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1.1 EVOLUZIONE 1 INTRODUZIONE

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Academic year: 2021

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1 INTRODUZIONE

1.1 EVOLUZIONE

Le opinioni sull’origine dell’uomo sono nebulose e discordanti; altrettanto vale per quelle del suo amico cane.

Il cane è un mammifero della specie dei Carnivori Fissipedi, della famiglia Canidi, appartenente al genere Canis.

I reperti paleontologici risalenti a 25-30 milioni di anni fa , riconducibili ai

Miacidi (Carnivori evoluti), sono gli unici elementi a testimonianza della

già effettiva presenza del cane sulla terra.

I canidi veri e propri compaiono verso l’inizio del Miocene, circa 15 milioni di anni fa, nel continente americano.

Il primo animale in linea evolutiva con il cane è l’Hespercyon, somigliante alla attuali civette.

Nel tardo Miocene si passò dall’Hespercyon al Leptocyon, simile ad una volpe, considerato l’antenato di tutti i canidi odierni.

I Canidi sono esseri caratterizzati da resistenza, rapidità e, soprattutto, propensi allo spostamento, peculiarità che gli ha permesso di colonizzare tutto il mondo.

L’analisi genetica ha dimostrato l’esistenza di sei divergenze filogenetiche nella famiglia dei canidi.

La prima diramazione ha dato origine ai canidi simili ai lupi (cani, lupi grigi, licaoni, coyote e sciacalli); la seconda riguarda i canidi sudamericani;

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la terza i canidi simili alla volpe rossa; la quarta la volpe grigia degli Stati Uniti; la quinta il cane procione; la sesta l’otocione africano.

L’ancestrale comune a tutti i canidi tipo lupo e tipo sudamericano è il Canis

Davisii , risalente a sette milioni di anni fa, presente in Nord America.

Da qui si arrivò al Canis Familiaris , che è il derivato più recente di Canis

Lupus.

Attualmente, la maggior parte degli studiosi è concorde nell’attribuire le origini del cane domestico al lupo grigio (Robinson, 1990; Wayne and Vilà, 2001),ipotesi supportate da studi di genetica molecolare che mostrano un grosso numero di alleli micro satelliti e di sequenze di mtDNA mitocondriale in comune tra le due specie (Wayne and Vilà, 2001).

Questi studi riferiscono che le differenze nelle sequenze di DNA mitocondriale tra cane e lupo ammontano a circa il 2%, mentre quelle riscontrate tra cane e coyote , il parente più simile, sono del 7,5% (Leotta, 2005).

1.1.1 Dal paleolitico al neolitico

I reperti archeologici fossili ritrovati in varie parti del mondo testimoniano l’inizio della convivenza di cane e uomo, oltre che i vari passaggi evolutivi delle caratteristiche morfologiche dal lupo al cane.

Il più antico ritrovamento di canis lupus familiaris è una piccola mandibola recuperata in Germania ( Oberkassel ) e risalente a quattordicimila anni fa, ossia al tardo Paleolitico, periodo in cui i popoli erano essenzialmente cacciatori-raccoglitori.

L’utilità del cane in questo tipo di caccia consisteva nella sua capacità di seguire le tracce dell’animale ferito e recuperarne la carcassa (Clutton-Brock, 1997 ).

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Ritrovamenti risalenti a circa novemilacinquecento anni fa, avvenuti in Gran Bretagna, mostrano le variazioni morfologiche del passaggio dal lupo al cane, quali la riduzione della taglia, le modificazioni del cranio, la riduzione della dimensione e del numero dei denti, la bolla timpanica più ridotta.

Inoltre si assiste ad una irradiazione da piccoli gruppi di fondatori ad ampi gruppi di cani che colonizzeranno i vari territori (Serpell,1995 ).

A partire da novemila anni fa, in concomitanza della progressiva espansione della pastorizia e dell’agricoltura, si hanno una serie di ritrovamenti di cani evolutivamente avanzati.

A partire da seimilacinquecento anni fa, si sono rinvenuti resti di cani ovunque vi fossero tracce della presenza di esseri umani.

Nel Neolitico si stabiliscono nuove relazioni tra l’uomo e l’ambiente naturale.

L’uomo diventa un produttore, modificando con il suo intervento la selezione naturale delle specie animali e vegetali, favorendo la riproduzione di quelle che lo interessano a livello alimentare.

Queste trasformazioni si realizzano con la domesticazione di animali, come il maiale, la capra, il bue e il loro susseguente allevamento, e con l’agricoltura.

La ragione dell’esistenza di animali domestici nel Neolitico è strettamente legata all’evoluzione dell’agricoltura.

Con l’allevamento si allarga anche la domesticazione del cane, il quale, da cacciatore, diventa pastore e si affianca all’uomo nel sorvegliare le greggi.

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1.2 ADDOMESTICAMENTO

Secondo Gould (1993) “il trucco basilare dell’addomesticamento si fonda sull’uso di disposizioni già presenti nell’animale”. Il processo di addomesticamento è quindi un utilizzo di un comportamento istintivo. L’animale, in quanto specie sociale, ha insita in sé la ricerca di contatti sociali, quindi non vengono modificate le inclinazioni naturali. Se il cane non avesse manifestato attitudine ad assecondare gli sforzi dell’uomo, sarebbe stato inutile intraprendere la strada dell’addomesticamento (Jewell, 1993 ).

In realtà l’uomo condivide molti aspetti del proprio sistema sociale con i canidi; entrambi vivono in grandi gruppi familiari, forniscono cure parentali, hanno notevoli capacità di comunicazione vocale. Inoltre il sistema sociale umano è una gerarchia dinamica che si fonda sulle capacità, sull’età o su entrambi, ma che trova le proprie radici nel concetto di deferenza. I canidi sono molto simili all’uomo in questo; le contese che si verificano hanno lo scopo di mostrare e di valutare le relazioni gerarchiche e le interazioni di ogni giorno si basano su comportamenti di deferenza (Gazzano).

Il processo di domesticazione è soggetto a due influenze, una di carattere biologico ed una di natura culturale (Clutton-Brock, 1992).

Il processo biologico ha inizio quando un piccolo numero di animali viene isolato dalla specie selvatica e si abitua alla presenza degli esseri umani. Essi formano un gruppo fondatore che, nel corso delle generazioni seguenti, si modificherà per effetto da una parte della selezione naturale, a

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causa del nuovo ambiente, e, dall’altra , della selezione artificiale attuata dall’uomo per motivi economici, culturali ed estetici. L’animale viene dunque allontanato dal suo ambiente naturale e viene portato in un luogo protetto, dove deve acquisire un insieme di relazioni sociali e di strategie alimentari e riproduttive nuove.

Il processo culturale della domesticazione ha un impatto sia sull’essere umano che sull’animale. La domesticazione comincia con il possesso: gli animali devono essere assorbiti nella struttura sociale di una comunità umana e diventare oggetto di possesso, eredità, acquisto e scambio. Il rapporto uomo-animale si trasforma pertanto da un rapporto di reciproca fiducia, in cui le due specie condividono ambiente e risorse, ad una situazione di totale controllo e dominio da parte dell’uomo.

1.3 RAPPORTO UOMO CANE

Mediante l’addomesticamento, l’uomo ha ottenuto un successo: il cane è diventato gli occhi per i non vedenti, le orecchie dei soccorritori, guardiano delle abitazioni, strumento terapeutico (pet-terapy), compagno contro la solitudine ed arma letale tra le mani di padroni aggressivi.

L’uomo, isolando il cane dalla sua comunità, ha fatto si che questo si sottraesse alla selezione naturale, privilegiando comportamenti di servizio a suo vantaggio.

L’evoluzione è stata spinta verso la ricerca di caratteri ben precisi, sia strutturali (statura, morfologia, colore), sia mentali (forza, velocità, fiuto), che rispondessero ai modelli richiesti dall’uomo (Bartani, 2002).

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La selezione artificiale svolta dall’uomo attraverso la scelta di riproduttori con determinate caratteristiche, ha creato soggetti in grado di adattarsi alle caratteristiche ambientali imposte dall’uomo.

L’animale domestico è quello che è controllato dalla nostra specie in tutte le sfere vitali ed è non solo oggetto di possesso, ma anche parte del contesto sociale (Clutton-Brock, 1996).

Il rapporto cane-uomo nel corso dei secoli si è evoluto e modificato.

In alcune culture antiche era sacro, divinità da venerare e rispettare; un bene di produzione, reddito o lavoro; fino ai giorni nostri, in cui viene considerato parte integrante della famiglia.

Il cane non è più scelto per quello che “fa”, ovvero per una specifica abilità, ma per quello che “è”, ossia per la sua capacità di relazionarsi con l’essere umano, con una “genuinità” avvertita sempre più raramente nei rapporti interpersonali (Gazzano et al, 2002).

Spesso, questo accentuato antropomorfismo contribuisce al formarsi di interpretazioni sbagliate del comportamento animale, poiché l’uomo, attribuendo caratteristiche ed intenzioni umane all’animale, non riconosce più le sue diversità.

Così, anche per la strutturazione di luoghi destinati alla vita di questi esseri, con esigenze completamente diverse da quelle umane, sono presi come riferimento parametri riferiti prevalentemente al genere umano.

Atteggiamento, questo, dal quale si evince come gli animali possono godere benefici dalla relazione con gli uomini, ma possono anche soffrirne.

Il cane è un animale sociale collaborativo, che trova la sua realizzazione nello stare in un gruppo sociale, al cui interno conosca e riconosca il suo ruolo

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(Marchesini, 2007).

Al fine di stabilire un buon rapporto, in una convivenza uomo-cane, non è il cane il solo a dover imparare a comprendere la gestualità del proprietario, ma anche quest’ultimo nei confronti del suo animale.

Comprendere come comunicano gli animali vuol dire avere la possibilità di entrare in relazione con essi (Marchesini, 2007).

1.4 COMUNICAZIONE CANINA

La possibilità e la capacità di comunicare tra membri di uno stesso gruppo è alla base della vita sociale.

Il cane, pur non avendo il dono della parola, ha la possibilità di utilizzare altri mezzi per comunicare.

Le diverse forme di comunicazione canina sono così ricche e complesse da poter affermare che il cane ha un proprio linguaggio (Coren, 2000).

Uno dei principali mezzi di comunicazione tra animali della stessa specie è il comportamento stesso dei singoli individui (Aguggini).

Per comunicare, gli animali usano i sensi, ricorrendo a sistemi tattili, ottici, acustici e chimici.

Nel cane, la capacità di comunicare compare durante il periodo di socializzazione (dalla terza fino alla sedicesima settimana di età) ,periodo durante il quale si sviluppano i sistemi di comunicazione intra e interspecifici, l’acquisizione dell’autocontrollo, lo sviluppo del comportamento esplorativo, il distacco, il gioco e la gerarchizzazione.

La comunicazione del cane si manifesta in quattro forme differenti: 1. La comunicazione tattile

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2. L’olfatto

3. La comunicazione sonora (mediante le vocalizzazioni) 4. La vista

Una forma molto dettagliata di comunicazione, che viene utilizzata per le brevi distanze, è la comunicazione posturale e visiva.

Si tratta di un linguaggio che coinvolge tutte le parti del corpo, capace di trasmettere informazioni su di un approccio amichevole o aggressivo, di dominanza o sottomissione, oppure segnali calmanti.

1.5 WELFARE

“Il nostro non è un mondo ideale. Se lo fosse, le nazioni muterebbero le spade in aratri, ci sarebbe sempre abbastanza posto per parcheggiare ed avremmo sempre le monete per telefonare. Ma il mondo non è quello ideale ed i nostri corpi sono costantemente messi alla prova da questa imperfezione.”

- Robert Sapolsky -

Sempre più spesso, parlando di animali e delle loro condizioni di vita o di allevamento, si usano parole come Welfare e Stress.

Fin dagli anni ’50-’60, si è provato a dare delle definizioni di questi due termini,strettamente collegati tra di loro, e, anche se differenti modi sono stati utilizzati nel corso degli anni da vari autori per definire il benessere animale, non è stata ancora “coniata” una definizione universalmente accettata di welfare.

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La difficoltà sta nel fatto che il concetto di benessere animale è una sfera complessa, che include aspetti fisici, comportamentali e psicologici (Notari, 2004).

Nel Brambel Report (1965), welfare è un termine che viene definito in maniera molto ampia, includendo sia il benessere fisico che quello mentale dell’animale.

Secondo Huges (1976), welfare è “quello stato di equilibrio mentale e fisico che consente all’animale di essere in armonia con l’ambiente che lo circonda”.

“L’associazione mondiale dei veterinari ha approvato la definizione fornita da Blood e Studdert (1988) sul “Baillière’s Veterinari Dictionary”, che definisce “ Il benessere è il mantenimento di standard appropriati di allevamento, alimentazione e cure generiche, la prevenzione ed il trattamento delle malattie, la salvaguardia dai maltrattamenti e da dolori e sofferenze ingiustificati”.(Aguggini,1998)

Secondo Broom (1990), il benessere animale è “lo stato dell’individuo in rapporto ai suoi tentativi di adattarsi al suo ambiente”.

Per Duncan e Peterick (1991), il welfare dipende solamente dai bisogni degli animali, mentre Dawkins (1990) include nella definizione anche i sentimenti degli animali, affermando che il benessere animale coinvolge il sentire soggettivo degli animali.

Secondo Webster (1994), il benessere dell’animale dipende dalle sue capacità di evitare le sofferenze.

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Sempre nel Brambel Report (1965), sono state elencate le cinque libertà necessarie per non mettere a rischio lo stato di benessere di un animale, il quale deve essere:

• Libero dalla fame e dalla sete

• Libero da fastidi fisici e dal dolore

• Libero da traumi o malattie

• Libero dalla paura e dallo stress

• Libero di esprimere la maggior parte dei suoi modelli comportamentali

Nel suo habitat naturale, l’animale interagisce con l’ambiente ed i sui con specifici applicando modelli comportamentali sia innati che appresi.

Dunque, il concetto di benessere è strettamente collegato a quello di adattamento.

Adattamento in un ambiente, sia interno che esterno, che varia continuamente; un termine,quindi, che deve essere inteso in senso dinamico.

Gli animali, dunque, possono soffrire quando trovano difficoltà nell’adattarsi all’ambiente in cui vengono tenuti.

La definizione di Blood e Studdert (1988) è piuttosto completa, ma apre la porta ad una questione ancor più dibattuta, ossia l’individuazione degli standard cui fare riferimento in merito all’ambiente.

Se per quanto riguarda l’alimentazione, i maltrattamenti, la prevenzione ed il trattamento delle malattie e del dolore, il buon senso e la scienza ci aiutano ad individuare questi standard, non è altrettanto semplice per quel che riguarda le sofferenze.

“… quando un animale è sofferente, si sentirà anche sofferente, così che prendersi cura del suo stato mentale (del suo sentire), significa prendersi cura automaticamente della sua salute fisica” (Dunkan e Petherick, 1991).

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Però, i criteri per misurare lo stato mentale di un animale sono molto difficili da definire, poiché presuppongono la conoscenza di quello che l’animale sente e pensa, la comprensione della mente dell’animale (Notari, 2004).

Inoltre è fondamentale capire se esiste, da parte degli animali, una consapevolezza delle esperienze che possono causare loro sofferenza, perché senza una coscienza di se, ogni discussione sul benessere animale e sullo stress risulterebbe sterile e priva di ogni fondamento (Cooper, 2003). Sia negli esseri umani che negli animali, le motivazioni a mettere in atto comportamenti di vitale importanza, come mangiare, bere ed accoppiarsi, sono evidenti e non hanno bisogno di essere dimostrate.

Impedire agli animali di mangiare o di bere conduce ad uno stato di malessere, ed è una affermazione molto semplice da fare, perché possiamo riferire lo stesso stato di malessere nel caso si trattasse di un uomo .

Ma gli animali hanno bisogni differenti a seconda delle diverse specie. Questi bisogni possono essere importanti per essi quanto quelli primari di nutrimento, e dipendono dalle caratteristiche particolari della specie, e gli animali possono essere disposti a spendere molte energie nella ricerca della loro soddisfazione (Notari, 2004).

Per stabilire quindi condizioni accettabili di benessere, bisognerebbe sapere, dal punto di vista dell’animale, che cosa è importante per favorire l’adattamento all’ambiente.

Lo strumento utilizzabile, oltre al buon senso ed alla analogia con le nostre esperienze personali, è l’osservazione dell’animale e delle sue risposte agli stimoli ed alle variazioni dell’ambiente.

“ Se il giudizio dell’animale su di una determinata situazione è quello di percepire un grande pericolo in quanto impedito al mettere in atto certi

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comportamenti,allora quell’animale soffrirà anche se non è realmente in pericolo” (Dawckins, 1990).

1.6 STRESS

Benessere animale e stress sono strettamente collegati.

Certamente il termine stress viene utilizzato per descrivere una situazione spiacevole con effetti negativi sulla forma fisica dell’individuo.

La prima descrizione di un evento stressante si deve ad Hans Selye, che nel 1936, conducendo un esperimento di farmacologia su dei ratti, notò la presenza di ulcere gastriche, atrofia del sistema immunitario, ingrossamento delle ghiandole surrenali, questo sia nei ratti sperimentali che in quelli di controllo.

Selye attribuì questo fenomeno alle metodiche sperimentali, che prevedevano ripetute manipolazioni ed iniezioni, ma non al farmaco.

Per descrivere questa risposta non specifica dell’organismo ad uno stimolo negativo, Selye utilizzò il termine “stress” .

Dopo la prima definizione da parte di Selye, ne sono state formulate molte altre in riferimento allo stress.

Perry (1995), definisce lo stress come “parte dei continui tentativi degli animali di mantenersi in uno stato di equilibrio con l’ambiente”.

Secondo Bayly (1986), è “ la somma di tutti i fenomeni biologici evocati da influenze esterne avverse”.

Per Broom (1988), è “l’effetto ambientale su di un individuo, che sovrasta i suoi sistemi di controllo e riduce la sua fitness”.

Sempre secondo Broom (1993), lo stress si verifica ogni volta che un individuo si trova ad affrontare una situazione avversa o un potenziale pericolo, che, per essere combattuto, impone un aumento della quota di energia disponibile attraverso la mediazione del surrene.

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La risposta dell’organismo allo stress può essere schematicamente divisa in tre fasi:

1. Fase di riconoscimento dell’evento stressogeno 2. Fase di difesa biologica nei confronti dell’evento

3. Fase relativa alle conseguenze alla risposta di stress che avvengono nell’organismo

1.6.1 Endocrinologia dello stress: stress acuto e stress cronico

La risposta allo stress inizia con la percezione, da parte del sistema nervoso centrale, di un evento come potenzialmente pericoloso per l’omeostasi individuale.

Il sistema nervoso, una volta percepito il pericolo, mette in atto una risposta che consiste nella combinazione di quattro risposte biologiche difensive:

• La risposta comportamentale

• La risposta del sistema nervoso autonomo

• La risposta neuroendocrina

• La risposta immunitaria

Alla base dell’attivazione dei fenomeni dello stress, appare fondamentale la componente psichica, cioè la percezione cosciente di un effetto da parte del soggetto.

Infatti, agenti stressanti di natura esclusivamente fisica, senza attivazione psichica e, quindi, in assenza di partecipazione emotiva del soggetto, raramente riescono ad attivare l’asse ipotalamo- ipofisi-surrene e le reazioni fisiologiche dello stress.

Inoltre, la risposta è diversa se lo stimolo è associato ad un contesto nuovo o riconoscibile; un animale reagisce maggiormente ed in maniera più attiva

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ad uno stimolo conosciuto ed in un ambiente a cui è abituato, rispetto a quanto avviene per stimoli del tutto sconosciuti ed in ambienti diversi. Nella prima fase di reazione allo stress (stress acuto), si riscontrano:

- Attivazione del sistema catecolaminergico centrale - Attivazione del sistema neurovegetativo simpatico

- Liberazione di catecolamine da parte della midollare surrenale

Contemporaneamente si determina l’attivazione della secrezione ipotalamica di CRH, che, tramite liberazione ipofisaria di ACTH, tende a determinare incremento della secrezione di glicocorticoidi.

Si procede quindi biologicamente verso uno stato di allerta.

In questa condizione, le produzioni di catecolamine e glicocorticoidi inducono una iperattività neuromuscolare; l’individuo sta selezionando una risposta comportamentale che consiste nell’evitare o affrontare la causa del pericolo

(fight or flight).

Quindi, per gli animali, una fonte di stress potrebbe essere, semplicemente, l’impossibilità di fuggire da una situazione spiacevole o pericolosa.

Se poi la situazione dannosa tende a prendere il sopravvento, la risposta dell’organismo si indirizza verso un potenziamento dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (produzione di glicocorticoidi), mentre si attiva un sinergico meccanismo di depressione del sistema catecolaminergico, sia a livello centrale che periferico.

L’organismo, tramite la secrezione di glicocorticoidi, seleziona una prevalenza delle azioni cataboliche su quelle anaboliche.

Dal punto di vista comportamentale, tutto ciò corrisponde ad una depressione delle attività neuromuscolari, una drastica riduzione delle attività comportamentali (motorie, esplorative, di competizione e riproduzione) e metaboliche (accrescimento, sintesi proteiche) non

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strettamente indispensabili alla conservazione dell’individuo (stato di resistenza).

La situazione si risolve solo se le cause stressanti vengono a cessare completamente, o se il soggetto trova un equilibrio di adattamento ad esse. Se poi la causa stressante persiste o si ripete, ed il soggetto non può reagire adeguatamente , si instaura uno stato di stress cronico.

Nello stress acuto, in cui l’animale può trovarsi a dover scegliere tra la fuga ed il combattimento,situazione in cui è alta la probabilità che ci siano ferite, il sistema immunitario è attivato per difendere l’organismo dalle infezioni e accelerare la cicatrizzazione dei tessuti lesi.

Nello stress cronico, invece, prevale una immunodepressione, in cui risulta diminuita la resistenza contro malattie di varia natura (infettive, tossiche,allergiche) ed agli agenti patogeni in genere e, dove si può anche segnalare una ridotta o assente risposta immunitaria alle vaccinazioni, la riattivazione di infezioni latenti e, in genere, una maggior tendenza ad ammalarsi.

1.6.2 Segni comportamentali di stress acuto

Condizioni stressanti di breve durata, come il trasporto, la costrizione fisica per manovre di vario genere (tatuaggi, terapie mediche), l’esposizione a stimoli avversi (rumori, sbalzi di temperatura) o qualsiasi altra situazione percepita dall’animale come un potenziale pericolo per la sua omeostasi, possono provocare uno stato di stress acuto.

I segni comportamentali di uno stress acuto possono essere percepiti anche solo osservando gli animali.

Il soggetto può smettere di mostrare comportamenti normali, come leccarsi o alimentarsi.

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Può rivelarsi la presenza di segni di paura, come urinare, defecare, vocalizzare e tremare, insieme a posture ed espressioni di paura, comportamenti aggressivi e immobilità. (Beerda,1998)

Sono tutti segni di stress acuto.

Se la causa stressante non viene rimossa, questi segni persistono ed è probabile che compaiano segni di stress cronico (Notari, 2004).

1.6.3 Segni comportamentali di stress cronico

Quando l’animale ha fallito nel suo tentativo di adattarsi all’ambiente, si possono osservare comportamenti anomali.

Alcuni esempi:

- Streotipia: secondo Broom (1988) è una sequenza relativamente invariata di movimenti, che avviene tanto frequentemente in un particolare contesto, che non può essere considerato come facente parte di uno dei normali sistemi funzionali degli animali.

- Attività sostitutive: comportamenti messi in atto in situazioni in cui essi non hanno rilevanza funzionale. Stimoli ambientali percepiti come spiacevoli o pericolosi, possono causare nell’animale un conflitto interno, il cui risultato può essere un comportamento fuori contesto. Questi comportamenti, se messi in atto frequentemente, possono essere considerati un segno di frustrazione e, quindi, di malessere dell’animale.

- Comportamenti indiretti : sono comportamenti rivolti verso stimoli che non sono direttamente legati alla situazione o stimolo che li genera dal punto di vista motivazionale

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- Apatia :scarso o nullo comportamento esplorativo, ridotta o assente risposta a stimolazioni sociali, indifferenza verso una situazione avversa, indicano un benessere molto compromesso. (Notari,2004)

L’animale, quindi, risponde allo stress mettendo in atto aggiustamenti comportamentali o fisiologici o entrambi.

Così facendo, cerca di far fronte alle condizioni ambientali negative e quindi di adattarsi.

Gli elementi che possono portare stress sono definiti stressor e sono di origine fisica, chimica, biologica e ambientale (Loveridge, 1998).

Individuare le cause dello stress non è semplice, non importa se un evento sia realmente pericoloso, ma ciò che conta è che sia ritenuto tale dall’individuo.

Per un animale, individuare un potenziale pericolo dipende da vari fattori: le sue esperienze precedenti, fattori genetici, età, stato fisiologico, stagione, relazioni sociali.

Gli animali hanno un’ampia gamma di bisogni; un bisogno è una carenza che può essere colmata con l’ottenimento di una particolare risorsa o con la capacità di rispondere adeguatamente a particolari stimoli ambientali o endogeni.

Se un animale avverte un bisogno, il suo stato motivazionale viene attivato in maniera tale da indurre risposte comportamentali o fisiologiche, che dovrebbero portare al soddisfacimento di quel bisogno.

Tali risposte di adeguamento alla situazione, permettono all’animale di controllare e mantenere la sua stabilità mentale e corporea, con una normale regolazione dell’attività fisiologica o con l’attivazione dei sistemi

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di emergenza che, poiché richiedono un maggior dispendio energetico, sono utilizzati solo quando le normali azioni risultano inadeguate.

Non sempre, però, l’animale riesce ad adeguarsi, con conseguenze negative che vanno dal ridotto accrescimento ad una impossibilità di riprodursi o, più genericamente, ad un peggioramento del suo stato di salute.

In tal caso, l’animale è sotto stress.

Il benessere di un animale è, quindi, chiaramente influenzato sia dall’insuccesso nell’adeguarsi alla situazione, sia dalla difficoltà a farlo.

1.7 VALUTAZIONE DEL BENESSERE

“Secondo Broom, il concetto di benessere ha diverse implicazioni:

1. Il benessere è una caratteristica dell’animale e non qualcosa che gli viene dato

2. Il benessere può variare entro una gamma che va da molto scarso a molto buono

3. Il benessere deve essere misurato scientificamente, facendo astrazione da implicazioni di ordine morale

4. La registrazione di sforzi o difficoltà ad adeguarsi alle situazioni o il loro fallimento, possono essere utilizzati come mezzi di valutazione del benessere

5. La conoscenza dell’etogramma di una specie e delle preferenze dell’animale, può fornire informazioni utili sul suo stato di benessere e su come migliorarlo

6. Gli animali possono usare svariati metodi per cercare di adeguarsi alle varie situazioni”.(Aguggini, 1998)

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Non esiste ancora un metodo che abbia valore assoluto per valutare il grado di benessere dell’animale, quindi, la valutazione andrebbe fatta considerando il maggior numero possibile di marcatori, confrontandoli per ottenere un quadro completo.

In realtà, quasi tutti i marcatori utilizzati servono soprattutto ad indicare una riduzione del benessere.

Per la valutazione del Welfare, i metodi dovrebbero misurare il grado di fallimento dell’adattamento, in altre parole, la quantità di stress (Broom, 2004).

Quando ci si occupa di benessere, bisogna considerare i problemi a breve e a lungo termine.

Nei problemi a breve termine, che riguardano soprattutto le manualità praticate sull’animale, il trasporto o, più in generale, la reazione ad un potenziale pericolo,si ha una risposta immediata nella quale predomina la componente comportamentale.

Le risposte comportamentali sono caratterizzate dal tentativo di nascondersi o di fuggire, mentre vengono naturalmente represse tutte le altre attività. In questo caso, i parametri da valutare sono tutti quelli fisiologici, più le manifestazioni comportamentali legate alla “sindrome di adattamento”.

Per quanto riguarda i problemi a lungo termine, la valutazione del benessere diventa più complicata, perché in un primo momento la risposta allo stimolo stressante è difficilmente separabile da quella a breve termine; in seguito, alcune manifestazioni scompaiono, altre subiscono una evoluzione e, infine, se ne possono evidenziare di nuove (Aguggini, 1998).

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I principali parametri utilizzati come indicatori di benessere sono: - Indicatori etologici

- Indicatori fisiologici - Indicatori patologici - Indicatori produttivi

1.7.1 Indicatori etologici

1) Test di preferenza: si basa sul principio che l’animale sceglie sempre ciò che reputa meglio per se stesso, quindi, è lo stesso animale ad indicarci le modifiche da apportare al suo ambiente per migliorare il suo stato di benessere. Questo test ha dei limiti:

- Le scelte dipendono dall’esperienza soggettiva e dalle condizioni ambientali

- L’animale, generalmente, opta per il benessere a breve termine, con possibili sbagli per quello a lungo termine

2) Repertorio limitato: quando l’animale non può manifestare dei comportamenti essenziali al mantenimento del proprio equilibrio psico-fisico, li sostituisce con altri più o meno anormali.

3) Stereotipie: comportamenti fissi e ripetitivi.

4) Reattività anormale: la reattività può risultare ridotta (apatia) o maggiorata (ipercinesia). L’apatia è la scarsa o del tutto assente risposta agli stimoli esterni in assenza di stimoli di malattia. Si manifesta in animali tenuti in ambienti privi di stimoli, costretti a vivere in spazi ristretti oppure per gravi stress, L’ipercinesia, invece, è caratterizzata da uno stato di allarme esasperato e ad continui tentativi di fuga.

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5) Comportamenti anomali auto lesivi: l’animale rivolge l’attenzione ad una parte del proprio corpo in maniera esagerata ed anomala quando si trova da solo e costretto a vivere in ambienti monotoni e privi di stimoli. 6) Attività a vuoto: alcune manifestazioni comportamentali vengono attuate in assenza di stimoli esterni.

7) Temperamento: modificazioni evidenti del normale temperamento di un animale, in cui si nota un aumento di aggressività, delle vocalizzazioni e del movimento in generale.

8) Aggiustamenti di postura e risposte antalgiche

9) Non frequentazione di luoghi in cui ha subito un trattamento stressante o doloroso.

10) Comportamenti della paura: la difficoltà che l’animale incontra nell’adeguarsi alla paura, fornisce informazioni sulla scarsità del suo benessere.

11) Dolore: può indicare, a seconda della reazione dell’animale (vocalizzazione, agitazione), uno stato di reattività o meno.(Aguggini, 1998)

1.7.2 Indicatori fisiologici

La reazione comportamentale e quella fisiologica sono strettamente correlate tra di loro, e costituiscono un valido sistema per mantenere l’omeostasi psico-fisica del soggetto.

Si valutano parametri nervosi ed ormonali, in particolare quelli legati al sistema ipotalamo-ipofisi-cortico-surrenali ed al sistema simpatico-midollare del surrene ed alla liberazione di particolari peptidi (endorfine).

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Per la valutazione del benessere a breve termine, si utilizzano indicatori quali: il tasso ematico delle catecolamine, la frequenza cardiaca e respiratoria, la pressione sanguigna e la temperatura corporea.

Per la valutazione del benessere a lungo termine, invece, si considerano le variazione ematiche di alcuni enzimi ed ormoni.

Il parametro maggiormente utilizzato nella valutazione dello stress è la concentrazione ematica di glicocorticoidi.

In conseguenza di stress, numerose altre variabili possono assumere il significato di marcatori, tenendo presente, però, che, se presi singolarmente, non sono sufficientemente attendibili.

Tra questi, gli enzimi associati a danni tissutali (CPK, LDH), l’alterazione della risposta immunitaria, per cui, la variazione della formula leucocitaria, i peptidi oppioidi (β- endorfine, encefoline) liberati durante lo stress, aumento dei livelli ematici di prolattina.(Aguggini, 1998)

1.7.3 Indicatori patologici

L’incidenza di malattie, così come quella di lesioni traumatiche, può costituire un indice di benessere animale.

Lo stato di salute è un importante indicatore del benessere nell’animale. Quando l’animale si trova in uno scadente stato di nutrizione e mostra segni fisici di malattia, suona un campanello di allarme riguardo alla sua condizione di benessere in senso generale, non solo fisico (Notari, 2004).

1.7.4 Indicatori di produttività

Quando si parla di allevamenti, quello che maggiormente interessa sono gli indici di produttività, che diminuiscono a causa di cattivo managment, che

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coinvolge il benessere animale (sovraffollamento, inadeguatezza dei ricoveri, temperatura e umidità inadeguate).

Bisogna sottolineare che nessuno di questi indicatori di benessere può costituire, di per sé, un sufficiente elemento di valutazione, e che è importante raccogliere dati di diversa origine.

Altro punto importante, per poter valutare il benessere, è la conoscenza del comportamento “normale”, quindi l’etogramma dell’animale, che deve essere preso come punto di riferimento per poter giudicare le eventuali deviazioni dalla normalità.

1.8 MODIFICAZIONI COMPORRTAMENTALI E

FISIOLOGICHE DEL CANE NEL CANILE

La valutazione del benessere dei cani ospitati nei canili è un problema di estrema attualità e di difficile soluzione.

Un valido approccio nel valutare lo stato di benessere, ci viene dato da studi fatti su parametri fisiologici (livelli di cortisolemia) e sulle risposte comportamentali.

La permanenza nel canile può costituire un evento particolarmente stressante per il cane, il quale vi arriva avendo già vissuto delle esperienze traumatiche.

Prima dell’arrivo in un canile, un cane randagio può aver vagato senza cibo, con condizioni climatiche avverse, in un ambiente estraneo, cosa che già costituisce di per sé una esperienza stressante, alla quale si aggiunge quella della cattura, e, quindi, quella della manipolazione e del contenimento da parte di persone estranee.

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D’altra parte, il cane può essere condotto al canile dallo stesso proprietario, quindi subire la separazione da figure di attaccamento.

Diversi studi hanno identificato una varietà di fattori stressanti nell’ambiente del canile.

Questi includono gli alti livelli di rumore (Senay, 1966), il confinamento prolungato e la ridotta interazione tra con specifici e con l’uomo (Beerda et al, 1999), l’esposizione a nuovi ambienti (Friedman e Ader, 1967), la separazione da oggetti e soggetti fonte di attaccamento (Mendoza e Mason, 1986; Hennesy, 1997) e l’imprevedibilità degli eventi esterni (Muir e Fister, 1986).

Il cane, quindi, inizia la sua permanenza in un ambiente che, per quanto rispondente alle norme previste dalle diverse legislazioni nazionali e regionali, è senza dubbio fonte di stress, sia per le mutate condizioni ambientali, sia per il profondo cambiamento che subisce la relazione con l’essere umano (Gazzano et al, 2005).

Le nuove esperienze vissute, vengono percepite dal cane come stressanti, in quanto si trova nell’impossibilità di riconoscerle e controllarle, con la conseguente attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che si traduce in un aumento dei livelli del cortisolo.

Gli studi che hanno dimostrato, nei primi giorni di permanenza nel canile, elevati livelli di cortisolo ematico, di quello urinario e salivare (Beerda et al, 1996; Hennessy M.B. et al, 1997; Hennessy M.B, 2001), indicano quanto questa nuova esperienza sia fonte di ansia e di stress per il cane, e di come possano ridurre il suo benessere.

Un’attivazione prolungata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene può essere causa di serie alterazioni comportamentali (Sapolsky, 1996; Schulkin et al, 1994).

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I comportamenti maggiormente alterati, riconducibili ad uno stato di stress, sono: cambiamenti della postura, aumento dell’autogroming, lecca mento del muso e di un arto, aumento nell’emissione di vocalizzazioni, comparsa di coprofagia e di comportamenti ripetitivi (Beerda et al, 1999; Mertens P.A.).

Durante la permanenza nel canile, si assiste ad una riduzione in durata e frequenza dei comportamenti di quiete a favore di quelli di moto, che indicano uno stato di agitazione dell’animale e che, talvolta, possono assumere l’aspetto di stereotipie (Gazzano et al, 2000).

Il continuo cambio di postura associato ad una intensa attività di locomozione è stato valutato come indice di stress (Beerda et al, 1999). Tutto ciò, però, in uno spazio ristretto come potrebbe essere quello di un box di un canile, nel quale un cane non ha la possibilità di correre.

Un tale comportamento potrebbe,infatti, solamente indicare il tentativo dell’animale di adattarsi alle nuove condizioni di vita, confermando che il cane è un animale molto elastico dal punto di vista comportamentale e che si adatta alle situazioni, purchè queste non siano estreme (Natoli et al, 2001).

1.9 MOTIVI DI ABBANDONO E CONFERIMENTO

AL CANILE

Sebbene il cane nel passato venisse acquistato con lo scopo di essere utilizzato in un particolare campo, oggigiorno la maggioranza delle persone decide di avere un cane con l’aspettativa di trovare in lui un compagno di vita (Marston, 2003).

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Tante volte, però, queste aspettative vengono deluse, il che significa che per il cane si aprono le porte del canile.

Per quanto riguarda l’abbandono, è difficile determinare quale sia la causa. Possiamo solo fare delle ipotesi di incompatibilità e di mancato attaccamento tra il proprietario e l’animale, anche se, considerata l’irresponsabilità e la crudeltà di questa azione, le cause di abbandono sono ben diverse da quelle del conferimento al canile e riguardano soprattutto gli uomini.

Il conferimento del cane al canile ci permette invece di avere delle risposte per quanto riguarda i motivi di questa scelta.

Tra le motivazioni, spesso appaiono cambiamenti nello stile di vita dei proprietari, questioni di salute, mancanza di tempo, la nascita di un figlio, fattori finanziari.

Molto più spesso, però, emergono problemi comportamentali da parte del cane, che sono poi la causa di questa scelta.

Da uno studio effettuato da Salman sui comportamenti che diventano motivo di conferimento al canile, i più lamentati sono quelli di eccessiva vocalizzazione, disobbedienza , igiene della casa, distruzione di oggetti, aggressività.

Quando è possibile nei canili sono riportati tutti i problemi comportamentali, ma è comunemente accettato che non sempre viene detta tutta la verità per paura degli ex proprietari di compromettere una futura adozione dell’animale.(Di Giacomo et al, 1998)

Quando i benefici derivanti dal possesso dell’animale vengono sopraffatti dalle responsabilità o dai problemi causati da questa proprietà, aumenta il rischio dell’abbandono (Miller et al, 1996; Patronek et al, 1996).

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La nascita dei primi canili si colloca intorno ai primi del ‘900, dopo la riunificazione del regno d’Italia, avvenuta nel 1861, Quando lo Stato si trova di fronte ad emergenze sanitarie quali la tubercolosi, la malaria e la rabbia e si rende necessario avviare un programma di riforme sanitarie. Il primo passo di sanificazione del territorio nazionale si ha con l’approvazione, nel 1888, della 2Legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica”, dalla quale prende il via la normativa sanitaria nazionale.

Il Regio Decreto n° 45, del 3 Febbraio 1901, riporta che “… il cane sospetto, quando non venga ucciso, sarà isolato in un luogo adatto e tenuto in osservazione sotto la vigilanza dell’ufficiale sanitario…”.

Il Regolamento speciale di Polizia Veterinaria del 1914 riporta “…i cani devono essere condotti per la registrazione, dai detentori, all’ufficio comunale preposto” e che “… i cani vaganti trovati senza prescritta museruola, devono essere accalappiati e sequestrati in apposito locale di isolamento. Trascorsi sei giorni senza che i proprietari li abbiano reclamati, devono essere uccisi o concessi ad istituti scientifici che ne facciano richiesta…”.

Il Regolamento di Polizia Veterinaria del 1954 contempla la necessità per i Comuni di “…provvedere al servizio di cattura dei cani e tenere in esercizio un canile per la custodia dei cani catturati e per l’osservazione di quelli sospetti. Trascorsi tre giorni senza che i legittimi possessori li abbiano reclamati, i cani sequestrati devono essere soppressi con mezzi eutanasici ovvero concessi ad istituti scientifici o privati che ne facciano richiesta”.

Il canile, quindi, nasce come un presidio profilattico per la rabbia, dove il cane randagio è visto come una fonte di pericolo da relegare ed eliminare.

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In queste strutture, anche animali esenti da malattie infettive possono soggiornare per un massimo di sei giorni prima della soppressione.

La prima finalità del canile era l’osservazione dei cani morsica tori ai fini di eventuali trattamenti immunizzanti sul morsicato; la seconda finalità era quella di controllare il randagismo, mantenendo, a disposizione di eventuali proprietari, i cani randagi prima della loro soppressione.

Per assolvere a queste funzioni, tali strutture richiedevano come unica attrezzatura “…un idoneo impianto per l’uccisione eutanasia di cani e gatti che devono essere abbattuti per ragioni normative, e di un inceneritore per la distruzione delle carogne…”.

Con l’entrata in vigore della legge 281/91,”Legge quadro in materia di animali da affezione e prevenzione del randagismo”, viene impedita l’uccisione dei randagi.

Come dichiarato nell’ art. 1 “Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali da affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente”.

Nell’art. 2 comma 3, viene riportato che “I cani vaganti ritrovati, catturati o comunque ricoverati presso le strutture di cui al comma 1 dell’art 4, non possono essere destinati alla sperimentazione”; comma 4: “i cani vaganti, regolarmente tatuati, devono essere restituiti al proprietario o detentore..”; comma5: “…se non reclamati entro 60 gg, possono essere ceduti a privati che diano garanzie di buon trattamento a ad associazioni protezioniste, previo trattamento profilattico contro la rabbia, l’echinoccocosi e altre malattie trasmissibili”.

L’art. 3, comma 2, della stessa legge recita: “Le Regioni provvedono a determinare, con propria legge, entro sei mesi dall’entrata in vigore della

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presente legge, i criteri per il risanamento dei canili comunali e la costruzione di rifugi per cani. Tali strutture devono garantire buone condizioni di vita per i cani ed il rispetto delle norme igienico-sanitaire e sono sottoposte al controllo sanitario dei servizi veterinari delle unità sanitarie locali”.

Al canile sanitario, quindi, si viene ad affiancare una nuova tipologia di struttura: il canile rifugio, con compiti e funzioni diverse.

1.10.1 Il canile sanitario

Il canile sanitario è una struttura pubblica con funzioni prettamente sanitarie: lo scopo primario è quello di garantire lo stato sanitario dell’animale.

Vengono introdotti cani raccolti dalla strada (vaganti o abbandonati)con stato sanitario sconosciuto.

Il cane rimane fino ad un massimo di 60 gg; se non è rintracciato dal proprietario, viene affidato ad un nuovo proprietario o passa al canile rifugio.

Il canile sanitario è, quindi, un filtro attraverso il quale i cani passano prima di essere riaffidati o di andare al canile rifugio.

Nel canile sanitario si svolgono le seguenti attività:

- Interventi profilattici programmati su malattie proprie del cane e zoonosi (echinococcosi ed altre malattie trasmissibili)

- Interventi di pronto soccorso

- Eutanasia nelle condizioni previste dalla legge - Profilassi antirabbica

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Nella Legge Regionale della Toscana n°43, 8 Aprile 1995, che tratta le “Norme per la gestione dell’anagrafe del cane, la tutela degli animali d’affezione e la prevenzione del randagismo”, vengono indicate le strutture che devono essere presenti all’interno del canile sanitario.

Art. 11_ Il canile municipale deve essere dotato delle seguenti strutture: - Infermeria

- Locale di degenza per gli animali - Reparto ricovero cuccioli

- Cucina - Magazzino

- Servizi igienici per il personale addetto

- Box di isolamento in numero tale da rispettare il rapporto di n° 1 box per 10 cani da ospitare

Nell’allegato A di suddetta legge, vengono stabiliti i requisiti strutturali e le caratteristiche costruttive dei canili di prima accoglienza e la dotazione strumentale.

1.10.2 Il canile rifugio

Il canile rifugio è la struttura in cui confluiscono i cani che hanno superato favorevolmente il periodo di osservazione presso il canile sanitario.

I compiti di questa tipologia di canile sono quelli di fornire un’accoglienza all’animale fino alla possibile adozione, fornirgli assistenza

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veterinaria in caso di bisogno e prendersi cura sia del suo stato fisico che mentale.

Il tempo di permanenza degli animali può essere molto lungo e, per questo motivo, questa struttura deve garantire ai suoi ospiti uno stato di benessere complessivo e non solo sanitario.

Queste strutture, generalmente, sono gestite da associazioni animaliste senza scopo di lucro, che si avvalgono del lavoro di volontari, ed operano in sintonia con i canili sanitari.

Il canile rifugio è comunque sottoposto ad attività di vigilanza veterinaria dal servizio veterinario del Dipartimento di Prevenzione, per verificare le condizioni igienico-sanitarie della struttura, la gestione degli animali ricoverati, il rispetto dei parametri riguardanti la tutela del benessere animale, la gestione sanitaria degli animali (vaccinazioni, schede sanitarie e trattamenti antiparassitari) e per controllare le norme per il miglioramento della sicurezza e della salute del lavoratore (D. Lvo 626/94).

Secondo l’art. 12 della Legge Regionale della Toscana n°43 del 1995, il canile rifugio deve essere dotato di:

- Ambulatorio - Magazzino - Cucina

- Servizi igienici

I box e le varie strutture devono rispettare i requisiti minimi e le caratteristiche costruttive riportate nell’allegato B della suddetta legge.

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1.11 SCOPO DELLA TESI

Lo scopo del presente lavoro è stato quello di valutare lo stato dei canili per quanto riguarda la gestione, le strutture e la qualità di vita dei cani, al fine di formulare dei suggerimenti che potrebbero portare ad un miglioramento dello stato di benessere del cane ospite di queste strutture, facilitandone la futura adozione.

I risultati di questa ricerca permetteranno di comprendere se tali strutture operano utilizzando al meglio le loro risorse, quali potrebbero essere i problemi che maggiormente riguardano queste strutture e come questi influiscono sia sullo stato di benessere degli animali ospitati sia sulla loro futura adozione, e se sia possibile intervenire, e a quali livelli, per apportare un miglioramento nei vari ambiti di gestione di queste strutture di accoglienza.

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