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RASSEGNA STAMPA 11-09-2017

1. REPUBBBLICA Cancro al seno: ancora troppe donne non aderiscono allo

screening

2. LA SICILIA Seno, attenti anche ai piccoli tumori

3. QUOTIDIANO SANITÀ Tumori. Medicina personalizzata grazie alla

profilazione genomica completa

4. MATTINO La prevenzione Terra dei fuochi al via screening su vari tumori

5. CORRIERE DELLA SERA Caos vaccini, un bambino su tre non in regola

6. CORRIERE DELLA SERA «Presto si potrà ricostruire il volto dal Dna» Dubbi

su Venter

7. GIORNALE Vaccini, esami e liceo breve Scuola, istruzioni per l'uso

8. MESSAGGERO Scuole e asili al via, Fedeli: niente proroghe per i vaccini

9. QUOTIDIANO SANITÀ La trattativa su Brexit mostra che il governo inglese

potrebbe andare in rotta di collisione con il NHS

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10-09-2017 Lettori 291.389

http://www.repubblica.it/ 

Cancro al seno: ancora troppe donne non aderiscono allo screening

Nel carcinoma della mammella la difesa è il migliore attacco: non sono solo i farmaci a salvare le vite, ma anche le mammografie. L'appello dell'Associazione italiana di oncologia medica dal congresso Esmo in corso a Madrid

di DAVIDE MICHIELIN

MADRID - UN PAESE spezzato nel quale l’adesione alle campagne di prevenzione contro il cancro al seno è in crescita ma procede a velocità diverse, con Emilia Romagna e Piemonte a fare da apripista e buona parte del Mezzogiorno relegata nelle retrovie. Oggi si parla di cancro al seno al congresso della Società Europea di Oncologia Medica, in corso a Madrid: un'occasione per fare il punto sulle

campagne di screening nel nostro Paese, fondamentale per individuare il

carcinoma in fase precoce e quindi assicurare maggiori chance di sopravvivenza.

“Lo screening nelle donne dai 50 ai 69 anni ha contribuito in maniera determinante a ridurre la mortalità per cancro del seno nell’ultimo ventennio, con una

diminuzione costante e statisticamente significativa di 1,9% all’anno”, ricorda

Stefania Gori, presidente eletto dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica

(Aiom). Nel 2016 sono stati stimati in Italia circa 50mila nuovi casi di tumore del

seno e 692.955 donne vivono dopo la diagnosi. L’innovazione prodotta dalla

ricerca ha permesso di raggiungere risultati importanti: oggi l’87% per cento delle

italiane colpite da carcinoma alla mammella guarisce, una percentuale superiore

alla media europea (81,8%) e persino a quella del Nord Europa (84,7%). Un

risultato eccezionale, da ricondurre alle campagne di prevenzione e a trattamenti

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innovativi sempre più efficaci. e, se si interviene ai primissimi stadi, le guarigioni superano il 90%.

Ciò nonostante, sono ancora numerose le donne che rinunciano allo screening. Nel 2015 circa l’80% (3 milioni e 162 mila) delle donne tra i 50 e i 69 anni residenti in Italia ha ricevuto l’invito a eseguire la mammografia. Un aumento del 14% rispetto all’anno predente. Eppure, solamente il 55% (1 milione e 728mila) ha aderito alla campagna. La percentuale varia molto tra macroregioni: se l’adesione nelle regioni del Nord è del 63%, al Centro scende al 56% mentre al Sud crolla addirittura al 36%. Vai poi ricordato che in alcune regioni - con la Calabria fanalino di coda - il programma di screening fatica ancora ad essere avviato o a garantire continuità.

Il divario dell'adesione è frutto di ragioni distinte, una di carattere organizzativo, l’altra culturale. “Di certo – spiega Gori – vi è la scarsa considerazione per la propria salute, spesso subordinata a quella dei familiari o alle incombenze

quotidiane. Oppure l’errata convinzione di ritenere gli esami clinici superflui quando ci si reputa in buona salute. Una parte delle donne che non aderiscono, circa il 20%, sceglie invece le strutture private, spesso per motivi logistici. Un guadagno in termini di comodità che tuttavia si ripercuote sul percorso di cura, spesso

ritardando l’inizio dei trattamenti in caso di diagnosi positiva. Chi fa lo screening, infatti, in caso di tumore rientra automaticamente nel percorso, che dovrebbe garantire l'intervento entro 30 giorni”.

In Sardegna, l'Aiom ha promosso un progetto pilota per aumentare la

consapevolezza sull'importanza dello screening e l'accesso. Se il programma avrà successo, verrà esteso anche alle altre regioni.

Inoltre, nonostante il piano prevenzione nazionale del biennio 2005-2007 indicasse di estendere in maniera strutturata la fascia d’età da coinvolgere nei programmi di screening (45-74 anni), a oltre dieci anni di distanza solo poche regioni, tra cui Emilia-Romagna e Piemonte, hanno parzialmente allargato le liste, comprendendo le donne tra i 70 e i 74 anni. “Le evidenze scientifiche – prosegue Gori –

dimostrano che nelle donne ad alto rischio, portatrici della mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2, i controlli dovrebbero iniziare a 25 anni seguendo protocolli diagnostici ben precisi. Si tratta di casi particolari, perché la maggior parte delle diagnosi di tumore del seno sotto i 50 anni non è legata a fattori ereditari”.

Negli ultimi vent’anni si è osservato un aumento costante e progressivo

dell’incidenza, ma la mortalità, dopo il picco negli anni Ottanta, è diminuita. È

migliorata anche la durata della sopravvivenza nelle pazienti con patologia in stadio avanzato. Il futuro sarà sempre più rivolto alla personalizzazione delle terapie per colpire la singola neoplasia del singolo paziente.“È ormai improprio parlare

di ‘tumore del seno’: si deve utilizzare il plurale, perché le differenze biologiche sono tali da configurare vere e proprie patologie diverse” prosegue Gori, che

ricorda i progressi delle terapie a bersaglio molecolare e di nuove armi anche per il

tumore al seno metastatico.

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10-SET-2017

Dir. Resp.: Mario Ciancio Sanfilippo www.datastampa.it

Lettori Ed. I 2017: 383.000 Diffusione 05/2017: 19.363 Tiratura 05/2017: 27.557 Quotidiano

Dati rilevati dagli Enti certificatori o autocertificati

- Ed. Sicilia

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11-SET-2017 da pag. 24 foglio 1

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quotidianosanità.it

10 SETTEMBRE 2017

La trattativa su Brexit mostra che il governo

inglese potrebbe andare in rotta di collisione con il NHS

Lo schema per ridurre l'immig ra zione è in contra sto con la necessità di fa r fronte a i 176.000 posti di la voro sa nita ri e di a ssistenza socia le, necessa ri a i servizi sa nita ri e socia li ing lesi. Per il settore sa nita rio e socia le, a i la vora tori si deve riconoscere uno sta tus specia le.

Il Brexit-immigration report, 82 pagine di analisi e proposte dovrebbe generare campanelli di allarme per il NHS poichè se applicato così come abbiamo potuto leggere si evidenzierebbe la più grande crisi della forza lavoro nella storia del servizio sanitario.

L'Home Office propone misure per ridurre il numero di migranti meno qualificati dell'UE offrendo loro residenza per un massimo di soli due anni, mentre quelli in "professioni altamente qualificate" sarebbero autorizzati a lavorare da tre a cinque anni.

Il rapporto afferma inoltre che: "ammettere chiaramente, questo significa che, per essere considerato prezioso per il paese, l'immigrazione dovrebbe beneficiare non solo degli immigrati ma anche migliorare i residenti esistenti".

Dato che il numero di posti NHS vacanti è superiore a 86.000 , secondo le cifre del NHS Digital, pubblicate all'inizio di quest'anno, la sfida per i responsabili istituzionali delle decisioni è quella di ridurre l'immigrazione e comunque riempire questi posti vacanti. Se consideriamo anche i 90.000 posti di cura previsti come necessari per i servizi sociali, i fattori di crisi sono destinati ad aumentare ulteriormente. Una recente relazione di Skills for Care ha stimato che solo meno di 340.000 addetti ai lavori di cura lasciano ogni anno il loro posto di lavoro, e che sono solo 2.800 i posti di lavoro di profilo manageriale, vacanti nelle case di cura o nelle strutture sanitarie pubbliche.

In che modo i responsabili politici di Home Office decidono di ridurre la "immigrazione non qualificata" quando esiste una chiara richiesta presentata dal Dipartimento della sanità (DH) e quando i lavoratori britannici non vengono occupati in attività sanitarie e di assistenza?

Il numero di lavoratori dell'UE nel NHS è enorme. Secondo i dati della Camera dei Comuni, il 9% del personale che lavorava nel NHS nel 2016 proveniva da altri paesi dell'UE . In Inghilterra, il 12% del personale NHS è cittadino di un paese diverso dal Regno Unito circa 199.000 unità. Di essi poco più di 90.000) sono cittadini di altri paesi dell'UE.

Dopo la votazione per lasciare l'UE lo scorso anno, il segretario di stato alla sanità Jeremy Hunt e i manager senior del NHS hanno cercato di fornire rassicurazione ai dipendenti dell'UE che continuano ad essere accolti nel Regno Unito e hanno lodato il loro contributo. Ma anche se una eccezione è prevista per lo status di residenza dei cittadini dell'UE che lavorano nel NHS, potrebbe diventare sempre più difficile mantenere il personale e attirare nuovi reclute dai paesi dell'UE visto le difficili trattative post brexit.

Alla conferenza del partito conservatore del 2016, Hunt si impegnò a rendere il NHS "autosufficiente" per i medici entro il 2025, affinché non si basasse più sul personale d'oltremare. È difficile immaginare come ciò sarà

possibile in soli 8 anni dovendo far fronte ai 176.000 posti di lavoro sanitari esociali nel Regno Unito. Una soluzione per i responsabili politici potrebbe essere quella di creare una nuova categoria di professionisti della sanità e del sociale nel futuro disegno di legge sull'immigrazione . Ciò potrebbe consentirà di creare una posizione speciale per questo settore critico dell'economia.

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Ma appare molto difficile che a livello nazionale ci si accordi su una categoria speciale di lavoratori per il NHS. È quindi molto importante che il ministero della salute discuta attentamente il report su brexit evidenziando i rischi specifici per i settori della salute e della cura. Il ministro della salute ha bisogno di un sistema di immigrazione flessibile per far andare avanti e sviluppare il NHS. Se demagogicamente o per calcolo elettorale affermerà che si vuole raggiungere l'autosufficienza e nel contempo diminuire l'immigrazione, il sistema non sopravviverà a livelli di domanda e offerta attuale e futura.

Grazia Labate

Ricercatore in economia sanitaria, già sottosegretario alla Sanità

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