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Come può reagisce psicologicamente una persona che sa di morire?

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COMUNICARE CON PERSONE CON DEFICIT COMUNICATIVO VERBALE TEMPORANEO

1. Come può reagisce psicologicamente una persona che sa di morire?

Si sostiene che le nostre prime separazioni ci hanno dato il primo amaro assaggio della morte. E i nostri successivi incontri con la morte, con la morte che ci passa vicini o che bussa alla nostra porta, ci fanno rivivere i terrori di queste prime separazioni. La morte come esperienza drammatica di separazione e perdita può essere ricollegata - in un’ottica psicodinamica - alla nascita. In entrambe, emozioni e angosce presentano delle analogie.

Il moribondo, secondo questo approccio, sperimenterebbe le angosce tipiche dei primi giorni di vita. M. Klein afferma che, la prima angoscia che il neonato sperimenta, è paradossalmente l’angoscia di morire, di essere annientati e distrutti. La tesi di Klein poggia sul concetto di pulsione di Freud che ne individua 2 tipologie: la pulsione di vita (eros) e la pulsione di morte (tanathos). Anche Winnicott, studioso dell’infanzia, ha cercato di

Nascita e morte dunque si configurano come situazioni paradigmatiche di separazione dalla vita intrauterina l’una, dalla vita stessa l’altra. Il morente sperimenta angoscia di perdita e abbandono, di annientamento e disintegrazione (Cannella, Cavaglia e Tartaglia. 2001).

Se l’angoscia del neonato viene contenuta e neutralizzata da una madre , che Winnicott descriverebbe come “sufficientemente buona”, capace cioè di prendersi cura del figlio, di sostenerlo nel suo sforzo di integrazione, allora essa viene tenuta lontana, arginata.

Anche nella malattia grave e nella sofferenza abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti e svolga una funzione vicariante, di supporto, di contenimento, che ci permetta di esprimere tutto il terrore che proviamo. Spesso gli operatori che stanno più vicini ai malati si trovano a svolgere delle funzioni materne (maternage) molto simili a quelle di una madre.

Non c’è resoconto più lacerante dell’angosciante confronto di un uomo con la propria mortalità che in La morte di Ivan Illich di Leone Tolstoj, dove un uomo malato arriva ad accorgersi che:

“qualcosa di tremendo, di nuovo e più importante di quanto gli fosse mai accaduto prima stava succedendo…”. Si accorge che stava morendo. “ Dio mio! Dio mio!… Sto morendo…potrebbe accadere in questo momento. C’era luce ora c’è il buio. Ero qui e ora sto andando là!.. Non ci sarà nulla… Questo è morire? No, non voglio!”

La famiglia e gli amici di Ivan non possono dare sollievo alla sua angosciata solitudine, perché nessuno parla o lo lascia parlare della sua morte. Essi infatti non solo evitano di menzionare questo macabro argomento:

“questo inganno lo torturava – il loro non voler ammettere che sapevano quel che lui sapeva, ma volergli mentire riguardo alla sua terribile condizione, e volerlo forzare a prender parte a questa bugia. Quella bugia – bugia recitata per lui alla vigilia della sua morte e destinata a degradare questo atto solenne e terribile…._ era una sofferenza tremenda per Ivan. E, cosa abbastanza strana. Molte volte.. era stato sul punto di gridar loro: “Smettetela di mentire!

Voi sapete e io so che sto per morire. Allora smettetela almeno di mentire!”

Questi tabù di parlare della morte, queste bugie attorno alla morte sono stati vigorosamente contestati in libri molto autorevoli come quello di Elisabeth Kubler-Ross, intitolato On Death and Dying, che ci invita ad aprire un dialogo con i malati allo stadio terminale.

Questa psichiatra sostiene che c’è continuità tra le varie fasi della vita emozionale di una persona, compresa quella ultima del morire. La personalità che organizza tutto l’essere di un individuo, quello fisico e quello psichico, lungo tutta la sua storia, non può abbandonarlo improvvisamente di fronte al trauma tanatico. Il rivoluzionario muore da rivoluzionario, il collerico da collerico, il martire da credente, il depresso difficilmente si rallegrerà alla fine della vita, continuerà invece ad autocommiserarsi. Socrate muore come è vissuto. Lo racconta Platone nel Fedone. Si mostrava del tutto indifferente di fronte alla morte. Nessuna angoscia, ma serenità stupefacente. Anzi rimproverava coloro che si lasciavano deprimere dalla prospettiva della sua morte. Gesù Cristo, al contrario di Socrate, morì tra atroci sofferenza fisiche e morali. Ma morì come era vissuto, con perfetta coerenza di pensiero, di atteggiamenti e di sentimenti. Come c’è una tipologia di personalità, così esiste una tipologia di morenti. (Tiberi, 1988)

Gli studiosi di lingua inglese fanno sempre distinzione tra “death” a “dying” (morte e morire).

La morte è una sola. Il morire no. Si può fare esperienza emozionale del morire più di una volta e quindi raccontarlo. I morti hanno finito di raccontare.

Il processo psicofisiologico che disgrega un organismo fino a portarlo alla morte costituisce il morire. Si chiama anche agonia perché comprende tutti gli ingredienti della lotta: le emozioni, lo sforzo energetico della resistenza, lo scontro mentale con l’avversario (introiettato) che avanza ineluttabile.

Le fasi del morire: il modello di E.K. Ross

I malati terminali anche se non sono ancora morenti passano attraverso varie fasi emozionali prima di morire. Kubler-Ross ha empiricamente constatato che le fasi emozionali del processo del morire sono cinque. Anche la stessa autrice, in un altro libro parla di sette stadi o fasi: lo shock iniziale, il rifiuto, la collera, il patteggiamento, l’accettazione, la depressione, e la decathesis. L’uomo cresce all’inizio della vita o decresce alla sua fine passando attraverso stadi psicologici. L’impatto con la morte, a meno che manchi il tempo, avviene emotivamente per fasi. Tiberi (1988) studioso delle emozioni afferma che:

“………..un aeroplano si adatta alla terra o all’acqua, scendendo dal cielo, passando da alte velocità a velocità sempre più basse, planando, cercando l’impatto morbido. Le fasi emozionali del morire sono adattive, come adattiva è la funzione dell’emozione, sempre. Per questo il morire è prevalentemente un fenomeno emozionale, almeno dal punto di vista psicologico e della coscienza. La lotta dolorosa stessa degli agonizzanti è permeata di emozioni ed è a suo modo adattiva. Prepara il trapasso. Lo può perfino far desiderare come una liberazione. Perfino chiedere di accelerarlo”

Il primo stadio emozionale del morire è lo shock. Il rischio di morte deve essere percepito come imminente per far scattare lo shock. La persona è colta dal panico e cerca di allontanare la realtà fingendo che nella sua vita non sia cambiato nulla. Inizia così lo stadio del rifiuto o la negazione della malattia mortale. Non può essere vero! Perché proprio a me?

La morte non riguardava gli altri? Non è possibile? Chi manderà avanti l’azienda?

Il giorno che la sentenza sarà definitiva scatterà la rabbia e la collera per il proprio destino

“Perché io? Iniziano le corse disperate da specialisti – è la fase delle indagini e delle verifiche.

Prima o dopo si deve guardare in faccia la realtà. Comincia allora il patteggiamento o trattativa. Se credente, la persona mercanteggia con Dio. A questo proposito le pareti dei santuari sono ricoperte di ex voto. “Prometto se mi salverò…”.

Al patteggiamento con la morte (o con Dio o con altri personaggi santi e potenti) spesso partecipa anche la famiglia. C’è una contaminazione emozionale intensa. La Kubler-Ross sostiene che la famiglia passa attraverso questi stadi prima e dopo la morte del congiunto.

Subentra poi la depressione. Tutto è oscuro e triste. E’ la fase più realistica dal punto di vista psichico perché la morte è inevitabile. Quando la persona parla della propria vita passata e di come parleranno di lei dopo la morte, subentra lo stadio dell’accettazione. Ziegler afferma che la coscienza del morente che è entrato nella fase di accettazione, non solo non mostra segni di decadenza, ma di progresso. Non deve essere intesa come una “fase felice”, ma una sorta di “vuoto di sensazioni” .

Con la fase della decathexis il mondo esce dagli interessi del morente. E’ il distacco dalle cose del mondo.

Il problema della comunicazione con l’ambiente regredisce al punto di partenza, cioè ai primi mesi di vita, quando il neonato non parlava ma si esprimeva mediante il linguaggio non verbale (emozionale e corporeo).

Emozioni, stadi psicologici del morire e approccio relazionale

L’emozione aiuta a entrare e uscire dalla vita la sua funzione assomiglia al carrello di un aereo (Tiberi, 1988).

Sorge legittima la domanda: tutti dobbiamo passare attraverso queste fasi?

I critici della Kùbler-Ross sostengono di no. Non tutti vogliono guardare alla propria morte;

alcune persone stanno meglio se si aggrappano fino alla fine alla negazione.

Nell’accompagnamento di un paziente terminale se ci rifacciamo esclusivamente al modello teorico di Kùbler-Ross c’è Il rischio di imporre un modo “giusto” di morire. Shneidman, che a sua volta ha lavorato a lungo con i morenti, scrive che la propria esperienza lo ha portato a conclusioni radicalmente opposte da quelle della psichiatra svizzera.

“……Respingo la nozione secondo la quale tutti gli esseri umani, quando muoiono, sono costretti a passare attraverso una serie di fasi. Al contrario…gli stati emotivi, i meccanismi psicologici di difesa, i bisogni e le pulsioni, sono variegati nel morente come nel non morente…Includono reazioni come lo stoicismo, la rabbia, la colpa, il terrore, l’umiliazione, la paura, la resa, la dipendenza, la noia, il bisogno di controllo, la lotta per l’autonomia e la dignità, la negazione (E. Shneidman, Voices of death) (Cit. in Viorst, pag 321)

La tesi di Shneidman è che non esisterebbe una legge naturale per la quale un individuo debba raggiungere uno stato di grazia psicoanalitica o qualsiasi altro tipo di stadio finale prima che la morte metta i suoi sigilli.

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