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ma in un senso che non riguarda direttamente una connessione con il potere, quanto piuttosto un’attitudine

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

1. Identità e differenza nell’esperienza letteraria: genesi di una critica contrappuntistica

Edward W. Said, nato a Gerusalemme Ovest nel 1935 e morto a New York nel 2003, è senza dubbio uno degli studiosi contemporanei più conosciuti; il suo lavoro ha influenzato profondamente l’approccio critico alla letteratura, proponendo non tanto una nuova metodologia, quanto una nuova ottica in cui inserire lo studio dei testi e degli autori classici, abbattendo le barriere interdisciplinari tra i diversi ambiti della cultura.

Portata avanti per tutto il corso della sua opera, questa linea di pensiero raggiunge la sua massima formalizzazione venendo infine denominata, in maniera alquanto evocativa, come teoria contrappuntistica: espressione di una metaforica unione di musica e critica letteraria in un unico concetto.

In ambito internazionale, il suo nome è però principalmente legato principalmente a due fattori: alle due opere Orientalismo e la successiva Cultura ed imperialismo, spesso percepita come un seguito o un ampliamento; e l’attività in favore della causa palestinese a cui Said non si è mai stancato di prendere parte, pur con modalità e ritmi differenti, fino alla morte. A ciò deve un certo interesse che lo ha reso un “intellettuale pubblico”, definizione forse un po’ datata ma non del tutto scorretta, a patto che venga privata della sfumatura limitativa che queste due parole assumono in alcuni contesti politici1.

La politica è certo parte integrante del suo pensiero; ma in un senso che non riguarda direttamente una connessione con il potere, quanto piuttosto un’attitudine. L’interpretazione del termine

“politico” si richiama direttamente alla sua etimologia greca, ponendo pertanto l’accento su una sfumatura etico-sociale. Said rivendica con decisione la presenza di una disposizione al politico così inteso, all’interno non solo della propria opera ma di qualsiasi teoria scientifica, anche la più

1 Cfr. a proposito J. A. Buttigieg, Prefazione a Cultura e imperialismo, Gamberetti editrice 2006

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rigorosa ed impersonale: nella sua visione il sapere è fortemente condizionato dalle idee, o, come egli le chiama, dalle circostanze in cui si trova ad essere l’autore, obiettando pertanto l’impossibilità di rendere un pensiero apolitico, poiché nell’impostazione stessa di qualsiasi studio è presente un contributo, un’imparzialità. Ciò che non deve necessariamente leggersi come un difetto, ma come una costituzione imprescindibile della produzione di sapere.

Diviene quindi indispensabile scardinare il pregiudizio di un sapere “obiettivo” come maggiormente aderente al vero: una finzione, che risulta se protratta deleteria soprattutto in quell’ambito scientifico compreso nella vasta e talvolta malleabile denominazione di scienze umane.

Per quanto diverse tra loro, esse si prefiggono lo scopo condiviso di studiare l’uomo. Ma in un momento storico delicato come quello della decolonizzazione , in cui emergono nuovi studi e nuove prospettive, si ha una forte percezione di venire per così dire “liberati” dalla necessità di un unico punto di vista, e diviene lecita la domanda: “Quale uomo?”. Poiché questa tradizione scientifica risulta essere fortemente europea, ne conseguirà un’impostazione eurocentrica; in un sapere che studia e determina le modalità del rapporto tra una cultura e le altre da essa differenti, accumulandone le conoscenze, ciò comporterà l’immissione di un certo numero di rappresentazioni.

Esse non sono affatto nascoste, né dissimulate: per chi si accinga a riconoscerle, la loro presenza è evidente nel linguaggio, nella terminologia di cui questi studi si compongono. Da questo presupposto si sviluppa la ricerca sull’immaginario figurativo e concettuale che soggiace al concetto di “Oriente”, un Oriente creato come opposizione in riferimento ad un’identità, prendendo come riferimento l’identità occidentale. Orientalismo è il prodotto di questa ricerca che prende in esame il florido campo degli studi orientali, i cui confini sono difficilmente delimitabili.

La tesi portata avanti nell’opera è l’inesistenza di questa opposizione, se non appunto come rappresentazione tra culture. Tuttavia, essa è fortemente radicata nel linguaggio stesso, il cui potere risulta talvolta difficilmente sormontabile per lo stesso Said, che non sempre riesce a fare a meno di adoperare i due concetti, spesso proprio opponendoli tra loro. Un paradosso che non è sfuggito né ai

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suoi critici, né a lui stesso: Cultura e imperialismo è, in parte, il tentativo di superare la tendenza alla schematizzazione tra due poli di identità e alterità, parole che, insieme con differenza, sono venute ad assumere un valore “talismanico”, come lo definisce lo stesso Said2, per sostituirvi una relazione di reciprocità e continuo rimando, secondo una metafora musicale, di polifonia, da lui molto amata.

Cultura e imperialismo segna inoltre il superamento di un’influenza che si può riconoscere all’interno del lavoro di Said fin dai primi saggi critici: l’influenza delle teorie di Foucault.

In Orientalismo si può affermare che quest’influenza si riveli in tutta la sua potenza: l’analisi della scienza orientalistica è svolta interamente nel segno delle due concezioni di rappresentazione (l’Oriente, appunto, come immaginario collettivo europeo) e discorso (l’insieme delle nozioni che dell’Oriente compongono la scienza, sedimentate in nome di un duplice criterio di autorità e tradizione).

Nelle premesse stesse di una ricerca archeologica, volta ad indagare la storia di queste rappresentazioni e discorsi, ci si vuole richiamare al Foucault dell’Archeologia e di Le parole e le cose, ma altresì, nel voler tracciare la storia di un rapporto in cui l’orientale assume la funzione dell’Altro, del diverso, oggetto di studio e sperimentazione, lo studioso palestinese ha senz’altro in mente Storia della follia e l’analisi dei meccanismi di controllo di Sorvegliare e punire.

Richiami foucaultiani, per l’appunto, ed in quanto tali sono stati perlopiù trattati dalla critica, che si è concentrata maggiormente nell’aspetto polemico dell’opera.

Nel lavoro che seguirà, si sostiene invece una lettura di Orientalismo come tentativo di continuare la ricerca di Foucault, secondo una libera interpretazione della sua metodologia, in un ambito di cui egli non si è mai occupato, e che agli occhi di Said risulta essere, al contrario, un terreno particolarmente ricco per formulare una ricerca in questi termini.

2 Cfr. Rappresentare i colonizzati. L’antropologia e i suoi interlocutori. In Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture ed altri saggi, Feltrinelli 2008

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Orientalismo in quest’ottica rappresenta così uno studio sperimentale, applicazione pratica di una teoria che si delimita nei confini di un’indagine rivolta all’interno della propria società, quella europea; Said la utilizza per trascendere tali confini, incentrandosi sul rapporto che lega quella società, scrutata così a fondo, con l’Altra, suo eterno sfondo, margine bianco del suo discorso.

L’evidente volontà di ricollegarsi al lavoro foucaultiano è ed è stata spesso trascurata in nome di una lettura più direttamente autobiografica, che connette l’origine arabo-palestinese dello studioso e il suo successivo dislocamento negli Stati Uniti, ma soprattutto il coinvolgimento in prima persona nell’evolversi del conflitto arabo-israeliano. Orientalismo è spesso sovrapposto a La questione palestinese, pubblicato quasi in contemporanea, così come vi è una certa tendenza a leggerne la tesi come un atto di accusa diretto, in realtà, verso il sionismo. Se questo elemento ha in qualche modo una certa rilevanza in alcuni tratti dell’opera, poiché non è semplice, talvolta nemmeno possibile, scindere la componente autobiografica dalla trattazione prettamente critica dell’autore, questa lettura appare tuttavia eccessiva. L’accenno al sionismo, così come ad una certo tipo di politica estera statunitense, esprime una volontà di operare un continuo confronto con i risultati della propria ricerca e la società, la contemporaneità, quello che viene da Said definito dal concetto di mondano mutuato da Vico, altro importantissimo riferimento in ambito critico.

Questo continuo rapportarsi ai fatti ed avvenimenti del mondo è per Said una prerogativa che è stata non di rado vista come un difetto, così come la scelta di un linguaggio estremamente chiaro e diretto, finalizzato, come nota lui stesso ironicamente, a “trasmettere il senso di una scoperta, non di una sorta di illuminazione religiosa e segreta3.” La scelta di espungere l’astruso, l’astratto e l’eccessivamente tecnico in nome di un linguaggio semplice e lineare, espresso quasi prosaicamente, insieme ad un’esposizione tesa a ribadire i concetti, limandoli il più possibile a beneficio della loro comprensibilità, ha senza dubbio contribuito ad un’ambigua ricezione da parte di chi, soprattutto nell’ambito della scuola critica americana, è stato abituato ad un tipo di

3 E. Said, Umanesimo e critica democratica, il Saggiatore 2007

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linguaggio più criptico, meno esplicito; ciò può aver comportato in alcuni casi una sottovalutazione di molti dei lavori saidiani.

La scelta di Said in questo senso è però testimoniata dalla centralità che il linguaggio stesso riveste all’interno della sua critica. Il linguaggio è rappresentazione, è identità (o alterità); è resistenza, nelle differenti forme in cui esso si manifesta come elaborazione di un nuovo modello di pensiero, forme tanto diverse da accomunare la parola di Mallarmè, la neolingua di Orwell, le trattazioni di Fanon, e così via; è altresì dominio, nella misura in cui l’autore lo adopera per imporre la propria autorità sulla pagina. Non necessariamente il linguaggio, per essere critico, deve essere lineare: lo dimostra l’esempio di Adorno. Tuttavia, poiché lo stesso Said lo riconosce un esempio

“difficilmente eguagliabile” e poiché, come stigmatizza in polemica con Judith Butler, “chi usa un linguaggio involuto non è necessariamente un Adorno4”, egli preferisce un diretto riferimento alla realtà.

Vi arriva però in una seconda fase: nei due saggi più propriamente di critica letteraria quali sono Beginnings e The World the Text and the Critics si assiste all’utilizzo di un linguaggio non oscuro, ma fortemente legato alla psicologia, soprattutto nei due termini di filiazione ed affiliazione su cui ruota la descrizione del movimento modernista in arte e letteratura.

La psicologia e Freud esercitano su Said un’attrazione mai del tutto dichiarata, cui torna saltuariamente, finanche negli ultimi anni di attività (la pubblicazione delle sue ultime conferenze su Freud, “Freud and the Non-European5”, risale al 2003); c’è qualcosa di freudiano nella struttura stessa della sua opera, nell’interessarsi principalmente ad autori che condividono con lui l’esperienza della lontananza e dell’esilio o comunque di un sentimento di estraneità, della mancanza di una propria autentica dimensione; un sentimento che egli descrive come un “sentirsi sospeso tra due mondi”, o due differenti personalità: nel parlare di se stesso, come nel caso della sua autobiografia, egli si riferisce talvolta ai “due Edward” in lui.

4 Ibidem

5 Nel presente lavoro si è utilizzata la versione francese Freud et le monde extraeuropéen, Le serpent à plumes 2004

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Un’affinità percepita in larga misura in un autore come Conrad, i cui testi analizza proprio in questo senso, svolgendo un’indagine su quanto di questa estraneità ne influenzi l’opera e la scrittura stessa, la dimensione personale che entra nel testo: l’esperienza dell’autore.

Il concetto di esperienza è a tal punto fondamentale nella critica di Said da poterla definire una vera e propria “critica dell’esperienza”; un’altra espressione che si ritrova di frequente nel suo lavoro è quella di “esperienza (o esperienze) di letteratura”.

È un’espressione con cui ci si vuole riferire certo al bagaglio di circostanze che accompagna il lavoro di ogni autore; ma il suo significato non viene limitato a questo. Il concetto di esperienza saidiano assume una funzione che parrebbe fenomenologica, infradimensionale; funzione che, già delineata nel 1978 in The world the Text and the Critics, è destinata ad accentuarsi fino a risultare in Cultura e Imperialismo come l’elaborazione di un “sistema aperto” della letteratura, suscettibile di

“interferenze” da parte di altri campi culturali e artistici, in primis proprio la musica.

Non di rado Said si serve di una terminologia presa in prestito dal contesto musicale e operistico, trovandovi una maggior aderenza ai concetti da lui esposti: è il caso della teoria contrappuntistica, approccio critico così denominato in Cultura e imperialismo, ma di cui si può seguire la costituzione a partire dalle formulazioni di Beginnings: Intention and Method.

La teoria contrappuntistica è la definizione ultima di questo “sistema aperto” delineato dal professore palestinese. Esso si sviluppa su questi due livelli qui accennati.

Il primo fa riferimento ad una dimensione di spazio/tempo in cui si dispiega una relazione fra opere e autori, connessi tra loro proprio attraverso l’esperienza. Si tratta di una rete di rapporti formato dal nucleo di conoscenze e cultura che ogni autore condivide con i propri predecessori, in un ciclo continuo di ripetizione ed originalità. Nel riflettersi, all’interno di una teoria, delle elaborazioni che l’ hanno preceduta, siano esse rifiutate o accettate e, soprattutto, siano esse riflesse in maniera conscia o meno, si crea un’interrelazione contestuale tra le opere, che permette a ciascuna teoria di venire riletta e rielaborata in relazione al proprio contesto: “Per comprendere un testo letterario bisogna comportarsi come se fossimo gli autori di quel testo, calandoci nella realtà dell’autore,

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passando attraverso lo stesso tipo di esperienze e così via, e avvalendoci di quella combinazione di erudizione ed empatia che contraddistingue l’ermeneutica filologica. In questo modo (…) il confine tra gli eventi reali e la rielaborazione mentale che li modifica si fa indistinta. Questa debolezza, in qualche modo tragica, della conoscenza umana e della storia, è tuttavia una delle contraddizioni irrisolvibili che sono parte integrante dell’umanesimo stesso: non si può prescindere dal ruolo del pensiero nella ricostruzione del passato, ma, nello stesso tempo, il pensiero non può essere fatto coincidere con il reale”6.

Questa reciprocità più storica che psicanalitica si ricollega direttamente all’idea molto potente, per Said, di Traveling Theory: la disponibilità di una teoria ad essere soggetta a “revisione, ripensamento, rivitalizzazione”, arrivando ad essere applicata in ambiti molto diversi da quello di partenza; giudicare l’adeguatezza di questo “viaggio” è compito che spetta in parte all’autore, ma soprattutto a coloro che con essa avranno a che fare. L’obiettivo è quello di rendere possibile un superamento dei concetti di tradizione culturale, intesa in un senso fortemente restrittivo, e dell’autorità stessa, nella sua forma di dominio dell’autore sul proprio testo.

Il secondo livello è in una direzione che si potrebbe metaforicamente definire orizzontale:

riguarda il coinvolgimento di più ambiti artistici, come tentativo di abbattimento programmatico delle barriere che vengono frapposte fra discipline. L’obiettivo polemico è la specializzazione eccessiva, soprattutto in ambito accademico, che è posta inevitabilmente in contrasto con la concezione di “umanistica” cui si rifà lo studioso: il contesto del sapere cui si riferisce Said è certamente quello particolarmente settorizzato di un certo tipo di scuola nordamericana. Ad esso egli oppone non solo una concezione “alternativa” di studio, ma altresì un modello intellettuale cui viene attribuito uno specifico ruolo sociale: un archetipo, di cui si tenta però in ogni misura di evitare un’astrazione, riscontrandolo in esempi prettamente pratici di applicazione nell’opera di vari autori. Questi, tanto diversi fra loro quanto possono esserlo Vico e Foucault, Adorno e Lukàcs,

6 E. Said, Umanesimo e critica democratica, op. cit.

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condividono però una continua formulazione e applicazione di istanza critica, intesa sia come opposizione e resistenza, sia come creazione di nuovi spazi di pensiero.

La questione del ruolo dell’intellettuale è il vero leitmotiv dell’opera saidiana, cui contribuisce a dare un’immaginaria forma circolare, pur se non chiusa: è la problematica iniziale, posta nell’accezione di responsabilità dell’autore, ed è ciò che nelle fasi finali assume il sapore di una retrospettiva, un’autoanalisi del proprio lavoro: interrogandosi circa l’attività dell’intellettuale contemporaneo, il professore pare in realtà chiedersi (e rispondersi) a proposito della sua stessa attività e il ruolo, e certo il potere, da lui esercitato.

L’elemento-chiave dell’esperienza diviene nella fase finale tanto preponderante da inaugurare un nuovo filone, strettamente autobiografico: in esso Said riprenderà La questione palestinese, aggiungendovi gli sviluppi del processo storico relativo alla gestione politica del conflitto susseguitisi nei vent’anni successivi alla prima edizione; ripubblicherà alcuni cicli di conferenze tenute in diverse occasioni importanti, come nel caso delle londinesi Reith Lectures, donandogli un taglio ancor più personale; produrrà, soprattutto, un’autobiografia, dall’eloquente titolo Sempre nel posto sbagliato, e diversi resoconti di viaggi nella terra natale, a significare l’attenzione rinnovata per l’uomo Said, prima che per lo studioso.

In quella che potrebbe apparire una svolta intimistica à la Foucault, ancora una volta, almeno per come lo stesso Said interpreta l’ultima fase del filosofo francese, manifestandone una delusione, bisogna però rimarcare come nel proporre un discorso su se stesso il professore intendesse portare avanti un discorso su ciò che si era assunto, anni prima , come compito: la condizione palestinese.

La delusione manifestata verso Foucault, ed in generale verso coloro che, dopo aver brillantemente agito in nome della libertà intellettuale, si ritirano in una disillusa contemplazione7, è rivolta non tanto verso i successivi lavori, quanto nell’accantonamento di quell’ideale che da Foucault veniva

7 Cfr.E. Said, Alla ricerca di Gillo Pontecorvo, intervista con il regista, in Nel segno dell’esilio, op. cit.

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presentato per esempio nella conclusione di Che cos’è l’illuminismo8, incentrandovi la maggior parte dei propri studi.

Orientarsi nel pensiero di Said può dunque risultare complesso, per via dei così tanti contributi che originano altrettanti spunti di riflessione, semplicemente come rievocazioni o commenti, o talvolta in un’ottica decisamente sperimentale, come avviene nel caso di Vico, di Gramsci e di Foucault. Si è cercato in questo lavoro di rendere sinteticamente la mappa di un possibile percorso con cui analizzare questa complessità, seguendo un criterio maggiormente concettuale; un’analisi specifica viene dedicata ad Orientalismo, come opera centrale nella sua carriera di studioso, anche per via dell’impatto che ha provocato nel mondo accademico e non: il dibattito che ne è seguito ha contribuito, in parte, a renderlo quell’ “intellettuale pubblico” sopra descritto. Si è ritenuto importante tuttavia tentare di capire le ragioni di tale dibattito, ed al contempo evidenziare la possibilità quasi ignorata di leggerlo in un ambito completamente differente, in relazione al lavoro di Foucault.

2. Il ruolo dell’intellettuale Edward W. Said.

Il taglio personale che Said sceglie di dare alla sua critica è un’evidente caratteristica fin dai primi lavori. Il lavoro presentato come tesi di dottorato sul rapporto tra il carteggio di Conrad e la sua opera presenta già forti indizi in tal senso.

Oltre all’esposizione in prima persona che caratterizza ogni specifica scelta metodologica vi è una volontà di riferirsi direttamente all’ambito della società e degli avvenimenti contemporanei: quello che in letteratura egli denomina il contesto. Nel rimarcare in maniera così potente il proprio punto di vista ed il proprio vissuto, egli identifica un principio di responsabilità dell’autore, responsabilità esercitata nei confronti del pubblico cui sono destinate le proprie opere, ma anche nei confronti di se stesso, in una continua revisione autonoma delle proprie idee. Come viene rimarcato da alcuni, si

8 M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo, in Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli 2006

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tratta di un compito che Said intraprende su più fronti: “The point I want to insist on, is this:

whether explicitly stated (as in The Fiction) or simply assumed, there is a sense in which Said’s entire critical project is predicated on the very idea of a radicalized dialectical engagement—an engagement between an author and his work, between critical consciousness and the material (textual or otherwise) under its scrutiny, between the intellectual and the category of culture (whether broadly or narrowly conceived) that empowers and constrains him or her, and so on”.9 Ciò che potrebbe avere una qualche analogia con un’autoanalisi in termini psicanalitici assume per Said il valore di uno scopo etico, nel rapportare il suo lavoro ad una funzione essenzialmente di denuncia o, come ama ripetere, di resistenza: resistenza al dominio sia in termini culturali e linguistici, sia decisamente fisici.

È un impegno che egli esercita nei confronti di molte cause, stringendo collaborazioni con autori dissidenti come Salman Rushdie10, nonché supportando i lavori di alcuni critici emergenti che delle tracce di questa dominazione si occupano. La “sua” causa tuttavia, in cui si è adoperato con tutte le proprie energie e seguendo diverse strade, dalla politica all’arte, è però quella riguardante il suo paese di origine, la martoriata Palestina nel suo eterno conflitto.

La condizione di esule tante volte da lui rimarcata all’interno dei suoi interventi riguarda non tanto un esilio forzato in terra straniera o una lontananza dal suo paese natale, quanto una sensazione di divisione, di sdoppiamento tra quelle che considera le sue due patrie, la Palestina e gli Stati Uniti.

Poiché è negli Stati Uniti che passa la vita a partire dalla maggiore età, egli si sente a tutti gli effetti cittadino americano; mantiene comunque con la terra di origine un forte legame sentimentale, benché non vi faccia ritorno che dopo quarantacinque anni11, dimostrato soprattutto nella partecipazione con cui di essa segue le vicende, arrivando a svolgere per brevissimo tempo il ruolo

9 A. A. Hussein, Edward Said: Criticism and Society, Verso 2004

10 Cfr. Patrie immaginarie, Garzanti 1991

11 Come racconta nelle prime righe di Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele:“Io sono nato a Talbiya, un quartiere di Gerusalemme Ovest, nel novembre del 1935, ma dalla fine del 1947-poco prima che Talbiya soccombesse alle forze ebraiche all’inizio dell’inverno del 1948- non vi ho più fatto ritorno, per una serie di ragioni politiche e personali.

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di consulente nell’amministrazione di Arafat. Si trattò di un singolo episodio piuttosto improduttivo, che, dopo un’iniziale entusiasmo, lo irritò profondamente proprio per la sua inutilità.

Il fatto di schierarsi apertamente a favore dell’Intifada palestinese gli procurò, come docente della Columbia, non pochi problemi, incidendo anche, come si è accennato, sulla ricezione dei suoi lavori.

Il rapporto appassionato e sofferto con la gestione politica del problema lo conduce infine ad un abbandono, seppur non definitivo, della lotta politica in favore di altri mezzi di comunicazione ed espressione volti a fornire una soluzione pacifica alle ostilità. Nasce così, con l’amico ebreo Barenboim, l’idea di un laboratorio musicale che riunisca ragazzi provenienti da diverse parti del mondo, anche in conflitto tra loro, uniti dalla condivisione di una passione per la musica, con l’obiettivo di un grande concerto finale tenuto, significativamente a Gerusalemme.

Questo tentativo fu un grande successo, così come viene brevemente raccontato in Paralleli e paradossi12; tuttavia rimase un bellissimo ma isolato tentativo. Dopo di esso, Said riprenderà a confrontarsi con le problematiche politico sul terreno da lui prediletto: quello della critica.

L’intensificarsi dello scrivere a proposito della condizione palestinese è conseguente a due cause, a loro volta collegate fra loro: la scoperta di essere malato di leucemia, e la decisione di intraprendere quello stesso anno un viaggio nella terra natale con la propria famiglia.

Nel 1991, infatti, mentre si trovava a Londra in occasione di una serie di conferenze, Said ha il responso della propria malattia. L’impulso è quello di compiere un viaggio nei luoghi della sua infanzia e giovinezza, così a lungo amati da lontano, nel tentativo forse non del tutto consapevole di recuperare qualche traccia di sé, della propria vita; forse per unirne le due estremità, sempre in conflitto fra loro, in un unico Io armonico, e combattere il sentimento di estraneità, di non- conformità, che lo accompagna per tutta la vita: “My background is a series of displacements and expatriations which cannot be recuperated. The sense of being between cultures has been very, very

12 D. Barenboim, E. Said, Paralleli e paradossi, il Saggiatore 2004

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strong for me. I would say that’sthe single strongest strand running through my life: the fact that I’m always in and out of things, and never really of anything for long13”.

Il resoconto del viaggio, cui ne seguiranno altri, viene raccontato nel breve Tra guerra e Pace, e in alcuni altri interventi pubblicati nelle sue ultime raccolte. Ciò che ne emerge è un sentimento di malinconia misto ad amarezza, in parte per i cambiamenti inevitabili dovuti al tempo, ma in particolar modo per la sensazione di instabilità e sofferenza che gli abitanti di quei luoghi esprimono. Tutto questo avrà l’effetto di intensificare quanto più possibile l’attività volta a denunciare questa situazione, e al contempo a ripristinare quanto più possibile il legame perduto con quel mondo “vicino e lontano nello stesso tempo”: la sua autobiografia, dedicata principalmente all’infanzia e alla giovinezza, può essere letta anche in questo senso, forse un tentativo inconscio di espiare un senso di colpa per una lontananza in realtà più fisica che mentale.

Il risultato è un’indagine ancor più serrata circa il ruolo dell’intellettuale, in una continua tensione verso quell’archetipo teorizzato a partire dai testi di Gramsci e Benda e definitosi in maniera sempre più lineare nel corso del tempo. Si può dire che nell’ultima fase del suo pensiero, Said assuma una concezione dell’intellettuale e dell’approccio umanistico tendente all’utopia nell’ideale classico cui fa riferimento. Questa accentuazione deve venire considerata nella sua essenza di eredità, quasi un lascito di quell’engagement da lui intrapreso, nella veste non tanto di studioso, né dell’intellettuale così spesso da lui citato, ma soprattutto in quanto professore, in quanto uomo: “Invece di cullarci nella speranza, ci offre un volto, il suo, quello di un individuo che soffre e prova compassione, che ride e che piange. Il volto umano è un fragile baluardo contro la guerra; tuttavia lo è: e dei più preziosi.14

13 E. Said, Interview with Imre Salusinszky, in A. A. Hussein, Edward Said : Criticism and Society, op. cit.

14 T. Todorov, Prefazione a Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele, Feltrinelli 1998

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