargli un significato quindi fare una valutazione, esprimere un giudizio e farsi un’idea su chi o casa sia l’altro, senza dover analizzare dall’inizio e quindi sottoporre ad una verifica tutti i dati/informazioni che si ricevono per verificare l’esattezza della nostra analisi.

Nel percepire la realtà che è al di fuori di noi dobbiamo tenere sempre presente che tale percezione non è oggettiva e quindi che ciò che è vero per me può non essere vero per gli altri; questo perché la percezione della realtà ha origine da visioni, idee, aspettative, emozioni diverse ed è il risultato di una selezione e organizzazione degli stimoli attiva, secondo schemi interpretativi già preesistenti in ciascuno di noi.

E’ necessario pertanto essere consapevoli che non riusciamo a registrare come una videocamera tutto quanto è intorno a noi. Ciò è dovuto al fatto che non riusciamo a cogliere contemporaneamente tutti gli stimoli che sono in entrata, ma ne cogliamo solo alcuni a scapito di altri. Questa selezione attiva, si è visto che avviene anche ad opera di alcuni filtri fisiologici, emotivi e culturali. Cosa significa? Significa che a livello fisiologico la nostra mente

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Questo vizio o incapacità che abbiamo di elaborare contemporaneamente tutti gli stimoli che provengono dall’esterno (contemporaneamente e in modo completo), viene a creare una vera e propria distorsione di parte della realtà che potremmo ritenere nient’altro che il risultato di molteplici inferenze .

Oltre ai filtri culturali e fisiologici ci possono essere dei filtri emotivi a influenzare la nostra percezione della realtà. Tali filtri possono condizionare la nostra percezione a tal punto che riusciamo a vedere solo ciò che siamo in grado di vedere, oppure vogliamo vedere in quel momento. Di fatto noi sulla realtà proiettiamo il nostro mondo interiore, le nostre paure, le nostre speranze, le nostre idee e ciò che ci impedisce di “guardare alla realtà nella sua nuda bellezza” (da Shock di un minuto A. De Mello 1995).

Infine, nello sforzo di intrepretare la realtà, è necessario tenere a mente che l’accessibilità, o meno alle nostre categorie mentali (schemi d’interpretazione), può essere condizionata da un’ esperienza recente, oppure la lettura di un libro o la visione di un film.

La visione di un film o la lettura di un libro, oltre ad influenzare la nostra interpretazione della realtà, ne accelera l’accessibilità (definito anche come grado di immediatezza dell’accessibilità alle nostre categorie mentali), rendendo così molto probabile l’impiego delle informazioni raccolte durante la lettura di un libro o la visione del film per interpretare un fatto nuovo. E questo anche se il fatto non ha alcuna relazione con quello che, in origine, ha innescato la selezione delle informazioni.

Sintetizzando quanto detto, la realtà è un fatto personale, una costruzione. Ciò che vediamo : cose diverse, ciò che non c’è, la figura su uno sfondo, ciò che siamo abituati a vedere, ciò che è chiaro e non ambiguo; non è facile accettare la nostra percezione come UNA delle percezioni possibili della realtà e non la percezione della realtà. Non è un problema di percezione giusta o sbagliata, ma di “Punti di Vista”. Significa che ci possono essere più prospettive nel processare la realtà circostante.

Spesso chiediamo all’amico:Come la vedi? Cosa pensi a riguardo? Che opinione ti sei fatto?

La pensi come me? Vedi le stesse cose? Questo assunto è fondamentale nella relazione professionale: conoscere i significati e le attribuzioni che un paziente fa del suo problema di salute (come lo vede, come lo vive,…) ci permette di decidere insieme, trovando la modalità più consona alla persona che ho davanti. Personalizzare l’assistenza significa tenere conto del punto di vista del paziente, delle sue preferenze e valori e, di conseguenza, proporre possibili soluzioni.

Nei paragrafi dedicati alla descrizione della struttura profonda e superficiale del linguaggio e della realtà e le sue rappresentazioni (attraverso il linguaggio) verrà messo in evidenza come la comprensione della realtà altrui possa essere messa in luce dalle parole (e non solo) che l’altro utilizza.

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2. IL PROCESSO DI COMUNICAZIONE

Todesco F. 2016, Appunti delle lezioni di Principi e tecniche della relazione assistenziale AA 2016/2017

Il processo di comunicazione viene definito come un processo in cui due persone o più persone hanno un interazione/scambio di messaggi attraverso l’uso di un codice (digitale, numerico o analogico), il quale viene veicolato all’altro per mezzo di un canale di trasmissione del messaggio. Affinché vi possa essere la trasmissione di un determinato messaggio è necessario che l’emittente operi una codifica del messaggio che vuole inviare ovvero una elaborazione del codice che l’emittente utilizzerà. Dall’altra parte (per il ricevente) comporta una decodifica del codice e successivamente una codifica del messaggio di feed back. In questo senso si può dire che il processo di comunicazione non è lineare (con dei ruoli rigidamente determinati), ma è piuttosto una spirale, ove lo scambio che avviene porta ad un continuo cambiamento nella mente di colui che riceve e/o invia i messaggi.

Il processo di comunicazione infatti viene definito bidirezionale. Nella comunicazione circolare, quindi, ogni soggetto partecipa ad una relazione comunicativa, influenzando la stessa comunicazione ed essendone a sua volta influenzato tramite retroazioni (le risposte, i feed-back) del sistema.

Il linguista Roman Jakobson (1963) ha individuato i fattori per la realizzazione di un atto comunicativo (unità minima di analisi):

1. l’emittente è il soggetto da cui parte e inizia il processo comunicativo, è la fonte di emissione del messaggio;

2. il ricevente è il soggetto a cui è destinato il messaggio, rappresenta l’altro capo della comunicazione;

3. il canale è il mezzo attraverso il quale il messaggio viene trasmesso (canale vocale, canale visivo, canale tattile, olfattivo); è il mezzo conosciuto e condiviso attraverso il quale nella maniera e nelle modalità più opportune è possibile trasmettere un messaggio fra due soggetti;

4. il codice è un sistema di regole, una convenzione che attribuisce a determinati segni un preciso valore; la comunicazione per essere efficace deve essere trasmessa attraverso l’uso di un codice che deve essere conosciuto e condiviso dagli attori della comunicazione;

5. il messaggio o contenuto è tutto ciò che l’emittente intende comunicare al ricevente, sia a livello verbale, sia non verbale attraverso l’uso di un codice e un canale adeguato.

Il messaggio all’interno del processo comunicativo subisce un processo di codificazione (da parte dell’emittente) e di decodificazione (da parte del ricevente). Nella comunicazione verbale, ad esempio, il messaggio “pensato” deve subire una serie di trasformazioni di tipo cognitivo, affettivo, neurofisiologico per essere poi trasmesso attraverso il canale/codice della parola al ricevente, che dovrà, a sua volta, ritrasformare il messaggio udito per arrivare ad una decodificazione che lo renda comprensibile. Il processo di codifica e di decodifica avviene per qualsiasi messaggio e per qualsiasi tipo di canale che venga utilizzato;

6. il contesto si riferisce all’ambiente fisico, ovvero la dimensione spaziale, temporale, storica, psicologica e relazionale; alla situazione socioculturale, ovvero l’ambiente, il gruppo sociale, economico e culturale in cui avviene il processo comunicativo.

Il processo di comunicazione nella relazione interpersonale

Il processo di comunicazione nella relazione interpersonale è strettamente legato alle modalità con cui le persone percepiscono gli altri. La comunicazione è un processo complesso

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reciprocità, di ruoli e di funzioni e non può essere definito come un processo lineare.

(Castelli)

Colui che emette un messaggio compie un’operazione di questo genere, traduce un comportamento osservabile o recepibile attraverso i suoi sensi (vista o udito) i quali esprimono le sue intenzioni. Da cosa derivano le sue intenzioni? Gli derivano da un’idea che egli ha della realtà, da un’interpretazione che fa della realtà. Le tappe della sequenza del processo di comunicazione che avvengono nella persona che vuole comunicare qualcosa a qualcun altro sono: interpretazione della realtà, poi nell’intenzione di trasmettere un messaggio, ricerca di un codice, una forma in cui immettere quell’intenzione. Anche l’interlocutore a questo punto utilizzerà un suo codice nell’interpretare il messaggio ricevuto.

Perché un messaggio passi dall’emittente al destinatario deve passare attraverso qualcosa. Si parla a questo proposito di canali di comunicazione ossia del mezzo attraverso il quale il messaggio passa dall’emittente al destinatario. I canali di comunicazione si distinguono in canali; vocale- uditivo e visivo-cinesico (prodotto cioè dal corpo e recepito dagli organi della vista).

Il destinatario a sua volta dovrà fare il processo inverso. Deve decodificare un codice, un segno o una parola per attribuirgli un significato e compiere di conseguenza un’operazione di interpretazione di decodifica e di attribuzione di significato. Per fare tutto ciò il destinatario utilizza il proprio mondo simbolico, la propria mentalità e questo fa sì che non vi sia una completa sovrapposizione tra il mondo interno dell’emittente e il mondo interno del ricevente e quindi che il ricevente riesca a decodificare in modo corretto le intenzione dell’emittente. In termini figurativi ciò che rappresenta meglio la comunicazione è una spirale. Parlare della comunicazione come di un processo circolare può essere riduttivo perché essa è un continuum, è qualcosa che va sempre avanti e si modifica costantemente.

La comunicazione modifica lo stato mentale del ricevente in quanto gli fa compiere delle operazioni di interpretazione e di comprensione. Tali operazioni mentale generano a loro volta delle reazioni nel ricevente che diverranno a loro volta una comunicazione per l’altro.

Per poter comunicare in modo efficace è molto importante tenere presente che le nostre teorie sul mondo, o schemi (strutture cognitive che organizzano informazioni su determinati temi o argomenti) sono in grado di influenzare profondamente le informazioni che registriamo, su cui riflettiamo e ricordiamo. Esse infatti agiscono da filtro, rifiutando le informazioni che sono contraddittorie o incoerenti rispetto al tema prevalente, mentre in alcuni casi l’incoerenza può essere tale da impedirci di ignorare o dimenticare il nuovo fatto.

Infatti è più probabile che continueremo a notare su nuovi fatti quelli che si conciliano con i nostri preconcetti. La memoria umana è ricostruttiva. Noi non ricordiamo con esattezza cosa accade, così come fa una cinepresa, noi ci ricordiamo al contrario solo di alcune informazioni presenti in particolare solo quelle che in nostro schema ci induce a notare. Pertanto le ricostruzioni che faremo tenderanno ad essere coerenti con il nostro schema, com’è naturale. Ma qual è la funzione degli schemi? Perché esistono? La loro funzione è quella di affrontare di volta in volta una situazione senza partire da capo nell’elaborazione delle informazioni che vengono dall’esterno. Infatti se così non fosse ci dovremmo imbattere ogni volta in una miriade di informazioni da elaborare (situazione questa che colpisce le persone affetta dalla sindrome di Korsakov, che hanno perso la capacità di creare nuovi ricordi e devono affrontare ogni situazione come se fosse la prima volta) con il risultato che dovremmo impiegate moltissimo tempo prima di comprendere elaborare tutte le informazioni, dare loro un significato e ciò ci poterebbe ad una grandissima confusione se non alla disperazione. A tale proposito è bene ricordare che gli schemi impartiteci dalla nostra cultura influenzano notevolmente ciò che del mondo notiamo è memorizziamo.

A causa dell’influenza che gli schemi esercitano sul nostro modo di vedere, abbiamo la tendenza a vedere il mondo in modo assoluto, dove il bene è dalla nostra parte e il male da quella di chi non è con noi. Ciò ci porta a pensare ad esempio che il resto del mondo stia

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dando un’interpretazione scorretta della realtà mentre noi ne abbiamo una corretta. E’ stato osservato come gli schemi delle persone una volta formatesi, assumano una loro vita propria e influenzino il modo in cui le nuove informazioni vengano considerate. Ciò che è emerso al termine di alcuni studi infatti è che gli schemi sopravvivono perfino quando è andata distrutta ogni prova che li può sostenere. Pertanto si può dire che essi subiscano un effetto di persistenza che fa si che le credenze dei soggetti persistano anche dopo che è stata confutata la prova che inizialmente li sosteneva. Quando incontriamo delle informazioni nuove, o vediamo confutate quella già acquisite, non tendiamo a rivedere i nostri schemi così come ci si potrebbe aspettare. Spesso accade che agiamo sui nostri schemi riuscendo a modificare il grado in cui li sosteniamo o li contraddiciamo. La ricerca ha definito questo processo la profezia che si auto-adempie non di rado infatti ci comportiamo in modo da creare inavvertitamente delle prove che sostengano il nostro schema (es. gli insegnati tendono a preferire gli studenti maschi e a rivolgere senz’accorgersene la maggior parte delle loro attenzioni, oppure pensano che i maschi siano più portati per la matematica. Per confermare tale convinzione gli insegnanti si comporteranno in modo differente verso gli studenti maschi andando a condizionare l’apprendimento di quest’ultimi giungendo così a confermare le loro credenze (chi ha più attenzioni, incoraggiamenti, e riceve maggior fiducia ha maggior possibilità di successi rispetto a chi non li riceve ciò potrà confermare le attese e le predizioni di chi pensa che quel studente sia più bravo di un altro). Molti studi hanno confermato che le profezie che si auto-adempiono sono il risultato di processi inconsci e involontari. Anche quando le persone cercano di relazionarsi in maniera imparziale e priva di condizionamenti, sono le loro aspettative a intromettersi e a modificare il comportamento, il quale a sua volta modifica il comportamento della persona con cui stanno interagendo.

Negli anni si è sviluppata sempre di più la teoria del processo di comunicazione fino ad arrivare alla creazione del concetto di processo di comunicazione sistemica vedi la teoria dei i 5 Assiomi della comunicazione umana di P. Watzlawick.

Il corso sui principi e tecniche della relazione assistenziale è iniziato con la presentazione di due argomenti più generali che sono il processo di percezione interpersonale e il processo di comunicazione con un approfondimento in particolare sugli assiomi della comunicazione di P. Watzlawick. Il motivo per cui la trattazione dei principi e delle tecniche non può essere fatto senza prendere in esame questi due processi perché entrambi hanno una notevole influenza su ogni relazione umana e pertanto capire i meccanismi che stanno alla base di questi processi (e come possono condizionare la relazione) è sembrato fondamentale per chi della relazione può fare una vera e propria terapia, uno strumento per aiutare gli altri.

La relazione assistenziale infatti si pone su un piano differente da quello dello scambio tra pari di informazioni, infatti si pone su un livello più alto e complesso da gestire. All’interno di questo corso si vuole insegnare ad usare la comunicazione in modo intenzionale, finalizzato, efficace e soddisfacente in modo tale da aiutare e “curare” anche attraverso le parole. Gli esercizi che sono stati proposti nella lezione dedicata alla percezione interpersonale ci hanno dimostrato che rispetto alla realtà abbiamo delle percezioni differenti. Ne abbiamo visto le cause (inferenze, categorizzazione, attribuzione di personalità e intenzionalità secondarie alle nostre teorie implicite ed infine la presenza di filtri: biologici, emotivi, culturali). Esperienze personali, idee, concetto di sé, conoscenze e la professione influiscono sulle strutture citate.

L’insieme di tutti questi aspetti determinano quella che viene definita la nostra prima impressione che viene definita per sua natura “dura a morire” poiché la nostra memoria essendo ricostruttiva tenderà a ricordare solo ciò che è coerente con la nostra prima

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3. I SIGNIFICATI DELLE VARIE FORME DI COMUNICAZIONE (Verbale, paraverbale, non verbale)

Todesco F. 2016, Appunti delle lezioni di Principi e tecniche della relazione assistenziale AA 2016/2017

Il repertorio comunicativo di cui noi disponiamo è verbale, non verbale e paralinguistico (o para-verbale) (Castelli 2010). Nonostante possiamo affermare che quello verbale sia il mezzo privilegiato per la comunicazione interpersonale occorre ricordare che i messaggi passano per il 55% attraverso la mimica facciale, il 38% attraverso l’uso della voce e solo il 7%

attraverso le parole che diciamo.

I sistemi di comunicazione non verbale sono prevalentemente di tipo cinesico. Tutti i movimenti del corpo possono assumere un valore comunicativo. Gli aspetti vocali delle nostre parole sono un altro aspetto fondamentale della comunicazione non verbale, basti pensare al risultato paradossale che si può ottenere pronunciando una stessa frase semplicemente modulando in modo differente la nostra voce. Tutti i movimenti del corpo possono assumere un valore comunicativo (ridere, piangere e gridare non rientrano nella comunicazione verbale, non sono parole, ma comunicazioni non verbali). Lo sguardo è un altro esempio di elemento cinesico ossia di comunicazione non verbale. Esso mantiene rispetto alla mimica facciale una sua autonomia, pensate ad esempio quando per strada vedete una persona che non volete salutare, distogliete lo sguardo. Non cambierà niente nella vostra mimica facciale, semplicemente fate in modo che gli sguardi non si incrocino cioè che non avvenga un contatto visivo. Poiché è chiaro che, per non trasgredire la regola sociale, nell’incontro visivo tra due persone che si conoscono vi sia un saluto.

Per quanto riguarda l’espressione dei sentimenti si è visto essere molto più efficaci i segnali non verbali rispetto a quelli verbali. Infatti se voglio comunicare dei sentimenti posso usare anche la parole , ma risulteranno più credibili i miei segnali non verbali, le mie espressioni;

infatti il mio interlocutore se vuole farsi un’idea precisa di ciò che sento da più importanza ai segali non verbali che alle parole che dico. Per quanto riguarda le informazioni relative al nostro ruolo, queste passano in modo più efficace attraverso gli atteggiamenti. Ad esempio se voglio far capire ad un altro che intendo avere una posizione dominante nei suoi confronti glielo posso dire, oppure posso utilizzare un certo tono della voce, una certa postura, così che egli capisca senza bisogno di dirglielo, magari con maggiore efficacia.

Comportamento non verbale e comunicazione

Il comportamento non verbale consiste nei movimenti del corpo, del volto e delle mani, nella disposizione che i corpi assumono nello spazio, nelle caratteristiche tonali, timbriche e ritmiche della voce e dell’eloquio. La comunicazione non verbale consente di definire la relazione in atto, di veicolare messaggi impliciti trasmessi a livello analogico, di contenere richieste indirette di comportamento, di arricchire, in tutti i sensi i contenuti. Essa ha il vantaggio di evidenziare meglio le componenti pragmatiche delle comunicazione. La comunicazione non verbale è di particolare interesse nell’ambito delle comunicazione sia per la capacità di trasmettere messaggi impliciti sia per la sua influenza all’interno della relazione interpersonale. La comunicazione non verbale non è sempre di tipo analogico (basti pensare al linguaggio dei segni dei sordomuti o tra monaci trappisti, i sistemi segnaletici grossolani usati dai marinai). Alcuni sistemi di comunicazione per quanto possano avere una componente analogica ma hanno bisogno, per la loro comprensione, della possibilità di trasportare quei gesti in termini propriamente linguistici.

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La comunicazione non verbale è basata su:

1) la cinesica (espressioni del volto, il movimento, la postura e l’orientamento del corpo nello spazio)

2) la prossemica (riguarda l’uso della distanza interpersonale e dello spazio disponibile) 3) elementi non verbali del parlato (riguarda l’uso delle voce al di là degli elementi

linguistici).

Prestare attenzione contemporaneamente ai diversi canali espressivi consente di cogliere tra loro la congruenza comunicativa o la loro discrepanza. Una situazione conflittuale (di tipo emotivo, motivazionale, intrapsichico o di personalità) può esser segnalata sia da una discrepanza fra canale verbale e non verbale, sia da una discrepanza fra ciò che è rivelato attraverso alcuni canali non verbali (ad es. la voce o la direzione dello sguardo) e ciò che proviene da altri canali non verbali (ad es. la postura, alcuni gesti o sguardi).

Congruenza e incongruenza.

La trasmissione contemporanea di due messaggi contradditori, uno sul piano del contenuto e l’altro sul piano della relazione è definita incongruenza comunicativa. Di fronte ad un tale tipo di comunicazione si è soliti tenere in considerazione maggiormente la componente non verbale rispetto a quella verbale. Sarà l’espressione del volto a influenzare maggiormente il giudizio sulla persona, sul suo atteggiamento e il suo stato emotivo. L’incongruenza è da considerare sempre come l’espressione di un conflitto intrapsichico che nasce nel tentativo di ingannare gli altri e se stessi e nasce spesso dal mascheramento di un messaggio negativo che tuttavia trapela a livello non verbale.

Le funzioni che la comunicazione non verbale svolge sono:

1. rinforzare (quando precede, segue o coincide con la cv)

2. illustrare o qualificare (gesti utilizzati per illustrare o rappresentare un concetto visivamente)

3. meta-comunicare (quando un gesto informa su come deve essere letto un certo contenuto)

4. contraddire

5. sostituire (gesti con funzione mimica)

La comunicazione attraverso il corpo

I gesti che si compiono con la parte superiore del corpo (mani, braccia) si prestano meglio per un uso intenzionale nella comunicazione. Questi possono essere classificati in:

1) Emblematici (possono sostituire le parole)il loro significato è diverso a seconda del contesto culturale.

2) Illustratori (accompagnano le parole favoriscono la comprensione, ma non sostituiscono la parola)

3) Indicatori emozionali (pugni chiusi = rabbia)

4) Regolatori (che segano o regolano il cambiamento dei ruoli)

5) Adattatori (servono per riequilibrare uno stato di tensione es. manipolazione di parti del corpo, grattarsi o toccarsi i capelli, girare l’anello al dito, far ruotare una penna).

I movimenti dei gesti delle mani risultano legati soprattutto ai contenuti verbali. La

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La postura

L’atteggiamento posturale di un individuo andrebbe considerato come un condizionamento esercitato oggi dalle esperienze emozionali sedimentate lungo la sua storia e non tanto come espressione del suo atteggiamento del momento.

Oltre alla presenza di posture caratteristiche si possono notare in alcuni casi delle caratteristiche sequenze posturali che possono essere indicative della posizione psicologica di un individuo (spostamenti netti del tronco in avanti o indietro mantenuti fermi per un certo periodo, sono stati associati ad una posizione ambivalente così come le posizioni simultanee in cui una parte del corpo sempre contrapporsi all’altra sua parte. Una postura prolungata di particolare fissità indica invece una possibile difficoltà ad accettare e seguire le proprie variazioni emozionali = la priorità per questi soggetti è mantenere gli equilibri psicologici).

Il viso e lo sguardo

L’espressione del viso è l’elemento non verbale a cui si presta più attenzione in caso di incongruenza. La sua enorme capacità espressiva permette di comunicare diversi tipi di emozione. Le emozioni spontanee si manifestano nel viso molto rapidamente (frazioni di secondo) specialmente le emozioni che si vogliono nascondere, ma tali emozioni possono essere, sempre a livello del viso, simulate sia per ingannare che per convenzione sociale.

I segnali facciali rapidi, come le espressioni emozionali, sono il risultato di movimenti della pelle del viso e del tessuto connettivo in concomitanza con una contrazione di uno o più dei 44 muscoli bilaterali simmetrici che costituiscono i muscoli facciali. Dal punto di vista biochimico, l'attivazione neurale dei muscoli striati risulta dal rilascio di acetilcolina a livello motorio, che a sua volta attiva i potenziali di azione del muscolo (Muscle Action Potentials, MAPs) che sono propagati in modo bidirezionale, attraverso le fibre muscolari, e mettono in moto il meccanismo fisiochimico, responsabile della contrazione del muscolo. Tali muscoli striati si suddividono in due gruppi principali. Il primo gruppo, formato da quattro elementi innervati dal nervo trigemino, sono attaccati e muovono la struttura scheletrica della mandibola durante la masticazione. L'altro gruppo, formato dai quaranta muscoli rimasti e innervati dal nervo facciale, sono attaccati alle ossa del volto. Essi non operano direttamente muovendo le strutture dello scheletro, ma piuttosto combinano i tratti facciali in configurazioni significative.

Le emozioni principali che possono essere espresse attraverso il viso sono: sorpresa, paura, dolore, disgusto, disprezzo, tristezza e felicità esse sono registrate da cambiamenti dei muscoli della fronte, delle sopracciglia, delle palpebre, delle guance, del naso, delle labbra e del mento. (Todesco 2011). Alcune persone presentano un deficit propriocettivo rispetto all’espressione dell’emozione che può portare a non nascondere le proprie emozioni oppure ad una difficoltà ad esprimerle (fissità del volto).

Lo sguardo distolto in modo fisso durante l’interazione è segno di psicosi e sintomo autistico;

mentre distogliere lo sguardo nel caso di persone autistiche è una costante del loro modo di porsi con gli altri nel caso della psicosi schizzofreniche l’evitamento avviene soprattutto quando si toccano argomenti che riguarda dei problemi del paziente.

Lo sguardo può essere usato come modulatore nella relazione ad es. terminare di parlare guardando una persona indica la disponibilità di farlo parlare, dall’altra parte non guardare in faccia una persona indica una mancanza di disponibilità a cedere la parola e ad ascoltare.

Non guardare in faccia una persona rende difficile per chi parla concentrarsi sui propri pensieri. Tanto più è difficile l’argomento tanto meno si tende a mantenere il contatto oculare. Parlare ad un'altra persona mantenendo il contatto oculare significa che quell’argomento è semplice per lui da esporre, oppure che sta parlando spontaneamente,

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oppure che sta parlando senza pensare. Non guardare in viso mentre si parla sta ad indicare una difficoltà nella verbalizzazione oppure che si sta pensando prima di parlare. Guardare altrove per tutta la sequenza indica che si sta elaborando mentalmente i concetti prima di esprimerli. Se l’eloquio è molto spedito significa che si sta riproponendo una sequenza già memorizzata.

La capacità di guardare negli occhi le persone con cui si sta parlando ha a che fare con la persuasività. In questo caso la persona tendere a guardare in viso l’altro più a lungo (risulta essere più persuasivo chi guarda di più negli occhi). La direzione degli sguardi dall’alto verso il basso sta a indicare una identificazione con un ruolo più paternale mentre quello orientato dal basso verso l’alto più filiale.

Movimenti e posizioni di alcune parti del corpo

Volgersi con una parte del corpo o con la testa verso il nostro interlocutore manifesta a quest’ultimo interesse. Annuire con la testa spesso non significa concordanza, può essere semplicemente un modo per assecondare senza volere essere coinvolti. Quando questo movimento è costituito da una rapida sequenza ripetuta comunica impazienza e desiderio che l’altro finisca al più presto. E’ una sorta di attivazione per intervenire (se e lento e ripetuto indica approvazione). Scuotere occasionalmente la testa lateralmente (come per dire “no”) può essere la manifestazione di conflitti intrapsichici. Inclinare la testa di lato con un sguardo fittizio dal basso all’alto comunica presa di distanza. Se il capo tende leggermente indietro può essere segno di valutazione di dubbio o perplessità. Se il capo tende in avanti nel tentativo di ridurre la propria altezza è un segno anassertivo di sottomissione di sé.

Spostare la testa all’indietro e segno di esasperazione e cedimento, sollievo o abbandono a seconda degli altri gesti che vengono compiuti. Quando invece la testa all’indietro rappresenta piuttosto un tratto posturale allora siamo di fronte ad un atteggiamenti di supponenza e superiorità. Ritirare la testa tra le spalle viene osservato solitamente nelle persone con un attitudine di opposizione passivo/aggressiva e ostinazione negativistica.

Quando a muoversi in modo importante sono le gambe e la testa ciò è indice di ansia (in modo particolare l’incontrollabilità dei movimenti).

La posizione seduta con le gambe aperte negli uomini indica aggressività, dominanza o disponibilità. La diagonalità delle gambe indica un non completo coinvolgimento, desiderio di sottrarsi di fuggire e di controllare il proprio angolo prospettico. Tenere le gambe accavallate è indice di autoprotezione. Se oltre alle gambe il busto è piegato in avanti ciò è un segale di chiusura. Le posizioni delle gambe e i loro cambiamenti nell’interazione sono molto indicativi del grado di disponibilità dell’intervistato ad aprirsi.

La prossemica

La prossemica studia l’uso che le persone fanno della distanza e dello spazio nell’organizzazione sociale, lavorativa e nelle relazioni interpersonali.

Il rispetto della prossemica dell’altro permette una riduzione dei conflitti. Porre attenzione alla gestione del spazio durante il colloquio è una fonte di equilibrio nelle diade (ad es l’uso dello spazio che viene fatto su una scrivania è indice dell’atteggiamento dell’altro vuole espandersi, aprirsi all’altro cercare un contato oppure no).

Esistono quattro tipi di distanza: quella intima 0 – 45 cm, quella personale 45 – 120 cm, quella sociale 120 – 350 cm e quella pubblica 350 cm in poi.

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maschi preferiscono stare di fianco mentre le femmine di fronte, gli europei in ascensore tendono a mettersi in cerchio lungo le pareti, gli americani in fila con il viso rivolto verso la porta). L’orientamento del corpo sta a indicare nel caso della posizione frontale una maggiore disponibilità e coinvolgimento e nella posizione a fianco invece quella di collaborazione. (Todesco 2011)

Elementi espressivi della voce

La voce contiene diversi elementi espressivi che manifestano inconsapevolmente la tendenza dei soggetti alla convergenza o alla divergenza con l’interlocutore o il gruppo con cui agiscono, a seconda che prevalga in loro la tendenza alla integrazione o alla differenziazione.

L’intonazione è l’elemento della comunicazione verbale che è meno legata al contenuto.

Poiché il “tono” della voce può essere compreso al di là della capacità di comprendere le parole dette. Uno degli elementi costitutivi dell’intonazione è la tonalità. La tonalità può essere grave o acuta. Essa dipende dal modo in cui la voce viene emessa dal corpo, dall’età, dallo spessore delle corde vocali. Oltre alla tonalità un secondo fattore costituente della voce è il timbro. Esso dipende dall’uso dei muscoli respiratori, lo stato della glottide, della faringe, dei muscoli del naso e della cavità orale. La tonalità della voce e il timbro sono in parte determinati dalla cultura di appartenenza. In alcuni casi si può ipotizzare che intonazioni infantili siano un indice di ambivalenza rispetto all’assunzione del proprio ruolo adulto e alla maturazione sessuale. Una voce grave viene percepita come un indice di dominanza.

La melodia della voce invece viene associata all’espressione emozionale del momento. La melodia della voce ne caratterizza la vivacità o la monotonia. Favorisce l’espressione di toni lamentosi, di scusa, di rimprovero di supplica di sorpresa ecc. In sintesi possiamo affermare che l’intonazione della voce con tutti i suoi elementi costituenti (tono, timbro e melodia) rappresentano dei messaggi analogici perché relativamente universali. Essi dipendono dall’attivazione muscolare che corrisponde a certe emozioni che si riflettono sulla voce.

Gli elementi paralinguistici sono gli elementi non linguistici della componente verbale e per esistere hanno bisogno di un parte verbale. (Castelli 201)

I principali elementi paralinguistici sono:

Qualità dell’eloquio, velocità, lentezza pause, esitazioni

 Fluenza e difetti di fluenza (balbuzie)

 Pronuncia e articolazione

 Inflessione dialettale

Manifestazioni organiche (tossire schiarirsi la voce sbadigliare) Qualità dell’eloquio, velocità, lentezza pause, esitazioni

Parlare con un ritmo veloce è segno di dominanza oppure che si vuole ribadire la propria superiorità messa in discussione. Infatti è anche un indice di ansia e insicurezza. Quando invece il ritmo del parlato è lento e regolare comunica rassicurazione al contrario invece un ritmo irregolare e non fluente comunica incertezza. Quando l’eloquio manca di dinamismo è probabile che ciò comunichi apatia e chi ci ascolta perda l’interesse per quello che stiamo dicendo. La difficoltà a seguire spesso è associata alla lentezza espositiva caratterizzata da mancanza di forza espressiva, esitazione che vengono interpretate come ansia e insicurezza.

Pause e silenzi nell’eloquio non hanno lo stesso valore. Poiché una persona che fa una pausa sta comunicando ancora qualcosa. Esse infatti possono anche servire per catturare l’attenzione e mantenere vivo l’interesse.

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Le manifestazioni organiche nella misura in cui si rivelano come delle ridondanze rappresentano delle vere e proprie esteriorizzazioni di vissuti intrapsichici.

a) tossire o schiarirsi la voce nel parlare è segno di un atteggiamento cauto e inibito nell’espressione oppure può essere un modo per richiamare l’attenzione

b) scatti del muscolo diaframmatico (colpetto di tosse isolato) indicano uno sforzo costante. Spesso accompagnano il vissuto esistenziale di una persona tormentata che si sforza e si sacrifica e non esprime la propria sofferenza.

c) Vocalizzazioni e suoni muti (mmh… eh…) sono usati spesso per tenere in sospeso un discorso; possono segnare il timore di essere rifiutati o il bisogno di tenete agganciati gli interlocutori.

Sbadigli, sospiri o soffiarsi il naso, per il loro significato, sembrano legati soprattutto a quanto sta avvenendo nel discorso a volte rappresentano dei veri e propri commenti spontanei.

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6. LE ABILITÀ SOCIALI NELL’INTERAZIONE

Todesco F. 2016, Appunti delle lezioni di Principi e tecniche della relazione assistenziale AA 2016/2017

Le abilità sociali e di interazione possono essere suddivise in abilità di produrre e di comprendere i messaggi. L’abilità di produrli prevede una certa competenza nella capacità di adattare la comunicazione al livello culturale e al sistema concettuale del nostro interlocutore. I prerequisiti di tale abilità (oltre alla scelta del linguaggio) sono quelli di saper usare i gesti e i sistemi di comunicazione paralinguistici in modo adeguato e finalizzato.

I comportamenti che la caratterizzano sono: chiedere ulteriori informazioni se non si ha capito, utilizzare un linguaggio ricco (ricchezza del vocabolario) usare le pause e modulare il ritmo e il tono dell’eloquio. In sintesi può essere definita come la capacità di predisporre i nostri comportamenti al fine di comunicare con l’altro. L’abilità di comprenderli, invece prevede prima di tutto una certa abilità di ascolto.

Per ascolto si intende un processo in cui avviene la registrazione, l’interpretazione, l’integrazione del contenuto verbale , non verbale e para-verbale, un processo che integra elementi fisici, emozionali e cognitivi, i principi su cui si deve basare l’ascolto sono:

1) l’attenzione di chi ascolta deve essere finalizzata e occorre avere uno scopo nella ricerca di informazioni o significati

2) è necessario sforzarsi di non giudicare, ma di accettare l’altro per come è (dunque anche le sue diverse opinioni, interessi, bisogni esperienze stati d’animo)

3) è importante non farsi distrarre da rumori, oggetti, e persone presenti nel campo percettivo e restare concentrati su colui che sta interagendo con noi

4) occorre resistere alla tentazione di formulare mentalmente risposte da dare all’altro sulla base di una prima impressione; preparare risposte troppo rapide interferisce con la capacità di ascolto

5) occorre essere in grado di ripete in maniera fedele ciò che il nostro interlocutore ha espresso (riformulare con le proprie parole i contenuti e i sentimenti espressi dall’altro e verificare il suo livello di soddisfazione)

6) è necessario saper fare sintesi e valutazioni circa i contenuti espressi

L’ascolto è ritenuto quindi un’abilità indispensabile per comprendere gli altri. Per riuscire ad avere una buona comprensione dei messaggi è necessario avere una sensibilità percettiva spiccata che consenta di registrare i messaggi verbali, non verbali e para verbali, interpretarli ed integrali in modo corretto al fine di “leggere” i messaggi e coglierne i significati.

La comprensione dei messaggi infine dipende dalla capacità che ha il soggetto di mettersi in contatto con la realtà, e in modo particolare, con il mondo dell’interlocutore. Quest’ultimo aspetto si ottiene con un’elaborazione costante dei propri e altrui comportamenti che presuppone la consapevolezza di quanto succede mentre comunichiamo (abilità questa che favorisce la congruenza).

L’immagine di sé, la fiducia in se stessi e la capacità di ascolto stanno alla base delle nostre abilità sociali di interazione poiché l’immagine di sé e la fiducia in se stessi influenzano le nostre relazioni (es una persona insicura tenderà a percepire gli altri come una minaccia e mettere in atto atteggiamenti difensivi). Intervenire sul modo in cui ci si presenta agli altri è un modo per evitare sconferme negative di noi stessi. L’idea che un individua ha di se stesso non è indipendente da quello che gli altri pensano di lui.

La funzione maieutica della comunicazione si realizza quando non si cede nell’errore di voler influenzare l’altro. Essa è possibile solo nella misura in cui chi comunica ha maturato un certo grado di consapevolezza di sé. Cioè riesce a essere consapevole di come comunica, dei suoi pensieri e di perché ha quei pensieri, delle sue emozioni e del perché le sta provando, dei suoi comportamenti (parole gesti) e li sa adattare al contesto per aggiustarli e/o adattarli alla situazione. (Todesco)

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Le abilità necessarie per comunicare in modo efficace

Affermare che in ogni caso si comunica non significa però che ogni comunicazione sia efficace e soddisfacente. La comunicazione risulta spesso insoddisfacente quando è egocentrica e non ci permette di sentirci compresi dall’altro o semplicemente ascoltati. Una comunicazione è sicuramente efficace se chi ascolta riesce a mettere in atto un atteggiamento di decentramento. Si ottiene un reale decentramento se si riesce a considerare che ogni uno di noi ha propri modi di comunicare, propri codici e strumenti per esprimersi e porsi all’altro. Ha un livello culturale e proprie conoscenze, ma non sempre il nostro interlocutore condivide tutti questi aspetti della nostra realtà personale e ciò può rendere difficile la comprensione reciproca. Spesso possiamo trovarci a contato con persone che non dispongono della nostra stessa ricchezza linguistica e del nostro livello culturale, o ancora del nostro sistema concettuale ecc.. E’ chiaro che se io mi intestardisco a voler comunicare secondo i miei criteri che ritengo, giustamente, corretti, non realizzerò una comunicazione piena. Perché ci sia un passaggio reale di informazioni devo modulare le mie modalità di comunicazione in modo che l’altro sia realmente nelle condizioni comprendere, di recepire la comunicazione.

Decentrarsi significa, per chi riceve i messaggi: assumere un atteggiamento di ascolto vero, con lo sforzo di cogliere quanto viene espresso secondo la dimensione comunicativa dell’altro; come emittente di messaggi, devo operare una scelta attenta delle mie modalità comunicative per costruire e trasmettere il messaggio nel modo che ritengo più direttamente comprensibile e vicino all’ambito di significati e vissuti del destinatario, facendo attenzione soprattutto alle sue risorse comunicative e relazionali.

E’ possibile migliorare in età adulta la nostra competenza comunicativa? Probabilmente è possibile in quanto la competenza comunicativa dipende da diversi fattori, infatti comunicare in modo efficace richiede: 1) una capacità nel raccogliere le informazioni che si ottiene grazie ad una certa sensibilità percettiva che deve essere notevole, perché ci deve permettere di accorgerci dei segnali che gli altri ci inviano, ma anche avere gli strumenti cognitivi per decodificarli correttamente; 2) una certa abilità nel produrre l’informazione che vogliamo dare nel momento in cui invieremo il messaggio. A questo secondo livello è necessario possedere una certa abilità nel usare gli strumenti come il linguaggio, i segnali ed i gesti. Tuttavia esiste un terzo livello 3) che può essere considerato di carattere più intra- psichico che non inter-personale, come gli altri due, in quanto recepire un messaggio vuol dire mettersi a contatto con la realtà, con il mondo, con gli interlocutori. Questo terzo livello richiede un’elaborazione interna costante, ovvero la capacità di monitorizzare i propri comportamenti comunicativi, che presuppone la consapevolezza di quanto succede mentre comunichiamo. Se per esempio facciamo finta di ascoltare, accadrà che il nostro interlocutore se ne accorgerà subito. Pertanto possiamo dire che si possono ottenere rei risultati migliori nella comunicazione se si accettiamo quei momenti in cui non siamo disponibili ad ascoltare gli altri e lo troviamo il modo semplicemente per comunicaglielo invece che di mascherarla. In questo modo la nostra comunicazione risulterà coerente.

In sintesi possiamo quindi dire che ci sono degli strumenti e dei modi concreti per affinare l’attenzione selettiva, la sensibilità, la prontezza a cogliere negli interlocutori i segnali, i segni, i messaggi che a volte possono sembrare ambigui o nascosti. (Castelli)

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La competenza comunicativa

Per competenza comunicativa si intende la capacità di padroneggiare un ampio set di conoscenze, esperienze, azioni in riferimento ad un vasto insieme di circostanze. Ciò che caratterizza tale competenza sarà ad esempio la capacità di caratterizzare in modo adeguato e corretto l’interazione. Andando ad esempio ad utilizzare le parole comprensibili per chi ascolta, evitare fraintendimenti, chiedere di dare altre informazioni piuttosto che dare sempre tutto per scontato. Essere competenti dal punto di vista espressivo, significa aver affinato i propri strumenti linguistici, possedere una certa la ricchezza espositiva (il vocabolario), modulare l’esposizione attraverso l’uso di pause da adeguare al contenuto, controllare il ritmo espositivo, utilizzare la propria voce per modulare il tono e quindi dare più enfasi ad alcuni passaggi ottenendo così una meta-comunicazione. La competenza dal punto di vista della ricezione dei messaggi invece richiede la capacità di registrare i messaggi verbali e non verbali, di intrepretarli e integrarli in maniera corretta e adeguata, di decentrarsi rispetto al ruolo e alla situazione in cui avviene lo scambio. Non deve essere intesa come una “mera tattica” da utilizzare in modo meccanicistico essa infatti è una competenza assai più complessa che prevede la duplice abilità di saper “leggere ed ascoltare”

e nel contempo predisporre i comportamenti comunicativi e i messaggi mediante la parola, i segni, i gesti, le espressioni del volto in forma adatta all’interlocutore, con azioni adeguate rispetto ai ruoli e al contesto sociale.

Ma rispetto a questo set di risorse si può dire che una buona competenza relazionale dipende prima di tutto da due specifiche capacità che sono l’immagine di sé e fiducia in se stessi e la capacità di ascoltare, poiché è nella loro articolazione e caratterizzazione che dipenderanno tutte le variabili che concorrono a strutturare una buona competenza relazionale. Immagine di sé e fiducia in se stessi: ciò che ognuno di noi pensa di se stesso e il valore personale che ciascuno attribuisce determinano un’influenza sulle proprie relazioni con gli altri. Una persona che si considera insicura può avere la tendenza a

vedere gli altri come una minaccia e mettere in atto comportamenti difensivi. La scarsa fiducia in se stessi comporta in molti casi difficoltà a conversare con gli altri, ad ammettere i propri torti, a esprimere i sentimenti, ad accettare le critiche costruttive o anche semplicemente accettare i punti di vista degli altri ed esprimere le opinioni personali. Quindi per promuovere la competenza sociale di un individuo occorre intervenire anche sulla modalità con cui ci si presenta agli altri, al fine di evitare conferme sistematiche in negativo della propria immagine personale e sociale. L’opinione che un individua ha di se stesso, infatti, non è indipendente da quello che gli altri pensano di lui. Il sé, la propria immagine di se stessi è il frutto anche delle auto-rappresentazioni circa il modo in cui gli altri ci vedono.

La capacità di ascolto un’abilità fondamentale nella comunicazione.

La capacità di ascolto viene spesso messa in secondo piano rispetto alle abilità espressive della comunicazione (verbale e non verbale). Ma il “dire” attraverso codici verbale e non verbali, non è che uno dei passaggi che caratterizzano la comunicazione. L’ascolto va inteso come il processo attraverso il quale avviene la registrazione, l’interpretazione e l’integrazione del contenuto verbale e non verbale. Senza ascolto non vi è comunicazione, ma solo un offerta di interazione disattesa. Tale capacità avviene attraverso un processo che integra elementi sia fisici, emozionali e cognitivi nella ricerca di un significato e di una comprensione più ampia. Si sarà ottenuto l’ascolto quando si è stati in grado di distinguere e capire cosa voleva dirci l’altro. Qual’ ora ciò non avvenisse la competenza comunicativa starà nel chiedere delle informazioni supplementari (per chi è in una posizione down e nel caso delle relazioni asimmetriche può essere difficile chiedere spiegazioni supplementari).

Rispetto al set di risorse in cui si articola la competenza comunicativa vi è dunque un’altra

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specifica dimensione interpersonale da considerare con attenzione. Essa concerne i livelli di autoconsapevolezza e fa riferimento alla capacità di accorgersi di come ci si comporta, di essere consapevoli di ciò che ci succede, di monitorizzare continuamente il proprio comportamento e i propri pensieri nel corso dell’interazione. Un conduttore non resterà mai indifferente di fronte all’altro, avrà delle reazioni interne (simpatia, antipatia, insoddisfazione ecc.) di varia natura ed è necessario che sappia leggerle correttamente valutando l’opportunità o meno di intervenire per aggiustare o modificare il suo comportamento.

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7. IL COLLOQUIO NELLA RELAZIONE ASSISTENZIALE

Todesco F. 2016, Appunti delle lezioni di Principi e tecniche della relazione assistenziale AA 2016/2017

Un colloquio non può essere inteso come un’interrogazione, ma come un incontro che offre la possibilità di estrarre informazioni nuove anche al soggetto su cui non ha mai riflettuto o non in modo così approfondito. Soltanto una competenza allargata il conduttore può essere in grado di svolgere questa delicata funzione “maieutica” senza cadere nell’errore di influenzare il soggetto.

Il colloquio nelle sue varie accezioni e sfumature, è il metodo utilizzato da tutte le scienze sociali per favorire la conoscenza di sé, la comprensione degli interventi necessari. In un colloquio di natura psicologica vi è un soggetto che propone di sé un immagine, fornisce informazioni, esprime opinioni, comunica un disagio o implicitamente una richiesta d’aiuto e più in generale c’è un altro, il conduttore, che osserva, raccoglie, analizza e interpreta le informazioni e le azioni, attribuendo ad esse dei precisi significati. Il colloquio è una forma specializzata di comunicazione le cui modalità di esecuzione sono vincolate alla teoria di riferimento del conduttore. Si è soliti distinguere il colloquio dall’intervista. Quest’ultima infatti è caratterizzata da un minor livello di profondità. Nell’intervista strutturata le domande vengono poste in modi più o meno strutturato, e solitamente vengono poste con un ordine prefissato. Nell’intervista semi strutturata l’ordine e il tipo di domande è meno rigido. Infine nell’intervista non strutturata l’intervistatore utilizzerà solo una lista di argomenti da trattare per andare a sondare le varie aree d’interesse. Nel caso del colloquio invece il conduttore non ha una lista di argomenti da approfondire ne un elenco di domande, egli asseconderà l’intervistato nei tempi e nei contenuti e nelle tappe di avvicinamento e di approfondimento dei contenuti che sono più rilevanti, mantenendo un ruolo da facilitatore.

Di seguito vengono riportate una serie di caratteristiche di personalità e abilità che dovrebbe possedere un buon conduttore di colloqui. (Castelli)

Individuo con personalità integrata armonica con buona conoscenza di sé e del proprio modo di essere.

Motivazione ed esecuzione del colloquio non come routine da svolgere in modo burocratico.

Disponibilità al rapporto sociale, con curiosità e interesse per le persone.

Autentica educazione alla libertà per un genuino rispetto della personalità e della persona

Forte capacità comunicativa e viceversa flessibile capacità di ascolto

Capacità di decentramento, di porsi dal punto di vista dell’altro sia in termini cognitivi che affettivi

Comprensione empatica ma con corretta distanza emotiva dall’altro

Rispetto dell’autodeterminazione

Capacità di assumere una benevola neutralità

Capacità di parlare con "tatto” e di essere in “contatto” con l’altro

Calore e disponibilità affettiva per “far sentire al soggetto che lo si considera con un genuino interesse e che lo si accetta come persona”

Assenza di atteggiamenti moralistici e legalistici per facilitare l’espressione di tutti i sentimenti

Astensione da qualsiasi tipo di pressione o coercizione

Atteggiamento collaborativo e non inquisitivo

Disponibilità e capacità a fornire supporto psicologico nei momenti di ansia

Capacità a riconoscere e tener conto dei possibili meccanismi di difesa.

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