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CAPITOLO III

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Academic year: 2021

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CAPITOLO III

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3.1 Generalità

In questo capitolo mi soffermerò ad analizzare la procedura di adattamento che, utilizzando un’astrazione puramente illustrativa, si può considerare divisa in due momenti salienti:

• appropriazione del testo originale

• trasferimento semiotico da un sistema espressivo ad un altro, e attivazione di nuove peculiarità narrative e letterarie

3.2 Adattamento come appropriazione

Questo paragrafo affronta il processo di appropriazione del testo originario da parte di un altro autore: si propone di evidenziare gli effetti prodotti dal cambio di prospettiva- che Vanoye1 definisce transfert storico e culturale- sia su elementi tematicamente gravidi, sia sul contesto originale.

3.2.1 Approccio preliminare

Come ho precedentemente accennato, dissertando sui rocamboleschi motivi che mi hanno spinto a scegliere il racconto la casa dei fantasmi di Banana Yoshimoto, quella storia mi era piaciuta, era entrata dentro di me e pretendeva di uscirne sotto forma di film. Ovviamente tutto ciò che ne sarebbe venuto fuori sarebbe passato

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inesorabilmente al setaccio nel mio panorama storico-culturale e del mio punto di vista.

Banana Y. nasce a Tokio nel 1964 e da più di dieci anni si è affermata nel mercato dei romanzi, io sono nata a Taranto nel 1982 e questa sceneggiatura è la prima che mi accingo a scrivere, nella pura ingenuità artistica di cerca di imparare gli strumenti del mestiere.

Il cambio di prospettiva autoriale ha avuto molteplici effetti sull’intreccio, sulla trama, sulla psicologia nei personaggi, sullo spazio-tempo diegetico, sul contesto e ovviamente sull’interpretazione del tema.

Per quanto si tratti di un adattamento, la storia è irrimediabilmente connessa al suo adattatore, al suo mondo interiore, alla sua conoscenza della società, della natura e del cuore umano o all’assenza di queste. Tra le varie possibili soluzioni per l’adattamento di un romanzo presentate da Dwight Swain2:

1. seguire il libro passo passo, scena per scena, scomporlo in sequenze rispettando al massimo l’ordine delle cose;

2. individuare le scene chiave del libro e costruire la sceneggiatura su questa base;

3. prelevare dei materiali ( elementi di intreccio, personaggi, situazioni) ed elaborare una sceneggiatura quasi originale;

ho optato per il secondo metodo, che mi ha portato ad interventi personali rilevanti ma non eccessivamente rivoluzionari.

Scrivere una storia mette alla prova la maturità del suo autore, la sua immaginazione, la sua capacità analitica di pensiero e aggiungerei anche il coraggio, perché una storia mette a nudo chi l’ha scritta.

Per quanto questi cerchi di nascondersi dietro i personaggi o i dialoghi, o cerchi di veicolare l’espressione di sè attraverso gli stessi, la storia e i personaggi non mentono mai e anzi la dicono lunga sul loro creatore.

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La nostra saggistica trabocca di teorie e idee sul rapporto autore-opera3, io non ho la pretesa in questa sede di entrare in merito a tali questioni, ma sulla base della mia esperienza posso affermare che è assolutamente forviante identificare l’autore con un personaggio piuttosto che con un altro, sulla base di facili analogie tra i rispettivi vissuti. Se proprio andate alla ricerca dell’autore nella sua opera, prestate attenzione alla struttura e alla forma: lo troverete lì.

C’è un legame sottile tra inconscio e linguaggio, a quanto pare l’inconscio non ha strumento migliore per mostrarsi del linguaggio4 e vale sia per quello verbale che cinematografico. Chiunque si accinga a raccontare farà bene a tener conto di tutte le sue possibili interferenze per evitare spiacevoli sorprese in seguito.

Ritrovare se stessi nella narrazione, e a propria insaputa, è una visione terrorifica e lo è per l’autore stesso, prima che per gli altri.

Auguro a chiunque si proponga di raccontare una storia di aver fatto, in precedenza, i conti con la totalità della propria psiche: se riesce a sopravvivere alla visione della propria nuda anima, raccontare una storia sarà un puro diletto.

Una buona parte del percorso che mi ha portato alla stesura di questa sceneggiatura è stata assorbita dal confronto con me stessa, confronto tuttora aperto che non accenna a risolversi in tempi ragionevoli.

Io ho avuto il privilegio di poter fare esperienza di ciò che è stato oggetto di studio per Freud e Jung e verificare direttamente l’esistenza e l’utilità di concetti quali archetipo, complesso a tonalità affettiva, inconscio collettivo e inconscio personale; nonché cosa si cela da sempre nel mito, nella fiaba e nel sogno5, nella loro comune la capacità di comunicare e interessare, e cosa da sempre spinge l’uomo a raccontare.

3 Orlando F., Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino, 1992; Compagnon A., Il demone della teoria, letteratura e senso comune, Einaudi, Torino, 2000.

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Tutte le mie scoperte sono confluite nella sceneggiatura, nel suo tema: una riflessione sulla ricerca e sulla possibilità, per la mia generazione di riappropriarsi di ciò che rappresenta il Mandala.

Il Mandala, nelle varie forme relative alle varie culture e società (Jung nel trattare l’argomento cita come esempio il Giardino dell’Eden), è il simbolo dell’individuazione ( intesa come integrazione dell’inconscio nella coscienza e assunto a più profondo grado di conoscenza e consapevolezza di sé), e rappresenta la ricomposizione degli opposti ed il divenire se stessi. Tutto ciò a cui l’essere umano, in quanto essere mancante e isolato, ambisce per natura.

Non trovo sia un tema molto originale, ma indubbiamente è una di quelle idee essenziali che nonostante, godano di autorevoli antecedenti storici, anzi proprio per questo, stimolano continuamente la riflessione.

Accade così che una persona che si trovi naturalmente nella posizione di guardare avanti o intorno, sia costretta a guardarsi dentro e indietro. Quello che io vedo intorno è una generazione, la mia, che si orienta a stento nella vita caotica. Afflitta da una precoce cecità non sa distinguere il Vecchio Saggio dal Mago Nero, ignora l’esistenza dell’Anima5, dà i nomi alle cose senza sapere cos’è il significato e non coglie i significati particolari perché si è dimenticata che esiste un significato preesistente, nascosto nel caos.

Riporto un brano di Jung6 che ho trovato particolarmente interessante per meglio giustificare le mie affermazioni:

“ Saggezza e follia non soltanto appaiono nella natura elfica come una cosa sola ma sono una cosa sola, fin quando sono rappresentate nell’Anima. La vita è folle e significante. E se non ridiamo

5 questo paragrafo è sostanzialmente ricalcato su una riflessione derivata dalla lettura di Jung C., Archetipi dell’incoscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 2002

6 Jung C., Archetipi dell’incoscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 54 e succ.

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della sua follia e se non speculiamo sul suo significato, la vita è banale e tutto si riduce al livello più basso. Allora c’è poco senso e c’è poco non senso. In fin dei conti, nulla ha significato, perché quando non c’erano ancora uomini dotati di pensiero, non c’era nessuno che interpretasse quel che accadeva; soltanto a chi non comprende occorre fornire spiegazioni. Ha significato soltanto l’incomprensibile. L’uomo si è svegliato in un mondo che non comprendeva: ecco perché cerca di interpretarlo. Così l’Anima e quindi la vita sono prive di significato, in quanto non offrono interpretazione. Ma la loro natura può essere interpretata, poiché in ogni caso vi è un cosmo, in ogni disordine un ordine nascosto, in ogni arbitrio una legge duratura: tutto ciò che opera è basato sull’opposto. Per riconoscere questo occorre la mente discriminatrice dell’uomo, che riduce tutto a giudizi antinomici. Allorché essa viene a confronto con l’Anima, il caotico arbitrio di questa le dà motivo di presagire un ordine nascosto, cioè saremmo quasi tentati di dire, di “ postulare” un piano, un senso e un’intenzione al di là della sua natura.”

La mia è anche una generazione scissa dall’interno, prima che dall’esterno e in fin dei conti non stupisce se si considera che siamo gli eredi del novecento, di tutta la sua grandezza e miseria storica, dell’eroe inetto di Svevo e Kafka (un esempio dei tanti). Si potrebbe parlare di necessità di integrazione e, a discapito di tutti i contesti di cui si è soliti sentirne parlare dal nostro sistema mediatico, ritengo che il primo terreno d’integrazione siamo noi stessi.

Cito ancora Jung: “ L’immagine dell’Anima che ho fin qui delineato non è completa. Essa è sì un caotico impulso vitale; essa racchiude tuttavia anche uno strano significato, come una scienza segreta o una saggezza nascosta, che contrasta nel modo più singolare con la sua natura elfica irrazionale. […] questo appare soltanto a colui che si confronta seriamente con l’Anima. Soltanto dopo questo faticoso lavoro è possibile rendersi conto, in modo sempre più evidente che, dietro il suo gioco crudele con il destino umano, si nasconde qualcosa come un segreto disegno che sembra corrispondere a una superiore

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L’uomo è tremendamente attratto dal dramma della sua anima che sta nella volontà e nella difficoltà dell’uomo di conoscerla e per accedervi da sempre si inventa meccanismi di separazione, di proiezione ed analogia con tutto ciò che in natura lo circonda.

L’uomo antico seguiva il percorso del sole non perché attratto dal fenomeno naturale, ma perché cercava di comprendere se stesso, proiettando sull’evento naturale il suo accadere psichico.

E proprio a partire dall’analogia tra il percorso del sole e il percorso dell’uomo che è stato mitizzato il percorso dell’Eroe.

Il mito si giustifica come il tentativo dell’uomo di afferrare gli invisibili accadimenti dell’anima e di riversarli in figure splendenti.

L’uomo è tuttora affamato di immagini e continua a cercarne di accattivanti, oscure e indecifrabili proprio perché in queste ultime, eludendo il controllo della coscienza, ritrova per analogia i misteri della sua Anima. Attraverso queste riflessioni ritengo di potermi spiegare perché certi film assolutamente incomprensibili siano ugualmente pieni di fascino e attirino lo spettatore.

Prendiamo in esempio l’Oriente.

Oggi attira moltissimo e forse solo perché “va molto di moda” in realtà leggendo Jung, Gli Archetipi dell’inconscio collettivo, vi accorgerete che non è una moda recente!

Io stessa subisco molto il fascino dell’oriente, adoro la cinematografia coreana, e il testo letterario scelto per l’adattamento è di un’autrice orientale.

L’ Oriente è pieno di immagini misteriose, pregne di un sacrale senso del simbolo e noi, sensibili al richiamo, fuggiamo lì.

E le nostre immagini dove sono finite?

Il problema si può porre in questo modo: o in Occidente non ce ne sono o non ne siamo più attratti, e se così fosse perché?

Escluso che l’Occidente non abbia le sue immagini, significherebbe dire che non ha la sua Storia, suppongo che la risposta più adeguata sia quella che ha già dato Jung. Noi non siamo più capaci di guardare le nostre immagini che, ugualmente a quelle orientali

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nonostante la nostra cecità, hanno la loro portata simbolica avvolta nel mistero.

Si pensi, ad esempio, all’immagine della Trinità: è la versione cristiana del Mandala ed è la rappresentazione di quello che la psicologia individua come psiche. Ciò che questa scienza ci ha mostrato scientificamente era già stato rivelato e sentito da secoli ma espresso in altre forme. Sul motivo per cui non siamo capaci di guardare non disserterò adducendo problematiche relative allo sguardo ma semplicemente, recuperando una teoria di Jung, il problema risiede nel rapporto tra ragione e spirito. Il nostro intelletto ha compiuto cose fantastiche ma ha detronizzato lo spirito, la ragione non varcherà mai il mistero dell’immagine(che contiene il mistero della nostra anima) ma lo spirito, che intuisce, condensa e crea analogie, può farlo. Poiché esiste una parte della nostra coscienza che non pensa ma “percepisce”, sarà bene riattivarla per sottrarsi a un’ imperante inquietudine, figlia del nostro squallore spirituale.

Jung teorizza, grazie ai suoi studi, un processo detto Elaborazione del simbolo: integrazione nell’anima dell’immagine archetipica.

La visione dell’immagine archetipica produce nell’uomo la disintegrazione, “il cuore va in frantumi”, intervengono allora altre immagini medicinali( ad esempio il Mandala, la Trinità), che attraverso un lavoro di assimilazione dell’immagine archetipica con l’anima, restaurano l’equilibrio turbato.

Le immagini medicinali, che devono essere sentite e non capite, sono quelle che da sempre ci propongono le religioni, ma credo che siano da sempre l’immensa ricchezza a cui attingono i miti e le storie che restano scalfite dentro di noi (quelle storie che ti colpiscono e sul momento non si riesce a spiegarsi il perchè).

Il cinema è un incredibile calderone di immagini medicinali, o almeno ci sono autori che del cinema riescono a farne anche questo. Questo tipo di cinema è quello che trovo più interessante, con più possibilità di veicolare un messaggio che abbia un senso comunicare

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Il risvolto pratico di queste riflessioni è stato una ricerca per riappropriarmi, da occidentale, delle mie immagini, riscoprirne la loro bellezza, e impiegarle come potevo nella storia che mi accingevo a raccontare.

Il punto di partenza era il testo di un’autrice orientale con immagini e sapori avvolti nel tipico senso del mistero e del sacro di quella cultura.

Non avevo nessuna voglia di raccontare un oriente che non solo non conosco, ma che vive di immagini che non mi appartengono.

Però quello che in essa era nascosto apparteneva decisamente anche all’occidente, bisognava solo rivestirlo con i suoi abiti (i miei abiti) culturali e restituirlo nella sua immagine occidentale perfettamente contestualizzata. Questa riappropriazione ha consentito una più profonda tematizzazione e “sceneggiabilità” delle immagini stesse.

Operazione ardua e ardita.

Uno degli esempi più esplicativi si rintraccia nel re-styling dei personaggi dei Fantasmi.

3.2.2 Un nuovo sguardo sui personaggi dei Fantasmi

I fantasmi nel racconto sono presenze reali: sono un evento soprannaturale concreto.

I fantasmi abitano la casa di Iwakura e lui ci convive tranquillamente, godendo della loro visione nei momenti in cui è rilassato, lui stesso ci dice che allora “è come se i due mondi si incrociassero”

Setchan in un primo momento si mostra scettica, ma dopo la visione, riconosce la loro esistenza ed entra in una sacra dimensione di comunicazione con questi. Vediamolo con le sue stesse parole:

“Mi voltai, e davanti al lavandino vidi la figura di una vecchia signora di spalle. Con movimenti molto lenti, stava mettendo a bollire l’acqua per il tè. Non è che il bollitore si spostasse o l’acqua bollisse realmente. Ma la vecchia, semitrasparente, eseguiva comunque, con lentezza, quei gesti. Piano piano, un poco alla volta. Gesti

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abituali, compiuti come di solito, con cura. Erano gesti caldi, che ispiravano calma, e che probabilmente si tramandavano di madre in figlia.

Nell’altra stanza, il vecchio faceva ginnastica seguendo la musica della radio. Portava i mutandoni, e allungando lentamente le gambe storte e la schiena, eseguiva gli esercizi a uno a uno con la massima serietà. Sicuramente credeva che così si sarebbe mantenuto sempre in buona salute. E certo non aveva mai pensato che a rovinare tutto sarebbe stato, inaspettatamente, il braciere.

Li guardavo pensando che non c’era proprio niente in loro che facesse minimamente paura.

Si capiva che non sospettavano affatto di essere morti e che continuavano a fare la loro vita di sempre, all’infinito.

La vecchia continuava all’infinito a fare le sue faccende in cucina con quei modi sommessi, e il vecchio a eseguire i suoi esercizi di ginnastica. Di aspetto erano esattamente la coppia tranquilla e sempre in buon accordo che avevo visto al ristorante.”

Setchan ricorda, grazie alla madre, che quei vecchietti erano dei clienti del ristorante e lei li aveva conosciuti.

L’autrice crea un parallelo tra la relazione dei fantasmi, un placido affetto nutrito dalla quotidianità, e quella dei protagonisti; Setchan, in qualità di narratrice, commentando la sua relazione con Iwakura, ci dice che sarebbe potuta essere proprio come quella dei fantasmi, se solo fosse capitata in un altro momento. I fantasmi sono, quindi, il punto di riferimento dei protagonisti tra i possibili modelli di coppia, e sono il simbolo di un affetto solido nutrito della placida quotidianità che dona forza e serenità per continuare a vivere.

La relazione dei protagonisti è legata all’esistenza della casa e dei fantasmi.

La casa verrà demolita e Setchan si preoccupa per la sorte dei fantasmi, allora coinvolge Iwakura in una sorta di rito funebre in loro memoria: cucina per loro e offre loro dei fiori, che ripone sul davanzale della finestra di Iwakura.

Anni dopo, quando Setchan si troverà a passare davanti casa di Iwakura e troverà al suo posto un elegante condominio, penserà che,

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Setchan e Iwakura hanno un senso del sacro e del soprannaturale tipico della tradizione orientale, difficilmente trasponibile in occidente.

I fantasmi sono due anziani vecchietti che l’autrice ci presenta con queste parole:

“Ordinavano sempre una bottiglia di birra piccola in due” disse la mamma. “Era una graziosa coppia di vecchietti. Avevano un atteggiamento, come posso dire... composto, erano modesti ma avevano le loro piccole abitudini, che si erano formate nel corso di tanti anni, e l’impressione era che continuassero a vivere grazie al rispetto di quelle abitudini. Non sembravano particolarmente allegri, ma trasmettevano un senso di pace e di serenità a chi li guardava.

Marito e moglie vivevano in modo frugale, raccoglievano puntualmente gli affitti, tenevano il loro libro dei conti, e una volta al mese mangiavano nel loro ristorante abituale sempre gli stessi piatti, questo era l’unico piccolo lusso che si concedevano.

Nella sceneggiatura i fantasmi hanno perso le caratteristiche di un concreto e possibile evento soprannaturale, passano da una dimensione sacrale ad una mentale- psicologica, sono la proiezione di un desiderio inconscio dei protagonisti, ed incarnano il nucleo tematico della storia: la coppia che concretizza, nella quotidianità, un affetto duraturo.

Il vedere i fantasmi sta per una visione del proprio inconscio, i protagonisti entrano in contatto con la loro parte più profonda e prendono coscienza di sé e dei propri desideri.

Le differenti reazioni di Ale e Giulia alla “visione” mettono in luce le loro differenti personalità, il differente rapporto che hanno con se stessi e il differente grado di coscienza di sé.

Ale convive con i Fantasmi, sono davanti ai suoi occhi tutte le volte che è in casa in una situazione di rilassamento, ma in realtà non li vede: lui non sa leggere nel simbolo di quella immagine.

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Ale, infatti, solo in un secondo momento formulerà come obiettivo un rapporto di coppia duraturo con Giulia, il suo obiettivo primo, e conscio, è la realizzazione professionale.

Giulia, al contrario, vede i Fantasmi una sola volta e riesce benissimo a leggere nella “visione”, lei è meno mentale di Ale e riesce a percepire e intuire ciò che sfugge alla mente razionale.

Il suo primo obiettivo sarà un rapporto di coppia con Ale, solo in un secondo momento si attesterà sulla realizzazione professionale, perché sente che Ale non condivide il suo obiettivo primo. Giulia, oltre alla capacità di pensiero intuitiva, ha una buona dose di pensiero razionale, che le consente di esaminare la realtà dei fatti, senza imprigionarla nei suoi desideri. Per questo motivo, con dolore e determinazione, ripiega su un nuovo oggetto del desiderio che ritiene non solo di importanza primaria, ma di più certo conseguimento, perché non è legato alla volontà di un’altra persona, Ale.

I Fantasmi non sono più legati alla casa come edificio concreto, e poiché non possono essere seppelliti con la sua demolizione, ai protagonisti non verrebbe mai in mente di celebrare un rito funebre.

I Fantasmi abitano nei protagonisti in quanto (presagito o conscio) desiderio interiore.

Quando Giulia dice a proposito dei Fantasmi: “è un peccato non averli visti”, sta dicendo ad Ale: “proviamoci…”; o ancora quando dice a proposito della casa: “è un peccato veder crollare tutto”, sta dicendo che è un peccato che lei ed Ale non possano vivere la loro storia d’amore.

I protagonisti ironizzano spesso sulla presenza dei Fantasmi, è il loro modo di smascherare le maschere del loro stesso esistere, attraverso le maschere del linguaggio, ovvero è il loro modo di prendere coscienza del loro più profondo desiderio; e ne parlano anche seriamente, con affetto e delicatezza e provano ad attivarsi perché ciò che i Fantasmi rappresentano passi dalla dimensione fantasmatica a quella reale, provano a conseguire l’obiettivo. Le modalità verbali con cui Ale e Giulia si rapportano ai personaggi dei Fantasmi metaforizzano le

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La presenza scenica dei personaggi dei Fantasmi, in quanto tali, nella storia non è chiara da subito, è dosata attraverso più scene durante il film ed un graduale ampliamento di campo. Sono personaggi concreti, direi anche più concreti di Ale e Giulia che fluttuano nei loro logorii mentali e sentimentali. Li ritroviamo nella scena di apertura, ma si vedono solo dettagli delle mani: la scena è concentrata sulla loro gestualità calma e sulla loro azione: il cucinare.

Ancora un’altra scena prima di arrivare a quella in cui viene svelata la loro identità. La “visione” dei Fantasmi è affidata ad una soggettiva di Giulia, non poteva essere diversamente, poiché è lei che ha il più alto grado di percezione e consapevolezza riguardo l’immagine che quella coppia racchiude. Inoltre in questa scena si raccordano, attraverso l’uso di una stessa sequenza di inquadrature, i gesti della coppia dei Fantasmi, che stanno preparando il pranzo, a quelli dei protagonisti, che la sera prima avevano preparato la cena. Si crea così un parallelo significativo attraverso le immagini (nel libro era creato dalle parole della narratrice) tra le due coppie, che rimanda ad un confronto capace di estrapolarne analogie e differenze.

Rispetto ai Fantasmi originali, questi sono più occidentali: è stata trattenuta l’atmosfera serena della loro stare insieme, ma la donna cucina, mentre l’uomo l’aiuta ad apparecchiare.

Ma i Fantasmi sono davvero quei vecchietti, in quanto modello di coppia oggi desueto e sempre più difficile da rintracciare?

Non saranno piuttosto Ale e Giulia, che, all’inizio della storia, sono i fantasmi di se stessi, in quanto devono ancora acquisire coscienza dei propri desideri e intraprendere il percorso che li porterà ad essere compiutamente se stessi?

E se i fantasmi fossero i ragazzi frivoli e vuoti che frequentano il pub? Fantasmi nel senso di gioventù svuotata, pregna di squallore spirituale.

E se questi fantasmi fossero solo un alibi di tutti e anche del mio scrivere.

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3.2.3

Un nuovo sguardo sul contesto

La trasposizione del contesto ha dato i seguenti risultati:

Oriente Occidente

Giappone Italia

Setchan Giulia

Iwakura Ale

Fratello di Setchan Andrea

Scuola di pasticceria a Parigi

Scuola Sacher a Vienna Negozio di Roll-cake Pasticceria Eden

Ristorante di cucina occidentale

Ristorante da Pio cucina casalinga

Università privata Università pubblica

Tutti gli altri ambienti, anche se qui omessi, sono da intendersi contestualizzati nell’ Italia dei nostri giorni.

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3.3 Adattamento come trasposizione semiotica

3.3.1 Livello narrativo

“Il livello narrativo di scrittura implica la capacità creativa di convertire la vicenda stessa in una esperienza più possente, più chiara e più significativa. Chiama in campo la capacità di indagare il ripiegarsi su di sé, tipico dei nostri giorni, e lo rimodella in una narrazione che arricchisce la vita. La materia della narrazione è la vita stessa”, disse Mc Kee.7

3.3.1.1 Fasi preliminari

Quando ho iniziato a scrivere non avrei mai pensato che il 90% delle mie energie creative sarebbe stato assorbito dalla strutturazione della storia che McKee definisce Design, termine che adotto con piacere perchè mi sembra che restituisca contemporaneamente le implicazioni tecniche ed estetiche delle scelte narrative e letterarie. Un fatto tecnico è pur sempre un fatto estetico.

Strutturare il film è significato rappresentare in scena un conflitto in cui la volontà del personaggio , cosciente ed operante , per il raggiungimento di un fine specifico e comprensibile, fosse abbastanza forte da creare una crisi nel conflitto stesso.

La composizione cinematografica è definita da John Howard Lawson8 in questi termini: “L’inizio del film fissa un termine fatti il substrato sociale. Di conseguenza l’Esposizione è molto ampia è diffusa.

7 il design della storia è illustrato secondo le prospettive e la terminologia ritrovata in Mc Kee R., Story, International forum edizioni, Roma, 2000, p.43

8 Lawson J. H.., Teoria e tecnica della sceneggiatura, Bianco e Nero Editori, Roma, 1951

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La successiva Progressione drammatica punta essenzialmente sul conflitto degli individui. Questa è, nel film, la zone della Concentrazione, nella quale si accumulano e si acuiscono le varie Tensioni – espresse mediante i primi piani, estratte dal volto dei personaggi – che preparano il materiale per la scena di Rigore. La progressione del nucleo drammatico raccoglie tutte le fila dell’azione che l’esposizione ha indicato, mentre il conflitto della volontà degli individui indirizza il movimento delle forze sociali verso il punto di massima intensità esplosiva, per cui la sorte dei personaggi o si realizza compiutamente o trova l’annientamento nella vita della comunità.”

Tutto questo deve essere visibile nell’ immagine e reso attraverso l’azione .

In questo caso specifico il film nasce da un adattamento , tecnica che obbedisce alle sue regole peculiari. Dwight Swain9 le sintetizza tutte così: “Cut, cut, cut!” (“Tagliate, tagliate, tagliate!”).

Ho cercato di usare quanto più possibile questo filtro in modo intelligente : tagliare, infatti non è solo eliminare ma sintetizzare .

Ho cercato di isolare i momenti- chiave del racconto, mantenerli e modellare intorno a questi la trama del film, e le analogie e differenze rispetto al racconto originale.

L’operazione di sintesi era obbligatoria in una trasposizione semiotica. Un libro è fatto di parole, un film di immagini e suoni. Tutta la serie di situazioni, immagini, temi, ambientazioni, pensieri ed emozioni che Banana Y. poteva descrivere e suggerire con le parole, io lo dovevo rendere come un codice diverso: tutto il complesso di significazione ed estensione di trama e temi doveva passare attraverso la sceneggiatura, l’inquadratura, il movimento di macchina, la messa in scena, la recitazione, il costume, la sonorizzazione, la scenografia, la fotografia e il montaggio.

La durata è il primo limite per un integrale adattamento: riportare ogni parola del libro sullo schermo supererebbe di gran lunga i

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limiti di una finzione stabilita in un massimo di 180’, quindi è stato necessario il filtro della concentrazione drammatica .

Vediamo un esempio nella Sc. 11: Andrea, il fratello di Giulia ha litigato con i genitori, non vediamo il litigio in scena, ma veniamo a conoscenza dell’evento dai dialoghi del confronto tra Andrea e Giulia. Abbiamo una battuta informativa- Giulia: “ Hai di nuovo litigato con mamma e papà!” – che consente di non mettere in scena l’azione del litigare, evitando cosi l’intrusione di una scena puramente didascalica che avrebbe inquinato il ritmo generale; e che avvia un dialogo da cui emergono i motivi e le conseguenze.

Attraverso questa scena visualizziamo il personaggio di Andrea, il suo rapporto con i suoi genitori , il suo rapporto con Giulia, e i suoi obiettivi .

Nel libro non c’è questo evento specifico ma tre o quattro pagine in cui la protagonista ci riassume la personalità del fratello , e i rapporti di questo con la famiglia e le sue scelte di vita.

La scena in questione ci consente già di far emergere attraverso il conflitto tra Andrea e i genitori, il più intenso conflitto di Giulia con se stessa: le sue remore a diventare cuoca e l’assunzione dell’alibi.

In scena non c’è un vero e proprio conflitto tra Andrea e Giulia ma più tosto un confronto, più accentuato che nel testo letterario , che fa risaltare per contrasto la più intime sfumature psicologiche.

L’evento messo in scena ha richiesto un cambiamento: il fratello di Setchan è un pubblicista che non vuole succedere ai genitori nell’attività di famiglia, si guadagna da vivere ed abita da solo; Andrea invece ha la passione per la fotografia è sta cercando di affermarsi tra i fotografi d’arte, attività che non garantisce guadagni sicuri .

Gli effetti di questi cambiamento sono stati:

• Intensificare il conflitto Andrea-genitori: Andrea non solo non vuole succedere all’attività di famiglia ma ripiega su un qualcosa che non garantisce entrate economiche

• Fa procedere la trama: se consideriamo Andrea il protagonista di una mini sotto trama vedremo

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che la risoluzione di questa farà da base al momento culminante della trama principale. Andrea infatti partecipa ad una mostra collettiva : il successo ottenuto in questo luogo sana il conflitto con i genitori , in più offre un luogo fisico d’azione per i protagonisti

• Intensifica la drammatizzazione del tema : le fotografie che vediamo esposte sono infatti vicoli e strade.

Sintetizzare ha implicato anche aggiungere e dilatare. Trasposti i personaggi originali è stato inserito Claudio, un bambino di cinque anni figlio di Andrea. Claudio ha molteplici funzioni, apparendo solo nel terzo atto serve a dilatare il momento culminante attraverso la creazione di nuovi divari tra aspettativa e risultato nel protagonista e nel pubblico; fa emergere la delicata sensibilità e fantasia di Giulia.

Avvolte è stato necessario aggiungere degli eventi, un esempio è nel finale quando Ale dopo essere passato “casualmente” davanti al ristorante di Giulia, ha sentito rinvigorire il suo coraggio e il suo sentimento, e ha deciso di andare da Giulia il giorno successivo.

Nel racconto originale i due si incontrano casualmente, dopo la separazione di otto anni, in un bar; ad essere precisi i protagonisti di Banana Y. si incontrano per ben tre volte in modo casuale e in ognuna di queste occasioni evolve significativamente il loro rapporto sentimentale.

Se in un film è possibile avere un incontro casuale, e deve essere dosato con maestria e deve rispondere a una precisa necessità, è impossibile pensare di far procedere la storia solo per incontri casuali che si rivelano così determinanti. Io mi alzerei dalla sala già dopo il primo.

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Aristotele10, nella metà del trecento a.C., si prese la briga di scrivere a proposito della tragedia che “ il racconto deve avere una sua grandezza in cui sia presente un imitazione di eventi, in cui un personaggio agisce tra buona sorte e sventura”.

E’ stato ampiamente rilevato che quanto teorizza Aristotele si può estendere ad altre forme di rappresentazione .

Aristotele che non era soddisfatto, continuò ad analizzare la tragedia del suo tempo è scrisse qualcos’ altro di ancora più valido per il cinema : gli eventi è i personaggi devono essere verosimili e necessari.

Perché gli eventi siano verosimili e necessari bisogna eliminare il caso dalla narrazione, inserire forti nessi casuali tra gli eventi e organizzarli in situazioni di necessità in cui le scelte dei personaggi sembrino dettate dal suo “ libero arbitrio” .

“Un evento, per essere credibile non deve essere né vero, né possibile ma verosimile e deve essere necessario , deve accadere per una causa ben precisa […] una delle prime regole per la scrittura cinematografica e che la storia per essere credibile deve sembrare vera non essere impossibile, basarsi su accadimenti che potrebbero capitare a chiunque e questi accadimenti normali sviluppino poi azioni ed altri accadimenti straordinari, ormai credibili allo spettatore inserito nella storia dalla normalità dei primi accadimenti”, Massimo Angelucci Cominazzini11 commenta in questo modo La Poetica di Aristotele, rapportandola direttamente al sistema di descrizione e rappresentazione del campo cinematografico.

Sulla base di questi elementi è stato necessario, quindi, modificare le dinamiche negli eventi nel finale perché fossero credibili.

E’ più credibile che Ale passi “casualmente” dal ristorante di Giulia , e qui riprenda vigore il suo sentimento, e per questo motivo il giorno dopo sia indotto ad andare da lei e riavviare il rapporto interrotto sei anni prima .

10 Aristotele, Poetica, Laterza, Bari, 1998

11 Angelucci Cominazzini M. , Teoria e tecnica del linguaggio cinematografico, Ed. FICC, Roma, 2003.

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Mentre è meno credibile, in un film, che Ale incontri casualmente Giulia ad un bar, dopo sei anni che non la vede ( e oltre tutto l’ha lasciata per andare a studiare pasticceria e Vienna nonostante la sua sia una famiglia di pasticceri ) e le chiede di sposarlo… magari nella vita succede e allora… se siete in quel bar, in quel momento, vedrete lo spettacolo più bello di tazzine volanti o due imbecilli che si baciano giurandosi amore eterno.

Nel film Ale è un personaggio con una volontà operante per il conseguimento di un obbiettivo, per questo motivo cerca di riallacciare il rapporto con Giulia. In questo modo si sancisce che l’obiettivo sentimentale da incoscio diventa conscio .

Nella vita funziona più o meno così. Quello sentimentale in genere è un obbiettivo inconscio, consciamente pensi che, per esempio, studierai medicina perché vuoi fare il medico; non ti dici che troverai una donna perché vuoi fare il marito e avere dei figli. Magari, poi, mentre studi medicina, inciampi in una donna, ti innamori, senti che non ne puoi più fare a meno e viene tutto il resto (figli inclusi!). Questo non lo poni sin dal inizio come obbiettivo conscio, lasci che si aggiri nella tua testa a tua insaputa, o senza darli troppo peso.

E ancora Aristotele, sempre nella Poetica, parlava di Universale e ne parlava in stretta connessione alla Verosimiglianza e Necessità .

Il problema era per me vivo e aperto se ti accingi a raccontare qualcosa a qualcuno, si presuppone ci sia un destinatario e questo destinatario perché mai dovrebbe assolvere al ruolo di cui lo investi, lasciando che la tua storia rubi il suo tempo ?

E soprattutto: io, che conosco a stento me stessa e un’infinitesima parte di mondo e di vita come faccio a raccontare l’Universale ?

Si evince che la faccenda era complicata.

La prima operazione è consistita nel trasformare l’Universale da un sostantivo a un “qualcosa di universale”; la seconda, sdraiarsi in terra e fissare attonita il soffitto.

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Quanto avevo sentito parlare dell’Universale ma non mi ero mai posta il problema di dover dire di necessità qualcosa di Universale , per essere ascoltata .

Fortunatamente lo stesso Aristotele aveva disseminato la sua Poetica di utili indizi a riguardo, il cui ritrovamento e stata la condizione necessaria perché io mi rialzassi dal pavimento è tornassi al computer.

I miti, le favole, le tragedie greche, Shakespeare, e tante altre storie funzionano ancora e sono secoli che la gente ci piange, ci ride e si emoziona, regalando loro generosamente il proprio tempo… l’Universale sarà lì dentro !

Prima di me se ne erano accorti, tra gli altri, Freud12, Jung13, Propp14, Lévi Strauss15,Vogler16, Frazer17, Campell18 i cui studi sono stati decisamente significativi per l’evoluzione del mio percorso di adattamento.

Aver intuito a cosa faceva riferimento Aristotele parlando di Universale, non significava padroneggiarlo e nè tanto meno essere riuscita a incastrarlo nella mia sceneggiatura.

Ho tentato però di costruire una realtà narrativa e visiva che ricostruisse la realtà cogliendo negli aspetti essenziali: ricostruire una copia significativa della realtà, tutta a favore della storia e del pubblico.

Prendiamo in esempio la Sc.3:

12 Freud S. Introduzione alla psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 2002

13 Jung C.G. Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringheri, Torino, 2002

14 Propp V. Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1988 15 Lèvi Strauss C. Tropici più tristi, Nottetmpo, Milano, 2005 16 Vogler C. Il viaggio delllo scrittore, Audino, Milano, 2004

17 Frazer J. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e sulla religione, Newton, Milano, 1999

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Giulia è al lavoro nel ristorante dei suoi genitori, vediamo uno dei momenti della sua esistenza, che si ripete presumibilmente ogni giorno, ma il momento incorniciato dal film è caricato significativamente e in modo essenziale.

Il ristorante è un’attività a conduzione famigliare. Giulia fa da cameriera mentre sua madre è la cuoca. Quando la mamma cucina Giulia la osserva, cercando di assorbire i segreti del cucinare, esegue eventuali indicazioni, ma non osa mai cucinare. Giulia ha paura di non essere all’altezza dell’arte della madre, servire ai tavoli è un ripiego che le consente di restare attivamente nel nucleo famigliare-lavorativo.

Nella Sc. 47 mentre Giulia è a lavoro, Ale si dirige verso il ristorante, lei lo vede arrivare attraverso una vetrata e si fa negare. Giulia è innamorata di Ale ma sa che lui andrà via e cerca di arginare la sofferenza del distacco definitivo evitando, a priori, una relazione che non può essere altro che temporanea.

Il ristorante in queste scene si carica significativamente: si fa rifugio famigliare contro l’esterno. Giulia nella sua attività quotidiana, nell’intimo famigliare (in senso traslato è più propriamente l’intimo famigliare-lavorativo), si sente al sicuro, al riparo dai problemi esterni anche se questi cercano di stanarla dal suo stesso rifugio. Il ristorante-rifugio ha però le sue insidie e conflittualità interne, anche quello che sembra essere il rifugio più sicuro, il guscio del proprio io, non è sicuro come sembra.

Molte delle scelte interpretative di condensazione o dilatazione che ho giustificato come esigenze strutturali della narrazione filmica sono necessariamente anche intrise della mia visione della vita.

Chi inizia a scrivere una sceneggiatura, può essere indotto a credere che uno dei primi problemi da risolvere sia se iniziare dalla storia o dal personaggio: falso problema.

Dalla genesi del mio processo di adattamento emerge che si inizia col definire il tema, attraverso un confronto col proprio mondo interiore, per poi passare a tutto il resto.

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perché nel mio lavoro il confronto con il tema e la definizione di questo è stata delle tappe più difficili e più fruttuose.

Proprio attraverso il tema, a sceneggiatura ultimata, ho potuto comprovare l’efficacia e funzionalità di questa: è il tema che consegna valore alle azioni del film.

Ribadito, ancora una volta, che il tema della sceneggiatura rispecchiava quello del testo letterario originale, anche se contaminato del mio punto di vista, sentivo la mia coscienza assolta da problemi di ordine morale legati all’adattamento.

Non ho usato e distorto il racconto di Banana Y. arbitrariamente e nella mia incoscienza di sceneggiatrice ho cercato di riprodurre, in immagini e suoni, non solo il mondo letterario e tematico creato dall’autrice ma un’ulteriore riflessione, la mia, sulla tematica che lei stessa sollevava.

Nella mia sceneggiatura non ci sono risposte, solo una trasposizione che ha cercato di non risolversi in un tradimento né del mio punto di vista, né del testo letterario, né del cinema, nella ferma coscienza di una celebre dichiarazione di François Truffaut a proposito dell’adattamento: “ Tutti i colpi sono permessi, tranne i colpi bassi.”

Le fasi di lavorazione si sono sommariamente articolate in questa successione:

• Isolamento delle scene chiave nel testo letterario (come si può rilevare dall’Allegato 2).

• Stesura del soggetto.

• Realizzazione di una scaletta, intesa come concatenazione drammatica più serrata, che, offrendo un quadro generale più completo dei singoli nuclei narrativi, consentiva di verificarne la coerenza. La scaletta mi ha permesso di verificare, durante tutta la stesura della sceneggiatura, la linearità e l’equilibrio dell’intreccio; di

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gestire meglio eventuali aggiunte o tagli; di isolare la successione di azioni nell’intreccio e verificarne l’aderenza con la successione delle funzioni nella composizione, come teorizzato da Propp.19

• Stesura del trattamento dei personaggi e degli ambienti.

• Stesura della sceneggiatura.

3.3.1.2 Modellazione dei personaggi

Attraverso estratti del testo originale La casa dei fantasmi di Banana Y., che disegnano i personaggi principali, cercherò di rendere visibili in che modo differenze e analogie sono confluite nella modellazione dei rispettivi personaggi nella sceneggiatura; come si è tentato di rendere visibili le loro sfumature psicologiche nella drammatizzazione, e come tutto questo ha prodotto modifiche e aggiunte nella dinamica degli eventi.

Vedremo nel dettaglio il passaggio: • da Iwakura ad Ale da Setchan a Giulia

Gli altri personaggi, rispettivamente i genitori di Setchan e quelli di Iwakura, sono stati introdotti nella sceneggiatura in totale aderenza psicologica agli originali.

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Da Iwakura ad Ale.

Lui era figlio unico e i genitori gestivano un negozio di roll cake piuttosto famoso nel quartiere. Si diceva che non volesse succedere ai suoi nel lavoro di famiglia, e per questa ragione si impegnava al massimo per fare economia e mettere dei soldi da parte, come era evidente dal suo stile di vita. Era sotto pressione e si vedeva: se negli anni dell’università non fosse riuscito a rendersi indipendente e a trovare la propria strada, il futuro che lo attendeva, che gli piacesse o no, era solo uno: infornare roll cake per il resto dei suoi giorni. Anche dal modo in cui lavorava al pub traspariva quello stress tipico delle persone con un destino già deciso.

Vi era in lui qualcosa di indefinibile, come un cielo nuvoloso nel cuore dell'inverno, a metà tra allegria e cupezza…

Iwakura ha una personalità misteriosa e complessa. In altri punti del racconto emerge ancora più esplicitamente.Perché questo fosse visualizzabile in Ale ho utilizzato il meccanismo della coincidenza tema-struttura. La sua volontà confusa ma determinata, e le varie sfumature del suo carattere, coincidono con i modi della tecnica di presentazione usata per questo personaggio. Ale si svela gradualmente, per falsi indizi, in una costante imprevedibilità dei suoi comportamenti e reazioni, emerge la sua acuta intelligenza, e il suo ricco e sensibile mondo interiore. Si veda, ad esempio la Sc.21, in cui si propone di accompagnare Giulia a casa perchè deve uscire per sbrigare una faccenda non meglio specificata.

Nella Sc.5 una cameriera lo presenta a Giulia e al pubblico come uno pieno di segreti: è una tecnica che, ricoprendo il personaggio di fascino ancor prima di conoscerlo, mira accresce le aspettative del pubblico e le possibilità di identificazione tra questi.

“No, non ho niente contro questo lavoro, ma sai, non è facile con una mamma come la mia, una madre superperfetta, allegra, simpatica, e grande lavoratrice...” disse Iwakura.

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Infatti anche nei quartieri vicini sua madre era famosa per il carattere allegro e pieno di premure. Avevo sentito dire spesso che in tanti compravano da loro perchè erano conquistati dal suo garbo nel trattare i clienti.

Nei dialoghi originali l’autrice gioca spesso su un “gap” di comprensione tra i protagonisti. Ale dà alle sue frasi un senso, Giulia ne coglie un altro, solo successivamente si sintonizzano su ciò che l’autrice focalizza come argomento principale. Ho mantenuto questa tendenza perché offre la possibilità di fare emergere le differenti personalità, ma spesso l’ho usata come pretesto per aggiunte ancor più esplicative di temi e motivi. Qui ne abbiamo un esempio. Ale stima molto i suoi genitori, e in particolare le madre, ma considera le sue eccessive premure e l’eccessivo benessere in cui lo immergono un limite alla sua maturazione. A partire da questo ho inserito il problema della condizione sociale e dell’identità, che Ale accetta mal volentieri perché frutto di un puro meccanismo ereditario. Si veda il dialogo in Sc.20.

“Io... io credo di essere davvero la classica brava persona” disse. “Non ho dubbi” risposi.

Bastava camminare un po’ con lui per la città per rendersi conto della sua profonda gentilezza. Per esempio, passeggiando nel parco, capitava che il vento facesse ondeggiare gli alberi e tremare la luce. Allora lui socchiudeva un po’ gli occhi e la sua espressione diceva: “Che bello!”. Un bambino cadeva, e sul suo viso si leggeva: “Accidenti, è caduto”, ma subito dopo, quando la mamma accorreva per prenderlo in braccio, il suo viso sembrava dire: “Meno male”. Questa sensibilità naturale è caratteristica di persone che hanno ricevuto qualcosa di assolutamente prezioso dai genitori.

Altro esmpio di “gap” comunicativo sul termine brava persona. Per Iwakura significa persona consapevole, per Setchan persona gentile e premurosa. La dinamica di questo meccanismo, alla lunga, penalizza Setchan: a parità di significante lei coglie sempre il significato più basso, risultando meno intelligente, anche se nel complesso, l’autrice, attraverso altri elementi, la erige a personaggio più sensibile.

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loro confronti linguistici si fanno più serrati e acuti, una lotta che mette in campo la loro ironia e acutezza, come d’altro canto richiede il tema del film. La loro delicata lateralità è affidata alla capacità che ha l’ambiente di caratterizzare. Ale ha una casa piena di libri e dvd, non appartenenti alla sola tipologia dl’intrattenimento; Giulia il laboratorio artistico da pittrice- ceramista.

“E quindi,” proseguì lui, “se restassi tutta la vita con i miei, seguendo la corrente, mi perfezionerei sempre di più in questo ruolo di brava persona.”

“E cosa ci sarebbe di male?”

“Niente, ma per come la vedo io, questo non significa essere davvero uno a posto. Facendo una vita tranquilla, con soldi e tempo a disposizione, è facile essere una brava persona, che ci vuole? Ma se continuo su questa strada, la mia presunta bontà rimarrà qualcosa di relativo, di superficiale, e magari finirò per coltivare la mia parte più brutta e oscura. Siccome penso di essere uno fondamentalmente a posto, se ci riesco, di me vorrei coltivare la parte positiva, non quella oscura.”

“Allora questa sarebbe la ragione per cui fai economia e metti da parte i soldi?”

Sin dall’inizio del film Ale è uno “che si dà da fare”: vederlo al lavoro nel pub e poi all’ università predispone indizi sulla sua esistenza personale e sociale, e crea le basi perché si comprenda meglio il processo mediante il quale la sua motivazione e il suo obiettivo primo passino da una condizione di latenza ad una effettiva, capaci di mettere in modo l’azione

“Non direi proprio così, sto solo facendo quello che ho deciso e quello che posso. Altrimenti, mi ritroverò come se niente fosse a lavorare nel negozio dei miei, senza avere neanche tentato qualcosa di diverso. E una volta li, non potrò più sottrarmi” disse Iwakura.

Per iscriversi in quella università ci voleva un sacco di soldi.

Se avesse avuto in mente qualche altro progetto avrei anche potuto capire, ma visto che non lo aveva, proprio non riuscivo a spiegarmi che intenzioni avesse.

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Dal suo modo di parlare, senza spiegare precisamente né i suoi pensieri più intimi né le situazioni, sembrava solo che rifiutasse, per le ragioni più vaghe, la situazione in cui si trovava.

Io invece notavo spesso che in compagnia di un ragazzo che come me aveva alle spalle una famiglia dalla lunga tradizione nel commercio, la conversazione scorreva animata, e ci si intendeva su tante cose.

Avevamo in comune una certa abitudine al senso della responsabilità, anche se sapevamo che non si trattava di responsabilità così importanti.

Ho mantenuto il forte senso di responsabilità di entrambi, che dà maggiore coerenza ai loro stessi obiettivi, e l’ho visualizzato in scene in cui obbediscono al richiamo dell’impegno lavorativo. Ho, poi, cercato di arricchire la base del loro feeling, e renderla ancora più intima, portandola sul piano mentale. Il dialogo della Sc.20 , in cui si concentra il nucleo tematico, è pensato come “ad una voce” di “una stessa mente”. Avevo la sensazione di aver capito da dove venivano quell’oscurità trasparente di Iwakura, così unica, la sua aria malinconica, il suo atteggiamento grave.

La protagonista interpreta il carattere di Iwakura attraverso l’analogia tra questi e la sua abitazione. Nella sceneggiatura, più in generale, gli ambienti hanno una funzione strutturale e mantengono un legame fortissimo con i personaggi poiché contribuiscono per analogia o contrasto a caratterizzarli. (Per un’analisi più dettagliata si rimanda al cap. parag. Ambiente.)

“Forse sarà perchè quando sono a casa mi rilasso, e la mia testa si svuota dai pensieri. Quando sono esausto per il lavoro, o mi sono appena svegliato, o quando torno a casa stanco morto e bevo un tè... in quei momenti è come se due mondi si incrociassero e io vedo quei due che vivono come devono aver sempre fatto.”

“É bello così, seguire il flusso della corrente. Io invece sono un po’ alla deriva”

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aiutare i parenti se devono traslocare... mi sono accorto che queste incombenze cominciavano a prendere sempre più spazio nella mia vita. Ma non è che mi desse fastidio dare una mano, né che io non abbia voglia di fare il lavoro di mio padre.”

“Hai ancora tanto tempo davanti a te, perchè non metti un po’ di soldi da parte e non vai a studiare all'estero per un periodo oppure ti trovi un lavoro? Specialmente per un uomo, fare questa vita da figlio ubbidiente alla lunga può logorare e anche i tuoi orizzonti rischiano di restare limitati.”disse Setchan.

Giulia non pronuncia affatto questa battuta.

Ale formula il suo obiettivo: recarsi a Vienna per studiare, sulla base del più generico discorso sulla tematica esistenziale affrontato con Giulia, si veda Sc. 20. L’unico consiglio esplicito di Giulia, riguardo possibili viaggi all’estero, ha un valore puramente ironico, si veda la battuta di Giulia Sc.21: “Ale... credo che tu sia un po' troppo stressato! non ti farebbe male staccare un po'! magari un bel viaggetto...”

Aveva un motorino costoso, vecchio ma tenuto bene. Il fatto che fosse di famiglia ricca veniva sempre fuori da qualche particolare.

Dev’essere molto difficile accettare questi privilegi con naturalezza, e al tempo stesso andare via da casa e mettere da parte i soldi, perciò non c’è da stupirsi se nel suo atteggiamento e nel suo stato d’animo si nota spesso quell’ombra di malinconia, pensai.

In Ale ho accentuato ulteriormente il lusso che deriva dalla sua provenienza familiare, per rinforzare la portata del conflitto con se stesso. Il motorino e la tecnologia, che invade la sua casa, attraverso una battuta di Giulia qualificano la natura della loro provenienza: di certo non è il lusso che si può concedere un ragazzo che lavora saltuariamente in un pub. Anche nelle piccole cose continua ad emergere il sostegno economico della famiglia: Ale indossa delle Nike che, per la mia generazione, sono uno status simbol di 180euri! Volevo che fossero vive le contraddizioni di Ale e il lento maturare della sua motivazione e del suo obiettivo: andare a Vienna significherà la reale rinuncia a tutti i

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privilegi e piccoli lussi garantiti dalla famiglia, è uno dei prezzi da pagare per diventare adulto come desidera. Ale arriva, attraverso un percorso personale, a ciò che studi sociologici sulla società giovanile contemporanea cercano inutilmente di mettere in evidenza: il benessere ha eliminato due importanti fattori di crescita: il dolore e la fatica.

Iwakura, che incontravo ogni tanto, mi sembrava privo di energia.

Forse non gli aveva giovato separarsi dalla famiglia e vivere da solo. Né il fatto che il poco tempo libero che gli rimaneva dopo l’università lo utilizzava stancandosi col lavoro. Per quanto sembrasse maturo, in fondo era ancora un ragazzo. Ma avevo anche la vaga sensazione che il fatto di vivere in quella “stanza dei fantasmi, nella casa dei fantasmi” c’entrasse qualcosa.

Questo motivo è stato completamente eliminato, per le motivazioni specifiche si rimanda a cap. p. fantasmi

“Un uomo che cade in quel tipo di trappola è destinato a ricaderci di nuovo, quindi è meglio che vi siate lasciati”.

Mi sembrò un'opinione così matura per un ragazzo della sua età, che ne rimasi sorpresa.

profilo di Iwakura, col suo piccolo naso e l’espressione calma con cui aveva detto quelle parole mentre asciugava i bicchieri.

Da questo è stata ricavata una scena che segna l’innamoramento di Giulia. La battuta qui di Iwakura è passata ad Ale ma si è svecchita, divenendo più concreta e meno apocalittica. Sc. 30 Ale: “E allora?! perchè ci pensi ancora? meglio che sia finita... credi che ti saresti più fidata?”, inoltre è stata impiegata per definire meglio la psicologia di Giulia e giustificare la formulazione del suo primo obiettivo, ovvero Ale.

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“Vado a studiare all’estero. Ho deciso di andare in Francia, a frequentare una scuola di pasticceria. E una cosa che mi interessa molto.”

“Ma questa è la strada per lavorare nel negozio dei tuoi!”

“Sai, mi sono reso conto che non vorrei diventare uno di quelli che fanno i dolci e non sono mai stati in Francia.”

“Siccome non mi va che la tradizione dei roll cake portata avanti da mio padre cambi, vorrei pensare ad altre possibilità per lavorare in questo campo, indipendentemente da lui. Vorrei studiare e poi, eventualmente, potrei anche non tornare più e restare a lavorare lì, ma questo è ancora tutto da vedere, perciò è prematuro parlarne. Però mi piacerebbe molto. Perchè in fondo, sia il lavoro manuale che i dolci non mi dispiacciono per niente. Secondo me, mangiare qualcosa di dolce alla fine del pasto è una cosa che rende felici, un piccolo sogno. Avevo cominciato a informarmi sulle scuole giapponesi, ma man mano che raccoglievo notizie mi è cominciata a crescere la voglia di andare fuori.”

“Ai tuoi lo hai già detto?”

“Gliel’ho detto. Si sono opposti con tutte le forze.” “E allora come farai?”

“Ho abbastanza soldi da parte per iscrivermi a un corso in Francia, e poi trovare un lavoro e vivere in un appartamento non troppo caro. Ho anche dei risparmi da quando ero piccolo. Però vorrei evitare di toccarli, perchè sono quelli che mi mettevano da parte i miei.”

Il tutto subisce nella sceneggiatura un violento trattamento sintetico. Gli elementi riportati nel passo sopra non sono richiesti dalla finzione filmica, e in più avrebbero danneggiato il ritmo complessivo: mi sarei ritrovata con dei personaggi fluttuanti in pure acrobazie verbali, carnefici dell’azione e di loro stessi!

Me ne ero accorta già da quella volta, che Iwakura desiderava fare l’amore con me, anche se era più che altro un’intuizione.

“Forse sarebbe ora di andare...” dissi. “Peccato solo non aver visto i fantasmi.”

“Se vuoi vederli, perchè non resti a dormire?” disse Iwakura. Rimasi un po’ stupita. Ma solo poco poco.

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“In realtà non è che ho poi tanta voglia di vederli, però vorrei farti una domanda. Che intendi con questo perchè non resti a dormire? Ti dispiacerebbe spiegarti meglio?” dissi.

“Hmm...” Iwakura fece una faccia seria e si mise a riflettere, e infine disse: “Sai, quando si lavora nei locali, queste cose si fanno senza dargli tanto peso”.

“Come sarebbe?” Naturalmente mi sentii un po’ offesa. “Magari non sarà vero, ma almeno potresti dire qualcosa come ‘sei il mio tipo’, o addirittura, ‘penso che mi piaci’.”

“Allora ti dirò che addirittura sia come viso che come personalità sei quella che mi piace di più fra tutte le ragazze che conosco” disse.

Pensai che detto da lui probabilmente doveva essere vero, e questo mi diede una piccola fitta al cuore.

“Ma sai, quando lavori in un pub ti abitui a sentire i ragazzi che, bevendo l’ultimo bicchiere, dicono alle loro amiche: ‘Ti fermi da me stanotte?’ quasi come una formula di saluto e a un certo punto ti sembra di non sapere più quello che provi.”

“Credo di capire più o meno quello che vuoi dire.”

“E poi, voi ragazze, quando siete in una stanza con un uomo, sapete misurare l’atmosfera con il corpo, no?”

“Be’, penso che questo lo sappiano fare tutti.”

“Si, ma l’uomo non vede che il buco. Una ragazza può essere ben truccata, ben vestita, e si può fare la conversazione più normale, ma uno pensa: Li in fondo c’è quel buco, e non riesce a pensare e a vedere che quel buco umido e provocante. Basta che ci pensi solo per un attimo, e poi non riesci a pensare più ad altro.”

“Eeeh?”

“Infatti anch’io è già da un bel po’ che non riesco a pensare che a quel buco. Ogni volta che tu, Setchan, ridi o dici qualcosa, io penso: Però lì c’è quel buco.”

“A sentirmi dire questo non so se gioire o rattristarmi.”

Il dialogo di sopra evidenzia che Iwakura non ci sa fare con le ragazze e attribuisce la sua inettitudine volgare all’imitazione di modi di approccio che vede attuare dai giovani frequentatori del pub.

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segreti del loro mondo per conquistare un modo vincente di rapportarsi a loro, ma è sostanzialmente una persona molto selettiva e poco socievole e molto… mentale! Allora sarà ancora più interessante vedere la sua ponderata riflessività e il suo sistema di pensiero analitico soccombere, in un qualche modo, alle ragioni della passione.

“E se penso che c’è, non posso assolutamente smettere di pensare che vorrei farlo, ma so anche che presto me ne andrò dal Giappone, e non vorrei essere triste dopo.”

“Hai ragione, poi ci si sente tristi, è vero. Per quanto sul momento uno possa essere travolto dal desiderio. Io sono sicura che se lo faccio poi mi innamoro.”

“Anch’io sono così. Se lo faccio, poi l’altra persona mi piace sempre di più.” “Però, che momento, neanche a volerlo scegliere...” “Infatti.”

“Allora tracciamo una linea e cerchiamo solo di stare bene adesso” dissi io. “Non è una situazione in cui si possa pensare al futuro. Però adesso io sono libera e come dici tu qui ho questo buco...”

“Allora va bene?”

“Non chiedermi il permesso. Non devi dare tutta la colpa a me.”

Ale non si pone tutte queste problematiche all’inizio. Lui desidera Giulia e vuole appagare il suo desiderio sessuale, nella totale consapevolezza e incoscienza della separazione. Solo successivamente matura un sentimento più forte che lo spinge a coinvolgere Giulia nelle sue scelte di vita in modo concreto e sostanziale, lui vorrebbe che lei lo seguisse a Vienna.

È la prima volta che mi capita una persona che ha un modo così strano di convincere. E un tipo interessante, questo Iwakura, pensai con ammirazione.

ma da bravo figlio di papà nell’armadio a muro Iwakura aveva un materasso, forse vecchio ma comodissimo, un futon di piume di ottima qualità e lenzuola pulite.

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Altro indizio per usare l’ambiente come strumento di caratterizzazione del personaggio e delle sue contraddizioni.

“Forse più ancora del nabe, avevo voglia di dormire così attaccato a qualcuno” disse Iwakura prima di addormentarsi.

“Prima di partire, voglio assolutamente vederti almeno una volta” aggiunse, dandomi un bacio.

Questa nuova consapevolezza del suo sentimento ha dei risvolti nell’azione: crea un nuovo obiettivo e un nuovo conflitto: nel progredire della storia contrapporrà Ale, nel suo intimo, contro se stesso prima che contro Giulia.

Con tutte le sue debolezze era un vero uomo e sapeva fare l’amore con una donna con la forza di un uomo.

Torvo molto più interessanti ed erotiche le scene d’amore giocate sulla reticenza, e considerata la natura di Ale e Giulia su un vivace guerriglia verbale, innescata dal conflittuale desiderio amoroso, si veda Sc.39.

Iwakura era ancora più impegnato di prima: aveva cominciato a prendere lezioni da un amico francese che si era offerto di insegnargli la lingua quasi gratis. Una volta in grado di cavarsela sarebbe andato in una scuola di pasticceria alla periferia di Parigi.

Ale continua a pensare a Giulia, mentre si prepara a partire, e a cercarla; è lei che rifugge.

Gli occhi con cui mi fissava erano quelli di un innamorato.

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Anche in Ale.

Mi raccontò che in cambio della stanza che gli avrebbero dato in Francia, in casa di certi conoscenti, avrebbe fatto il baby-sitter.

Il motivo è stato eliminato.

c’è la possibilità che io non torni più. E siccome non voglio mentire, non ho detto che sicuramente tornerò. Ma anche lì, una volta che avrò messo i soldi da parte, penso che lascerò quella casa e andrò a vivere da solo.”

In Ale la problematica del possibile ritorno si risolve con una battuta in Sc.35: “ma… per ora è la via per Vienna…”

Tutto concentrato in una battuta informativa riguardo ai genitori che rimanda lo scontro a una scena successiva, in cui oltretutto lo scontro vero e proprio è fuori scena, mentre vediamo le reazioni di Ale e dei genitori (ci interessa soprattutto quella della madre, decisamente più emotiva e intensa di quella del padre, perché rende la portata dolorosa della separazione e giustifica la partenza immediata di Ale da Vienna alla notizia della malattia e le sue azioni successive.)

Il suo viso, rivolto verso il futuro, splendeva di energia. Era il viso di chi guarda un mondo sconosciuto, completamente diverso rispetto a quello di quando lavorava senza avere una meta precisa. Ero certa che con la sua serietà, anche lo studio avrebbe dato buoni frutti.

“Siamo troppo dei bravi ragazzi per riuscire a fare sesso solo per divertimento.”

Evito commenti sulla battuta in questione perché mi porterebbero ad una dissertazione che metterebbe in crisi la mia tesi in

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termini di lunghezza, mi limito a sottolineare che non è presente nella sceneggiatura. Ale pensa di poter fare solo sesso(sarebbe meglio dire che non pensa molto!) ma si innamora e non può, né vuole fare più a meno di Giulia.

quel suo buffo umorismo, la sua figura dall’aria eternamente irrequieta Prima Iwakura lavorò per otto anni in un ristorante alla periferia di Parigi come pasticciere.

Vedremo Ale al lavoro nella pasticceria a Vienna nella misura in cui questo è funzionale a specificare il conseguimento del suo obiettivo professionale e all’innescarsi dell’evento dinamico costituito dalla morte della madre.

Naturalmente credo che in quel periodo abbia avuto le sue storie, le sue gioie, le sue pene.

Omesso nella sceneggiatura per la sua ovvietà: è la materia che dà consistenza all’ellissi, il cui contenuto non è necessario che nel film venga specificato.

che siamo sempre stati occupatissimi, nei rari momenti in cui eravamo liberi finivamo con l’incontrarci.

Gli incontri tra Ale e Giulia sono per lo più voluti e determinati da una volontà operante e cosciente, anche se, nella parte introduttiva della sceneggiatura, l’azione e i dialoghi specificano che i due abitano nello stesso quartiere: indicazione necessaria per sviluppare la Sc.8.

quell’uomo per i colori belli e insoliti dei suoi abiti

Vivendo così a lungo all’estero la qualità della sua pelle è cambiata, pensai. Notai anche che la sua mano destra, a forza di preparare dolci, era diventata molto robusta. Pure le spalle erano più massicce, e il viso più asciutto. Anche gli occhi non erano più quelli dolci e vaghi di prima, ma aveva lo sguardo penetrante di un adulto

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Tuttavia, non era cambiato il fatto che quando sorrideva il suo viso semplicemente si illuminava.

“E passato tanto di quel tempo, sei diventato davvero un uomo” dissi

Questi elementi sono utili a caratterizzare Ale dopo il suo ritorno da Vienna.

“Sono tornato per continuare il lavoro dei miei.” “L’avevo immaginato” dissi.

Conoscendolo, era impensabile che una volta morta la madre, e rimasto il padre da solo, lui si rifiutasse di portare avanti il negozio.

Non è così ovvio e spontaneo che Ale, una volta tornato nonostante sia morta la madre, resti. È stata costruita una scena per rendere visibili i risvolti psicologici che determinano la scelta, si veda Sc.63.

Ale si re-insedia naturalmente nel suo focolare ma sceglie di andare a ricercare Giulia, è il suo obiettivo non ancora raggiunto!

Poi, sai, ho riflettuto a lungo, e sono stato combattuto, ma ormai non c’erano più tante ragioni per restare laggiù. Il negozio dove lavoravo è stato ampliato, e recentemente sono entrati diversi colleghi più giovani, ho insegnato loro più o meno quello che era necessario, e così ho pensato che potevo anche lasciare. Mi sembrava fosse il momento giusto.”

“Tuo padre sta bene?”

“No, è molto giù. Fa male a guardarlo.”

Si veda Sc. 62- 63 in cui vengono rese le reazioni di Ale e di suo padre alla morte della madre.

“Che tipo di negozio farai? Tuo padre continuerà con i roll cake e tu farai i tuoi dolci?”

“Ho pensato anche a questo, ma siccome il negozio si è fatto un nome come pasticceria specializzata in roll cake, ho pensato di fare i miei dolci solo a Natale o su

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