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Fronte del Porto. Cosa succede nei porti del nostro paese? Classi sociali, proletariato e lotte. La trasformazione dei porti.

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17 Nel maggio di quest’anno i portuali di

Genova, Livorno, Ravenna e Napoli si rifiu- tano di caricare le navi israeliane che traspor- tano materiale bellico. L’iniziativa è parte dell’ampia solidarietà al popolo palestinese e colpisce direttamente gli interessi sionisti in Italia. Il gesto dei portuali colpisce nel segno, tanto che l’Histadrut, il più grande sindacato sionista, da ordine di non caricare navi ita- liane nei porti di Ashdod e Haifa provocan- do un incidente diplomatico (subito messo a tacere). Non solo, l’azione e l’appello dei portuali italiani, innescano un boicottaggio internazionale che ha travalicato i confini e coinvolto altri porti come ad Oakland in Ca- lifornia e Durban in Sud Africa.

Questo accade in un contesto in cui all’interno delle banchine da tempo si regi- stra una ripresa della mobilitazione legata alle conseguenze dei processi di ristruttura- zione del settore portuale collegati al ruolo che questi hanno nell’infrastruttura logistica del capitalismo. Ristrutturazione condizio- nata dalla competizione tra oligopoli colle- gati ai diversi aggregati imperialisti e che mette al centro, in definitiva, la necessità da parte del grande capitale di scaricare sulla classe lavoratrice il costo delle misure per far fronte alla crisi capitalistica.

La trasformazione dei porti I porti sono parte fondamentale dell’in- frastruttura logistica del capitalismo, essi rappresentano il maggior impulso all’in-

ternazionalizzazione dei cicli del capitale.

Dalla “rivoluzione dei container”1 ad oggi, la ristrutturazione dei porti, aumentando la produttività del lavoro, riduce il tempo di circolazione della merce e di conseguenza permette la riduzione del tempo di rotazio- ne del capitale complessivo2 e determina la possibilità che esso sia reinvestito più velo- cemente.

Ne consegue che, nell’ambito della crisi di sovraccumulazione di capitale, in corso da alcuni decenni, i porti assumano un ruolo strategico. Vi si gioca la concorrenza tra ca- pitalisti con la corsa a processi di ristruttu- razione volti alla sempre maggior riduzione del tempo di circolazione, al maggior sfrut- tamento dei lavoratori e all’abbassamento del costo della manodopera.

C’è inoltre da considerare che la “rivo- luzione dei container” e l’abbassamento del costo dei trasporti marittimi è stato il fattore che ha accelerato la delocalizzazione delle produzioni, rendendo più profittevole spo- stare le stesse dove il costo del lavoro era più basso rispetto ad altri fattori prima prin-

1 Negli anni ’60 con l’introduzione del contai- ner il mondo della logistica subisce una tra- sformazione epocale. Il container permette di standardizzare a livello globale le dimensioni di stivaggio nelle navi e le operazioni ad esse connesse nelle banchine, riducendo dra- sticamente i costi e i tempi della movimen- tazione. Una “rivoluzione” che, ad esempio, ha portato nel giro di 20 anni alla riduzione di due terzi della forza lavoro complessiva- mente impiegata a bordo e in banchina nella costa orientale statunitense.

2 Vedi Glossario

Classi sociali, proletariato e lotte

Fronte del Porto

Cosa succede nei porti del nostro paese?

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Classi sociali, proletariato e lotte cipali, come la vicinanza dei siti produttivi

con i mercati di riferimento, le materie pri- me o le fonti energetiche. Lo sviluppo tec- nologico del comparto logistico - marittimo ha quindi concorso concretamente all’attua- le assetto delle catene del valore e della di- visione internazionale del lavoro.

Nel contesto della cosiddetta globalizza- zione l’intero comparto logistico, con i porti in prima linea, ha visto un enorme impulso e la realizzazione di una nuova organizza- zione integrata su scala internazionale, con un drastico aumento dei volumi su lunga di- stanza; basti pensare che attualmente il 90%

del commercio di merci esterno dell’Ue viaggia via mare, favorito anche da una sempre maggiore standardizzazione, dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dall’introduzione del just in time.

I porti italiani sono organici alla politi- ca europea dei “corridoi” Trans European Network (Ten) definita nel 1994 dal Consi- glio Europeo. Le Ten sono la risposta alle necessità di integrazione dell’insieme delle infrastrutture logistiche (treni, strada, aerei e navi) dell’aggregato imperialista euro- peo per far fronte alla concorrenza globa- le. Infatti se, come si è detto, lo sviluppo tecnologico del sistema di trasporto merci è connesso alla globalizzazzione e ne ha fa- vorito lo sviluppo, è altrettanto vero che ne ripercorre le contraddizioni e la necessità di muovere più merci in meno tempo e a meno costo è diventata un fattore sempre più stra- tegico nello scontro per la sopravvivenza tra capitali nell’ambito della crisi generale di sovrapproduzione.

In questo quadro si possono delineare una serie di passaggi chiave che hanno modifica- to l’assetto dei porti italiani e di conseguenza delle condizioni dei lavoratori. A partire da- gli anni novanta si modifica profondamente la struttura del lavoro, dei volumi e della ti- pologia di traffico gestiti nel porto. Ad esem- pio la movimentazione dei contenitori passa

da poco più di 2 milioni del 1991 ai circa 10 milioni attuali, assume un ruolo fondamen- tale l’import - export del Made in Italy delle piccole e medie imprese e l’aumento della movimentazione di macchine e manufatti, mentre diminuisce drasticamente il traffico dei prodotti petroliferi. I grandi impianti si- derurgici e petroliferi e in generale gli im- pianti industriali in prossimità delle sedi por- tuali scompaiono o vengono ridimensionati.

All’interno del mercato dei servizi por- tuali si impongono le figure dell’agente marittimo (intermediario per conto dell’ar- matore) e dello spedizioniere (intermediario per conto delle imprese di trasformazione) al posto del superato Ente porto.

Nei primi anni 2000 parallelamente agli assestamenti normativi sul lavoro proce- de spedita la privatizzazione dei porti che passa da una dimensione nazionale ad una internazionale. Ad aprire questo fenomeno e stata la vendita da parte del gruppo Fiat di Sinport, la società concessionaria del Terminal Container di Voltri, all’Autorità Portuale di Singapore (Psa) e, a seguire, la vendita da parte della famiglia Ravano del- la Contship, titolare delle concessioni di La Spezia e Gioia Tauro, alla tedesca Euroga- te. Attualmente la maggior parte dei porti italiani vedono una presenza straniera che si concentra tra i principali Global carrier:

Psa, Maersk, Msc, Cma - Cgm, Cccc, ecc.

Un fenomeno che successivamente all’avvi- tamento della crisi del 2008 ha portato non solo all’aumento della presenza ufficiale di questi oligopoli, ma soprattutto all’acquisto da parte degli stessi di quote maggioritarie di players piccoli e medi locali, lottizzan- do di fatto e imponendo il proprio potere all’interno dei porti. Un fenomeno, questo, ovviamente contraddittorio, da un lato eco- nomicamente auspicato dal padronato all’in- terno della competizione tra snodi portuali, capace di attrarre ingenti investimenti di ca- pitali, dall’altro tenuto d’occhio e terreno di

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Classi sociali, proletariato e lotte

scontro sul piano di radicalizzazione della contraddizione tra imperialismi contrappo- sti. Come ad esempio le varie prese di posi- zione Usa sul ruolo dei cinesi nei vari porti come Venezia o Taranto, dove ad esempio il Gruppo Ferretti (di proprietà per l’86% dal gruppo statale cinese Weichai Group) punta ad espandere la propria presenza. Si tratta di uno degli snodi principali della forze impe- rialiste atlantiche nel Mediterraneo e dove è collocata una base Nato fondamentale del Standing Naval Force (Snf), sul quale pen- dono ampi progetti di ampliamento.

La “lottizzazione” dei porti italiani da parte degli oligopoli internazionali è il pro- dotto della concentrazione e centralizzazione dei capitali come risposta alla crisi del settore e come fenomeno “naturale” di sviluppo del sistema logistico globalizzato. Infatti i Glo- bal carrier puntano non solo a monopoliz- zare il sistema portuale, ma anche tutti i nodi del sistema intermodale integrato, così da poter sfruttare le economie di scala, ovvero la riduzione del costo unitario tramite l’au- mento della scala di produzione. All’interno del quadro appena delineato si comprendono il ruolo che assumono la deregolamentazio- ne dei porti e una loro ulteriore privatizzazio- ne e liberalizzazione, soprattutto per quanto riguarda la produttività del lavoro, con la spinta a introdurre nuove tecnologie e auto- mazioni che aumentino sempre più il coeffi- ciente di carico spostato per operatore.

Autoproduzione e automazione L’obiettivo dei terminalisti è soprattutto quello di ridurre il tempo di circolazione della merce e i costi annessi alla movimen- tazione della stessa. Su questi due punti si determina la competizione tra le varie mul- tinazionali del mare, il conseguente svilup- po dei porti e le ricadute sullo sfruttamento dei lavoratori.

Gli elementi principali già accennati in precedenza sono l’introduzione di una sem- pre maggiore automazione che riduca i tem- pi nei quali la nave sta in porto e la libera- lizzazione dei servizi portuali in funzione di un abbassamento dei costi e una maggiore flessibilità della manodopera.

In questo senso l’automazione e l’auto- produzione3 vanno legate assieme. Infatti, puntando a costruire porti con caratteri- stiche tecnologiche che permettono al ter- minalista, che è anche armatore, di essere autonomo e veloce nelle operazioni di ban- china, ne consegue che viene favorito il suo interesse ad utilizzare il personale imbarca- to anche per le operazioni di rizzaggio e de- rizzaggio. Si punta così in ultima analisi ad eliminare gradualmente la figura del portua- le, mantenendo solo delle unità iperflessibili che aspettano la chiamata laddove servano figure in aggiunta in considerazione della mole di lavoro.

All’interno di questo piano si sviluppa il fenomeno del “gigantismo navale”, che ab- biamo imparato a conoscere dopo i fatti di Suez4, tendenza che sta orientando anche la ristrutturazione del sistema portuale italia- no, dato che deve porsi in grado di attrarre l’arrivo di queste grandi navi.

Secondo un rapporto costi - benefici ri- spetto alla costruzione della Diga Foranea di Genova stilato dall’Autorità portuale cit- tadina, l’83% dell’offerta mondiale di sti- vaggio è in mano a dieci aziende, le quali utilizzano solo il 51% delle navi, segno che le principali società utilizzano sempre più

3 Per autoproduzione s’intende la possibilità da parte dell’armatore di effettuare le opera- zioni di rizzaggio e derizzaggio, ovvero le at- tività volte a legare e slegare i beni trasporta- ti, utilizzando il personale di bordo della nave al posto di quello in servizio al porto.

4 A fine marzo 2021 la nave Ever Green con capacità di 20 mila Teu si incaglia bloccando il porto di Suez, uno dei principali snodi della logistica portuale mondiale.

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Classi sociali, proletariato e lotte navi di grandi dimensioni. La Maersk e la

Msc, unite nell’alleanza 2M, dispongono da sole di un terzo della capacità di stiva a livello mondiale. Per i porti di tutto il mon- do, ciò comporta la necessità impellente di dragare i propri porti, ampliare le proprie banchine, acquistare nuove gru in grado di accogliere questi giganti, pena la perdita di competività e la fuga da parte dei principali Global carrier mondiali5.

Il fenomeno del “gigantismo navale” ci permette di sottolineare la contraddizione insanabile nel capitalismo legata allo svi- luppo delle forze produttive. I grandi oligo- poli si stanno direzionando verso uno svi- luppo di navi sempre più grandi e con porti sempre più automatizzati: basti pensare che fino a 20 anni fa l’attracco di una nave si- gnificava la movimentazione di circa 800 Teu6, oggi siamo a 4000 Teu, ma il tempo di sosta non si è allungato significativamente.

È importante sottolineare come navi più grandi impieghino ovviamente più tempo a percorrere le tratte da porto a porto, motivo per cui, il tempo perso in mare va recupe- rato in porto accelerando i tempi di carico e scarico, riducendo le toccate, aumentando la produttività delle gru. Inoltre, dato che il tempo di percorrenza aumenta, le mega- navi, devono toccare meno porti possibili in grado di operare con estrema velocità. Ne consegue il taglio del personale e l’aumento del tasso di sfruttamento per chi ci rimane a lavorare.

Dall’altra parte il “gigantismo navale” è

5 In Italia è il caso della Diga Foranea di Ge- nova, un’opera faraonica a spese pubbliche, della quale beneficerebbe principalmente la Msc e il Gruppo Spinelli, di cui è previsto il finanziamento da parte del Recovery Plan, con uno stanziamento prospettato di 500 mi- lioni di euro a fronte di un’opera che secondo le stime più positive dovrebbe attestarsi sui 2 miliardi di euro.

6 Il Teu è l’acronimo di twenty-foot equivalent unit, è l’unità di misura che indica la lunghez- za standard di un container, pari a 20 piedi

alla base della stessa crisi del settore, aven- do prodotto una bolla finanziaria simile a quella della Lehman Brothers. Come il ri- flesso della crisi generale sul mercato mon- diale accade che navi sempre più grandi viaggino spesso e volentieri con container vuoti o carichi più leggeri determinando una dinamica che ha prodotto una caduta nel guadagno per unità di carico trasportato.

Il calo vertiginoso del commercio mondia- le, aggravato anche dalla pandemia Covid, ma già presente in precedenza con la dimi- nuzione dell’export cinese, ha creato quella che molti analisti hanno definito la tempe- sta perfetta del settore marittimo. A farne le spese come fu per la Lehman Brothers nel 2008 è stata per prima l’azienda sudcore- ana Hanjiin fallita nel 2017. Lo spazio di mercato lasciato libero dal fallimento della Hanjiin è stato immediatamente riempito dalle 2M e come è stato per le bolle immo- biliari, la dinamica speculativa continua ad alimentarsi.

Composizione dei portuali

Dal punto di vista dei lavoratori a partire dal 1983 viene ridotto il numero di addetti dei porti tramite esodi incentivati, prosciu- gando il bacino delle maestranze associate o dipendenti delle Compagnie Portuali, la cui consistenza passa da 21 mila unità nel 1983 a poco più di 4 mila nel 1997. Tramite gli esodi è stato favorito un repentino turn over e una redistribuzione dei nuovi assunti in una pluralità di aziende. Ma è solo 11 anni dopo, con la legge 84 del 1994, che viene sancita la fine del monopolio delle compa- gnie portuali nella gestione e organizzazio- ne della forza lavoro nei porti. Questa legge introduce tre figure nel porto autorizzate ad operare dall’Autorità Portuale o marittima di competenza: art. 16 ovvero le imprese di servizi autorizzate a svolgere le operazioni

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Classi sociali, proletariato e lotte

portuali per conto proprio o conto terzi; art.

17 le imprese di lavoro temporaneo che svol- gono operazioni portuali a chiamata (pool);

art. 18 i concessionari di aree e banchine, i cosiddetti terminalisti, che possono dispor- re di proprio personale per l’espletamento delle operazioni portuali. La riduzione del personale delle storiche Compagnie Portuali tramite gli esodi incentivati ha determinato l’erosione dei rapporti di forza delle stesse e la possibilità quindi di rompere la resisten- za all’ingresso di nuove aziende all’interno delle banchine. Da metà degli anni novan- ta in poi sono aumentati i dipendenti delle imprese terminaliste concessionarie di aree demaniali e delle imprese di servizio che fornivano manodopera nei porti.

La legge 84/94 formalizza il processo di ristrutturazione dei porti passando da un modello pubblico di organizzazione del la- voro ad un modello pressoché privato. La legge puntava a regolamentare il ruolo dei vari attori presenti nel porto. L’impresa ter- minalistica (privata) opera nell’area portua- le (pubblica) tramite una concessione, per le operazioni di carico e scarico delle merci è provvista di una propria forza lavoro e può disporre anche di una riserva (detta anche pool) di manodopera temporanea autorizza- ta dall’articolo 17 della suddetta legge per affrontare l’oscillazione costante della do- manda derivante dai traffici. Il pool può es- sere organizzato come un’impresa di forni- tura della manodopera temporanea o come un’agenzia per il lavoro. Le Compagnie Portuali diventano di conseguenza delle im- prese a metà strada tra pubblico e soprattut- to privato sui quali i terminalisti ammortiz- zano le pressioni a seconda dell’aumento o della diminuzione dei volumi. Inoltre, sor- gono aziende private di manodopera tempo- ranea come Intempo che fa capo alla Ran- dstad che fornisce manodopera interinale al sistema portuale e logistico.

L’iter della legge 84/94, che dal punto

di vista del padronato doveva liberalizzare completamente i porti (“europeizzarli”) si è scontrato con l’esigenza di mantenere la pace sociale negli stessi e di garantire un ruolo a ciò che rimaneva delle Compagnie Portuali, soprattutto dove queste hanno mantenuto una forza di rilievo come Geno- va. In generale nei porti italiani si assiste a delle enormi differenze nella gestione della manodopera, soprattutto riguardo al pool, da porto a porto, situazione che ha come principale ricaduta la forte frammentarietà del settore. Inoltre i processi di specializ- zazione e automazione differenti da porto a porto rendono la composizione degli addetti molto differente.

Ad esempio, a livello generale le impre- se terminaliste assorbono il 53% della ma- nodopera, ma sono assenti nei porti di Bari e Palermo, le imprese di servizi assorbono circa il 32%, mentre il pool il restante 13%, ma non è presente nei porti di Gioia Tauro e La Spezia7.

Il quadro che si delinea è quello di una forte disomogeneità di condizioni e orga- nizzazione, prodotto diretto della compe- tizione tra capitali, che si traduce anche in competizione tra porti o all’interno dello stesso porto. In alcuni casi le imprese ter- minaliste riducono al minimo il ricorso all’apporto esterno di manodopera e al pool come nel caso di Conateco a Napoli, in altri la quota del ciclo portuale gestito da impre- se di servizio supera il 50% come nel porto di Trieste.

Entriamo nel merito prendendo in esame tre realtà molto differenti: Genova, Trieste e Livorno.

Il porto di Genova vede al suo interno circa 2 mila lavoratori suddivisi tra un mi- gliaio dipendenti dei terminal e il restante

7 A. Appetecchia, Far west Italia, Il futuro dei porti e del lavoro portuale. Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica, Rapporti Periodici, 2011

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Classi sociali, proletariato e lotte 50% socio o dipendente della Compagnia

Portuale (Culmv). Quest’ultima grazie al rapporto di forza storico e al patto sociale cittadino, non ancora del tutto eroso, conti- nua ad essere il perno operativo dello sca- lo. Tutti i 2 mila portuali operano nei cicli produttivi in maniera interdipendente, uti- lizzando però gli stessi mezzi e obbeden- do alla stessa organizzazione del lavoro in termini di ritmi e turni. I lavoratori alle dipendenze delle imprese terminaliste sono inquadrati nel Ccnl Porti e inoltre hanno un contratto migliorativo di secondo livello, sono inquadrati meglio professionalmente e conservano la precedenza sulle operazio- ni specialistiche. Inoltre, a differenza degli altri, non subiscono conseguenze a causa dell’eventuale diminuzione del lavoro, dato che questa diminuzione viene fatta ricadere sui lavoratori della Culmv (pool).

I lavoratori della Culmv godono di una certa autonomia che gli permette di non accettare alcune chiamate e ricorrere all’in- dennità di mancato avviamento (Ima)8 o di integrare il proprio salario duplicando e tri- plicando i turni giornalieri di lavoro. Questi lavoratori, ad esempio, non sono provvisti nemmeno di badge per definire l’inizio o la fine del turno. I soci sono regolati da un si- stema interno di retribuzione che, fatte salve le paghe per le giornate di lavoro integrate eventualmente dall’Ima, deve anche con- tribuire a mantenere la struttura di impresa con l’unico ricavo delle tariffe erogate dalle imprese terminaliste. Un ricavo, quest’ul- timo, sempre più basso, conseguente al continuo abbassamento delle tariffe stesse, nell’intento di attrarre la presenza di nuovi carrier nei porti. Questo abbassamento ha determinato il fatto che l’Autorità Portuale

8 L’Ima è una sorta di cassaintegrazione ero- gata dall’Inps inoltrata dalle singole Autorità portuali al ministero dei trasporti e concessa ai dipendenti delle aziende che offrono lavo- ro temporaneo e quindi regolate dall’art. 17 della legge 84/94.

genovese sia stata costretta ad intervenire per ripianare i bilanci della Culmv.

A Livorno operano circa 1500 lavoratori suddivisi tra la Age.L.P. Srl (ex art. 17) che ne impiega 64, tredici imprese di servizi (ex art. 16) che ne impiegano 615 e quindici im- prese terminaliste (ex art. 18) che conta un organico complessivo di altri 810 dipendenti La ex Compagnia Portuale, oggi impre- sa di servizi (ex art. 16) partecipa a sette delle principali imprese terminalistiche, detenendo una partecipazione azionaria che in alcuni casi raggiunge il 100%. Per esse svolge operazioni in esclusiva. Nel porto si registrano forme di autoproduzione non au- torizzate dall’Autorità Portuale, la presenza di cooperative che effettuano lavori senza autorizzazioni e un ricorso continuo al la- voro a chiamata che invece di essere rivolto alle imprese di pool (ex art. 17) coinvolge le imprese di servizio (ex art. 16). Il dato prin- cipale da sottolineare è, oltre all’estrema frammentazione e caos nell’organizzazione del lavoro, anche il ruolo differente svolto proprio dall’ex Compagnia Portuale, che a differenza di quella genovese ha assunto la forma dell’agenzia del lavoro privata.

Trieste rappresenta il modello organizza- tivo opposto a quello genovese. L’organico è composto da circa 1500 dipendenti suddi- viso tra 683 dipendenti di 18 aziende termi- naliste, 137 divisi tra due aziende di Lavoro Temporaneo (ex art. 17) e circa altri 700 di- visi tra circa una trentina di imprese di ser- vizi (ex art. 16). Questo organico è ampia- mente frammentato al suo interno, dato che vi è una forte presenza di cooperative carat- terizzate da un’offerta di forza lavoro molto flessibile alle chiamate e con salari più bassi rispetto alle altre imprese. La presenza nelle banchine di queste cooperative, inizialmente relegate all’area di Porto Emporio, ha porta- to ad una competizione interna giocata sulla tariffa, il cui effetto è stato oltre al fallimento di alcune società, la perdita in termini di si-

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curezza. I terminalisti, a fronte della grossa offerta di manodopera e servizi, determina- no di fatto la tariffa.

La vecchia Compagnia Portuale rimasta art. 17 è risultata molto marginale, al punto da essere stata liquidata e sostituita di re- cente da una nuova Compagnia collegata in termini societari a quattro tra i principali terminalisti dello scalo.

Gli esempi di Genova, Livorno e Trieste ci servono per sottolineare quella che è una forte disomogeneità di condizioni e organiz- zazione del lavoro, oltre che a una moltepli- cità di soggetti che operano, all’interno dei porti italiani. Situazione non a caso definita da più di qualcuno un vero e proprio far west.

Il dato generale che ne possiamo trarre è che la legge 84/94 e le sue successive modifica- zioni hanno puntato a distruggere quella che era la forza e le strutture storiche dei lavora- tori portuali. Le Compagnie portuali hanno perso terreno, ma resistendo, laddove i rap- porti di forza erano più forti, si sono adatta- te alla privatizzazione, diventando imprese private a tutti gli effetti o sono sparite dove i rapporti di forza erano più deboli.

Lotte e prospettive

La frammentazione e la disomogeneità del mondo dei porti non significa la pace so- ciale. Anzi, le privatizzazioni, le liberaliz- zazioni, l’ingresso di nuovi padroni deter- mina nuove contraddizioni e nuove lotte. Le mobilitazioni però non riescono a tradursi quantitativamente sul piano nazionale pro- prio per la disomogeneità descritta prima.

La legge 84/94 e la fine del monopolio delle Compagnie portuali ha portato come elemento principale la concorrenza spieta- ta tra i diversi attori che vendono la forza lavoro all’interno dei porti. Aumento dello sfruttamento, perdita in termini di sicurez- za, aggravamento del precariato sono tutti

risultati dell’evoluzione della 84/94, anche se come abbiamo detto, l’organizzazione del lavoro e la sua distribuzione nelle varie aziende varia da porto a porto.

In prospettiva possiamo dire che le sfi- de che hanno difronte i portuali non sono di poco conto. In primis lo scontro che si con- suma tra Roma e Bruxelles sul ruolo delle Autorità Portuali. Una questione cruciale per il futuro dei porti, in quanto ad oggi, l’Au- torità Portuale è considerata in Italia come una parte dell’amministrazione pubblica ai sensi dell’articolo 74 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi e svolge un ruolo di ge- stione, amministrazione e organizzazione di beni e servizi nella rispettiva area di compe- tenza. Ne consegue ad esempio che le Auto- rità Portuali non sono tenute a pagare l’Ires, l’Imposta sul reddito delle società allo Stato italiano e possono quindi applicare tariffe concorrenziali rispetto ai porti del Nord Eu- ropa. L’Antitrust europea ha già bacchettato più volte l’Italia su questo punto utilizzando la questione come grimaldello per imporre la privatizzazione delle Autorità Portuali sul modello nordico. Ciò avrebbe conseguenze enormi proprio per il ruolo che questi enti svolgono nella gestione e organizzazione del lavoro all’interno del porto.

La prospettiva che si delinea è quindi di un approfondimento delle contraddizioni fin qui delineate, con un ruolo sempre mag- giore dei Global carrier, in una situazione in cui non vi è più solo la subordinazione a loro dell’attività portuale, ma del porto in quanto tale. Non è un caso quindi che tra i punti salienti del Ddl Concorrenza il go- verno Draghi abbia inserito l’abrogazione del divieto all’autoproduzione e cerchi di eliminare gli ostacoli che impediscono ai concessionari portuali di fondere le attivi- tà in concessione in diversi porti di grandi e medie dimensioni. La tendenza chiara è quella della concentrazione e centralizza- zione dei capitali in funzione della massi-

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mizzazione del profitto dei grandi players mondiali, i quali grazie al controllo di ogni punto dell’infrastruttura logistica intermo- dale possono ridurre costantemente i costi di produzione e scaricare in ultima analisi sui lavoratori i costi. Vediamo, quindi, come all’interno del quadro della crisi del sistema capitalista la lotta tra la vita e morte degli oligopoli si traduce direttamente in aumen- to dello sfruttamento e peggioramento delle condizione generale di vita per i lavoratori.

Data l’erosione dei rapporti di forza ge- nerali, Genova continua a rimanere una sor- ta di ultimo bastione nel quale la capacità di mobilitazione dei portuali arriva fino ad oggi. Non è un caso quindi che da qui sia partita la lotta contro l’attracco delle navi che trasportano materiale bellico. Voglia- mo sottolineare che questo è un importan- te esempio di ‘lotta politica’ di un settore di classe operaia in cui si pone la relazione dialettica tra la lotta dei portuali in prima linea contro il potere dei padroni del mare e la lotta in solidarietà ai popoli oppressi. Un esempio di soggettività politica di massa della classe, che ha saputo esprimersi come critica pratica del ruolo che i porti investo- no all’interno dell’infrastruttura logistica

del capitalismo, non solo dal punto di vista commerciale, ma anche bellico.

A dispetto delle condizioni interne che vedono i portuali divisi sul piano nazionale sulle questioni più sindacali, la mobilita- zione politica contro le navi che portavano armi ai sauditi contro il popolo yemenita e quelle che portavano armi all’entità sioni- sta ha portato ad un piano di unità oltre che nazionale anche internazionale. Una mobi- litazione che di volta in volta è cresciuta di numero e ha coinvolto più porti in Italia e nel resto del mondo.

D’altra parte, proprio i rapporti di forza accumulati in questa mobilitazione costi- tuiscono un rafforzamento per i lavoratori impegnati nelle vertenze nei singoli porti e contribuiscono, quindi, a superare la dif- ficoltà che questi lavoratori incontrano, ad accumulare rapporti di forza vincenti in un contesto frammentato e disomogeneo come quello descritto sopra.

Fondamentale in questo passaggio è il ruolo svolto dai compagni del Collettivo Au- tonomo Lavoratori Portuali e lo sforzo ope- rato da questi di andare oltre al piano della lotta economica, raccogliendo la tradizione storica dei camalli genovesi di darsi una au- tonomia rispetto alla degenerazione neocor- porativa del sindacato confederale e del Pci revisionista. Autonomia che ha contribuito a preservare parzialmente i rapporti di forza storici, a differenza di altre città dove proprio gli epigoni del Pci revisionista e della Cgil collaborazionista hanno svenduto i portuali ai padroni, come ad esempio è successo a Trieste. Ma anche a Trieste oggi, nonostante questa svendita, stanno esprimendo una nuo- va autonomia della classe.

Questa esperienza, caratterizzata dall’idea di strutturare un collettivo che spostasse il piano del dibattito da quello sindacale ad un piano più generale, ha evi- dentemente dato bei frutti. Dal loro lavoro possiamo e dobbiamo trarre insegnamento.

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Come, quando e perché nasce il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali?

Il primo collettivo è nato intorno agli anni 70, non era un vero e proprio collettivo, ma una specie di consiglio di fabbrica, si chiama- va Collettivo dei Portuali (l’esperienza finisce attorno agli anni ’80, ndr). Tramite Stefano Rossi, un compagno storico genovese, nasce una prima assemblea che poi va a scemare.

Dopo la morte di Enrico Formenti (nel 2007, ndr), portuale che è venuto a mancare a cau- sa di un incidente sul lavoro, e le forti proteste conseguenti, nel 2009 sono state messe in piedi una serie di iniziative mirate a costituire un ruolo più agile degli Rls (Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza, ndr) e dei delegati e raccogliere il grosso contributo da parte dei lavoratori e principalmente di quelli che oggi sono nel Calp.

La costituzione reale del Calp avviene il 15 ottobre 2011, di ritorno da una manifestazione indetta a livello europeo a cui partecipammo.

Aderimmo alla manifestazione chiamata su Roma, ci furono bei scontri e giornate ab- bastanza concitate. Al ritorno si cominciò a ragionare sulla necessità di slegarci dalla lo- giche degli attivi dei delegati della Cgil. Quei pochi momenti all’anno che organizzava la Cgil non ci bastavano, avevamo l’esigenza di avere un contatto continuo tra di noi delle varie banchine per mettere in relazione tutti quelli che lavorano nel porto di Genova. Que- sto perché all’interno del porto di Genova ci sono circa 13 banchine nelle quali lavorano 2 mila portuali. E, quindi, si decise di darci un’or- ganizzazione collettiva con la partecipazione di lavoratori di ogni banchina e una presenza capillare e radicata nel porto. Così cominciò questa esperienza del Calp.

Negli anni abbiamo costruito consenso e siamo cresciuti. La partecipazione varia a se- conda dei periodi, delle vertenze e delle lotte in corso. Attualmente diciamo che siamo tra i 25 e i 30 componenti di tutte le realtà che com- pongono il porto. Una ventina più militante e una decina di ragazzi che sono a contratto a tempo determinato. Decidiamo di volta in volta anche chi esporre e come, proprio perché ci sono situazioni di maggiore ricattabilità. Dicia- mo che la forma attuale è quella che preferia-

mo perché c’è il giusto equilibrio e riusciamo a capirci solo guardandoci negli occhi.

Come nasce e si sviluppa la mobilitazione contro le navi da guerra e come viene vissuta in porto?

Il Calp si è dato alcuni paletti: l’internazio- nalismo, l’antifascismo e l’anticapitalismo. Il Collettivo è composto da varie anime, ci sono dentro compagni comunisti, anarchici, libertari, semplici delegati che non masticano politica, ci sono lavoratori interessati principalmente alle questioni sindacali, ma con un forte sentimen- to antifascista, e c’è chi si avvicina a noi per le azioni e le rivendicazioni fatte nel tempo e che ci hanno permesso di portare a casa delle vittorie.

Intorno al 2014 arrivò a Genova una delle prime navi cariche di carri armati, elicotteri e di ogni materiali necessario alla guerra. L’ini- ziativa in quel caso fu da parte dell’Autorità Portuale. Non si lamentavano del fatto che questa nave era diretta in teatri di guerra ov- viamente, ma si lamentavano del fatto che una nave carica di armamenti non era stata dichia- rata all’interno del porto di Genova. Quindi non tanto per una questione etica, ma più per una questione di comunicazione.

Da lì abbiamo cominciato a percepire e a vedere con i nostri occhi un aumento del traf- fico di armi nelle banchine, anche perché era il periodo tra il 2014 e il 2019 qundo i teatri di guerra si sono moltiplicati: Libia, Siria, Yemen, ecc.Il moltiplicarsi dei teatri di guerra ha innal- zato i traffici di armi all’interno dei porti italia- ni e nello specifico di quello genovese. Da li abbiamo detto: qua sta diventato un problema perché comunque se con le nostre ore di la- voro dobbiamo essere organici a quella che è la guerra, noi a questo non ci vogliamo stare.

Nel senso che non vogliamo essere quel piccolo ingranaggio che mobilita le truppe nei vari territori. E, quindi, abbiamo iniziato una se- rie di relazioni con alcuni gruppi politici del ter- ritorio e abbiamo avviato un approfondimento sul flusso delle armi nel porto di Genova, fino ad arrivare al 2019 dove abbiamo cercato di contrastare concretamente il traffico del mate- riale bellico nei porti.

Intervista a un compagno del Calp di Genova

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Classi sociali, proletariato e lotte

Quali son state le conseguenze giudiziarie della mobilitazione?

Il Calp è un collettivo i lavoratori, non è da intendersi come un collettivo politico. Poi tutti siamo organici a Genova Antifascista. Quindi riusciamo a muoverci nell’ambito lavorativo per quanto riguarda le vertenze, ma anche per quanto riguarda gli scioperi politici e il contra- sto alle aperture delle sedi di fascisti, o comun- que alle mobilitazioni antifasciste a Genova.

Questa cosa dal 2017 al 2020 ha fatto mo- bilitare la Questura, che ha ragionato come se questa nostra attività su più fronti d’interven- to fosse un’associazione a delinquere perché avevamo a disposizione mezzi, strutture e sol- di. I mezzi sarebbero le nostre macchine, le strutture sono le nostre sedi e i centri sociali che frequentiamo per riunioni o iniziative e i soldi sono il frutto dell’autofinanziamento.

L’associazione a delinquere, per come è spiegata nel plico che abbiamo ricevuto, deri- verebbe dal fatto che noi siamo inscalfibili, che non abbiamo intenzione di arretrare e su come noi possiamo utilizzare mezzi soldi e strutture per effettuare pratiche criminose. Tutto questo senza però fare nessun tipo di ragionamento o fare riferimento a nessun reato: quindi è una specie di teoria su come noi potremmo fare qualcosa.

Poi, in un secondo momento, abbiamo ri- cevuto gli atti dei crimini che secondo la Que- stura avvallano l’associazione a delinquere e si tratta di accensione di fumogeni, manifesta- zioni non autorizzate, lanci di oggetti durante le manifestazioni, cose che quando c’è un conflitto sociale accadono quotidianamente. Il reato un po’ più grave, secondo il mio punto di vista, è interruzione di pubblico servizio, le- gato al blocco della nave Bahri, ma dico che è grave perché quella nave non è un servizio pubblico, ma è un servizio privato per privati.

Quindi le forze repressive hanno messo in piedi questo modo molto macchinoso per far sì che noi, per i prossimi 10 anni, saremo dentro una bolla giuridica. Per il primo reato, che av- valla la loro teoria, potremmo avere ripercus- sioni più pesanti tipo la sorveglianza speciale, i domiciliari e, per i casi più gravi, per due di noi, addirittura il carcere. Quindi vogliono man- tenerci in questo trip giudiziario per cercare di tagliare la testa a quei movimenti che creano veramente conflitto sociale.

Praticamente quello che è accaduto la mat- tina del 24 febbraio alle 5 del mattino circa, a 5 di noi è questo: ci entra in casa la Digos, perquisendoci casa come se dovessero trova- re chissà che cosa, sequestrandoci i cellulari, i tablet dei figli in alcuni casi, documenti politici, agende, tutto quello che poteva essere un rife- rimento alla loro teoria. Non han trovato nien- te in casa e quindi ci han portato giù in porto dove noi avevamo una nostra sede, con all’in- terno una palestra per i portuali, l’ufficio dove facevamo le nostre riunioni, le docce: era la nostra sede all’interno del porto. Era un po’ in stile occupazione, perché questa palazzina fa capo all’Autorità Portuale e quindi del demanio.

Da li poi ci hanno spostato in un’altra area, per perquisire anche quella, dove tenevamo i nostri striscioni, tutta la roba per le manifestazioni, ma anche chitarre e giradischi. A tutta questa ope- razione hanno partecipato centinaia di poliziotti, era presente praticamente tutta la Digos di Ge- nova, quella legata all’area politica, la scientifi- ca, la cinofila e gli artificieri. È stata veramente un’operazione che a Genova non si vedeva for- se dal 2001 con le operazioni post G8.

Hanno fatto questa maxioperazione per- ché dovevano in qualche maniera far capire a tutti che stavamo rompendo il cazzo per quan- to riguarda la nostra attività sindacale nei posti di lavoro e per quanto riguarda gli scioperi po- litici, come quelli contro le navi da guerra che da 30 anni non si vedevano all’interno del por- to. I padroni i nostri scioperi li han sentiti forte perché l’azienda che non traffica armi subisce una perdita a causa di chi invece accoglie navi destinate al traffico di armi. Una cosa che ha fatto iniziare a scricchiolare le sedie di quelli che hanno percepito soldi per le loro campa- gne elettorali in cambio della “pace sociale” nei porti. Quindi c’è stata una pressione anche da parte della politica genovese sulla Questura che ha fatto scattare questa maxi operazione repressiva.

Quali sono, oltre al discorso antimilitarista, internazionalista, le vertenze che state portando avanti dentro al porto di Genova?

Allora, faccio un passo indietro temporale:

noi siamo tutti delegati sindacali, da circa 7 anni abbiamo portato avanti una serie di que- stioni vertenziali. Ti faccio due esempi per noi i più simbolici: uno quando abbiamo iniziato

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a contestare quella che è l’autoproduzione a bordo delle navi, dove di fatto qua a Genova l’abbiamo vinta, nel senso che ogni qualvolta che si ripropone a Genova c’è una forte mobili- tazione. L’autoproduzione è quando una nave in fase di attracco fa svolgere ai marittimi le operazioni di rizzaggio e derizzaggio, quindi di fatto depotenziando le ore di lavoro dei portuali e pesando sulle spalle dei marinai che hanno magari settimane di navigazione e che hanno il loro bel da fare: le pulizie, le riparazioni duran- te la navigazione e tutta una serie di operazio- ni che vanno fatte in sede di carico e scarico.

Con l’autoproduzione le aziende risparmiano sui 4 mila euro a nave, a pensarci bene non è tanto, ma è la logica che va contrastata.

C’è un’altra vertenza, anzi altre due molto simboliche, tutte e due legate alla questione Covid. Una è stata all’indomani del Dpcm che ha messo l’Italia in zona rossa dichiarando come comportarsi nei posti di lavoro in termini di sicurezza e di salute. Noi abbiamo fatto il primo sciopero bianco, cioè abbiamo fatto una sospensione del lavoro, quindi dicendo agli operai di timbrare, ma non lavorare finché nei posti di lavoro non fossero stati garantiti sicu- rezza e salute.

Questa cosa ha fatto veramente un gran casino nell’area portuale perché metteva alle strette l’azienda e i lavoratori salvaguardava- no lo stipendio. Le aziende in quel momento chiedevano alle nostre segreterie di dichia- rare sciopero. Noi abbiamo detto no: noi non paghiamo due volte la mala sanità di questo paese. Quindi noi timbriamo, ci pagate, ci ga- rantite la salute e la sicurezza sul posto di la- voro, una volta che ci saranno garantite tutte le disposizioni stabilite all’interno del Dpcm torneremo a lavorare. Questa vertenza è dura- ta ventiquattro ore circa, abbiamo creato tutte le piattaforme di discussione su quali fossero i protocolli corretti da applicare, questo perché ogni lavoro ha le sue peculiarità. Poi questa piattaforma è diventata a livello nazionale il punto di riferimento di tutti i porti d’Italia.

L’altra vertenza che abbiamo portato avan- ti è sulla questione della cassa integrazione nel periodo Covid. Succedeva in pratica che le aziende, visto l’abbassamento del carico di lavoro che c’è stato tra aprile e maggio, chie- devano la cassa integrazione. Però, non era un calo legato alla perdita di fatturato o alla diminuzioni degli introiti. Per fare un esempio,

Psa (società terminalista), nel 2020 ha chiu- so l’anno a 36 milioni di utili, quest’anno chiu- deranno a 34 milioni di utili. Psa non ha una perdita sulle spese attive dell’azienda, ha una perdita sui guadagni. E quindi chiedevano la cassa integrazione per andare a risparmiare ulteriormente sui loro introiti di fine anno; cioè volevano far pagare metà stipendio allo Sta- to con la cassaintegrazione e parallelamente mantenere attivi gli straordinari, la chiamata straordinaria dei portuali, e tutta una serie di cose. Quindi, in quel momento ci siamo incaz- zati parecchio: c’era tanta gente che diceva

“no vabbè, ma andiamo in cassa, me ne sto a casa a pagato”, a tutti fa piacere stare a casa, ma per noi era il principio sbagliato. Quando il padrone decide di farti stare a casa, in cassa integrazione con i soldi nostri, perché la cas- sa integrazione deriva tutta da chi ha la busta paga fondamentalmente, non è giusto.

Oggi stiamo portando avanti anche una questione di sicurezza all’interno del por- to: abbiamo avuto una serie di incontri, che mi gestisco io in quanto delegato, ma di cui parliamo sempre collettivamente, riguardanti lo spostamento di tutta la parte del petrolchi- mico dall’area di Pegli all’interno del porto di Genova, a soli 200 metri da dove attracca la Bahri. Quindi, oltre a una questione di sicurez- za legata alla presenza di una nave carica di materiale bellico, immaginate come il rischio aumenti con accanto cisterne di petrolio. Si viene a creare una situazione da bomba nu- cleare ad orologeria. Si rischia veramente di vedere le immagini dell’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2020. Su questo stiamo cercando di creare una mobilitazione sia all’in- terno del porto sia della città di Genova. Poi stiamo facendo anche un lavoro coi pompie- ri, che uscirà a breve; anche loro lamentano il fatto che non hanno, in caso di incendio a bordo di navi che trasportano materiale bellico, una formazione su come operare. Cioè non è perché non sanno come farlo, ma perché non sanno come gestire missili, proiettili, agenti chimici e tutta una serie di cose, dato che l’ad- destramento del pompiere in Italia si basa su questioni civili e non militari. Quindi nel caso dovesse accadere il peggio bisogna allertare un reparto militare che attualmente dovrebbe arrivare da La Spezie a circa 80 km dalla città, quindi immaginate in una situazione di pericolo cosa potrebbe succedere alla città di Genova.

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Classi sociali, proletariato e lotte Quali sviluppi vedete nel movimento dei

lavoratori portuali, a livello sia nazionale che internazionale?

Allora, le sensibilità in porto ci sono e sono tante, poi devi sempre partire tu per primo, deve sempre metterci la faccia qualcuno, non c’è una massa di persone che si muove spon- taneamente. Noi ci muoviamo in autonomia e nel momento in cui noi ci muoviamo la gente ci viene dietro, però aspetta sempre, soprattut- to su questioni più politiche come questa delle armi, che ci muoviamo noi.

Però, devo dire che ci ha dato molta for- za in questo senso l’assemblea dell’8 mag- gio che ha messo in relazione tutti i portuali d’Italia, creando il Coordinamento Nazionale Porti dell’Usb, che ci ha permesso di avere un dialogo più puntuale e agile, un po’ come è successo con la nascita del Calp. Poi, di fatto, ci aggiorniamo in chat, o sui cellulari, e quando c’è l’esigenza ci si incontra o a Bolo- gna o a Livorno per una questione logistica.

Genova è molto scomoda per quanto riguarda lo spostamento delle persone. Da lì, abbiamo

incominciato a ragionare sull’importanza di mettere in collegamento tutte le lotte perché, tra l’8 maggio e la prima vertenza che abbiamo fatto contro le navi di Israele, abbiamo comin- ciato a ricevere notizie di tutta un’altra massa di portuali in giro per il mondo che facevano delle mobilitazioni simili. Poi c’è chi si concen- tra di più alla solidarietà verso il popolo pale- stinese, chi invece come noi è proprio contro la guerra imperialista. E, ci tengo a precisare che noi non siamo pacifisti, ma antimilitaristi e internazionalisti: a noi le armi servono, ma non servono ad aggredire altri popoli, servono a di- fendersi un po’ in stile Cuba, Venezuela, Nord Corea e un po’ tutte queste situazioni dove è legittima l’autodifesa di un popolo per l’autode- terminazione.

Adesso, quindi, stiamo girando e pren- dendo contatti, a Marsiglia e con altri gruppi e portuali in giro per il mondo, per costruire una grossa mobilitazione internazionale, questo autunno, contro il flusso di materiale bellico nei porti e in solidarietà ai popoli che subiscono l’aggressione imperialista.

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