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Storia. La condizione della donna nello Statuto di Bevagna dell anno Nei libri 2, 3 e 4 dello Statuto si parla delle donne

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La dote rappresentava l’unico modo con cui veniva conferita alle donne una parte del patrimonio della famiglia d’origine, parte che era comunque destinata ad essere amministrata dai mariti per tutta la durata del matrimonio. Inoltre, come stabilito nel capitolo XVIII, qualora fosse sopraggiunta la morte prematura di una donna sposata senza figli, la terza parte della dote della moglie deceduta sarebbe dovuta rimanere al marito come compensazione alle spese affrontate per il matrimonio.

Il capitolo XIX dello Statuto definisce il modello di comportamento da rispettare da parte di tutte quelle donne a cui era stata elargita una dote e che decidevano di entrare in monastero. La norma da seguire dichiarava che dal momento in cui esse entravano in monastero, qualora non ci fosse stato il consenso del padre, automaticamente sarebbero state costrette a rinunciare ad ogni diritto sulla dote.

Si prosegue sulla stessa linea anche nel capitolo XX, dove si evidenziano l’obbligo e la riconoscenza che la figlia doveva avere nei confronti della famiglia, proprio perché all’epoca la dote veniva riconosciuta come un privilegio per la donna che, nella maggior parte dei casi, non godeva di alcun diritto. Viene infatti sottolineato che, qualora fossero stati ancora in vita figli maschi, fratelli o nipoti carnali, alla donna dotata non era concesso chiedere altro, se non ciò che le veniva lasciato nel testamento.

Il capitolo XXI notifica la norma secondo cui i testamenti delle donne sono sotto la tutela paterna. Il

contesto familiare pone dunque limiti all’azione femminile anche in materia giuridica; infatti viene stabilito che la donna che ha ricevuto la sua dote dal padre, dovrà avere il consenso di

nello Statuto di Bevagna dell’anno 1500

di Elisabetta Properzi

Premessa

Nello Statuto medievale di Bevagna – testo ispiratore del Mercato delle Gaite, manifestazione in cui la scrivente è nata, cresciuta e tuttora impegnata – in alcuni capitoli si tratta delle donne. Il testo originale dello Statuto risale alla prima metà del Trecento circa ed a noi è pervenuto in due copie, entrambe conservate presso l’Archivio storico comunale di Bevagna.

La prima è un codice membranaceo manoscritto che comprende una trascrizione datata 1500, redatta durante il pontificato di papa Alessandro VI ed emendata dal giureconsulto Giovanni Pantaleoni che contiene tre redazioni precedenti:

la prima, antecedente il pontificato di Martino V; la seconda, rinnovata grazie a Tommaso Matteucci; la terza, ricompilata al tempo di Martino V. La seconda copia, inserita in un codice cartaceo manoscritto e commissionata all’abate Rinaldo Santoloni dalla Congregazione del Buon Governo, risale al 1794 ed è il risultato della ricostruzione e rilettura della copia cinquecentesca su cui lo statuto edito nel 2005 si basa.

Il testo è suddiviso in cinque libri (uffici, cause civili, cause

straordinarie, cause criminali, danni dati), per un totale di 431 capitoli ed i capitoli relativi alle donne sono racchiusi precisamente nel secondo, nel terzo e nel quarto libro.

Le donne nel libro delle cause civili Nel secondo libro, quello delle cause civili, sono quattro i capitoli dello Statuto riguardanti alcuni aspetti della sfera femminile: si parla di dote

Nei libri 2, 3 e 4

dello Statuto

si parla

delle donne

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anche quello della prostituzione, considerato tra tutti il meno decoroso, regolamentato al capitolo CXCIII, dove viene fissato il luogo di esercizio del mestiere. In esso veniva stabilito che alle pubbliche meretrici non era consentito stare nella via che si trova tra la vigna Nicole Antelutii e la proprietà della chiesa di San Vincenzo e nel distretto di Bevagna, se non verso Foligno fuori dai confini stabiliti. Colei che avesse trasgredito sarebbe stata punita, dal podestà o dai suoi collaboratori, per direttissima con una multa di 10 soldi e fustigata per tutta Bevagna.

Nei confronti dell’attività del meretricio, l’atteggiamento della società medievale era abbastanza ambiguo; infatti, anche se il fenomeno non fu mai visto di buon occhio – come si poteva desumere dalle numerose leggi che tentavano di contrastarlo per tutelare il decoro cittadino e la salvaguardia delle donne di buona fama – restava comunque sempre tollerato. A testimoniare l’emarginazione, non solo urbanistica ma anche sociale delle prostitute, c’erano persino alcune eccezioni rispetto alle leggi suntuarie: infatti i divieti che in genere venivano imposti alle donne di buona fama potevano essere da esse disattesi. Era concesso loro di truccarsi, di indossare abiti e gioielli, in particolare gli orecchini, senza alcun limite o regole e senza rispettare quel che si imponeva invece alle donne di buon costume. In realtà queste libertà erano un segno distintivo del loro status e dunque uno strumento di emarginazione; è noto come in alcune città, potevano farsi vedere solo di sabato, giorno in cui si svolgeva il mercato, con l’obbligo di indossare un cappello con un sonaglio che desse una connotazione immediata alla loro identità.

Si cambia decisamente argomento nel capitolo XXXIII del terzo libro, quest’ultimo nel caso in cui decidesse

di delegare, lasciare o sostituire il suo erede nel testamento.

Le donne nel libro delle cause straordinarie

In questa sezione dello Statuto bevanate, quattro capitoli regolano l’attività lavorativa esercitata anche dalle donne, le quali venivano sottoposte dal podestà al vincolo del giuramento. Il capitolo XVIII fornisce disposizioni, compensi e sanzioni relativi ai fornarii et fornarie Terre Mevanie; il capitolo XLI stabilisce le norme di comportamento per le panettiere e per chi vende il pane; si prosegue al capitolo XLII con il settore delle pizzicarole ed infine il capitolo CLXXVIII tratta dello stipendio delle tessitrici. Il lavoro della donna era dunque indirizzato alla produzione e al commercio di cibi e tessuti, tra i pochi ad essere retribuiti. La fornaria, la panifocula, la piçicarella e la textrix rappresentavano il prolungamento dell’attività domestica, riservata unicamente alle donne, le quali riuscivano così, sebbene in una posizione subalterna, ad inserirsi nella vita economica. Inoltre sembra abbastanza evidente che in questi settori lavorativi gli obblighi e le pene tra esercenti uomini e donne erano gli stessi, ma a queste ultime non venivano riconosciuti, in linea di massima, gli stessi livelli salariali e le stesse opportunità di associazione.

Un dato che ricorre spesso per queste categorie di lavoratrici era il divieto di esercitare l’attività lavorativa con la rocca alla cintura, di filare con essa, tenere bambini in braccio o nella culla accanto a sé. Risulta probabile che il filare era, come sostengono le storiche Casagrande e Nico Ottaviani,

«una sorta di sfondo lavorativo costante» di queste attività.

Tra i lavori femminili presi in considerazione dallo Statuto, c’è

Padova:

Giotto, Cappella degli Scrovegni, part.

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dichiarato che nessuna donna, in occasione della morte di qualcuno poteva dismettere i propri panni e gli ornamenti né dopo un mese, né dopo quindici giorni dalla stessa, sotto pena di 100 soldi per ogni infrazione, ad eccezione della madre, moglie, sorella, nipote carnale o cognato.

Nel CLXXXIX si dispone che nessuna donna, sposata a Bevagna o nel suo distretto, di qualsiasi condizione sociale, poteva portare il corredo in pezze tessute in testa o sul dorso. Non poteva inoltre avere il corredo infilato nelle stesse pezze tessute, cucito o tessuto insieme, andando oltre la quantità o il valore di 100 soldi ed oltre, né avere la presunzione di farlo, sotto pena di 25 libbre di denari da detrarre dalla propria dote ad ogni trasgressione.

Vari furono i governi cittadini che si diedero, soprattutto nel tardo medioevo, una legislazione suntuaria per disciplinare le spese ed i lussi, ma il più delle volte, non attenuarono la passione di donne e uomini per vesti ed ornamenti ricercati. Una delle maggiori occasioni che richiedeva l’obbligo di esibire il lusso quanto più possibile era la cerimonia del matrimonio, rito sociale di rilevanza sempre più centrale, dove l’attenzione collettiva era ai massimi livelli.

Se il corredo esibito dalla sposa in occasione delle nozze era il simbolo di quanto fosse distinta e decorosa la propria casata d’origine, non da meno erano gli abiti elargiti dal marito che rappresentavano un pegno della rispettabilità che avrebbe ricevuto nella sua nuova famiglia. Inoltre era tradizione che le due parti si scambiassero doni reciproci e ovviamente ciascuna di esse voleva prevalere sull’altra per far risaltare il proprio stato sociale.

La sposa entrava nella casa del marito portandosi dietro tuniche, a favore delle donne povere. In esso

si dichiara che «nessuna donna che non abiti con un maschio di almeno quattordici anni e che possieda beni per un valore di 100 libbre di denaro, sia costretta a partecipare alle spese per i lavori del Comune o alla custodia della Terra di Bevagna, o ad andare nell’esercito, né sia soggetta ad alcun’altra incombenza».

Nel capitolo C si prosegue con una norma di ordine pubblico che negava il permesso di uscire di notte dal primo maggio al primo novembre, nonché, in qualsiasi altro periodo dell’anno, dopo il terzo suono della campana, fino al suono che annunciava il giorno. Si faceva eccezione per le donne che portavano il pane al forno o che andavano a visitare i malati, le fornaie o le levatrici, chi andava a spegnere incendi e tutte coloro che si recavano alla vendemmia. Chi trasgrediva doveva essere condannato a pagare ogni volta al Comune

una multa di 10 soldi di denaro, da sottrarre alla propria dote.

Il capitolo CLVII interessa

nuovamente i beni dati in dote alla donna. Si stabilisce il principio secondo cui i poderi ceduti in dote alle donne sposate fuori Bevagna, dovevano essere conservati integri ed il Comune poteva ricevere da essi giovamento nelle imposte e nelle collette; per questo si ordinava che i beni, cioè le case, le terre, i possedimenti non potevano essere venduti, alienati o pignorati senza avere l’espressa licenza ed il consenso di sei consanguinei o di chi aveva un vincolo di parentela con le donne, fino al terzo grado.

Chiudono questa analisi dei capitoli del terzo libro, due rubriche che si inseriscono nell’ambito delle norme suntuarie. Il primo capitolo a cui si fa riferimento è il CLII dove si danno disposizioni su ciò che la donna

Non si lavora

con la culla

accanto

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bevanate relativo alle cause criminali, vengono stabilite pene per ogni

infrazione o reato commesso da uomini e donne del Comune.

Il capitolo XIX del quarto libro tocca un argomento alquanto delicato e di grande attualità, quello della violenza carnale contro le donne.

Risulta ben evidente il diverso modo di punire lo stesso reato secondo la reputazione della donna violata e lo status sociale della famiglia di cui si doveva rispettare il decoro.

Di conseguenza per le violenze carnali su brave donne sposate, monache, vedove e vergini erano previste pene severe, mentre su donne di mala fama la pena scendeva considerevolmente, fino a divenire inconsistente nel caso delle meretrici, lasciate ai margini della società dal momento che chi vendeva il proprio corpo per mestiere non poteva non essere consenziente ad un qualunque rapporto sessuale.

Un’ultima considerazione da fare interessa la vergine che, nella scala sociale appare tra i primi posti poiché la verginità era considerata nella forma mentis dell’epoca un valore inestimabile, per cui le autorità offrivano una soluzione per rimediare al danno morale subito: lo stupratore poteva sposare la donna violentata, anche se non era così frequente che l’uomo fosse disposto a maritarsi con la sua vittima. Comunque il matrimonio riparatore bastava alla famiglia della donna violentata per salvare la dignità e il decoro della casata. Nel capitolo XXIII delle cause criminali si parla di matrimonio e si stabilisce che un uomo che sposava una donna senza la volontà del padre o dei fratelli, sarebbe incappato in una multa di 100 libbre di denari, mentre la donna avrebbe dovuto rinunciare all’eredità. Anche in questo capitolo è palese il condizionamento e l’assoggettamento della donna alla famiglia di origine persino nelle sopravvesti, maniche, separate dagli

abiti per essere cambiate a proprio piacimento, veli, cappelli, scarpe, pantofole, gioielli, borse ed altri piccoli accessori. Quando il corredo cominciò sempre più ad assumere un ruolo di prestigio sociale per la famiglia, crebbe in dimensioni e complessità fino a sostituire il denaro liquido della dote, causando oltre a numerose disapprovazioni, l’intervento di una normativa volta a frenare la nuova tendenza. Infatti, mentre il denaro avrebbe potuto essere utile per le spese affrontate per il matrimonio o per la futura famiglia, le stoffe del corredo

sarebbero state soggette alla volubilità e all’esasperata mutevolezza della moda che faceva diventare il corredo prematuramente obsoleto e gli abiti, beni non durevoli, non sarebbero stati utili neanche per essere donati alle figlie. Se dunque la moglie avesse seguito la moda che diveniva sempre più variabile, avrebbe potuto distruggere in brevissimo tempo il patrimonio spettante agli eredi, trascinando la famiglia alla rovina economica. Anche la Chiesa aveva affrontato la polemica contro le donne che usavano trucchi ed abiti troppo sfarzosi in molti testi della letteratura didattica e pastorale dalla fine del secolo XII fino a tutto il XV. La donna truccata e vestita sfarzosamente privilegiava l’esteriorità e dunque la cura del corpo a quella dell’anima virtuosa, andando contro quello che era l’equilibrio richiesto da Dio.

L’eccessiva cura esteriore andava dunque necessariamente ridotta con una dura e tenace opera di controllo e repressione, in certi casi vietando il trucco e raccomandando alle donne un adeguato abbigliamento.

Le donne nel libro delle cause criminali

Nel quarto libro dello Statuto Miniatura medievale.

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a manifestazioni di dolore per la morte del marito, genitori, fratello ed altri consanguinei, soltanto in casa, senza subire alcuna pena, ad eccezione che non si fosse trattato di qualcuno che era stato ucciso o che era morto all’improvviso a Bevagna e nel suo distretto. Nessuna donna era autorizzata a recarsi alla casa del morto, a meno che non dovesse uscire di casa o andare in chiesa con un’offerta, senza associarsi ad altri nell’andare e nel tornare, a meno che non avesse un rapporto di parentela con le donne della casa del morto.

I capitoli XLI e LXXXV stabiliscono le norme che le donne, chiamate a testimoniare, erano tenute a rispettare. Nel primo si dispone che nelle cause penali potevano essere ammessi a testimoniare oltre agli uomini dai 14 ai 25 anni, anche le donne che avevano compiuto almeno 12 anni, mentre nel secondo capitolo si rende noto il luogo dove le donne dovevano essere accolte per addurre la loro testimonianza. Si dichiara, infatti, che per una causa criminale a nessuna donna era permesso di accedere al palazzo comunale ma poteva dare la sua testimonianza sotto la loggia superiore del comune; inoltre nessuna di esse poteva accedere al palazzo né di giorno né di notte.

Diversamente, nelle cause civili, la donna poteva comparire davanti al giudice nel tribunale civile, mentre nelle cause penali potevano comparire davanti alla curia solo nel caso in cui era d’accordo la maggior parte dei consoli; il podestà era tenuto a far rispettare quanto detto sotto il vincolo del giuramento ed alla pena di 50 libbre di denari.

In generale, la dimensione pubblica era il più delle volte negata alla donna e gli ordinamenti giuridici e politici da tempo avevano provveduto ad escluderla dall’esercizio del giudizio e vita privata. In pratica, solo il padre

ed i fratelli avevano l’autorità per maritare la donna, anche contro la sua volontà: ad essa infatti non era concesso di scegliere il suo sposo; in ogni caso il suo assenso o dissenso alle nozze non era previsto.

Il contratto matrimoniale era fondamentale per il futuro di

entrambe le parti e le responsabilità di una tale decisione erano troppo grandi per essere lasciate soltanto alle due persone interessate;

infatti la creazione di un nuovo nucleo familiare si traduceva nella costituzione di un’intera rete di parentele e di alleanze che andavano inevitabilmente a modificare il

panorama sociale e politico della comunità. Più le famiglie erano socialmente elevate, minore era per la donna la possibilità di intervenire nelle decisioni matrimoniali, mentre qualche eccezione si poteva trovare nei ceti inferiori in cui a volte la donna aveva la fortuna di riuscire a sfuggire ai duri schemi che il pater familias aveva deciso per lei. Da ciò non si può non comprendere la dura condizione che il matrimonio riservava alla donna, la quale, appena sposata, si sottraeva all’autorità del padre per sottoporsi a quella del marito. È altrettanto vero però che da questa unione essa poteva trarre anche dei vantaggi, realizzandosi come mater familias. Il capitolo XXXIV del libro sui malefici disciplina il comportamento da tenere quando veniva a mancare una persona cara.

A nessuna donna era consentito emettere lamenti per i defunti, né poteva uscire dalla casa con la bara o seguirla quando il morto veniva portato in chiesa, né le era consentito di andare incontro agli uomini che ritornavano dalla chiesa: la pena per ognuna di queste infrazioni era di 20 soldi di denari. Le donne potevano

La verginità

quale valore

assoluto

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del potere, in modi diversi, a seconda dei contesti storici e culturali. Poteva succedere, infatti, che, a volte, le norme fossero meno rigide e alle donne venisse permesso di comparire nei tribunali come accusatrici o testimoni.

In linea di massima sembra chiaro che le donne, anche se erano ammesse a testimoniare, continuassero

comunque ad essere considerate inferiori agli uomini, ne è una prova la discriminazione per cui i fideiussori erano cariche prettamente maschili, poiché al sesso femminile non era concessa la dignità di garante.

L’ultima tematica dedicata alla donna è contenuta nel capitolo LXXXIX, dove si enuncia che se una moglie commette adulterio, tutti i suoi beni, dotali e non, devono passare al marito con pieno valore giuridico e senza la necessità di fare alcun processo sull’acquisizione. Accertata dunque la veridicità del misfatto da un processo ordinato dalla curia del comune, era lecito al marito fare propri i beni dell’adultera. L’adulterio, dunque, era considerato come una delle devianze più dannose per la difesa dell’ordine sociale e morale poiché andava ad intaccare la legittimità del matrimonio e l’onorabilità della famiglia.

In conclusione possiamo dire che, lo Statuto di Bevagna prende in considerazione la donna non per garantirne i diritti che, il più delle volte, nemmeno compaiono, quanto per disciplinare i suoi doveri e punire le sue eventuali mancanze.

Essa appare totalmente in balia di una società dominata dall’uomo:

saranno prima il padre ed i fratelli, poi il marito, salvo rare eccezioni, a determinare la sua vita. Fin dalla nascita il suo destino è segnato: sarà una buona moglie o madre oppure sarà una religiosa. Al di fuori di questi ruoli il rischio di diventare

un’emarginata era altissimo. Copertina dello Statuto di Bevagna del 1500.

Lo Statuto

di Bevagna

prende in

considerazione

la donna non

per garantirne

i diritti quanto

per disciplinare

i suoi doveri

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