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2.1 – L’Ordine dei chierici regolari di San Paolo, detti Barnabiti

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CAPITOLO 2 I BARNABITI

2.1 – L’Ordine dei chierici regolari di San Paolo, detti Barnabiti

L’Ordine dei chierici regolari di San Paolo fu fondato a Milano attorno al 1530 da sant’Antonio Maria Zaccaria, gentiluomo cremonese (1502-1539), e da due nobili milane- si, Bartolomeo Ferrari e Giacomo Antonio Morigia. L’Ordine fu approvato uffi cialmente da Clemente VII il 18 febbraio 1533 e confermato da Paolo III il 21 luglio 1535. Lo stesso Zaccaria aveva istituito nel 1530 anche il ramo femminile, le Suore Angeliche di S. Paolo, e i Maritati (o Coniugati) di S. Paolo.

Il primo edi cio dell’Ordine dei Barnabiti fu la chiesa dei Santi Paolo e Barnaba in Mi- lano, più conosciuta come San Barnaba, e da questa i sacerdoti dell’Ordine iniziarono ad essere chiamati Barnabiti

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.

La congregazione dei Barnabiti mantenne per molto tempo un carattere prevalente- mente lombardo. Non ebbe uno sviluppo molto rapido; tuttavia già sugl’inizi del Seicento essa contava collegi in quasi tutte le regioni d’Italia.

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2.2 – Le indicazioni delle Costituzioni

I Barnabiti furono sempre un Ordine piccolo, sia nel numero dei religiosi, sia nel raggio di espansione fuori dall’Italia. Per questo nelle opere edilizie dovettero fare spesso i conti con una disponibilità economica assai ridotta, cui venivano parzialmente in aiuto lasciti e off erte di privati; furono proprio queste esigenze di ordine pratico a vincolare fortemente l’attività edilizia dei Barnabiti. Spesso l’Ordine subentrava a gruppi religiosi preesistenti;

allora a seconda delle possibilità demoliva e ricostruiva del tutto le strutture precedenti, oppure le adattava alle esigenze della propria disciplina. Condizione essenziale per fonda- re una comunità barnabitica era l’esistenza di una chiesa, con rendite suffi cienti a garantire la sussistenza della comunità, di modo che i religiosi potessero dedicarsi ai loro ministeri in maniera del tutto gratuita e disinteressata. Si preferivano le grandi città, possibilmente sedi universitarie o di studio; i piccoli centri venivano presi in considerazione solo per la possibilità di stabilirvi un noviziato

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.

Agli inizi dell’Ordine, lo spirito del fondatore sant’Antonio Maria Zaccaria si esprimeva così nelle Costituzioni che egli stesso aveva approvando per i suoi gli spirituali:

19 http://www.barnabiti.net/history/

20 http://www.treccani.it/enciclopedia/barnabiti_%28Enciclopedia-Italiana%29/

21 E. Sempio, L. Tosi, L’architettura barnabitica in Italia dal XVI al XVIII secolo, in Barnabiti Studi, Rivista di ricerche storiche dei

Chierici Regolari di S. Paolo (Barnabiti), n. 8, 1991, pp. 159-160.

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«Le nostre case siano così abiette, che con verità le possiamo più presto dimandare casotti di villa, che case. Siano prive de ogni sculptura et colore, excetto che il bianco. Sine licito, contro il freddo et humidità, usare le store et asse, ma impolite et senza alchuno orna- mento et fucho. Siane licito anchora havere horto, ma non campo, non prato, non boscho.

Perciò se alchuni signori temporali o altre persone nobili volessero edi care alli nostri Fratelli case et oratorij oltra il modo ditto, per conto alchuno non se li permetta, ovvero non si accettino. Anzi, lassando a loro ilsuo fasto, le donino a chi si voglia.

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«Tutti li offitij diransi adasio et diligentemente, ma senza canti et organi, sì ben però con ogni et (con quanto possibile) total devotione di mente... Li oratorij nostri serano umili et vili, senza sculpture, senza tapeti, senza drappi de seta, et con campanile abietto, qual non trapassi il tetto oltra a brazza tri o quatro. Se li faranno imagini, non che dimostrano artifitio, ma causano compunctione»

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Dopo la morte del Fondatore le successive Costituzioni riprendono gran parte delle prescrizioni zaccariane, ma senza scendere troppo nei dettagli in fatto di edilizia:

«Vestes nostrae et caetra domus suppellectilia non sint praetiosa, non vana, sed medio- cria, sicut religiosos clericos decet

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.

Solo nelle Costituzioni de nitive del 1579 compaiono riferimenti più espliciti all’archi- tettura. Se ne parla nel primo libro, a proposito della fondazione di nuove case religiose; vi si ritorna nel secondo libro, nel capitolo dedicato alla Povertà, dove si stabiliscono le mo- deste dimensioni delle camere e l’essenzialità delle loro suppellettili

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. Vi si indugia invece nel capitolo ottavo dello stesso libro, dove si parla degli edi ci di culto e dove un Ordine di Chierici Regolari è portato a determinazioni precise:

«Ecclesiae, cum divino cultui exercendo destinatae et domus Dei sint, non temere, sed certis regulis fabricandae videntur:. Ideo earum formae, adhibitis peritis et exercitatis architectis, prius stabiliantur, deinde a Praeposito Generali cum consensu Assistentium approbentur. In quo illud spectari debebit, ut rerum divinarum decori, disciplinae ec- clesiasticae et functionibus nostris commode obeundis aedi cium sit accommodatum . Et serventur praeterea et instructiones quae in hoc genere ad fabricae et suppellectilis ecclesiastricae usum probatae habentur. In posterum autem ecclesiae nostrae S. Pauli Apostoli nomine conse crentur, nisi forte aliud velit fundator, et sit tamen in eis saltem altare ei dicatum. De picturis tamen, ex decreto Concilii Tridentini, hic exprimere visum est ut summopere caveatur ne quid profanum, inane, lascivum aut omnino a loci sancti- tate alienum at; item ut sanctarum imaginum vultus, vetres, ornamanta et cetera huiu- smodi Sanctorum ipsorum quos referunt modestiae et sanctìtatì respondeant, hihilque

22 O. Premoli, Storia dei Barnabiti nel Cinquecento, Roma, Desclée, 1919, pp. 427-428.

23 Ivi, pp. 425-426.

24 Ivi, p. 525.

25 E. Sempio, L. Tosi, L’architettura barnabitica in Italia dal XVI al XVIII secolo, in Barnabiti Studi, Rivista di ricerche storiche dei

Chierici Regolari di S. Paolo (Barnabiti), n. 8, 1991, pp. 161.

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ab historiae veritate discordet. Item de altaribus, ut non extruantur nisi quot necessaria sint. In qiubus vel meniendis vel ornandis serventur deinde regulae et instructiones quas diximus. Curetur omnino illud abservandum, quod acceptum a <maioribus adhuc qiu- dem retinemus: ut aedes ipsa et eius partes omnes, parietes, pavimentum, nedum, altaria et alia quae sunt maioris momenti item secretarium sive sacristia et omnis suppellex divino cultui dicata munda, pura, integra, incorrupta omni studio conserventur, dentque operam, qui rebus eiusmodi praefecti sunt, ut in suo ministerio nihil umquam appareat incuriae vel negligentiae, maxime secundum mini sterii sui Regulas quae describentur.

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Sostanzialmente la burocrazia a cui attenersi per arrivare ad una fondazione regolare e stabile può essere riassunta come segue: il capitolo generale decideva dove e sotto quali condizioni dare avvio alla comunità. Il Preposito generale coi suoi assistenti esaminava il caso e si incaricava di far trattare adeguatamente il problema ai periti e ad un architetto di sicura fama. Quest’ultimo redigeva un progetto completo dell’edi cio di casa e chiesa, oppure degli eventuali riadattamenti. Fondamentali erano poi la costruzione, sempre da parte dell’architetto, di un modello, soprattutto per la chiesa, e la compilazione di una rela- zione dettagliata da allegarsi al progetto. Il Preposito generale e gli Assistenti esaminavano accuratamente il materiale loro consegnato dall’architetto e dai periti, e solo dopo aver richiesto ed ottenuto spiegazioni prendevano una decisione al riguardo. Da quel momen- to si poteva iniziare l’opera, ammesso che ci fossero già i necessari nanziamenti. Di tutti i problemi particolari e speci ci si assumeva la responsabilità il Praefectus fabricae, che doveva essere membro dell’Ordine, architetto o almeno pratico dell’architettura, nel qual caso poteva redigere lui stesso il progetto. Egli si occupava soprattutto dell’attività degli operai e del capomastro, scelto anch’esso secondo i criteri di riconosciuta esperienza ed abilità.

Ogni casa, poi, doveva possedere un archivio in cui conservare copia del progetto ap- provato dal Preposito generale, e il modello in cartone o legno: questo per assicurarsi che, venuto a mancare per qualsiasi motivo il progettista che aveva dato inizio ai lavori, l’opera venisse comunque portata a termine secondo quanto era stato già deciso.

I superiori di ciascuna fondazione dovevano compilare, secondo schemi prestabiliti e quanto più accuratamente possibile, l’inventario dei beni stabili e di tutte le pertinenze della casa, del quale doveva essere inviata copia agli archivi del Generale e del Provinciale.

Questi archivi conservavano le copie di tutti i progetti redatti per ogni singola fondazione, mentre gli originali nella maggior parte dei casi rimanevano nell’archivio generale.

2.2.1 – Le indicazioni delle o Regole

Di grande importanza risultano essere due documenti conservati nell’archivio di San Barnaba.Si tratta di due «Formule», ossia di due Regole che, secondo il dettato delle Co-

26 Costitutiones Clericorum Regularium S. Pauli Decollati libris quattuor distinctae, Mediolani, apud Paulum Gotthardum Pontium,

1579, pp. 59-61.

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stituzioni, dovevano orientare gli incaricati dei vari settori di attività. La prima di esse ha per titolo Del offi tio del Prefetto delle fabriche apresso delli Chierici Regolari della Congrega- zione di San Paolo; l’altra Del offi tio del soprastante delle fabriche. La prima, più completa e ricca, è autografa con sottoscrizione del Padre Lorenzo Binago. Dal manoscritto emer- gono i compiti del Praefectus fabricae, con le direttive a cui doveva attenersi; innanzitutto egli doveva curare l’impianto che assicurasse lo snodarsi facile e sereno delle mansioni barnabitiche. Evidentemente si doveva tener conto della situazione concreta, che poteva presentare quattro diverse eventualità, giacché gli edi ci potevano essere:

«o da farsi et erigersi di fatta pianta novi; o da registrarsi secondo il nostro bisogno et instituiti, se non son tali; o ruinarsi in tutto - vedendo di non poter fare altrimenti - et rifarsi; o vecchi et in parte ruinosi, ma tali che possono ripararsi: nel che fare accordarsi con il fatto più che si pote et discordare ilminimo che sij possibile».

Subentrando in costruzioni già esistenti si evidenzia la preoccupazione di rispettarle il più possibile, non tanto per culto dell’antico, quanto per non imbattersi in spese maggiori.

Architetto e capomastro erano le gure emergenti cui far riferimento lungo il lavoro. Il primo aveva lavoro di cervello e una volta eletto non doveva mutarsi di leggeri. Il suo compito era di elaborare la pianta dell’edi cio, ma anche stabilire una chiara intesa con il praefectus fabricae assieme agli altri confratelli riuniti uffi cialmente in capitolo.

In concertar il disegno, faci che la fabrica riesca bella et gratiata, la qual gratia nelle fabriche non è altro che un concerto di tutte le sue pari, anchor che variate di forma, accordate insieme con proportioni et discorso, a comporre come una armonia musicale;

un intero e formoso corpo, al quale non si possa agiongere o levare o mutarecosa alchuna senza notabil guasto di essa fabrica.

La grazia della fabbrica doveva sprigionarsi dall’armonia stessa delle strutture, gli orna- menti, se necessari, dovevano essere usati solamente nelle chiese.

Particolare attenzione si doveva porre al sito e all’esposizione della futura fabbrica, la quale doveva sorgere in In luoco più rilevato della cità, lontano da luoghi infami, et da par- ti mischiato, et di botegari, et da strade strepitose et sorche; ma si piglierà in luochi honorati er nobili, o in piazze ove metano capo molte strade; et sijno nel habitato, per comoda ragione nostra et dè citadini a’ quali habiamo da servire. Procurarsi anchora di havere giardini, cor- tile per gallinaro, et sito per farsi scuole et oratorij, infermaria et usi tali che si aspetino a una habitatione civile.

Avertino anchora che il sito sij rilevato dal resto delle strade et piaze, tanto per la chiesa

quanto per il collegio, non solo per la sanità dei corpi, ma anchora per il decorso fuori delle

acque piovane, che movendo in casa anche in cisterni per la baseza la rendono humida, mal

sana et dannosa anchora alle cantine et alli primi liochi a terra et alli fondamenti dell’istessa

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fabrica: et se non serà tale per natura, si agiutti con la muratura quanto sij possibile et con l’arte… La chiesa anchora, quando ne sij concesso di farlo, sarà rispetto al collegio più alta di un piano et a tramontana et il collegio a mezzodì, aciò sij tutto girato al sole, et così sij sana et luminosa, et per l’istessa causa la stessa casa sarà separate dalla chiesa per cortile intermedio, et perché la chiesa et la casa anco habino i suoi lumi più libneri, et perché l’acque sue habino libero decorso et non danegino la casa… Si averta anchora che nel concertar la fabrica quando sij possibile, li guardarobi voltino a matino o a tramontana, et che sijno luo- ghi asiutti o per cava sotto o perché sijno in lato, non però della sommità dela fabrica sotto a’ tetti, ove fa grande calore per il re esso del sole con li stessi tetti; et questi guardarobi sono la sacrestia, conserve di grano, le drapperie, le librarie et dispense et conserve di vetovaglie, le cantine et cose tali.

Casa e chiesa dovevano essere facilmente raggiungibili dal pubblico e non troppo iso- late, anche se lontane dal chiasso e dai luoghi di mercato. Assieme alla salubrità doveva essere curata anche la stabilità sia nel porre le fondamenta, sia nell’edi care l’altare, sia nell’elevare i muri esterni, sia nel calcolare la spinta e il carico delle volte; per questo si doveva essere scrupolosi nella scelta dei materiali.

La «Formula» si conclude con la descrizione della forma e della struttura della chiesa e casa.

«Le chiese nostre si faranno d’ordinario longe et in forma di croce, comw più misteriose, con li suoi brazi et con l’altare maggiore rincontro alla porta magiore, di dietro al quale vi sarà choro; et nell’asta et brazi si faranocapelle et luoghi per confessionali. Et il tutto fatto studiosamente dal architetto quale in ciò si servirà di altre chiese simili già fatte per modello, coregendo in queste li errori che fesero fatti in quelle et agiongendo quello in che manchessero.

Si potranno anchora fare di tre navi con due la di colonne et con le capelle dalli lati tra l’intercolunnij et confessionali, overo farle d’una nave senza braza con capele laterali et luogo del pulpito, et in capo la capela magiore et retro il choro; overo si posono fare, per accomodarsi al sito, di forma tonda, di otto facie o ovali o quadrati con quattro pilastri, con procurare di tutte qyelle comodità che si desiderano quando sia possibile, et che sijno fatte gratiose con boni termini di architettura.

Et tutte rilevate il più che si pote dal resto del piano della cità insieme con il collegio, per magiore maiestà della casa di Dio, per assicurarsi più della humidità et perché, ove fosse vicina l’acqua le sepolture et li fondamenti non patissero.

Ma in tutte le fabriche delle chiese si habi riguardo a farle proportionate alla grandeza della città o altro luogo che sij, et di non fare se non quelli altari che bastano per quelli che si posono mantenere in quella chiesa o in quel collegio; et questo anchora oer non metersi in spesa super ua inmantenerli…

Le muraglie del colegio maestre, cioè l’esteriori, sijno di bona groseza, perché così, oltre alla magiore sicurezza della fabrica, le camere saranno calde l’inverno et fresche l’estate.

Nelli fondamenti sij l’architetto prodigo, et così nelle ultime copriture, perché per legiadra che sij una fabrica, se queste due cose mancano ci caciano di casa indubitadamente.

Le scale maestre saranno nel più publico della casa, et comode per li vechi, et luminose,

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et separate dà secolari. Le scale private --- o quadre, o tonde, o longe --- saranno ancora comode et luminose, et pronte per le servitù domestiche et luoghi privati.

Li refetori si cacerano fori dal quadrato del collegio, per non potere correre la sua altezza al pari della baseza del resto del collegio, perché va più alto essendo più largo, per la do- vuta proportione…

Si faci che tutti quelli operaij che concorano nel far della fabbrica, concorino con la do- vuta intelligenza insieme, et passino d’accordo; et che nelle cose dubie si consigli con altri periti et di valore in questa profesione; perché altra via non vi è perché non si getti il denaro et l’honore et la reputatione, et per schivare il dar da dire al volgo, et salvare la ri- putazione et credito della Cogregazione, per utile della quale ho fatte queste poche fatiche in carta, oltre a quelle che ho fatte in opera.

Don Lorenzo [Binago]»

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.

I Barnabiti, almeno a livello teorico, si dimostrano indiff erenti ad uno “stile uffi ciale”

che contraddistingue le loro sedi, a vantaggio di un utilizzo formale, senza pregiudizi, del- le forme vigenti nelle singole località, o ancor meglio a vantaggio di forme e strutture che rispondessero ad esigenze più pratiche e funzionali. Quindi il dettato delle due Formu- le, più che costituire una normativa precisa, off riva piuttosto delle indicazioni pratiche generali, anche per segnare il passo all’andamento professionistico dell’epoca, che aveva consuntivi largamente eccedenti i preventivi. Tuttavia queste Formule sono importanti nell’individuare i campi d’attenzione a cui si richiamavano gli operatori: le condizioni del sito; la necessità di un’architettura utile, costruttivamente effi cace, poco dispendiosa, sem- plice e povera nell’immagine; la funzionalità e l’utilità a scapito della rappresentatività.

2.2.2 – Tipologia della chiesa barnabitica

L’Ordine barnabitico, raggiunto il pieno sviluppo, sentì sempre di più la necessità di costruire nuove chiese e collegi e, nel giro di poco più di un cinquantennio, edi cò le proprie sedi lungo tutta la penisola in importanti centri. Mettendo in luce un vettore non trascurabile dell’edilizia del tempo ed impiegando i migliori professionisti locali, riuscì a produrre complessi qualitativamente rilevanti.

La nuova edilizia religiosa era impiegata in tutto quel complesso di opere destinate a tradurre nei fatti il nuovo corso impresso dalla Controriforma, per le quali le Istructiones fabricae et suppellectilis ecclesiae di Carlo Borromeo e più tardi il De fabrica et suppel- lectili ecclesiastica del Binago dovevano rappresentare le premesse teoriche.

L’evoluzione dell’Ordine è strettamente legata alle vicende della Controriforma, quel clima di fervido e profondo rinnovamento che si era instaurato dopo il concilio di Trento.

Le prescrizioni assai generiche di quest’ultimo in materia di architettura si limitavano a sostenere la necessità di battisteri nelle chiese parrocchiali e a raccomandare una cura speciale per l’altare maggiore e per la dignitosa collocazione dell’Eucarestia; ma comunque

27 Queste sono le parole conclusive della Formula, Del o tio del Prefetto delle fabriche: Milano,Archivio Storico di S.Barnaba,Cartella

A, fasc. 5°, n. 7, ff . 48-51..

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esse erano riuscite a spostare l’attenzione dai problemi stilistici e formativi del dibattito anticheggiante, agli aspetti tematico-contenutistici e costitutivi della fabbrica religiosa.

L’architettura barnabitica si inserì dunque nel corso del dibattito architettonico del tempo, caratterizzato, a partire dal Cinquecento, dalla continua elaborazione sia del tipo dell’or- ganismo a pianta centrale, sia a pianta longitudinale, anche se quest’ultima alla ne risultò prevalente.

Condizione indispensabile ed inderogabile per la fondazione di una comunità di Chie- rici Regolari era la disponibilità di una chiesa; lo sancivano le Costituzioni e non si poteva assolutamente prescindere da questa condizione. Non esistevano prescrizioni particolari per la costruzione delle chiese, tuttavia la Congregazione aveva esigenze proprie che do- vevano essere tenute in considerazione al momento della progettazione.

L’ubicazione era dettata da semplici ragioni di praticità e razionalità, e l’edi cio si do- veva adeguare alle dimensioni ed alla forma del lotto a disposizione. Più frequentemente era ubicato all’estremità del lotto, in ogni caso rappresentava il fulcro di tutto il complesso conventuale.

La facciata, che ne doveva costituire, per semplicità e monumentalità allo stesso tempo, l’elemento caratterizzante, doveva essere possibilmente arretrata rispetto al resto del com- plesso, per formare uno slargo o una piazzetta.

La chiesa spesso era situata in posizione leggermente sopraelevata rispetto al livello stradale ed il prospetto principale era preceduto da una scalinata più o meno ampia. Al tempio si accedeva per uno o tre ingressi frontali, che talvolta immettevano in un piccolo atrio. Vi era poi un accesso posto sul anco della fabbrica, dal quale si passava, diretta- mente o tramite andito, ai locali del Collegio.

Non sempre era presente una torre o un campanile, di solito di modeste dimensioni, posto su un lato della chiesa o più frequentemente vicino alla sacrestia. Esso generalmente godeva di un accesso diretto dall’esterno e di un altro dalla sagrestia.

Tipologicamente la chiesa rispondeva essenzialmente ad uno schema funzionale. Essa doveva essere di comodo accesso non solo dall’interno, in modo che allievi e religiosi po- tessero agilmente raggiungerla dalle loro abitazioni, ma anche dall’esterno, per i fedeli che vi si raccoglievano in preghiera.

I religiosi dell’Ordine volevano trovare nella nuova chiesa un equilibrio perfetto il più possibile fra quello che era il servizio ai fedeli ed il servizio alla comunità stessa, con un ampio coro dietro l’altare e con un presbiterio nel quale essi potessero essere separati dai laici. Così l’architettura della navata, del presbiterio e del coro è trattata in modi distinti, intesi ad accentuare la separazione reciproca delle tre parti. Più frequentemente questa necessità si traduceva planimetricamente nell’adozione di uno schema ad aula unica lon- gitudinale con cappelle laterali poco profonde, sopraelevate, collegate tra loro da passaggi.

Si trattava di un invaso di solito privo di colonne e pilastri, che permetteva una migliore

visione ed un miglior ascolto delle funzioni.

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Il coro esisteva sempre, anche se poco profondo con pochi scanni e di forma circolare.

Questo spazio, spesso piatto o a conca, rimaneva suffi cientemente ampio per ospitare, bene in evidenza, l’altare maggiore. Non sempre ai lati della navata, sopra le cappelle, era- no presenti le cantorie o le tribune da dove i religiosi potevano assistere, separatamente dai fedeli, alle funzioni. Dal momento che i Sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia dove- vano soddisfare un numero sempre più elevato di fedeli, era necessario che nella chiesa vi fosse un numero adeguato di confessionali, generalmente ricavati nelle mura perimetrali.

Non sussisteva un unico metodo di copertura dell’aula; spesso vi erano volte a botte, oppure soffi tti piani. Spesso l’area presbiteriale presentava una cupola, quasi mai in asse con l’ubicazione dell’altare maggiore. In alcuni casi l’aula unica con cappelle laterali veniva a connettersi con uno schema a pianta centrale, costituito da transetto, abside e cupola all’incrocio, di chiara derivazione dalla chiesa del Gesù di Roma.

La facciata della chiesa era di solito suddivisa in due fasce di ordini sovrapposti com- partiti da lesene. L’ordine superiore era ancheggiato da due ali terminanti con due volute, con funzione di contraff orte e di ornamento. La parte superiore, coronata da timpano triangolare, presentava generalmente una nestra centrale, in alcuni casi a serliana (si ricordi il caso di S. Barnaba a Milano), oppure una balconata, affi ancata lateralmente da due nicchie per il posizionamento di statue. La facciata veniva così ad assumere un ruolo nuovo, appartenendo più essa più alla città che all’edi cio e divenendo un elemento di spicco del disegno urbano.

Annessi alla chiesa erano i locali della sagrestia, uno o due, generalmente rettangolari, a anco del coro. Talvolta era presente anche una cappella o un oratorio per devozioni particolari: in alcuni casi questi godevano di una veduta diretta sull’altare.

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28 E. Sempio, L. Tosi, L’architettura barnabitica in Italia dal XVI al XVIII secolo, in Barnabiti Studi, Rivista di ricerche storiche dei

Chierici Regolari di S. Paolo (Barnabiti), n. 8, 1991, pp. 268-273.

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