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La smaterializzazione del processo penale e la distopia che diventa realtà V M

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Academic year: 2022

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CONFRONTO DI IDEE SU:LE DEROGHE ALLA LEGALITÀ TRA EMERGENZA ATTUALE E STABILIZZAZIONE FUTURIBILE

V

INCENZO

M

AIELLO

La smaterializzazione del processo penale e la distopia che diventa realtà

Al peggio non c’è mai fine. E tuttavia, quando il peggio investe lo stadio avan- zato della decomposizione vitale delle garanzie costituzionali, che cancella i se- dimenti della progressione identitaria della nostra civiltà, l’inesorabilità del vec- chio adagio non può indurre alcuna forma di rassegnazione.

Pensavamo che l’impasto di cinismo demagogico e arcaico retribuzionismo pu- nitivo, responsabile delle ipocrite soluzioni di facciata all’immane problema carcerario, costituisse la frontiera estrema della curvatura giustizialista sotto la quale si è sviluppata la produzione normativa della legislatura in corso.

Ci sbagliavamo. Quel limite è stato superato senza alcun ritegno dall’inedito monstrum del processo penale telematico. Strumentalizzando in chiave reto- rico/opportunistica la drammatica emergenza in atto, l’ultima e più preziosa perla della politica giudiziaria nazional/popolare ha deciso di contendere alla pandemia il connotato di vicenda biblica, interrompendo d’emblée le ‘magni- fiche sorti e progressive’ dell’emancipazione del diritto e delle sue forme da logiche ed assetti di disciplina autoritari. Col piglio interventista caratteristico di scelte percorse da arroganza corriva e per certi versi sfrontata, il governo in carica ha inteso, così, buttare alle ortiche l’ontologica dimensione di funziona- mento conformativo del più delicato e gravoso fra i congegni secolarizzati di teologiapolitica e istituzionale: quello che ambisce a ricostruire – in nome del popolo e in conformità a criteri di giudizio predicabili di condivisione assiolo- gica e razionale – la verità de(lle tesi che asseriscono la commissione d)i fatti e delle condiciones iuris per i quali un individuo può essere privato di libertà e patrimonio, con effetti stigmatizzanti ed inabilitativi che spesso si proiettano nella cerchia dei familiari e finanche di terzi, ‘colpevoli’ di condividere col con- dannato affari ed interessi economici.

Com’è noto, infatti, la maggioranza di governo si accinge a sospendere – fino alla data del 30 giugno, termine che tuttavia rischia di essere spostato in avanti a causa della non pronosticabile evoluzione della pandemia – i presupposti di agibilità del giusto processo penale di matrice costituzionale. D’un colpo, esso verrà a perdere le sembianze di luogo fisico di una comunicazione dialettica contestuale, smarrendo, con esse, la funzione di liturgia alla quale la democra- zia costituzionale dei diritti affida il compito di celebrare – anche sul piano

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simbolico – il primato della ragione discorsiva. La materialità e la separatezza topografica dell’udienza rappresentano, invero, la metafora del carattere di sa- certà laica dell’amministrazione della giustizia che, “come nei “misteri” delle religioni ellenistiche””, va sottratta alle confusioni contaminanti dell’ambiente profano (Cordero). Si tratta di un valore che, in pagine indimenticabili, il genio (letterario e giuridico) di Salvatore Satta riconobbe persino alla sala delle udienze ove sedeva nel 1792 il Tribunale rivoluzionario della Senna e che in- dusse l’orda dei sanculotti – “armata di scuri, di pugnali e di picche” coi quali

“faceva orribile scempio” dei prigionieri – ad arrestare la propria furia assassina proprio sulla soglia di quello spazio.

In pratica, a svanire è la conformazione materiale del giudizio e con essa, per- ciò, non solo la dimensione che ne ha fatto un paradigma/epicentro di svariati registri narrativi, bensì – soprattutto – quel clima d’aula che integra la pre-con- dizione delle potenzialità performative della contesa dialettica.

Costruire un processo nel quale ciascuno dei protagonisti partecipa ‘da remoto’

significa virtualizzare un contesto comunicativo che proprio alla simultanea pre- senza fisica degli attori del contraddittorio deve la sua specifica capacità episte- mica di strumento privilegiato ai fini di un’affidabile ricostruzione dei fatti e di un proficuo confronto di tesi antagoniste.

I rituali del contraddittorio nella formazione della prova – spina dorsale del processo accusatorio – hanno bisogno del ‘teatro’ dell’aula di udienza, perché, come ha scritto Franco Cordero, essi “esigono acustica e ottica perfette”: da un lato, per consentire che l’esaminato sieda nel posto dove sia agevolmente visi- bile dalle parti e dal giudice; dall’altro, ma affinché venga garantita ai soggetti che vi prendono parte (testimoni, imputati, accusatore, difensore e giudice) di osservare e valutare le circostanze extralinguistiche che danno corpo alle forme non verbali della comunicazione. Il tono della voce, l’espressione del volto, il disagio o l’imbarazzo nella (e della) risposta costituiscono, di norma, formida- bili indici di apprezzamento della genuinità della fonte, cosi come una se- quenza incalzante di domande accompagnata dagli occhi puntati sul testimone può accrescere il carisma del contro-esaminatore e indurre un maggiore coef- ficiente di veridicità della risposta.

Si tratta, dunque, di aspetti niente affatto marginali, relegabili fra gli orpelli este- tico-simbolici dell’agire giudiziario, ma, anzi, di configurazioni che intrecciano questioni di fondo del giudizio penale.

Siamo, in sostanza, innanzi ad una rottura della legalità costituzionale,

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traumatica poiché ne ribalta il significato di punto di arrivo della lunga tradi- zione che, a partire dal congedo della mentalità e delle istituzioni inquisitorie, ha traghettato il processo sulla scenapubblica, facendone punto di confluenza tra la dimensione antropologica di ‘mistero’ e l’esposizione a pratiche di con- trollo dell’opinione pubblica.

Una rottura che segna il passaggio ad un ordinamento processuale dell’ecce- zione priva di base legale, dal momento che la sua disciplina risulta consegnata al potere regolamentare di un organo (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) interno al Ministero della giustizia. L’opposto, pertanto, di quanto prescrive l’art. 111 Cost. che assoggetta alla sola legge la conformazione normativa del processo.

Un simile scempio ci pare sia stato denunciato con forza dalla sola voce dell’av- vocatura, questa volta anche istituzionale, e, da ultimo, dagli studiosi del pro- cesso penale. Amareggia che all’appello manchi – con l’eccezione della cor- rente di Magistratura democratica – una presa di posizione della magistratura associata cui sarebbe stato doverosa l’intransigente rivendicazione del carattere intangibile (dei fondamenti) del modello di processo di cui è anzitutto essa cu- stode.

Peccato! L’abbandono del nomos della modernità ai marosi delle pulsioni po- pulistiche e di malintese esigenze di efficienza burocratico-aziendaliste delle pratiche di giustizia, che le frustrazioni dell’emergenza e del suo governo ri- schiano di rendere ancor più aggressive, potrebbe far divenire inesorabile il declino della civiltà occidentale se a prevalere dovessero essere l’indifferenza etica e il silenzio connivente.

Per dirla con José Saramago del Saggio sulla lucidità, “se tutto ciò non causerà polemiche è perché la società dorme”!

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