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I forzieri della biodiversitàCristiana Pulcinelli

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Academic year: 2021

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Lo Svalbard Global Seed Vault è una gigantesca cassaforte nel mezzo dei ghiacciai a mille chilo- metri dal Polo Nord, nelle isole Svalbard: le risorse conservate in questi bunker protetti da ogni catastrofe immaginabile sono tra le più preziose del mondo.

Non opere d’arte, pietre rare o metalli preziosi, ma semi: riso, grano, fagioli, sorgo, melanzane, patate. Ma da dove nasce l’idea di conservare tutte le varietà di sementi in una banca mondiale?

Non è stato un disastro ambientale ma un disastro provocato dall’uomo a far aprire per la prima volta le porte del Global Seed Vault – il super bunker dove è custodita buona parte di tutti i semi delle piante destinate all’alimentazione conosciuti al mondo – per effettuare un prelievo. E’

stata la guerra che si sta combattendo in Siria e che ha causato moltissime perdite umane e materiali. Tra queste ultime va annoverata la perdita della banca dei geni di Icarda, il Centro internazionale per la ricerca agricola in aree asciutte di Aleppo che è stato uno dei luoghi più importanti per la sicurezza alimentare nelle zone ari- de della Terra. Lì erano custoditi i semi di oltre 135.000 varietà di grano, fave, lenticchie e ceci e la collezione di semi di orzo più importante al mondo. I ricerca- tori avevano anche selezionato nel corso degli anni nuovi ceppi di grano resistenti al caldo e alla siccità. Dal 2012 purtrop- po il centro è stato abbandonato, i ricer- catori sono fuggiti all’estero e la struttura è stata occupata da gruppi armati. Per fortuna nel corso degli anni, a cominciare dal 2009, i ricercatori erano riusciti a spe- dire una copia di tutti i semi custoditi ad Aleppo fuori dal Paese, come ha spiegato qualche tempo fa Ahmed Amri, diretto- re delle Risorse genetiche del centro siria- no, al Corriere della Sera. Molti di questi semi erano arrivati fino alla banca mon- diale, lo Svalbard Global Seed Vault (De- posito globale di sementi delle Svalbard).

A fine settembre scorso una parte di quei semi sono usciti dal super bunker per un prelievo richiesto proprio dai ricercatori di Icarda: i semi servivano a ripopolare i nuovi depositi creati in Marocco e in Libano. «Una volta fatte le nuove co- pie e riavviata la produzione, rispedire- mo i semi nell’Artico», ha detto Amri.

Il Global Seed Vault si trova appunto nell’Artico. In particolare sull’isola nor- vegese di Spitsbergen, nel remoto arci- pelago delle isole Svalbard a circa 1300 km dal Polo Nord. Tre sale di 27 metri di lunghezza, 10 di larghezza e 6 di altezza situate sotto 120 metri di roccia arenaria e mantenute a una temperatura di -18 gradi centigradi. Le porte di accesso sono fatte in acciaio di notevole spessore e tut- ta la struttura è costruita in calcestruzzo in grado di resistere ad una eventuale guerra nucleare o ad un incidente aereo.

Lo scopo è quello di evitare la perdita del

“patrimonio genetico tradizionale” delle sementi. Il Seed Vault è stato aperto nel 2008 e viene gestito attraverso un accor- do fatto dal governo norvegese, il Global Crop Diversity Trust ed il Nordic Genetic Resource Center (già Nordic Gene Bank), nato dallo sforzo cooperativo delle nazio- ni nordiche. Il deposito contiene i semi di alcune decine di migliaia di varietà di piante essenziali per la nostra alimenta- zione come fagioli, frumento, riso. In to- tale si trovano in questa banca le semen- ti di oltre 4000 specie di piante. Sono i duplicati degli esemplari conservati nelle banche dei geni nazionali o regionali.

Ma da dove nasce l’idea di conservare tutte le varietà di sementi in una banca mondiale? Nasce dalla constatazione che, come dice la FAO, «la biodiversità è essenziale per la sicurezza alimentare e la nutrizione. Migliaia di specie inter- connesse tra loro creano una rete vitale di biodiversità da cui dipende la pro- duzione mondiale di cibo». L’erosione della biodiversità fa perdere all’umanità la potenzialità di adattare gli ecosistemi alle nuove sfide, ad esempio l’aumento della popolazione, le nuove malattie e il cambiamento climatico.

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Il concetto è noto da tempo. La grande carestia ir- landese che colpì il Paese tra il 1845 e il 1849 ebbe tra le sue cause il fatto che per la popolazione più povera i cereali erano divenuti troppo cari e la pata- ta era l’alimento principale, se non unico. Nel 1700 almeno un pasto quotidiano dei contadini del Con- nacht consisteva di patate, mentre nel 1800 i pasti di patate erano due e nel 1840 erano diventati tre, per un consumo medio di circa 5–6 kg di patate al giorno. Non solo. La patata più diffusa a metà del XIX secolo era quella di una varietà ad elevata pro- duttività, ma particolarmente vulnerabile: quando improvvisamente si diffuse un fungo che rendeva le patate immangiabili, il raccolto venne distrutto e la popolazione cominciò a morire di fame. Diversifi- care è un bene perché permette di salvare i raccolti quando le condizioni cambiano. Con le parole della FAO: “Raggiungere la sicurezza alimentare per tutti è un obiettivo strettamente legato al mantenimento della biodiversità”.

E invece la biodiversità è in declino: sempre la FAO stima che il 75% della diversità genetica delle piante da raccolto si sia persa tra il 1900 e il 2000. In partico- lare, tra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scor- so i contadini hanno cominciato ad abbandonare i semi tradizionali e a utilizzare nuove varietà ibride che promettevano raccolti migliori. Semi sviluppati in una certa zona del mondo per secoli, improvvisa- mente sono spariti senza lasciare traccia. Ad esempio

si ritiene che la Cina abbia perso il 90% delle sue va- rietà di riso. All’inizio del Novecento gli Stati Uni- ti avevano un’offerta di più di 400 varietà di piselli, oggi in quasi tutti i campi americani ne crescono due sole varietà. Oggi solo cinque cereali forniscono il 60% dell’apporto energetico utile alla popolazione mondiale. E la perdita di biodiversità riguarda anche gli animali: sempre secondo i dati forniti dalla FAO, Si calcola che il climate change causerà una riduzione sostanziale della produzione dei raccolti in Sud africa

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delle 8300 razze animali conosciute, l’8% sono già estinte, il 22% sono a rischio di estinzione.

Tutto questo mentre la produzione agricola dovrà affrontare grandi sfide nei prossimi 40 anni. La pri- ma sfida è quella di sfamare una popolazione mon- diale che cresce, sia pure a ritmi ridotti, e arriverà a 9 miliardi di persone nel 2050. È stato stimato che per far fronte ai bisogni alimentari mondiali (che peral- tro cambiano e richiedono più carne e latticini), la produzione di cibo dovrà crescere del 70% rispetto al 2005. La seconda sfida è il cambiamento climati- co. Le cose qui si complicano perché non è chiaro quali varietà sopravviveranno in condizioni climati- che diverse da quelle a loro familiari. Si calcola che il cambiamento del clima causerà una riduzione so- stanziale della produzione dei raccolti in Sud Africa (che potrebbe arrivare fino al 30% per il mais), e nel sud dell’Asia (fino al 10% per il riso, anche oltre per il mais). Nelle latitudini medie o alte un lieve rialzo delle temperature (fino a 2 gradi centigradi) potreb- be favorire un aumento dei raccolti, ma oltre quella temperatura anche in quelle zone del mondo la pro- duzione è destinata a diminuire.

Anche molti dei parenti selvatici di colture esisten- ti si stanno estinguendo. Uno studio citato dal rap- porto della FAO del 2010 sullo stato delle risorse genetiche prevede che il 22% delle piante selvati- che imparentate con piante importantissime per la nostra alimentazione come patate, fagioli, arachidi

spariranno entro il 2055 per colpa dei cambiamen- ti climatici. Un bel problema, perché quelle specie potrebbero possedere tratti di resistenza alle malat- tie molto interessanti. L’altra grande sfida riguarda infatti le malattie. Parassiti e improvvise nuove epi- demie da sempre minacciano la produzione agricola, come abbiamo visto ricordando la storia dell’Irlan- da. C’è chi ancora si ricorda del fungo che negli anni

in italia, le banche del germoplasma sono in tutto una ventina, nate per la maggior parte negli ultimi vent’anni

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Settanta spazzò via un quarto dei campi di mais degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo una mutazione della ruggine del grano distrusse buona parte delle colti- vazioni africane. Epidemie che avrebbero potuto es- sere fermate se i contadini avessero piantato varietà differenti di colture.

La diversità intraspecifica si è dimostrata infatti uno strumento utile per la prevenzione delle malattie da parassiti. Uno studio cinese del 2000 ha dimostra- to che far crescere insieme varietà di riso suscettibili all’attacco dei parassiti e varietà resistenti fa aumen- tare il raccolto dell’89%. Recenti studi hanno di- mostrato addirittura che la commistione di specie

diverse permette di affrontare meglio le malattie del- le piante rispetto alle monocolture: un esperimento condotto in Africa, ad esempio, ha messo in eviden- za come coltivare il mais insieme a una particolare le- guminosa riduce le infestazioni di un’erba parassita (la Striga hermonthica) del 40%. Così come fagioli mung o patate dolci coltivati assieme al mais fanno

diminuire la crescita di erbacce a causa del loro effet- to di ombreggiatura. Secondo le stime di Bioversity International, un’organizzazione che si occupa di ricerca per lo sviluppo, la biodiversità contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento di 6 dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Deve- lopment Goals) che l’Onu ha creato e promosso in sostituzione degli obiettivi di sviluppo del millen- nio scaduti a fine 2015. In particolare, l’obiettivo numero uno (mettere fine alla povertà), il numero 2 (mettere fine alla fame), il 3 (assicurare la salute e promuovere il benessere), il numero 12 (assicurare consumi sostenibili), il 13 (combattere il cambia- mento climatico), il 15 (proteggere e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi).

Come può la biodiversità favorire il raggiungimento di questi obiettivi? Prendiamo due esempi. Il primo riguarda il benessere, in particolare i benefici delle varietà di banane che crescono a Pohnpei in Micro- nesia. Il consumo del cibo tradizionale da parte della popolazione di Pohnpei è crollato negli ultimi anni a favore del consumo di cibo importato. Oggi gran parte della popolazione dell’isola ha seri problemi di salute correlati alla dieta come mancanza di vitami- na A e obesità. Alcuni programmi hanno tentato di inserire nella dieta degli abitanti alcuni vegetali im- in afghanistan, i guardiani delle banche

dei semi, erano riusciti a nascondere esemplari prima di fuggire dai talebani

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portati, ma senza successo perché non erano apprez- zati. Gli studi sulle varietà locali di banane hanno mostrato che hanno alti contenuti di vitamina A e beta-carotene. Oggi il consumo di questi frutti locali è incentivato dalle istituzioni internazionali.

Il secondo riguarda la lotta alla povertà. La regione andina è una delle più povere dell’America latina.

Semi tradizionali come la quinoa, l’amaranth e la cañihua sono stati spazzati via dai cereali d’impor- tazione. Bioversity International ha messo in pie- di un progetto per creare nuovi mercati per questi prodotti in tutto il mondo incentivandone la pro- duzione. Le vendite dei cereali tradizionali sono aumentati dell’81% in Bolivia e del 64% in Perù.

Per cercare di fermare il processo di perdita della biodiversità sono nate le banche dei semi, nazionali e internazionali.

Ma la loro vita non è facile. La banca dei semi irache- na ad esempio, che si trovava vicino alla prigione di Abu Ghraib, è stata saccheggiata e distrutta nel caos seguito all’invasione del Paese da parte degli Usa nel 2003. In Afganistan, i guardiani delle banche dei semi del Paese erano riusciti a nascondere qualche esem- plare prima di fuggire dai telebani negli anni Novan- ta. Ma quando tornarono trovarono le scatole aperte e i semi sparsi a terra. La banca dei geni delle Filippi-

ne è bruciata nel 2012, sei anni dopo essere stata di- strutta da un’alluvione. Il catalogo egiziano dei semi del deserto, che si trovava nel nord del Sinai, è stato saccheggiato durante le rivolte del 2011. Ci sono stati alcuni salvataggi audaci: materiali della banca dei semi nella città di Aleppo, come dicevamo, sono stati fatti uscire in lotti grazie ai lavoratori e ai servizi di corriere commerciale fino a un paio di settimane prima che la guerra siriana raggiungesse la banca.

Il pericolo maggiore tuttavia non viene da disastri e guerre ma, pare, più banalmente dai tagli ai finanzia- menti e dalla cattiva gestione.

Come ha spiegato Cary Fowler, prima direttore e ora consulente del Crop Trust norvegese e colui grazie al quale è nato il deposito delle Svalbard, in un’intervi- sta al quotidiano inglese The Guardian: «Perché lo abbiamo costruito? Non perché stava arrivando l’a- pocalisse, ma perché sapevamo che le banche gene- tiche stavano perdendo i loro esemplari per ragioni stupide: tagli al budget, guasti alle apparecchiature, errori umani. Prima di costruire il deposito delle Svalbard stavamo perdendo diversità. Sono convinto che il mondo perdeva almeno una varietà al giorno.

Nel silenzio più totale. Noi abbiamo fermato questa perdita almeno per 865.000 varietà». Tante quante sono conservate nella profondità dell’Artico.

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