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Diffamazione: quando si configura il reato

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Diffamazione: quando si configura il reato

written by Redazione | 17/04/2019

Il confine tra la diffamazione e il diritto di critica: quando le offese diventano reato.

Nell’elenco dei reati più frequenti, oltre a quelli tipici di ogni tempo – il furto, la rapina, la violenza, ecc. – si è inserita, negli ultimi anni, la diffamazione. Complice l’utilizzo dei social network e una ingiustificata disinvoltura nell’utilizzo di un linguaggio offensivo e oltraggioso, divenire vittima di insulti è purtroppo ricorrente.

Cosa si deve fare in questi casi? Nel momento in cui si raccolgono le prove della diffamazione, si può denunciare: il comportamento è infatti tutt’ora considerato un reato (la depenalizzazione del 2016 ha infatti riguardato solo l’ingiuria, ossia l’offesa fatta a quattr’occhi e in assenza di altre persone). La denuncia viene raccolta dalla polizia postale nel caso di offese su internet. Negli altri casi si può anche andare dai carabinieri. In alcune ipotesi è possibile ricorrere anche al Garante della Privacy per l’illegittima pubblicazione di una notizia che, seppur vera, è tuttavia obsoleta e non più attuale.

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Il vero nocciolo della questione però è stabilire, nell’era dell’informazione e della comunicazione, qual è il confine tra una normale critica e un’offesa. Posto che, nel momento stesso in cui si riporta un fatto si è indirettamente portati a qualificarlo – e solo i più abili giornalisti di professione riescono a darne una descrizione asettica – bisogna ben comprendere quando si configura il reato di diffamazione e, quindi, si può agire per la tutela della propria reputazione.

Forse una delle più chiare sentenze in proposito, tra le varie pronunce con cui la giurisprudenza ha stabilito cos’è la diffamazione e quando c’è diffamazione, è proprio quella pubblicata dalla Cassazione un paio di mesi fa [1]: a febbraio di quest’anno la Corte si è infatti prodigata nel definire quando si può parlare di diritto di critica e quando si configura diffamazione. Vediamo cosa è stato detto in questa occasione.

L’informazione deve essere asettica e neutrale?

Quando si pensa al giornalismo, spesso si immagina una forma espositiva asettica e neutrale, lontana da giudizi sia pur velati. Non è così. Il giornalista – così come ogni altra persona che intende fare informazione (un blogger, un utente di un social, l’autore di un articolo) può esprimere il proprio giudizio, purché non travalichi determinati limiti. Entro tali confini la sua manifestazione del pensiero rientra nel diritto di critica e di espressione; al di fuori di essi, invece, si configura la diffamazione.

Del resto, quando la Costituzione parla della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) si riferisce proprio a questo, ossia ai pareri soggettivi:

quale bisogno ci sarebbe stato, altrimenti, nel riconoscere il diritto a riportare un fatto per come è avvenuto? È chiaro che la libertà riconosciuta dal nostro ordinamento si estende anche ai giudizi, alle valutazioni personali.

L’articolo 21 della Costituzione, così come l’articolo 10 della Carta Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) non tutela solo le idee favorevoli, inoffensive o indifferenti ma anche la libertà delle opinioni che «urtano, scuotono o inquietano»; tali opinioni pertanto, se espresse in forma pacata e con giudizi che non mirano a screditare il prossimo, rientrano nel normale diritto di critica [2].

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Cos’è un’opinione?

Quando si parla del confine tra diffamazione e diritto di critica occorre distinguere tra i «fatti» puri e semplici – ossia la rappresentazione del dato storico – e i

«giudizi di valore» in cui si sostanza l’opinione dell’autore.

La rappresentazione dei fatti, per essere lecita, deve riferirsi a situazioni reali: chi si esprime non può certo inventare un fatto che può pregiudicare l’onore e la reputazione altrui. Invece, quando si parla di giudizi di valore, il metro della legalità non può certo essere la verità, essendo questi delle opinioni soggettive, non dimostrabili; si tratta quindi di congetture che non possono, per definizione, essere rigorosamente obiettive e asettiche.

Oltre quali limiti non può spingersi la critica?

Rispondere alla domanda quando c’è diffamazione equivale a chiedersi fino a dove c’è diritto di critica? La ragione è semplice: dove finisce l’una, inizia l’altra. Ebbene, secondo la Cassazione i limiti alla critica sono costituiti:

dalla rilevanza sociale dell’argomento: in buona sostanza l’argomento deve essere di interesse pubblico; non si può mettere alla berlina una persona che esce di casa in pantofole richiamandosi al diritto di cronaca. Il fatto non ha un rilievo pubblico e, pertanto, anche se vero, la sua esposizione costituisce diffamazione. La giurisprudenza ha esteso i confini dell’interesse pubblico anche alle notizie di gossip;

la correttezza dell’espressione: è questo il limite più difficile da comprendere. L’esposizione del giudizio non deve trascendere in gratuiti attacchi personali, pur potendosi ammettere toni anche aspri e forti, purché pertinenti al tema in discussione. Quindi ben venga dire che i conteggi fatti dall’amministratore di condominio sono completamente sbagliati e frutto di una mancata conoscenza delle leggi; sarebbe invece reato dire che l’amministratore è un corrotto che, nel distribuire male le spese, ha voluto favorire solo alcuni amici.

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I giudizi personali sono legittimi?

Secondo la giurisprudenziale, in tema di diffamazione, condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di critica sono:

la verità del fatto assunto come presupposto delle espressioni di critica.

Anche se la realtà può essere percepita in modo differente e che vi possono ben essere due narrazioni differenti dello stesso fatto, è illecito attribuire a un soggetto specifici comportamenti dallo stesso mai tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica. Se i fatti sono falsi, il giornalista è esente da responsabilità solo se dimostra di aver fatto un controllo approfondito delle proprie fonti di notizia e che l’errore non dipende da sua negligenza, imperizia o, comunque, di colpa non scusabile;

l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti: di tanto abbiamo parlato sopra;

la continenza ossia l’esposizione pacata e serena, che non deve trascendere in invettive personali, rivolte solo a screditare l’altrui moralità. C’è quindi diffamazione quando le espressioni sono pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica. I termini adoperati devono essere proporzionati rispetto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto, quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico.

La critica può essere aspra?

Una volta che il giornalista ha riferito un fatto vero (un avvenimento, una condotta, un’opinione, ecc.) nei suoi esatti termini, egli è libero di esprimere il proprio giudizio critico, anche con toni aspri, corrosivi, distruttivi, radicali e impietosi, sempre, si intende, che ricorrano gli ulteriori requisiti della rilevanza sociale e della continenza espressiva.

Il diritto all’oblio

Quando il fatto, seppur vero ed espresso in forma pacata, non è più di interesse pubblico, scatta il diritto dell’interessato alla cancellazione della notizia: il cosiddetto diritto all’oblio.

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Ad esempio, la notizia di un crimine deve essere cancellata quando è passato un ragionevole tempo dall’evento. Questo significa che la carta stampata non ha più il potere di pubblicare un fatto non attuale mentre il giornale online deve cancellare o de-indicizzare il contenuto. De-indicizzare significa togliere il contenuto dal risultato dei motori di ricerca.

Per ripulire la reputazione online, il metodo più sicuro e semplice è diffidare il titolare della testata giornalistica. Si può interessare lo stesso Google, titolare del trattamento dei dati, anche se le segnalazioni vengono puntualmente disattese. L’ultimo modo per chiedere la rimozione dai risultati del motore di ricerca è il ricorso al Garante privacy.

Come fare il ricorso al Garante Privacy per diritto all’oblio

Il regolamento UE sulla Privacy [3] stabilisce un apposita norma dedicata al diritto all’oblio.

L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellarli senza ingiustificato ritardo se non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati.

Il titolare del trattamento è tenuto a cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei dati personali del richiedente tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione adotta le misure ragionevoli, anche tecniche.

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