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DELL‟APPARTENENZA CAPITOLO III: LA QUESTIONE

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CAPITOLO

III:

LA

QUESTIONE

DELL‟APPARTENENZA

Par.1 La funzione della cultura

Abbiamo visto nel capitolo precedente il ruolo fondamentale che Nathan attribuisce alle etiologie tradizionali nel suo dispositivo di cura, raccontando la storia di Rachida egli scrive appunto che il suo dolore può essere contenuto solo da una etiologia tradizionale. Che rapporto sottintende questo discorso con la funzione della cultura? Che cosa è per Nathan la cultura?

Definizioni di cultura in campo antropologico ne sono state date moltissime, in questo lavoro possiamo riprendere la definizione che ne dà Piero Coppo in Tra psiche e culture : “propongo qui di adottare il termine “cultura” per designare, in accordo con la sua moderna accezione antropologica, la dimensione collettiva in cui i singoli si immettono per divenire umani; e di considerarla non solo come l‟insieme dei prodotti immateriali (lingue, religioni, miti, sistemi matrimoniali, ecc.) ma anche degli oggetti, degli artefatti, delle strategie di sopravvivenza, dei modi di produzione, propri di un determinato gruppo in una determinata fase della sua storia e in relazione con uno specifico

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ambiente. Questo concetto ci serve per designare, nel campo che ci interessa, ciò che costituisce le specificità dei gruppi umani e le diversità tra loro; ci permette dunque di dire “noi” e di parlare di “altri”, con altri”.1

E‟ importante anche chiarire che per Coppo, ed anche per Nathan “la cultura non è un accessorio, di cui alcuni umani possono disporre e altri no. Se non ha accesso a una cultura (se non è in-culturato) l‟essere umano non si umanizza e spesso neppure sopravvive. Essa non ha basi biologiche, se non nella costituzione della sua possibilità, degli strumenti per accedervi; non è dunque ereditata nei suoi contenuti, ma acquisita […] ciascuna è diversa, tutte però svolgono la stessa funzione e hanno aspetti e finalità comuni che le rendono genericamente umane. In quanto insieme dei prodotti materiali e immateriali che un gruppo umano esprime nel suo evolvere in un dato ambiente, la cultura è la dimensione

sovra individuale,in parte visibile ed in parte invisibile,in cui i singoli umani vengono iscritti e che concorrono a conservare e a modificare”2

Quello che credo sia importante approfondire non è tanto la definizione generica di cultura, quanto il rapporto tra cultura e psiche e di conseguenza qual è la funzione della cultura per Nathan.

1

Coppo P ., Tra psiche e culture, ed.Bollati Boringhieri, Torino,2003, pag.82

2

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Freddy è un bambino di cinque anni, figlio di due persone originarie del Camerun, la madre di etnia Bassa il padre, Bassa da parte di padre e Dwala da parte di madre. La famiglia va in consultazione da Nathanperché Freddy è autistico. Il signore e la signora D. si sono sposati molto giovani, il loro matrimonio è stato sicuramente un‟unione d‟amore, altrimenti non avrebbero fatto un matrimonio non apprezzato dalla famiglia. Nella tradizione Bassa i matrimoni sono endogamici e la famiglia di lei non era contenta di questo marito che per metà era Dwala. Nathan racconta questa consultazione nel libro L’influence qui guérit: la gravidanza era stata molto difficile e quando Freddy aveva circa cinque mesi i genitori si sono resi conto che aveva dei problemi, per cui lo hanno mandato in Camerun per farlo sottomettere ad un trattamento tradizionale. Ma quando il bimbo aveva tre anni il padre è andato a riprenderlo, interrompendo il trattamento. Durante la prima seduta vengono poste delle domande sul trattamento tradizionale avuto al paese, in questo modo l‟équipe di Nathan comincia a far circolare alcune eziologie tradizionali. Questo caso però ha una particolarità: le eziologie che sono perfettamente comprensibili al padre, non convengono minimamente alla madre e viceversa. L‟eziologia Dwala (del padre) che circola è quella della cattura del bambino da parte di uno spirito del

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fiume: presso i Dwala i bambini che hanno problemi come Freddy, vengono portati lontani come per abbandonarli, per vedere se se la sbrigano a ritornare da soli. Per la cultura Bassa (quella a cui appartiene la madre) invece, è l‟idea di una natura magica di Freddy che circola, i bambini come lui vengono chiamati M‟bet Singa (cammina su un filo). Cammina su un filo vuol dire che si tratta di bambini che si trovano sospesi tra la vita e la morte. L‟ipotesi di Nathan che si riallaccia alla questione della funzione della cultura è questa: “il devient maintenant possible de penser que n‟étant ni Bassa ni Dwala, Freddy ne peut pas constituer une clôture fonctionnelle de son univers psychique. Il nous reste bien sûr à chercher la raison pour laquelle des jeunes gens se coupent ainsi des représentations qui les portaient jusqu‟alors. Mais après avoir constaté cette perte de fonctionnalité de l‟univers culturel et considérant que la fonction psychologique de la culture est d‟éviter perplexité et frayeur, il nous est apparu tout à fait naturel de proposer à ce couple une interprétation de la maladie de Freddy en termes d‟effroi »3

. La funzione della cultura nell‟omeostasi e nella costruzione dell‟apparato

3

« diventa ora possibile pensare che non essendo ne Bassa ne Dwala, Freddy non puo‟ creare una chiusura funzionale del suo universo psichico. Ci resta sicuramente da cercare la ragione per la quale dei giovani si tagliano in questo modo delle rappresentazioni che li sorreggevano fino ad allora. Ma dopo aver costatato questa perdità di funzionalità dell‟universo culturale e considerando che la funzione psicologica della cultura è di evitare perplessità e spavento, ci è sembrato del tutto naturale proporre a questa coppia un‟interpretazione della malattia di Freddy in termini di spavento”, in Nathan T., L’influence qui guérit, ed.Odile Jacob,Paris,1994,pag.173

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psichico è non solo di rendere coerente lo spazio sociale, ma anche di permettere agli individui di chiudere il loro spazio psichico: “ Une culture est une organisation transportable de l‟univers permettant à chaque membre d‟une société donnée de percevoir le monde sur le mode de l‟evidence, comme naturel, comme allant de soi. Quoique d‟origine externe à l‟individu, cette structure permet avant tout de se mouvoir, de penser, d‟aimer et de travailler en évitant frayeur et perplexité. Il existe toujours une pensée capable de rendre compte des désordres et des douleurs ».4 Se il ruolo della cultura é di assicurare l‟esistenza del gruppo in quanto tale, quindi la sua chiusura, l‟apparato psichico ha la stessa funzione per l‟individuo. E come nello sviluppo psicologico, l‟apertura al mondo è legata alla chiusura del mondo interiore, il cui primo indice è la capacità di dire no!, anche per il sistema culturale avviene la stessa cosa.

Il rapporto tra psiche e cultura è ridondante: “il existe par chaque individu deux systèmes rédondants, ayant une structure homologue : l‟un d‟origine interne-l‟appareil psychique-, l‟autre d‟origine externe : la

4

“Una cultura é un‟organizzazione trasportabile dell‟universo che permette ad ogni membro di una certa società di percepire il mondo come evidente,naturale, che va da sé.Benché di origine sterna all‟individuo, questa struttura permette di emozionarsi, di pensare, di amare e lavorare evitando spavento e perplessità.Esiste sempre un pensiero capace di rendere conto dei disordini e dei dolori”, in Nathan T., L‟Influence qui guérit, ed Odile Jacob, Paris, 1994, pag.179

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culture »5. In che modo queste considerazioni sono legate con il caso di Freddy e l‟autismo? Per Nathan se il bambino autistico non arriva ad appropriarsi della lingua, che è il sistema di scambio generalizzato, è perché per motivi differenti per ognuno, ha dovuto effettuare la chiusura del suo universo psichico da solo senza potersi appoggiare sull‟altro sistema, quello culturale: “de manière plus brutale, cette proposition pourrai se formuler ainsi: un autiste est un enfant d‟humain qui, faute d‟inscription dans une culture, n‟a pu accéder à l‟humanité” 6

Questa ipotesi è molto innovativa e originale, Nathan sostiene che l‟autismo sia un problema di non inscrizione nella cultura: « in altri termini, quando ho a che fare con un bambino autistico, la questione che mi pongo non é per quale motivo questo bambino non parla ? bensì: quale lingua questo

bambino non parla? E come corollario: parla una lingua sconosciuta

quando non parla? e quale?”7 In effetti per alcune teorie africane questi bambini non vengono considerati bambini che non parlano ma piuttosto bambini che ancora dialogano con i loro antenati e che hanno relazioni con gli invisibili. Nathan è convinto di questa teoria sia per il fatto che nelle famiglie in migrazione capita spesso che uno dei figli soffra di

5

“esistono per ogni individuo due sistemi ridondanti, che hanno una struttura omologa: uno di origine interna, l‟apparato psichico, l‟altro di origine esterna:la cultura”, ibidem, pag.185

6

“in maniera più brutale, questa proposizione si potrebbe formulare cosi‟: un autistico è un bambino di umano che,mancante di inscrizione in una cultura, non ha potuto accedere all‟umanità”,ibidem, pag.185

7

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autismo, sia per la capacità che l‟approccio etnopsicoanalitico ha avuto di modificare queste patologie.

Continuiamo con il caso di Freddy. Alla seduta successiva i genitori di Freddy sono affranti perché non hanno notato nessun miglioramento. E‟ la mamma di Freddy che comincia a parlare e a proposito della proposizione che Nathan aveva fatto durante l‟ultima consultazione e cioé che il problema di Freddy si organizza intorno al tema dello spavento, racconta un avvenimento avvenuto quando Freddy aveva un anno. Un giorno passava l‟aspirapolvere in casa ed aveva aperto la finestra della stanza. Freddy (che non sapeva ancora camminare) era sul divano sotto la finestra. Ad un certo punto la madre si era accorta che Freddy si era arrampicato sul parapetto della finestra e vi si teneva a quattro zampe, sorridendo. La madre terrorizzata aveva cercato di mantenere la calma e gli si era avvicinata cautamente per paura che lui si spaventasse e cadesse. Quando gli fu vicina lo aveva acchiappato e gettato sul divano. Al ritorno a casa del marito, aveva raccontato l‟episodio anche a lui, il quale al solo racconto si era sentito morto di paura e da allora sogna spesso cadute. In quel momento del racconto Freddy che fino a quel momento aveva giocato con bicchieri e acqua nella stanza della consultazione , non cessando di esplorare i limiti tra

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contenente e contenuto, si avvicina alla mamma e le chiede di fare pipi. E‟ la prima volta che le parla e che la chiama mamma. La coppia parla e racconta episodi traumatici avvenuti nel loro passato, la madre racconta la morte di un suo fratello a cui era molto legata. Anche il fratello aveva doti straordinarie ed un giorno, poiché aveva l‟itterizia, un anziano gli aveva portato delle erbe da bere. Lui aveva detto a sua madre che quelle erbe erano avvelenate e che se le avesse prese il giorno dopo sarebbe morto. La madre credendo che lo dicesse per non prenderle lo costrinse a berle, e il giorno dopo era morto. Il padre di Freddy invece associa un altro episodio traumatico che ha a che fare con la violenza del proprio padre che spesso lo picchiava. Normalmente studiava in un collegio distante duecento chilometri da casa sua. Un giorno che si trovava a casa sua per il fine settimana non aveva i soldi per prendere l‟autobus per tornare in collegio. Aveva chiesto i soldi alla madre ma lei non li aveva. Si era quindi seduto su una poltrona, quando all‟improvviso, tornato il padre a casa, questo lo aveva colpito alle spalle con un bastone. Il giovane per il dolore e lo spavento era caduto dalla poltrona, ma si era subito rialzato ed aveva colpito a sua volta il padre. Il quale era caduto.

Mentre i genitori raccontano, Freddy fa un gioco con una co-terapeuta: bussa alla porta ed aspetta che la terapeuta gli dica: “avanti!” e lui entra.

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Ad un certo punto i ruoli si scambiano : è la co-terapeuta che bussa alla porta e lui risponde: “avanti!”. Il gruppo è molto sollevato dai progressi del bambino. Nathan sottolinea come sin dall‟inizio fosse risaltato che il quadro culturale in questa coppia era poco funzionale, tuttavia: “nous avons immédiatement signifié cette absence de soutien, normalement assuré par les représentations culturelles, dans notre formulation sur la frayeur. Apparemment, le message à été fort bien reçu puisque dès la seconde séance, l‟ensemble de la famille s‟était structuré autour du signifiant chute »8 La nozione di caduta é strettamente legata a quella di spavento : é per Nathan uno dei punti teorici certi della clinica etnopsicoanalitica: “les représentations d‟origine culturelle, les étiologies traditionnelles du malheur et de la maladie, tissées en systèmes, portent le sujet, y compris corporellement. Si soit du fait de la migration, soit d‟un violent traumatisme, soit encore d‟une marginalisation précoce, les systèmes étiologiques viennent à n‟être plus fonctionnels, le sujet ne peut que tomber ou être effrayé. Dans la frayeur , l‟âme n‟est plus portée ; dans la chute, c‟est le corps ! »9

Credo che sia questo il filo conduttore

8

“abbiamo subito dato un significato a questa assenza di sostegno, normalmente assicurata della rappresentazioni culturali,nella nostra formulazione sullo spavento. Apparentemente il messaggio è stato ricevuto molto bene poiché a partire dalla seconda seduta, tutta la famiglia si era strutturata intorno al significante caduta”, in ibidem, pag.191

9

“le rappresentazioni di origine culturale, le eziologie tradizionali del disagio e della malattia, intessute in sistemi, sostengono il soggetto anche corporalmente. Se, sia per la migrazione, sia per

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principale per cui Nathan ha costruito un dispositivo che si basa sul ristabilire le appartenenze originarie. Se la cultura crea come un involucro che permette lo scambio con il mondo esterno, e se la mancanza di questo porta alla non comunicazione, se questo involucro, anche se in precedenza costruito, viene lacerato a causa della migrazione che viene vissuta come evento traumatico allora un po‟ come succede per il bambino autistico, la clinica etnopsicoanalitica deve ricostruire questo involucro che è sempre quello originario per permettere al migrante la parola, la possibilità di parlare la sua sofferenza, altrimenti il migrante resta muto. E‟ sempre sulla scia di questa linea che Nathan esprime dei concetti molto forti che hanno scatenato varie polemiche in Francia. Egli parte dall‟idea che uno psichismo che non ha potuto articolarsi su una cultura funzionale è incline all‟assassinio selvaggio: “si mon hypothèse s‟avère exacte… il faut alors tout faire pour éviter à un peuple, une famille, un individu, la perte de la fonctionnalité de son cadre culturel”10

.

E‟ soprattutto per questo aspetto che Nathan ha suscitato un grande dibattito in Francia, partendo da questa costatazione: la perdita della

soggetto non può che cadere o essere spaventato. Nello spavento l‟anima non è più sorretta, nella caduta è il corpo!”,ibidem, pag.192

10“se la mia ipotesi si dimostra esatta… bisogna fare di tutto per evitare ad un popolo, una famiglia, un

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funzionalità del proprio quadro culturale provoca disastri, Nathan ha preso posizioni estreme e la sua pratica e il suo pensiero si sono radicalizzati portandolo a scrivere frasi molto provocatorie e estreme. Nel libro L’influece qui guérit , dopo aver inveito contro chi esporta nei paesi “altri” strumenti psicoterapeutici occidentali che distruggono i sistemi terapeutici locali esistenti da millenni e funzionanti, così scrive: “quel demiurge fou, quel alchimiste délirant est allé imaginer qu‟une famille pouvait, en l‟éspace de quelques années, abandonner un système qui avait assuré son homéostasie psychique depuis des générations, comme on dit, “s‟adapter” ou “s‟intégrer”? Je le sais d‟expérience que c‟est impossibile! Dans les sociétés à forte émigration, il faut favoriser les ghettos-oui, je le dis haute et clair- favoriser les ghettos afin de ne jamais contraindre une famille à abandonner son système culturel ». 11

Par 1.1Critiche e polemiche

Le posizioni e le frasi di Tobie Nathan hanno scatenato forti reazioni nel mondo francese, sono numerosi gli intellettuali che hanno criticato il suo lavoro ma tra tutti è soprattutto su uno che Nathan si sofferma, tanto da

11

“quale demiurgo folle, quale alchimista delirante ha immaginato che una famiglia poteva, nello spazio di qualche anno, abbandonare un sistema che aveva assicurato la sua omeostasi psichica da generazioni, come si dice adattarsi o integrarsi? Io lo so per esperienza che è impossbile! Nelle società a forte migrazione, bisogna favorire i ghetti, si, lo dico forte e chiaro, favorire i ghetti per non costringere mai una famiglia ad abbandonare il suo sistema culturale ” in Nathan T., L’influence qui

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dedicare il secondo capitolo del libro di Non siamo soli al mondo, “Psicoterapia e politica. Le poste in gioco teoriche, istituzionali e politiche dell‟etnopsichiatria” alle sue critiche: Didier Fassin12

. In effetti intorno ai suoi articoli si è scatenato un dibattito che ha coinvolto anche altri etnopsichiatri che hanno scritto a loro volta articoli di risposta alle critiche di Fassin, come per esempio Piero Coppo13. Riporto i contenuti delle critiche di Fassin rifacendomi al suo articolo “Les polithiques del‟ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des colonies africaines aux banlieues parisiennes” apparso nel numero di genaio-marzo 2000 della rivista L’homme. Uno dei punti fondamentali della critica di Fassin é quello del ruolo dell‟alterità nel dispositivo terapeutico di Nathan: “en somme, la question posée est celle de la signification politique d‟un dispositif d‟interprétation et de traitement de troubles mentaux et de déviances sociales qui constitue l‟altérité comme un indépassable horizon théorique et pratique »14. A questo proposito Fassin fa un paragone estremo: accosta il lavoro di Nathan a quello di John Carothers in Kenya.

12

Didier Fassin è antropologo,sociologo e medico. E‟ professore all‟università di Paris XIII. Conduce ricerche nel campo dell‟antropologia politica della salute.

13

Cfr. Coppo P., “Politiche e derive dell‟etnopsichiatria: note a margine di una polemica francese” in www.ethnopsychiatrie.net

14

“insomma,la questione posta é quella del significato politico di un dispositivo d‟interpretazione e di trattamento dei disturbi mentali e delle devianze sociali che pone l‟alterità come un orizzonte teorico e pratico insormontabile” in Fassin D., “Les polithiques del‟ethnopsychiatrie. La psyché africaine,des colonies africaines aux banlieues parisiennes”.in http://lhomme.revues.org

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Nel 1954 la Gran Bretagna nomina un medico per analizzare e comprendere i fondamenti del movimento Mau Mau legato all‟etnia kikuyu in Kenya. Questo medico, Carothers, era già stato direttore dell‟ospedale psichiatrico di Nairobi ed era una figura conosciuta all‟epoca dell‟etnopsichiatria coloniale. La sua ricerca prenderà il nome di The psychology of Mau Mau. Egli mette in relazione l‟evento della rivolta con la personalità dei Kikuyu e con gli sconvolgimenti emotivi causati dall‟incontro con la società occidentale, descrive i kikuyu come persone litigiose, insicure, sospettose. Persone che avrebbero sviluppato rancore nei confronti dei britannici per non essere riusciti a diventare come loro. Quello che giustamente Fassin fa notare è che in nessun punto dello studio di Carothers viene sottolineato l‟aspetto nazionalista della lotta dei Mau Mau e le rivendicazioni sulle terre di cui erano stati espropriati qualche decennio prima, né le ragioni politiche del movimento. La questione dell‟alleanza con il colonizzatore di Carothers e il fatto di sottolineare le connivenze politiche che ebbe la psichiatria con il colonialismo è riconosciuto dagli stessi etnopsichiatri. Piero Coppo nel suo libro, Tra Psiche e Culture, scrive: “forse è proprio questo il principale insegnamento che emerge dalle vicende della psichiatria prima coloniale e poi neo-coloniale. Medicina e psichiatria non vi appaiono

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saper fare neutri ma veicoli di visioni del mondo”15

.Fassin accosta il lavoro di Nathan a quello di Carothers soprattutto per il fatto che concentrandosi sugli aspetti culturali distoglie in qualche modo l‟attenzione dalle situazioni di disagio sociale, povertà, ecc. in cui versano gli immigrati e che può essere alla base del loro disagio: “En montrant que le trouble psychique dont souffrent les immigrés sont d‟origine culturelle, c‟est-à-dire, liés à la rencontre funeste entre des systèmes de pensées traditionnels et des mode d‟intelligence moderne, il place le registre étiologique sur un terrain consensuel que le mirage des procédures divinatoires, des interprétations surnaturelle et des thérapies rituelles rend plus attrayant encore. La combinaison de psychologisme et de culturalisme, ici teintée du merveilleux de l‟exotisme, permet d‟éluder non seulement les conditions concrètes d‟existence qui sous-tendent les expériences des immigrés et déterminent pour une large part les problèmes qui les amènent chez le médecin ou chez le juge, mais également l‟inadéquation des réponses qu‟il s‟agit précisément d‟occulter.. ». 16

Il problema é quindi per Fassin il rischio del

15

Coppo P.,Tra psiche e culture,ed.Bollati Boringhieri, Torino,2003,pag.23

16

« mostrando che i disturbi psichici di cui soffrono gli immigrati sono di origine culturale, cioè, legati all‟incontro funesto tra dei sistemi di pensiero tradizionale e dei modi di intelligenza moderna, egli pone il registro eziologico su un terreno consensuale che il miraggio delle procedure divinatorie, delle interpretazioni soprannaturali e della terapie rituali rende ancora più attraente. La combinazione di psicologismo e culturalismo, qui tinta del meraviglioso dell‟esotismo, permette di eludere non solo le condizioni concrete di esistenza che sono alla base delle esperienze degli immigrati e determinano in

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superamento della questione politica attraverso il ricorso allo psichismo e alla cultura nelle spiegazioni: “Pour Nathan, les Africains sont des Bambara, des Peuls et des Lari qu‟il faut soigner selon leur culture, mais jamais des immigrés en butte à des problèmes de titre de séjour, de logement, de racisme. De leur souffrance, il peut entendre ce qui relève d‟une acculturation posée a priori comme impossible, mais non l‟expérience concrète des difficultés juridiques, matérielles, sociales qui la sous-tend »17.Il punto fondamentale quindi é questo : porre attenzione alla questione della cultura, quando si affrontano i disagi degli immigrati, distoglie l‟attenzione dalla questione sociale.

Un‟altra critica mossa a Nathan da Fassin nel suo articolo e quella di essere un po‟ superficiale nelle sue conoscenze antropologiche sulle culture dei pazienti che cura: “ainsi est-ce au prix d‟un court circuit intellectuel radical qui suppose l‟Autre déjà connu, c‟est-à-dire réduit à quelques schèmes psycho cognitifs immuables et à quelques traits culturels génériques, et par conséquent non digne d‟être mieux connu,

larga misura i problemi che li portano dal medico o dal giudice, ma anche l‟inadeguatezza delle risposte che si tratta per l‟appunto di nascondere”Fassin D., “Les polithiques del‟ethnopsychiatrie. La psyché africaine,des colonies africaines aux banlieues parisiennes”.in http://lhomme.revues.org

17

« Per Nathan gli africani sono Bambara, Peul Lari che bisogna curare secondo la loro cultura, mai immigrati alle prese con problemi di permesso di soggiorno, alloggio, di razzismo. Della loro sofferenza,egli puo‟ ascoltare quello che deriva da un‟acculturazione posta a priori come impossibile, ma non l‟esperienza concreta delle difficoltà giuridiche,materiali, sociali che la sottintendono”, ibidem

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qu‟opère la séduction de l‟ethnopsychiatrie »18

e a queste critiche si associano anche altri che gli rimproverano di voler giocare al guaritore : « des guérisseurs ont a plein les banlieus » dice Fethi Benslama «si des émigrés viennent nous voir, c‟est parce que nous avons autre à leur proposer”19

.Per Aboubacar Barry non é in discussione l‟importanza di tenere in conto la cultura di origine e la lingua di questi pazienti per capire meglio e trattare meglio la loro sofferenza, quello che egli contesta è che questa costatazione ha portato a creare dei dispositivi terapeutici che si ispirano a pratiche dei guaritori della società tradizionali. Psicologi agiscono come se fossero marabouts. In

L’influence qui guérit Nathan scrive: “en dehors de certain dispositifs tel

que l‟os de poulet, la sorcellerie ou la transe, il est impossible d‟établir une relation de type psychothérapique avec des sujets originaires de cultures non occidentales »20 Aboubacar Barry contesta questa frase. Soprattutto per un motivo di tipo etico : “je suis psychologue et non marabout, et rien dans ma formation ni dans mon expérience ne me confère les compétences nécessaires à formuler des injonctions

18

« così é a prezzo di un certo corto circuito intellettuale radicale che suppone l‟Altro già conosciuto, cioè ridotto a qualche schema psico-cognitivo immodificabile e a qualche tratto culturale generico, e per questo indegno di essere conosciuto meglio, che opera la seduzione dell‟etnopsichiatria” ibidem

19

Fethi Benslama,tunisino, è psicoanalista e professore di psicopatologia all‟università Paris VII.Si interessa alle dinamiche che si manifestano all‟interno del mondo musulmano e tra questo è il mondo occidentale.

20

“al di fuori di certi dispositivi come l‟osso di pollo, la stregoneria o la trance è impossibile stabilire una relazione di tipo psicoterapeutico con soggetti originari di culture non occidentali”

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thérapeutiques. Je pense que si un psy estime que l‟état de son patient relève de la compétence d‟un tradithérapeute » le meilleur conseil qu‟il puisse lui donner, c‟est d‟un consulter un » 21

.

Il punto cruciale delle critiche resta comunque l‟uso che Nathan fa della cultura nel suo dispositivo. Quello che sembra venire fuori dal pensiero di Nathan è che il lavoro terapeutico con gli immigrati consiste nel recuperare il nucleo della loro cultura di origine, anche in quei casi dove , per es.i rifugiati, si è cercato di distruggere la cultura di appartenenza. Nathan non crede che nel suo fondo la cultura si possa distruggere completamente. C‟è sempre qualcosa che resiste e che può essere recuperata: “Haiti est un example typique, je veux dire, Haiti c‟est une histoire hallucinante: 500 ans après, le vaudou est intact. Alors quand on dit qu‟on détruit le noyau, quel noyau on détruit ? »22

Recuperare la cultura é importante perché : « Si la biologie et plus tard la psychanalise nous ont appris à tenir compte de la filiation d‟un sujet, l‟ethnopsychanalyse nous enseigne que ce qui est- du moins pour la thérapeutique- le seul référent maniable, c‟est son affiliation, c‟est-à-dire

21

. « io sono psicologo e non marabout, e niente nella mia formazione né nella mia esperienza mi dà le competenze necessarie per formulare delle ingiunzioni terapeutiche. Penso che se uno psicologo crede che lo stato del suo paziente ha bisogno delle competenze di un terapeuta tradizionale, il migliore consiglio che può dare, è di consultarne uno”, in Barry A., “Psy d‟étranger: le risque de l‟exotisme à deux sous » , www.survivreausida.net

22

« Haiti é un esempio tipico, voglio dire, Haiti è una storia allucinante, 500 anni dopo, il vudù è ancora intatto. Allora quando si dice che si distrugge il nucleo, quale nucleo si distrugge?”Marotte C.,Une clinique de l‟étranger: entretien avec Tobie Nathan”, in Filigr@ane,vol.8,n°2..

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le système par lequel il est fabriqué non en tant qu‟hypothétique humain universel, mais en tant qu‟humain concret, être de culture » 23

.Per Fassin anche se Nathan si oppone al razzismo, in realtà facendo della Cultura con la c maiuscola il cuore della sua teoria, utilizza comunque, secondo Fassin, il colore della pelle come marca di distinzione e si sofferma su un modo di stigmatizzare invertito ma sempre indicativo di un pensiero razziale: “les enfants de parents africains scolarisé en France deviennent des “janissaires blanchis dans les école républicaines”; ceux adoptés par des familles françaises, une fois devenus adultes “seront les plus insipides de tous le blancs”, quant‟ à ses collègues d‟Afrique formés dans les facultés de médecine, il sont qualifiés des psychiatres blanchis dans les universités”. Plus fondamentalement, dans les deux cas, la culture fonctionne dans la théorie comme un succédané de la race, puisque elle est une réalité collective attachée à l’individu et transmise par

hérédité » .24 (corsivo mio) Questa critica dell‟uso che Nathan fa

23

« se la biologia e più tardi la psicoanalisi ci hanno insegnato a tener conto della filiazione di un soggetto, l‟etnopsicoanalisi ci insegna che ciò che è –per lo meno- per la terapeutica- il solo referente manipolabile, è la sua affiliazione, cioè il sistema attraverso il quale è fabbricato non in quanto ipotetico umano universale, ma in quanto umano concreto, essere di cultura” Nathan T.; L’influence

qui guérit, Ed.Odile Jacob, Paris, 1994,pag.212

24

“i figli dei genitori africani scolarizzati in Francia diventano dei giannizzeri sbianchiti nelle scuole

repubblicane, quelli adottati da famiglie francesi, una volta divenuti adulti, saranno i più insipidi di tutti i bianchi,quanto ai suoi colleghi africani formati nelle facoltà di medicina, sono qualificati come psichiatri sbianchiti nelle università, fondamentalmente nei due casi, la cultura nella teoria funziona

come un succedaneo della razza, poiché è una realtà collettiva attaccata all‟individuo e trasmessa per eredità” Fassin D., “Les polithiques del‟ethnopsychiatrie. La psyché africaine,des colonies africaines aux banlieues parisiennes”. in http://lhomme.revues.org

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dell‟appartenenza culturale non appartiene solo a Fassin, sono tanti gli intellettuali francesi che hanno criticato in lui un uso troppo statico e rigido della cultura: Fethi Benslama, Elisabeth Roudinesco, anche Marie Rose Moro, che ha lavorato con Nathan dieci anni prima di separarsene e che gli riconosce di essere stato un pioniere e di averla convinta della pertinenza della cultura in clinica, ha creato una consultazione all‟Ospedale Avicenne di Bobigny dove si fa un uso della cultura meno rigido e si tiene in conto che “une femme Bambara dans une consultation de PMI n‟est pas une femme Bambara dans son village”25

. A queste critiche Nathan risponde dicendo che la sua proposta si pone sul versante opposto di un procedimento diciamo neocolonialista e scrive: “devant le constat de la mondialisation ,elle (la sua proposta) propose de nouvelles bases théoriques s‟interdisant de disqualifier les psychopathologies locales, se proposta de mettre en valeur les implicites théoriques de ces pratiques et de montrer qu‟elles peuvent fournir, elles aussi-et non pas elles seulement!- des solutions à des problèmes techniques rencontrés en tous lieux par les thérapeutes.”26

e aggiunge “direi che l‟etnopsichiatria non consiste- non è mai consistita- nella promozione di tecniche

25

Proprio quest‟anno in Francia a ottobre si è tenuto un convegno della rivista Autre, di cui è direttrice Marie Rose Moro,dal significativo titolo di : “Le metissage,a quoi sert en clinique?”

26

« davanti la costatazione della mondializzazione, propone nuove basi teoriche che si vietano di squalificare le psicopatologie locali, si propone di mostrare che queste possano fornire, -anch‟esse e non soltanto loro!- soluzioni a problemi tecnici incontrati in ogni dove dai terapeuti” in Nathan T., « L‟ethnopsychiatrie en butte aux néo-staliniens » in www.ethnopsychiatrie.net

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“tradizionali” presso pazienti migranti, proprio al contrario, essa è la pratica della diplomazia nell‟universo della psichiatria, è un modo di procedere che suggerisce di “approfittare” della presenza dei migranti per proporre una psicoterapia che rispetti i principi minimi della democrazia”

27

e il fatto di pensare il soggetto, in questo caso paziente, non come soggetto umano universale ma sempre costruito come caso dalla sua cultura di appartenenza e dai dispositivi terapeutici incontrati nel suo cammino ha fatto si che “Ci siamo progressivamente abituati a pensare che è preferibile dal punto di vista deontologico- ma anche più produttivo da quello tecnico-considerare i pazienti in quanto membri di un collettivo. Ancora una volta non si tratta di negare loro lo status di soggetto singolare, ma di costruire con loro uno spazio limitato,quello delle consultazioni, nel quale noi li pensiamo così. Se essi sono membri di un gruppo, diventa possibile fare apparire dei rappresentanti di questo gruppo che diventeranno così gli interlocutori dei terapeuti. Questo lo abbiamo imparato con i pazienti migranti che prima o poi oppongono il nostro modo di fare alla competenza del loro guaritore- reale o soltanto potenziale che sia”28 e per difendersi dalla critica che Fassin fa sull‟uso delle appartenenze così scrive, autocitandosi: “Ho constatato che era più

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Nathan T., Non siamo soli al mondo, ed Bollati Boringhieri,Torino, 2003,pag.77

28

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produttivo, più interessante (nel senso forte della parola) pensare le famiglie migranti ricche del loro passato culturale. Conosco naturalmente, l‟infinità complessità degli esseri e osservo anche i nostri migranti, a volte furenti contro le loro origini, i loro antenati e i loro dirigenti politici; curiosi anche dei loro ospiti, pronti a baloccarsi senza posa con l‟idea di fondersi con loro… non si tratta dunque in nessun modo di “ridurre il soggetto alla sua cultura”, oppure di “rinchiuderlo nella sua cultura”.29

Par 2.Appartenenza e questioni identitarie

Piero Coppo in un articolo pubblicato sul sito del Centro Devereux, “Politiche e derive dell‟etnopsichiatria: note a margine di una polemica francese” partecipa al dibattito scatenato da Fassin. Partendo dalla critica che quest‟ultimo fa all‟uso dell‟appartenenza culturale nel dispositivo di Nathan situa la questione in uno scenario preciso che è quello del fenomeno della globalizzazione: “lo schema più semplice è quello di una globalizzazione in corso, mondializzazione o occidentalizzazione, guidata dal‟egemonia culturale economica, finanziaria e militare dell‟Occidente e in particolare del suo polo nordamericano, che tende a imporre al resto del mondo (in modo da renderlo compatibile con il

29

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proprio funzionamento) il suo proprio specifico modello di organizzazione produttiva e sociale. Quasi come riflessi condizionati nascono movimenti che si rifanno alla Tradizione e al Passato in maniera rigida e difensiva.” 30 La problematica dell‟appartenenza si situa ad un crocevia, tra le strade che vi si intersecano una è quella che riflette sui rapporti tra culture e sui destini delle identità quando si incontrano. Coppo sembra abbastanza schierato, ci dice che da una parte c‟è un modello capitalista, globale, che attraverso strategie molto nascoste impone i suoi modelli e i suoi feticci e che rischia di fagocitare le altre culture. Ecco perché valorizzare le culture tradizionali, rinforzarle, innalzarle ad un rango paritario è molto importante. Coppo situa la questione dell‟appartenenza in un più ampio dibattito che è quello dell‟incontro tra culture e di quello che accade alle identità quando si incontrano. La questione è molto importante e mette in campo vari concetti: il concetto d‟identità, le dinamiche che si mettono in atto quando identità differenti si incontrano, le politiche attuate dai paesi di immigrazione rispetto alle modalità di accoglienza e i differenti esiti che sono venuti fuori dall‟incontro tra culture, meticciato, creolità, multiculturalismo, interculturalismo, ecc…Per quanto riguarda il

30

Coppo P., “Politiche e derive dell‟etnopsichiatria: note a margine di una polemica francese” in www.ethnopsychiatrie.net

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concetto di identità ,come abbiamo visto, Nathan è stato criticato da alcuni intellettuali francesi di fare un uso troppo statico, troppo rigido del concetto di cultura, un uso che non sembra considerare la natura fittizia delle identità e tutto il lavoro fatto da vari autori sulla decostruzione di questo concetto. Non è possibile in questo contesto analizzare o riprendere i numerosi lavori fatti intorno a questi temi, mi sembra interessante riportare qui però alcune parole tratte dal libro di Francesco Remotti, Contro l’identità, che mi sembrano riassumere in parte la questione: “l‟identità, allora, non inerisce all‟essenza di un oggetto, dipende invece dalle nostre decisioni. L‟identità è un fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell‟identità per adottarne invece una di tipo convenzionalistico…Detto in altri termini, l‟identità viene sempre, in qualche modo “ costruita” o “ inventata…l‟identità, si trova maggiormente a suo agio, risulta quanto meno più nitida e visibile, appare più facilmente garantita là dove si assimila e si separa, che non là dove si connette andando oltre i confini, superando le barriere (logiche o di altro genere), trans-gredendo limiti e divieti di accesso. Nelle reti di connessione (spesso confuse, non propriamente nette, talvolta aggrovigliate, in alcuni punti mancanti o lacerate) l‟identità è senz‟altro

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presente, ma lo è con difficoltà: la contrastano i fili che, in certi casi sotterranei passano sotto le linee di confine. Sono queste possibilità di connessione “trans-gressive” che diminuiscono la credibilità delle costruzioni dell‟identità” 31

. E‟ interessante che Remotti parli di connessioni perché questo concetto viene in qualche modo ripreso da Coppo quando parla del ruolo della terapia etnopsichiatrica rispetto alla questione dell‟incontro tra identità e tra culture: “Con il suo lavoro, il terapeuta può far sentire all‟umano smarrito che è pur sempre parte di connessioni ignorate, dimenticate, occultate dall‟ideologia dominante. Può così rimetterlo nell‟orbita delle continuità, in un percorso e relazioni di senso. Ciò che è fondante dunque non è un nucleo ontologico di cui si sarebbe solo persa la coscienza ma un insieme di connessioni attive nel presente, che possono essere occultate o interrotte dalle pratiche e ideologie diffuse, connessioni che si tratta non solo di scoprire, ma anche di riattivare, restaurare e, soprattutto alimentare”32

A chi lo critica Nathan risponde che in realtà anche lui considera le identità e le appartenenze come artificiali “D‟altro canto, checché ne dica Fassin, io penso proprio come lui che le appartenenze “culturali” o “etniche” siano artificiali costruite e di conseguenza in qualche modo

31

Remotti F., Contro l’identità, sagittari Laterza, roma-bari,1996, pag.9

32

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contingenti” 33

ma: “L‟appartenenza ad una cultura, nel senso dell‟etnopsichiatria, sarebbe dunque questa appartenenza che comprende la possibilità, quando necessario di convocare le “cause”, di convocare ciò che ha il potere non di “rispondere” alle nostre domande ma di catturarci, ciò cui si tratta allora di assegnare un nome per poter negoziare, affrontare con astuzia, commerciare. In questo senso la definizione della cultura non ha, qui, a che fare con il mettere alla prova (è una vera cultura? Chi ne risponde?) ma con l‟efficacia: dove sono quelli che sanno dare un nome a ciò che ti succede, e che hanno gli strumenti per convocare la “causa” di ciò che ti succede?”34 . Non importa la verità ontologica della cultura quanto piuttosto l‟efficacia terapeutica di questo concetto, Nathan continua: “L‟etnopsichiatria si interessa a questi “oggetti”, a queste “cose” e non all‟ “essere etnico” che non rientra nel suo campo. Tuttavia essa non può dimenticare che i soggetti di cui parlano gli antropologi, soggetti che da parte sua le capita di incontrare in tutt‟altro contesto, in particolare quello della richiesta di cure, sembrano pensarsi come “esseri etnici”, qualunque cosa ne dicano coloro che li descrivono nel quadro dell‟antropologia…Con il metodo clinico sviluppato dall‟etnopsichiatria, l‟importante non è distinguere il

33

Nathan T., Non siamo soli al mondo,Bollati Boringhieri,Torino,2003, pag.90

34

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vero dal falso di un pensiero, ma ciò che questo pensiero mobilita” 35. Questo aspetto viene sottolineato anche da Roberto Beneduce che nell‟articolo “Politiche dell‟ etnopsichiatria e politiche della cultura” (articolo inserito nel dibattito Fassin-Nathan) sottolineando il fatto che egli non sostiene la staticità delle identità culturali o della cultura e che ha presente il carattere fittizio della continuità storica o delle stesse comunità culturali, scrive : “possiamo procedere forse con maggiore consapevolezza fra questi mondi, fra queste appartenenze e queste identità: serie e fittizie ad uno stesso tempo; necessarie, irriducibili eppure promissorie, o addirittura intollerabili, come può accadere per ogni vincolo […]Radicati in miti lontani o inventati a partire da materiali spuri e recenti, “originari”e “contaminati” ad uno stesso tempo, questi mondi tuttavia generano strategie, interessi, sentimenti irrazionali di appartenenze mutevoli, forme impreviste di coerenza o di resistenza” , bisogna però tenere conto che “pur essendo state inventate, pur essendo oggi confutate da brillanti decostruzioni, queste identità producono

comunque effetti materiali e simbolici, rappresentazioni generatrici esse

stesse di ulteriori conseguenze. La sfida che essa (l‟etnopsichiatria) pone è la seguente: liberarsi dall‟ossessione delle origini (ossessione che nelle

35

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psicosi forse rivela la sua cifra più tragica) non significa ignorare quanto tale domanda abbia importanza né quando essa prende forma.”36

Per Beneduce la questione al fondo potrebbe essere questa: “che ruolo attribuire nell‟etnopsicoterapia a djinns, “spiriti dell‟acqua”, esperienze di possessione, sospetti di stregoneria, appartenenze a confraternite?”37

Per Beneduce bisogna assumere la natura di questi dispositivi, egli le pensa come machines à penser e machines à communiquer: “possiamo accontentarci qui di riconoscere proprio in questa loro natura di strategie per pensare il reale e l‟esistenza, di dispositivi atti a ri-pensare (dunque trasformare) e interpretare il mondo, i rapporti, i vissuti, i vincoli della vita quotidiana, uno dei tratti peculiari, forse quello più decisivo, della categorie e delle eziologie che definiamo abitualmente come “tradizionali”: dunque ancora una volta , non semplici credenze ma sofisticati dispostivi retorici, strategie cognitive con le quali (in quanto terapeuti) fare i conti sino in fondo”38 e ancora “ Se accettiamo questi caratteri della cultura e della identità culturale, se accettiamo che il lavoro clinico con gli immigrati non può sempre pensare di ricondurre al loro mondo culturale le ragioni della sofferenza, nello stesso tempo non si può però accettare che “i materiali costitutivi delle culture di

36 ibidem 37 ibidem 38 ibidem

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appartenenza siano immaginati come navi alla deriva o relitti affondati nell‟oceano della modernità”39

. La questione identitaria si immerge nella problematica dell‟incontro tra culture e nella questione dei rapporti di potere. Questo argomento diventa ancora più pregnante quando parliamo del fenomeno della migrazione all‟interno del quale si creano dinamiche peculiari alla situazione e dove la riflessione sui rapporti di potere intercorrenti tra le culture è fondamentale. Daniel Calin, pedagogo francese, nel suo articolo “Construction identitaire et sentiment d‟appartenance”, ci parla della rottura migratoria. Secondo l‟autore la dimensione sociale della nostra identità è assicurata da un sentimento di appartenenza a gruppi sociali più o meno ampi, nei quali la nostra genealogia ci ha inscritto, “l‟émigration comme tout changement important de la position sociale objective du sujet, met inéluctablement en cause les sentiments sociaux d‟appartenances, et partant de là le sentiment d‟identité.”40

Non sono solo le appartenenze sociali ad essere messe in causa dall‟emigrazione, ma anche i legami familiari, i ruoli, anche l‟identità sessuale. Spesso lo status della donna nel paese di accoglienza è molto diverso da quello del paese di origine. Per Calin il

39

ibidem

40“l‟emigrazione come ogni cambiamento importante della posizione sociale oggettiva del

soggetto,mette ineluttabilmente in causa i sentimenti sociali di appartenenze e a partire da lì, il sentimento di identità” in Calin D., “Construction identitaire et sentiment d‟appartenance » ,in www.daniel.calin.free.fr

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migrante reagisce a questa rottura migratoria in modi differenti che possono però raggrupparsi fondamentalmente in due posizioni, ugualmente pericolose. Da una parte può avvenire una negazione della rottura migratoria che si traduce con il cancellare la dimensione volontaria della partenza, la cancellazione del paese di accoglienza e l‟idealizzazione del paese di origine. Questa posizione impedisce al migrante di fare gli aggiustamenti identitari necessari per la sua vita nel paese di accoglienza ed è una posizione ancora più a rischio per la seconda generazione. Tutto sommato gli adulti hanno già costruito una identità di base, mentre i figli in un simile contesto non riescono ad inscriversi né nel paese di accoglienza né in quello di origine. L‟altra posizione rispetto alla rottura migratoria è esattamente l‟opposto. C‟è una volontà radicale di assimilazione al paese di accoglienza, anche questa attitudine è molto pericolosa: crea una rigidità psichica, estremismi e gravi problemi nella seconda generazione. Forse è un po‟ in quest‟ottica che Coppo scrive: “Là dove il processo individuale è fortemente impedito, è utile esaltare le dinamiche di autodeterminazione, compatibilmente con i tempi degli individui e del gruppo; viceversa in contesti dominati da auto rappresentazioni individualistiche, che tendono a rendere inconsapevoli, inaccessibili, e quindi non lavorabili,

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appartenenze e continuità, occorre rilevare l‟attiva presenza di forze sovra determinanti.”41

Solo che Calin alla fine del suo articolo sembra proporre una soluzione particolare all‟alternativa tra queste due posizioni e cioè “le passage d‟une logique d‟appartenance collective à une logique de trajectoire privée. Il s‟agit de substituer l‟histoire personnelle au lien culturel comme base de l‟élaboration de l‟identité sociale. Dans cette nouvelle logique, l‟inscription sociale du sujet n‟est plus assurée par une appartenance sociale imposée, mais par une histoire transgénérationnelle assumée »42.Al contrario Coppo sembra pensarla in maniera un po‟ differente : “se contestualmente alla critica della nozione di un‟identità forte, stabile e definitiva, non si mette in rilievo il ruolo fondamentale delle diverse appartenenze, si rischia di favorire la deculturazione e l‟omogeneizzazione” e poi ancora “Sostenere infatti solo la sovra determinazione o solo la libertà di autodeterminazione, senza mettere immediatamente in luce le continuità tra individuo, specie e ambiente, e la complessità delle relative relazioni, equivale a operare opzioni ideologiche più che a descrivere dinamiche reali”43

.In qualche modo la

41

Coppo P., Tra psiche e culture,pag.137,ed Bollati Boringhieri, Torino,

42

« il passaggio da una logica di appartenenza collettiva ad una logica di traiettoria privata. Si tratta di sostituire la storia personale al legame culturale come base per l‟elaborazione dell‟identità sociale. In questa nuova logica, l‟iscrizione sociale del soggetto non è più assicurata da un‟appartenenza sociale imposta, ma da una storia trans generazionale fatta propria” in Calin D.,Construction identitaire et sentiment d‟appartenance, in www.daniel.calin.free.fr

43

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posizione di Nathan è vicina a quella di Piero Coppo, è importante per il migrante recuperare la propria cultura di origine soprattutto quando arriva un momento della migrazione, in genere dopo molti anni, nel quale il migrante sente di perdere i suoi riferimenti culturali. Per Nathan la consultazione di etnopsichiatria permette al paziente di rappresentarsi il suo male nel sistema di pensiero della sua cultura di origine. Il che è fonte di sollievo: “au bout d‟une quinzaine d‟années en France, quand sa fille aînée, âgée de 8 ans, remplit pour lui les feuilles de Sécurité sociale, quand cet homme venu des Aurès, où son père et son grand-père ont vécu avant lui, voit l‟effet de la migration sur ses enfants, c‟est à ce moment-là qu‟il tombe de l‟échafaudage »44, l‟incidente é sintomo della sofferenza

dell‟esilio. Nel 1983 quando Nathan svolge le sue consultazioni nella protezione materno infantile; davanti alle psicosi puerperali di donne Bambara, Soninké ecc. fa la stessa constatazione: “Cette psychose survient à la deuxième ou à la troisième naissance, au moment où l‟ainé des enfants va à l‟école maternelle et de retour à la maison, fait des choses que sa mère n‟a jamais vues ! Comment ne se demanderait-elle pas quel enfant elle vient de mettre au monde ? Réponse : ton enfant a été

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“dopo quindici anni in Francia, quando la propria figlia maggiore, del‟età di 8 anni, riempie per lui i fogli della previdenza sociale,quando quest‟uomo venuto da Aurès,dove suo padre e suo nonno hanno vissuto prima di lui, vede gli effetti della migrazione sui propri figli,è in quel momento che cade dall‟impalcatura”

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échangé avec un enfant de djinn, il faut le rechanger. Cela, il faut le dire. Il faut aussi le faire, ou le faire faire ».45 Le analisi che Nathan fa della frammentazione che i migranti vivono ad un certo punto a causa della divisione tra due sistemi di riferimento sono molto condivisibili, ma la domanda è se è possibile dare risposte alternative a queste problematiche. Non è possibile far transitare il migrante verso nuove appartenenze? o per lo meno far venire fuori i conflitti che sono alla base del disagio avvertito dal migrante? Per Fethi Benslama la terapia potrebbe cercare di creare dei ponti tra i due aspetti della personalità: “le choix n‟est pas entre la culture d‟origine et la culture du pays d‟accueil, mais du coté de l‟intégration des identifications venant de ces sources. On n‟a pas à renvoyer un enfant Bambara né en France à la culture de ses parents, on n‟a pas à lui demander d‟être un bon Bambara, ou un Français idéal (qui décide ce qui est bon et mauvais?) mais à lui permettre de créer des passerelles entre les deux aspects de sa personnalité , à ne pas le mettre dans un rapport antagoniste. Bref l‟intégration n‟est pas à quelque chose, l‟intégration c‟est cette conciliation créative entre des poles

45

« questa psicosi arriva alla seconda o alla terza nascita, nel momento in cui il maggiore dei figli va alla scuola materna e ritornando a casa, fa cose che la madre non ha mai visto!Come potrebbe non domandarsi che figlio metterà al mondo? Risposta tuo figlio è stato scambiato con un figlio di un djinn, bisogna ricambiarlo.Questo, bisogna dirlo.Bisoga farlo, bisogna farlo fare.

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differents de son histoire”.46

Quindi creare dei ponti, invece che rafforzare una parte probabilmente realmente più debole.Per Coppo invece il ruolo dell‟etnopsichiatria è proprio quello di connettere, legare e non sradicare il paziente come farebbero le scienze occidentali: “L‟opzione di fondo di Nathan è dunque non di estirpare il paziente straniero dalla sua cultura e dal suo gruppo naturale di appartenenza (quello concreto-la famiglia, gli amici, i compaesani-e quello immateriale, ma altrettanto reale, degli antenati, delle entità invisibili raccontate dai miti e nelle narrazioni di fondazione) per poi includerlo, come in genere accade in psicologia e psichiatria, nei “gruppi statistici” di pazienti:i “i depressi” “gli anoressici”, i borderline ecc; bensì di costruire un saper fare nuovo, sotto l‟urgenza della sfida che incarnano i migranti, portatori di altre espressioni del dolore, di altri rimedi, di altre concezioni dell‟uomo e del mondo” 47. Per Coppo ha torto chi accusa l‟etnopsichiatria “di contribuire

a recludere i migranti nel loro passato, nelle culture di provenienza, o di promuovere politiche- il sostegno alle medicine tradizionali- che precludono l‟innovazione. Piuttosto si tratta di lavorare perché chi è in viaggio, chi intende oltrepassare il confine che separa un‟appartenenza da un‟latra, lo faccia nelle condizioni migliori, consapevole di ciò che è in

46

Benslama F., “que peut apporter l‟ethnopsychiatrie au travail social ? » in Lien Social,n°696 ,2004

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gioco, senza dover abbandonare la base di partenza prima di poter disporre di una nuova. Perciò si annette tanta importanza alla continuità e, al contrario, si vede il pericolo nelle rimozioni, nelle negazioni, negli oblii e nei tradimenti o ancor peggio, nello smarrimento, nello svuotamento dell‟avvenuta deculturazione”48

Tra individuo e comunità Nathan sceglie la comunità, cioè non considera gli individui come entità isolate ma come rappresentanti di gruppi. Questi gruppi possono essere visibili o non visibili, umani o non: “L‟etnopischiatria, per lo meno come la pratico io, è un pensiero psicologico che ha deliberatamente deciso di considerare le persone, il loro funzionamento psicologico individuale, le modalità delle loro interazioni a partire dai loro attaccamenti- attaccamenti multipli a lingue, a luoghi, a divinità, ad antenati, a modi di fare. Considerare gli esseri umani come esseri fondamentalmente “attaccati” ha sollevato opposizioni di tipo ideologico, soprattutto in Francia dove più che altrove, si pensa che una persona è tanto più “liberata” quanto più svincolata. Non, beninteso, che in Francia le persone siano più instabili, meno prese nella solidarietà femminile, nei pegni istituzionali, nei vincoli logici, ma piuttosto che la pressione ideologica obbliga chiunque a pensarsi prima di tutto senza legami e se,

48

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comunque se ne riconosce, a immaginarli liberamente e coscientemente contratti”49

. Aspetto conseguente per Nathan è che nel lavoro terapeutico, attraverso l‟uso delle eziologie tradizionali, che per come sono costruite tendono a riportare il soggetto al gruppo, alla comunità, di prescrizioni e rituali si ricreano quelle appartenenze che l‟evento migrazione rischia di distruggere lasciando l‟individuo senza un contenente culturale. Per quanto Nathan sottolinea un uso soprattutto strumentale delle appartenenze e della cultura di origine nel campo terapeutico e sottolinea spesso che questo non significa credere in una appartenenza rigida e immutabile e per quanto spesso abbia rivendicato che questi discorsi hanno a che vedere con la tecnica e non con questioni politiche, in realtà è difficile pensare che la sua posizione, anche se condivisibile,possa essere solo una questione tecnica e non porti con se anche questioni politiche, per Beneduce le implicazioni politiche dell‟etnopsichiatria appaiono abbastanza chiare: “Le dinamiche migratorie e la genealogia stessa dell‟etnopsichiatria trascinano,infatti immediatamente il dibattito intorno a concetti come “identità etnica”, „cultura‟, „alterità‟, „appartenenza‟, „strategie di cura dei cittadini stranieri” Beneduce si chiede: “che cosa rende oggi l‟etnopsichiatria un territorio così conteso e

49

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conflittuale? Perché parlare di cultura in rapporto alla sofferenza e agli stili di cura rischia di generare accuse di razzismo?50 Secondo Beneduce la natura politica dell‟etnopsichiatria le è in qualche modo connaturata e al contrario di quello che pensa Nathan se l‟etnopsichiatria si trova in uno “stato di guerra” riprendendo una sua espressione non è “malgré soi”: è la sua storia che ce ne mostra le ragioni e riconoscere le radici politiche presenti nella genealogia di questo sapere e di questa pratica è fondamentale per sciogliere alcuni nodi e guardare al presente…in questo movimento di autoriflessione critica, l‟etnopsichiatria, quanto meno quella che più mi sembra adeguata allo spessore dei problemi evocati, si trova nella necessità di interrogare altre discipline, lavorando gomito a gomito con l‟antropologia e l‟etnologia, come è ovvio, ma anche con la storia. E la storia dei rapporti fra esperti dello psichismo e culture non occidentali è preziosa per comprendere perché l‟etnopsichiatria, per quanto paradossale ciò possa sembrare, non occupi sempre la posizione migliore per dire qualcosa sull‟ Altro culturale.” 51

Come già fatto notare da Fassin , Beneduce sottolinea come spesso l‟etnopsichiatria sia stata alleata, forse a volte inconsapevolmente, del potere e oltre a menzionare il caso di Carothers ricorda anche lo studio fatto da Octave Mannoni sui

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Beneduce R., “L‟etnopsichiatria della migrazione fra eredità coloniale e politiche della differenza”, materiali di studio per seminari formativi rivolti agli operatori penitenziari

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malgasci, dove le buone intenzioni non sono comunque state sufficienti per assicurare un uso legittimo delle nozioni di cultura e identità. Per questo autore l‟etnopsichiatria, oltre a problematizzare le questioni già menzionate deve anche tenere in conto un altro asse dei rapporti tra culture che è quello del colonialismo, bisogna infatti tenere in conto di “quanto la categoria di “situazione coloniale” si riveli utile nel nostro orizzonte teorico e quanto rimanga attuale per analizzare fenomeni del presente (primo fra i quali proprio la questione migratoria) ed è davvero stupefacente il fatto che molti ricercatori ignorino ancora oggi tali contributi nelle loro speculazioni su quello che è o dovrebbe essere l‟etnopsichiatria”52

e ancora: “fermiamo la nostra attenzione per un instante su questo aspetto: la “cultura”, il confronto fra “culture locali e culture straniere, sono stati usati per dissimulare o ridefinire come

culturali conflitti e comportamenti che sono di altra origine o quanto

meno hanno anche altre radici, prima fra tutte quella del dominio coloniale. Questo (ab)uso del termine “cultura” rappresenta qui il problema maggiore”53

.Un etnopsichiatria critica deve saper guardare alla radice culturale delle nostre e delle altrui categorie, deve considerare i contesti in cui vengono costruite le differenze e le rappresentazioni

52

ibidem

53

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dell‟alterità. Per Beneduce l‟etnopsichiatria, in Italia come altrove, corre però il rischio di rimanere prigioniera di dispute infinite: “è legittimo costruire servizi rivolti ad immigrati con disturbi psicologici nei quali gli operatori abbiano competenze etnopsichiatriche specifiche o si rischia in questo modo, di riprodurre soltanto dei nuovi ghetti? L‟uso dei riferimenti ai sistemi terapeutici tradizionali evidenzia solo un ostinato esotismo da parte di taluni psicoterapeuti o si rivela davvero efficace nella cura di alcuni immigrati? Il ricondurre alla cultura d‟origine il senso della sofferenza di un immigrato si rivela una strategia tecnicamente fondata o, nella sua persistente ed inconfessata nostalgia, finisce con ridurre in modo inaccettabile la libertà dello stesso paziente, la sua soggettività?”54

Tuttavia è importante continuare ad interrogarsi e a problematizzare la questione,è importante continuare a riflettere sulle dimensioni culturali e simboliche dell‟esperienza del soffrire e del curare, perché queste azioni “possono diventare, en soi, strategie utili a contrastare un modello di cura o di interpretazione che non è pertinente o sufficiente”.

54

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Par 3. Appartenenza e autonomia

Abbiamo visto che Nathan, nel suo dispositivo terapeutico, sceglie di considerare l‟individuo come appartenente ad un gruppo. Questo punto è fondamentale anche per una differenza tra le terapie tradizionali e quelle occidentali: le terapie tradizionali ristabiliscono i legami con il gruppo e le appartenenze mentre quelle occidentali concentrano la responsabilità della sofferenza nel soggetto e in questo modo lo separano dalla comunità. Nel suo libro Medici e stregoni a proposito del legame tra il sintomo e la persona, tipico delle terapie occidentali e parla delle conseguenze di questo legame e scrive: “la prima è che, saldando il sintomo alla persona, la si separa dai suoi simili. Quando la persona è tutt‟uno con il suo sintomo diventa diversa dai suoi congiunti (padre, madre, fratelli), perdendo le sue appartenenze familiari,etniche e linguistiche” 55

e ancora “la conseguenza dell‟applicazione di un “pensiero selvaggio”, nella presa in carico di un disturbo, è sempre quello di dissociare il sintomo dalla persona. E per raggiungere quest‟obiettivo…tutti i “pensieri selvaggi” da me conosciuti ricorrono ad un medesimo grande principio: l’attribuzione di intenzionalità

55

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all’invisibile.”56

.In “Six principes d‟ethnopsychiatrie” approfondisce

questo punto a proposito dei sogni, nelle teorie tradizionali i sogni sono la materializzazione di una comunicazione tra due universi, quello umano e quello degli invisibili non umani. La teoria psicoanalitica ha fatto sparire dal sogno gli invisibili, il sogno è sempre la materializzazione della comunicazione tra due universi ma questi sono frammenti della persona del sognatore: “il s‟agit donc bien du meme type de processus que postulent les systèmes traditionnels, seulement privés de leur invisibles non humains. Mais les conséquences techniques sont radicalement différentes. S‟il n‟existe pas de non- humains, l‟interprétation d‟un rêve engendrera toujours la désocialisation du rêveur qui sera ramené à ses désirs propres (sexuels, ambitieux ou meurtriers) et toujours contre son groupe. Alors qu‟une interprétation du rêve en fonction des invisibles conduit toujours la personne à des pratiques rituelle qui le lieront davantage à son groupe d‟appartenance. Entre les mains d‟un guérisseur un rêve est une contrainte à la solidarité, entre les mains d‟un psychologue, une invitation aux « plus hautes solitudes »57.

56

Ibidem, pag.55

57

« si tratta, certo, dello stesso tipo di processo che postulano i sistemi tradizionali, solamente privo dei suoi invisibili non umani. Ma le conseguenze tecniche sono completamente differenti. Se non esistono dei non-umani, l‟interpretazione di un sogno provocherà sempre la de socializzazione del sognatore che sarà riportato ai propri desideri (sessuali,ambiziosi, omicida) e sempre contro il suo gruppo .Invece una interpretazione del sogno in funzione degli invisibili conduce sempre la persona a pratiche rituali che lo legheranno di più al suo gruppo di appartenenza. Nelle mani di un guaritore un

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Questa posizione di Nathan e cioè recuperare in qualche modo il filo che lega alla propria cultura d‟origine, recuperare la propria appartenenza, ha un senso molto comprensibile all‟interno dello scenario rievocato da Piero Coppo e descritto nel paragrafo precedente, e cioè un modello che oppone una cultura dominante, quella occidentale e le altre culture che in modi spesso subdoli vengono assorbite nel modello occidentale.Tutto ciò ha ancora più senso se inserito in un contesto come la Francia dove viene portata avanti una politica assimilazionista, che chiede allo straniero, per essere integrato nella società, di rinunciare ad ogni segno di riconoscimento e di appartenenza, come ha dimostrato il dibattito sull‟uso del velo da parte delle studentesse islamiche nelle scuole. Su questa politica assimilazionista giustamente Nathan si chiede: perché obbligare a mettere i propri antenati e i propri oggetti nel cassetto?

Ma che spazio trovano nel dispositivo di Nathan quelle soggettività che sono oppresse nelle loro culture, per le quali essere ricondotte alla loro cultura di origine vuol dire rimetterle in contatto con un mondo di oppressione? Che spazio trovano nel suo dispositivo le istanze libertarie dell‟individuo? Beneduce scrive che anche se a volte gli argomenti di Nathan sono discutibili, non è il solo nell‟aver idea di non voler

sogno è una costrizione alla solidarietà, nelle mani di uno psicologo, un invito alle più alte solitudini” Nathan T., “Six principes d‟ethnopsychiatrie », in www.ethnopsychiatrie.net

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dismettere in maniera troppo frettolosa la nozione di cultura ed appartenenza culturale nella cura dei migranti. Però Beneduce sembra anche tenere conto delle necessità di autonomia che a volte nascono nei migranti, e mette in risalto le problematiche legate a questioni di appartenenza, identità, autonomia che i migranti si trovano a dover affrontare nella costruzione di una nuova identità nella migrazione: “ queste donne e questi uomini, che si situano nel mezzo di una ricerca incessante di un senso delle proprie appartenenze e dei contradditori legami con la propria famiglia e con la propria terra, mostrano anche una sofferenza, un‟inquietudine particolari. Messe da parte le ragioni economiche e sociali, le violenze ed i conflitti che hanno contribuito a generarle e che non devono mai essere trascurati ( nel senso che non possiamo evitare di pensare a tutto questo nel nostro dispositivo di cura e per ciò stesso non possiamo evitare di agire su di essi) quella sofferenza e quell‟inquietudine rivelano come la fatica di costruire una giusta relazione fra sé e le proprie identità, o meglio una giusta distanza fra il mondo del presente e quello degli antenati, fra i propri desideri e le attese della famiglia, fra la volontà di autonomia e i vincoli opachi ma non meno forti: una distanza che è impossibile costruire nella solitudine (psicologica,simbolica o epistemologica e che necessita di quel confronto

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