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1.2 Le ancore a bordo: sistemazione e manovra...15

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INDICE

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Premessa...3

CAPITOLO I: ANCORE A GRAVITA' 1.1 Ancore antiche, storia ed evoluzione...6

1.2 Le ancore a bordo: sistemazione e manovra...15

1.3 Dalle origini alle prime pietre lavorate: ancore litiche a gravità...18

1.3.1 Ancore “a rocchetto” e “a ciambella”...20

1.3.2 Da ancore “a peso” ad ancore “a presa”: le pietre forate...22

1.3.3 I Killicks...26

1.3.4 Ceppi litici...26

1.4 Religiosità e simbolismo...43

CAPITOLO II: ANCORE A PRESA 2.1 Ancore a presa in legno...46

2.1.1 Ceppi fissi, ceppi mobili e ceppi in legno...51

2.2 Ancore a presa in ferro...59

2.2.1 Ancore in ferro con ceppo mobile in ferro...…....63

2.2.2 Ancore in ferro con ceppo in pietra e in legno. Alcuni esempi:il relitto Dramont G e il relitto di Cervia...65

2.3 Ancore a presa particolari...67

2.4 Ancore a presa moderne...70

2.5 Iscrizioni su ceppi d'ancora in piombo...72

(2)

CAPITOLO III: LE ANCORE DEL CANTIERE DELLE NAVI ANTICHE DI PISA

3.1 Pisa: il paesaggio in antico...76

3.2 Porti e approdi nel Sinus Pisanus...81

3.3 La formazione del deposito...86

3.4 Le ancore del Cantiere delle Navi Antiche di Pisa...91

3.4.1 Ancora in legno, contesto di ritrovamento e descrizione...91

3.4.2 Possibili confronti e ipotesi di utilizzo...96

3.4.3 Ancora in ferro, contesto di ritrovamento e descrizione...103

3.4.5. Possibili confronti...105

Conclusioni...107

Bibliografia...113

Illustrazioni...124

(3)

PREMESSA

Per navigare è necessario sapersi rapportare con lo spazio e con il tempo, con gli elementi naturali e con la propria imbarcazione, capacità che consentono al navigante di seguire il proprio percorso, nonostante le difficoltà e le variabili che si possono incontrare e permettendo di manovrare la nave in modo adeguato in ogni circostanza.

Per i Greci la navigazione è una τέχνη che richiede μελέτη cioè un'arte da coltivare con la pratica, l'esercizio ed anche la cura. Stesso significato anche per i Romani: l'ars navigandi richiede peritia (l'arte della navigazione richiede pratica). Il fondamentale bagaglio tecnico e culturale dei piloti era rappresentato dall'esperienza, cioè da una forma di conoscenza empirica costruita sulla pratica e modellata dalle variabili della navigazione.

Il costante rapporto con gli elementi naturali, inoltre, ha sviluppato nei naviganti un sesto senso che potremmo definire “senso marino”, ovvero la capacità di percepire e di interpretare ogni segnale proveniente dall'ambiente in cui vivono:

una percezione totale dell'atmosfera, del vento e del tempo, della superficie e del fondo del mare, del comportamento degli animali acquatici, della conoscenza del cielo e di molti altri elementi.

Per i Greci esisteva una precisa distinzione tra la figura del pilota e quella del timoniere. Il primo veniva chiamato κῦβερνήτης, termine che deriva dal verbo κυβερνάω (governare, dirigere, guidare, reggere), mentre il secondo veniva definito πηδαλιοῦχος (πηδάλιον significa timone). Per i Romani, invece, la parola gubernator indicava entrambi i ruoli (gubernaculum è il timone), a testimonianza di una minore specializzazione tecnica rispetto al lessico greco

1

.

In latino le accezioni di questi termini possono variare secondo il contesto narrativo e spesso risulta evidente un'identificazione tra questi due ruoli.

La figura del pilota-timoniere rappresentava un figura ricorrente nel mondo antico: a bordo era la persona più importante, a cui venivano affidate la riuscita della spedizione, l'incolumità e la salvezza dell'equipaggio.

Nella sua attività il pilota era assistito da uno o più aiutanti con il compito di

1 Medas, 1993.

(4)

controllare le attrezzature e le manovre di prua, scandagliare il fondo, tenere sempre sotto osservazione il mare per prevenire gli ostacoli galleggianti, gli scogli e le secche.

Un brano di Senofonte

2

presenta uno dei compiti più importanti per l'“aiutante del pilota”, il controllo degli strumenti: “(...) Notai moltissimi attrezzi distribuiti in pochissimo spazio, perché ci vogliono moltissimi attrezzi di legno e cordame per fare ormeggiare e salpare una nave, e per navigare ha bisogno di molte delle cosiddette 'attrezzature sospese' (...)”.

Nell'attrezzatura della nave antica la vela assume un ruolo fondamentale, di cui scarsi sono i resti materiali, in quanto non sono giunti a noi frammenti del tessuto con cui venivano confezionate e rari sono i resti dei cordami conservati mentre più diffusi sono sicuramente alcuni manufatti, quali bozzelli, bigotte, borelli

3

. Elemento altrettanto importante dell'armamento della nave era l'ancora, in particolare quella detta “di salvezza”, alla quale venivano affidate le ultime speranze dell'equipaggio quando, durante una tempesta, si tentava di fermare l'imbarcazione.

4

L'uso di questo strumento ha origini remote che si legano a quelle della stessa navigazione. Il suo eventuale ritrovamento non rappresenterebbe solamente il recupero di un oggetto antico ma materiale di indagine, prezioso ed indispensabile, per tracciare le rotte, segnalare gli ormeggi praticati e fornire indizi sulle abitudini dei marinai e sulle loro navi.

Ad una relativa abbondanza di reperti recuperati fa riscontro la mancanza di uno studio sistematico ed approfondito sull'argomento. La scarsità delle ancore recuperate in situ e databili attraverso i loro contesti hanno, nella maggior parte dei casi, impedito di svolgere ricerche in questo ambito, permettendo esclusivamente di giungere ad una datazione attraverso l'analisi dei materiali con cui è stata realizzata.

Riguardo alla documentazione delle ancore più antiche, in pietra, sono carenti le classificazioni finora effettuate dagli studiosi: in questa ricerca sono riportate quella elaborata da H. Frost e quella, più completa, di F. Papò, realizzate

2 Xen,, Economico, VIII, 11-17.

3 Beltrame, 2002.

4 D'Angelo, 2009.

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entrambe tra il 1963 e il 1968.

Maggiore è la documentazione riferibile alle ancore in piombo e in ferro, studiosi come P. A. Gianfrotta, V. Tusa, M. Perrone Mercanti, G. Kapitan e P. Dell'Amico hanno affrontato tale argomento ampliando ulteriormente le conoscenze a riguardo.

Questa ricerca vuole contribuire ad offrire una panoramica, quanto più completa, sull'origine e l'evoluzione delle ancore, offrendo una classificazione tipologica e cronologica attraverso la descrizione delle fondamentali caratteristiche fisiche che permettono di individuare specifiche categorie di appartenenza.

Il primo capito è dedicato alla nascita delle primordiali ancore litiche a gravità, analizzando le ancore “a rocchetto” e “a ciambella”, le pietre forate, i killicks e i primi ceppi litici.

Nel secondo capitolo l'attenzione si sposta sulla nascita e la diffusione delle ancore a presa, distinguibili attraverso il tipo di materiale utilizzato (legno, piombo e ferro) e attraverso il tipo di ceppo (mobile o fisso). Vengono menzionate, per concludere, le tipologie di ancore “a presa” particolari e quelle moderne. Per ogni classe analizzata vengono forniti una descrizione delle principali caratteristiche, una possibile datazione del periodo di utilizzo e alcuni esempi di ritrovamenti di particolare interesse o riferibili a contesti databili.

È stata dedicata attenzione all'analisi dell'ancora nei suoi aspetti decorativi, con particolare riferimento al ceppo d'ancora del Museo Civico di Rosignano Marittimo (Livorno).

Il terzo capitolo è dedicato al territorio pisano e all'analisi delle due ancore ritrovate negli scavi del Cantiere delle Navi Antiche di Pisa. E' stata elaborata una scheda con le misure e le caratteristiche strutturali ed è stata proposta una possibile datazione attraverso lo studio del contesto di ritrovamento e il confronto con manufatti con caratteristiche simili e databili con maggiore sicurezza.

Uno dei principali problemi riscontrati durante lo svolgimento di questa ricerca è

quello relativo alla nomenclatura da utilizzare per distinguere le parti costituenti

l'ancora; a tal proposito, sono stati inseriti una descrizione per quanto concerne la

terminologia utilizzata ed un glossario comparativo dei termini principali in

inglese, francese e spagnolo incontrati durante la ricerca.

(6)

CAPITOLO I: ANCORE A GRAVITA'

1.1 ANCORE ANTICHE, STORIA ED EVOLUZIONE

L'archeologia navale offre un'interpretazione funzionale dell'architettura navale antica e degli oggetti utilizzati a bordo ed è di fondamentale importanza poiché fornisce un indispensabile punto di osservazione sul passato. Essa permette non solo di ricostruire le operazioni strettamente legate al governo della nave ed alla sua manutenzione ma è anche un valido aiuto per comprendere le abitudini sia di chi si serviva della nave per spostarsi, per commerciare, per azioni belliche, sia del suo equipaggio.

L'evidenza che si presenta al momento del ritrovamento di un relitto raramente riflette l'originaria distribuzione dei reperti e le dimensioni dello scafo prima del naufragio. Essa è, piuttosto, il risultato di numerosi processi intervenuti tra l' affondamento e il ritrovamento. Questi sono generalmente divisi in naturali e culturali

5

; i primi possono essere chimici (ad esempio la corrosione del metallo), oppure fisici (l'idrodinamismo

6

), ed infine biologici, dovuti ad agenti faunistici o floreali (concrezionamento dei materiali organici ad opera della teredo navalis, di funghi o batteri, ricopertura del manto algoso oppure intromissione di animali acquatici).

I processi culturali sono gli agenti che modificano la posizione e lo stato fisico–

chimico del relitto fino a produrne, in molti casi, la piena dissoluzione (il recupero immediatamente successivo all'affondamento, la pesca a strascico, l'attività antropica ed il recupero moderno).

Infine, non meno importanti nella formazione del giacimento sono le condizioni e la violenza del naufragio, la natura del carico, le caratteristiche del fondo marino e la profondità

7

.

La nave rappresenta una sorta di microcosmo all'interno del quale l'equipaggio esercita molte attività e il cui riflesso è rappresentato dai rinvenimenti nel relitto.

5 Beltrame, 2002

6 L' idrodinamica si occupa dello studio del moto dei liquidi in relazione alle forze che lo influenzano e i problemi ad esso correlati.

7 Gianfrotta, Pomey, 1981

(7)

Essi possono appartenere ad uno dei seguenti gruppi:

• in uso;

• in stivaggio come merce;

• in specifiche deposizioni culturali;

• in stato di occultamento volontario (oggetti nascosti) o accidentale (oggetti persi).

Uno tra gli elementi più importanti dell'armamento navale è l'ancora, presenza costante tra i materiali archeologici rinvenuti in mare.

Purtroppo molto spesso questi reperti sono oggetto di recuperi arbitrari, a scopo collezionistico, ed anche nel caso in cui entrino a fare parte delle collezioni pubbliche di magazzini o musei, ormai hanno irrimediabilmente perso gran parte del loro valore documentario.

Se si tratta di ceppi in piombo, all'asportazione illegale e alla conseguente alterazione del contesto originario si aggiunge, a volte, anche la distruzione materiale del pezzo che viene fuso per riutilizzarne il metallo.

Riflesso di tale situazione è la desolante statistica delle ancore recuperate, delle quali, su migliaia di esemplari, pochissime possono essere poste in relazione con relitti di navi e quindi ricevere una sicura datazione. Anche per questo motivo, purtroppo, è sempre stato minimo l'interesse verso questi oggetti che, condividendo una sorte comune ad altre classi di materiali comprese nel grande insieme dell'“instrumentum domesticum”

8

, molto raramente sono stati ritenuti degni di studio e di pubblicazione.

Dall'associazione con i relitti dipende gran parte della conoscenza, a tutt'oggi molto lacunosa, che si ha delle ancore antiche ed il miglioramento delle studio di questi reperti è indispensabile se si considera che molto spesso si verificano rinvenimenti di ancore isolate, già per condizioni determinatesi anticamente come la perdita o il voluto abbandono da parte dell'equipaggio. Il “getto a mare” è

8 Nei reperti archeologici, l'insieme degli oggetti e delle suppellettili di uso domestico. Anche le iscrizioni (bolli, timbri, sigle di proprietà, marchi di fabbrica, ecc.) che si trovano su tali oggetti, in quanto ci permettono di stabilire la proprietà e il luogo di una certa produzione, la sua consistenza economica, l'ampiezza della sua zona di influenza e della diffusione di certi prodotti. Possono esser compresi nell'instrumentum domesticum le sortes (frasi con oracoli su laminette, bastoncini, ecc.) e le tabellae defixionis, tavolette cui si affidavano maledizioni e formule magiche atte a provocare la morte dei nemici (Gianfrotta, 1980).

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un'operazione conosciuta in ogni epoca e consiste nell'alleggerire la nave in pericolo di una parte o di tutto il materiale di bordo, di parte del carico e anche dell'attrezzatura, nel tentativo di evitare il naufragio.

Se ciò avviene nel corso di una violenta tempesta, il materiale gettato fuori bordo sarà disperso su una superficie molto vasta e non assumerà l'aspetto di un deposito. Al contrario, se l'operazione ha luogo quando l'imbarcazione è ferma, il deposito apparirà simile a quello formatosi dopo un naufragio.

La descrizione della tempesta che colpisce il naviglio su cui era imbarcato San Paolo, durante il suo viaggio dalla Palestina fino a Roma, mostra in modo chiaro il getto a mare anche delle ancore in caso di necessità:“Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. Ma, poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prua, Paolo disse al centurione e ai soldati: «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo». Allora i soldati tagliarono le gomene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare”

9

. La nave sulla quale era imbarcato possedeva almeno sei ancore, oltre alla così detta ancora sacra. Venne applicata, in questo caso, la tecnica che consisteva nel non gettare l'ancora direttamente della nave ma nel portarla ad una certa distanza con l'aiuto di una scialuppa, in modo da poter tonneggiare la nave

10

.

É particolarmente difficoltoso tentare di inquadrare questi materiali in una tipologia cronologica attendibile, ma è tuttavia possibile tracciarne a grandi linee l'evoluzione.

L'utilizzo dell'ancora ha origini remote che, ovviamente, si legano a quella stessa della navigazione, trattandosi appunto di uno strumento ad essa indispensabile.

Fin dai primi tentativi di spostarsi sull'acqua, l'uomo ha avuto la necessità di riuscire a fermare la propria imbarcazione e l'unica soluzione per ottenere ciò quando non vi era la possibilità di tirare a secco o ormeggiare il natante fu l'utilizzo di un oggetto sufficientemente pesante che, per mezzo di una cima,

9 Viaggio di San Paolo, Atti degli Apostoli XXVII.

10 Spostare un galleggiante facendo forza da bordo su cavi fissati dall’altro lato a terra o a una boa o a un’ancora.

(9)

trattenesse la barca. A tal scopo l'uomo scelse una materia prima facilmente reperibile e disponibile: la pietra.

Sassi, piccoli massi, pietre, ciottoli, messi a disposizione dalla natura e pronti ad essere utilizzati, in varie forme e dimensioni: nacquero le prime ancore.

L'affondamento di un'ancora avveniva generalmente su fondali sabbiosi o su fango e per essere sicuri di lanciare l'attrezzatura su un fondale adatto si utilizzavano pesanti scandagli, interamente vuoti e aperti nella parte inferiore.

Essi venivano riempiti di grasso vischioso cosicché, quando venivano recuperati a bordo, vi rimanessero attaccati elementi utili a capire la tipologia di fondale:

roccia, fango, sabbia, posidonia

11

.

Una volta lanciata, l'ancora arava il fondo fino a far presa e se cambiava il vento o il mare si ingrossava facendo scarrocciare la nave, l'ancora poteva restare incagliata in qualche roccia e lì veniva abbandonata.

La transizione tra Neolitico ed Età del Bronzo fu importante non solamente per il passaggio dalla piroga ad un'imbarcazione assemblata ma sopratutto per lo sviluppo di concetti, idee, capacità di programmazione: fenomeni che permisero all'uomo la costruzione di un natante costituito da vari elementi. Si tratta del passaggio da una semplice tecnologia che utilizza elementi naturali senza modificarne l'aspetto esteriore in maniera sostanziale ad una tecnologia più complessa che giunge ad assemblaggi più complessi. Le nuove imbarcazioni presentano una struttura che ricorda quelle precedenti, le uniche differenze sono costituite dalla disposizione quasi perpendicolare delle fiancate rispetto al fondo, dalla prua quadrata e dalla poppa affilata e leggermente più alta rispetto alla prua.

H. Frost

12

ritiene che già le imbarcazioni dell'Età del Bronzo fossero dotate di numerose ancore litiche, il cui peso medio doveva superare i cento chili, ipotizza che queste fossero disposte in file trasversali nella stiva, con una distribuzione equa tra prua e poppa e che venissero mosse per mezzo di un bigo e il relitto di Ulu Burun può esserne la dimostrazione. Si tratta di un'imbarcazione riferibile all'età del Bronzo, scoperta nel 1982 sulla costa meridionale turca a otto chilometri da Kas, ad una profondità di 43-52 m. Nello scafo, realizzato a mortase e tenoni, chiglia e tavole in abete, tenoni e perni in quercia, sono state

11 D' Angelo, 2009.

12 Frost, 1989.

(10)

rinvenute ancore in pietra pesanti 270-350 kg cadauna.

La tappa successiva determinò un cambiamento radicale nel sistema di costruzione e nella forma delle ancore, accrescendone di molto la funzionalità.

Il sasso non costituisce più il corpo principale dell'ancora ma diventa contrappeso delle sue marre: si diffonde l'ancora litica composta: blocchi di pietra di piccolo spessore muniti di fori.

Proseguendo nella sua evoluzione, un importante miglioramento tecnico, le cui più antiche attestazioni risalgono al VII sec. a. C., comportò un cambiamento radicale nella forma delle ancore, accrescendone di molto la funzionalità e dando luogo all'origine dell'ancora vera e propria, nel senso moderno del termine, composta da una trave di legno, con una o due marre fortemente piegate, alla quale era fissato un ceppo di pietra. Come già in precedenza, la pietra continuava ad avere funzione di peso per fare disporre orizzontalmente sul fondo la trave lignea e permettere alle marre di fare presa.

Un ulteriore cambiamento si manifestò nel corso del IV secolo a. C. e fu determinato da una sostituzione di materiale, in quanto il ceppo in pietra viene soppiantato nell'uso dal ceppo in piombo.

All'inizio dell'età ellenistica risalgono le prime documentazioni di ancore con ceppo di piombo, menzionate in una iscrizione ateniese del 329 a. C.

13

.

Questo miglioramento sostanziale, riguardante la natura del materiale del ceppo, ne lasciò pressoché inalterata la forma.

La sua applicazione, seguita dalla completa diffusione in tutta la marineria antica, costituì sicuramente un grande progresso tecnico derivante dagli immaginabili vantaggi che il piombo offriva, per sue intrinseche caratteristiche, nei confronti della pietra. Questo cambiamento comportò non soltanto un miglioramento dello strumento in sé, ma un potenziamento generale della tecnica navale.

Le navi di epoca classica avevano sempre in dotazione numerose ancore, ma è probabile che, almeno a partire da quest'epoca, il numero, il peso e le dimensioni di queste fossero, in qualche modo, regolamentate. Tale supposizione può trovare un suo fondamento nel fatto che molto spesso siano stati ritrovati ceppi con numerali romani indicanti il peso in libbre, nomi del proprietario o dell'armatore

13 CIG 112 1627, 282-86.

(11)

della nave.

Oltre alle ancore normali, dette “di posta” o “di servizio”, ne esisteva un'altra, generalmente la più grossa tra quelle utilizzate a bordo, che veniva utilizzata solo all'ultimo, quando le altre ancore si erano dimostrate incapaci di trattenere la nave. Tale ancora veniva denominata, da antico, sacra oppure “di salvezza”, “di speranza”, “di misericordia”

14

.

Ciò testimonia come, già nell'antichità, fosse pienamente sviluppato il valore emblematico dell'ancora, simbolo di salvezza e di scampo. Significato che, successivamente, il Cristianesimo erediterà facendo dell'ancora l'immagine di una delle sue virtù teologali: la speranza

15

.

Le ancore con ceppo di piombo rimangono in uso per molto tempo senza subire variazioni di rilievo fino ad essere abbandonate per l'impiego esclusivo di ancore di ferro.

Prima di procedere ad un più dettagliato inquadramento storico e tipologico delle ancore, ritengo sia importante fare una prima considerazione che rappresenta, in parte, in una delle tante difficoltà che si incontrano nello studio di questi reperti.

Molti utilizzano il termine “ancora” in modo generico, per indicare lo strumento nautico che si utilizza per trattenere un'imbarcazione, per ancorarla quando non è in navigazione. Per meglio identificare lo strumento d'ancoraggio vengono usate le dizioni “ancora a gravità” e “ancora a presa”

16

.

L'ancora detta a gravità potrebbe anche essere indicata come “corpo morto”,

“pietra d'ormeggio” o “mazzera”

17

.

“Corpo morto” è un termine che, ai giorni nostri, spesso viene utilizzato per indicare un peso, diverso dall'ancora, che trattiene un natante. Tuttavia nel Dizionario della Lega Navale Italiana si legge che il corpo morto è “una grande ancora affondata in una rada, golfo o porto, in un punto sicuro per l'ancoraggio”.

Quello che identifica il corpo morto non è il fatto che lo strumento di ancoraggio agisca per il proprio peso o per la propria forma, bensì il fatto che tale strumento sia lasciato affondato in permanenza in una determinata zona. D'altronde, secondo

14 Gianfrotta, 1980.

15 Janni, 1996.

16

Uccelli, 1983.

17 Dall'arabo ma'ṣara 'pressa', ammasso di pietre applicato al fondo della rete della tonnara per mantenerla ferma.

(12)

altri, il corpo morto è “qualunque sostegno per dar volta alle gomene”

comprendendo, tra i sostegni, anche le boe d'ormeggio, trattenute dai corpi morti

18

.

In questa ricerca, dal momento in cui anche un'ancora può costituire un corpo morto, verranno utilizzate le dizioni “ancora a gravità” e “a presa”. Tale suddivisione, molto generale, può essere un'utile base per inquadrare tipologie più precise, determinate principalmente in base all'epoca e al periodo. Il fattore cronologico infatti è strettamente correlato alle conoscenze tecniche che permettono un'evoluzione, più o meno rapida, dell'oggetto. Tuttavia, è possibile che le capacità tecniche, in uno stesso periodo, possano essere differenti a seconda dell'area presa in esame. Altri fattori imprescindibili sono quelli economici, commerciali ed ambientali, che influiscono direttamente, ad esempio, sui materiali utilizzati per la costruzione dell'ancora. I materiali stessi possono costituire un valido fattore tipologico.

Per proporre una valida suddivisione tipologica, è consigliabile combinare insieme, di volta in volta, più fattori.

La suddivisione che verrà utilizzata per analizzare le principali tipologie di ancore antiche è la seguente:

ANCORE A GRAVITA'

• Pietre non lavorate

• Pietre lavorate

ANCORE A PRESA e A GRAVITA'

• Con marre

• Con fusto

• Con marre e fusto

18 Dell'Amico, 1999.

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ANCORE A PRESA

1. ANCORE IN LEGNO

• a ceppo fisso in pietra

• a ceppo fisso in piombo

• a ceppo fisso in legno

• con semiceppi

• a ceppo mobile in piombo

2. ANCORE IN FERRO

• a ceppo mobile in piombo

• a ceppo mobile in ferro

• a ceppo mobile in legno

• a ceppo fisso in ferro

• a ceppo fisso in legno

ANCORE A PRESA “PARTICOLARI”

• ancoressa

• ancore a più di due marre

Prima di analizzare nel dettaglio i tipi sopracitati è utile dedicare qualche riga alla terminologia generale relativa alle parti costituenti un'ancora (fig. 1).

La parte rettilinea centrale è il fuso o fusto, le cui estremità sono denominate diamante quella inferiore e quadrato o quadro quella superiore. Nel quadrato è presente un foro detto occhio per la cicala nella quale è inserito anello o cicala o maniglione; alla cicala viene ammanigliata la catena o data volta la cima d'ormeggio. Poco sotto la cicala troviamo il ceppo, costituito da un trave litico, ligneo o di metallo fissata ortogonalmente al fusto.

Le due metà del ceppo, da una parte e dall'altra del fuso, sono i bracci del ceppo.

Dal diamante si dipartono le marre, i bracci con cui l'ancora fa presa sul fondo. Le

(14)

marre sono disposte su un piano perpendicolare a quello del ceppo.

italiano francese inglese spagnolo tedesco

ancora ancre anchor ancla anker

ceppo jas stock cepo ankerstock

braccio del

ceppo bras arm brazo arm

incasso boite both agujero mittelauge

perno di fissaggio

tenon retaining bar perno splint

contromarra pièce

d'assemblage cross brace pecio de

assemblajo verbidungstüc k

marre pattes flukes marras flunken

unghie o punte di marre

pointes nails unas klauen

fusto verge shank eje de madera schaft

Glossario comparativo delle principali componenti di un'ancora ( Perrone Mercanti 1979)

Altra terminologia, pertinente ad un tipo specifico di ancora, verrà presa in

considerazione di volta in volta.

(15)

1.2. LE ANCORE A BORDO: SISTEMAZIONE E MANOVRA

In epoca classica avevano in dotazione numerose ancore, forse a riprova del fatto che spesso dovevano essere abbandonate sul fondo

19

.

In alcuni relitti risulta ancora ben visibile l'area che, sul ponte, serviva come deposito per le ancore non utilizzate.

Il Capo Dramont (Saint- Raphaël, Francia), situato lungo una rotta molto frequentata nell'antichità e in una zona di venti variabili e alte scogliere, doveva essere una zona particolarmente difficile da doppiare come testimoniano i numerosi relitti individuati in questo tratto di mare.

Sul relitto del Dramont D (I secolo d. C.

20

), furono recuperate tre ancore in ferro posizionate, da una parte all'altra del carico, con il ceppo in posizione di lavoro.

Due di esse furono ritrovate saldate tra loro per il ceppo e concrezionate insieme ad un'anfora tanto da rendere quasi impossibile l'identificazione della sagoma. La terza invece ha permesso di chiarire che la forma delle marre era quasi a quarto di cerchio con le estremità rettilinee, quasi a preludere alla sagoma bizantina. Tutte sembrano essere a ceppo mobile.

Sul relitto Dramont F (metà IV – metà V secolo d. C.), quattro ancore in ferro sono state recuperate a nord del giacimento, concrezionate tra loro e saldamente attaccate a molti frammenti di ceramica fine e a due anfore. La principale (cm 170) e le tre più piccole e leggere (cm 136-140) erano disposte con cura, di piatto, le une sulle altre, con il ceppo sfilato, ai lati del carico (fig. 2). Queste ancore sono sottili e allungate (il peso dell'intera concrezione non superava i 460 kg) e presentano una sagoma delle marre intermedia tra l'ancora romana e quella bizantina, ma di forma più evoluta rispetto a quelle precedentemente esaminate.

In entrambi i relitti sono presenti ancore di sagoma di transizione

21

ma nel Dramont F esse sono più simili alle ancore bizantine.

É il Dramont C (fine II – inizio I secolo a. C.) il relitto in cui è maggiormente ricostruibile la reale collocazione del carico e dell'attrezzatura di bordo (fig. 3).

La nave, con una lunghezza di circa 12-13 m e orientata a nord - nord-ovest, sud

19 Bass, 1974.

20 Datazione proposta da J. P. Joncheray in base allo studio dei materiali del carico (Joncheray, 1975) .

21 Perrone Mercanti, 1979 .

(16)

– sud-est, presentava, al momento dello scavo, un carico eterogeneo ma riposto con molto ordine. Le anfore, sparse, presentano una inclinazione verso sud, est ed ovest che corrisponde da una parte ad una leggera pendenza del fondo marino verso sud e, d'altra parte, alla presenza di un possibile ostacolo a nord o di un altro elemento del carico. I grossi vuoti che si possono notare tra i gruppi di anfore inclinate, sono quasi certamente da attribuire a zone in cui questi recipienti erano stivati verticalmente. Anfore di tipo Lamboglia II sono disseminate, in piccola quantità, con un orientamento uguale ad anfore Dressel 1B, in numero nettamente maggiore.

Proseguendo verso nord, verso la prua del relitto, sono stati riportati alla luce altri reperti, alcuni appartenenti al corredo di bordo.

Tre ceppi in piombo e un'ancora in ferro si trovano nella zona più a nord del relitto. Un ceppo è orientato nord-sud, vicino alla chiglia, il secondo a babordo, il terzo a tribordo, parallelo ai precedenti. Entrambi conservano alcuni frammenti di legno di quercia appartenenti al fusto.

• Il primo ceppo misura 1090 mm di lunghezza, un'apertura per l'inserimento del fusto di 142 x 185 x 130 mm e tenone centrale con sezione quadrata.

• Il secondo ceppo ha una lunghezza pari a 1224 mm e bracci rettilinei, le dimensioni del foro sono di 135 x 166 x 125 mm e il tenone centrale ha sezione rettangolare.

• Il terzo ceppo, affine agli altri nelle dimensioni, è stato rinvenuto con un'ampia porzione del fusto.

Come già anticipato, è stata rinvenuta a tribordo anche un'ancora intera in ferro, paragonabile a quelle recuperate sulla Dramont D, con il fusto orientato a 45°

rispetto alla chiglia.

Altri due interessanti esempi riguardano i relitti turco di Yassi Ada (VII sec. d. C.) e di quello di Punta Scaletta (seconda metà del II a. C.), nave oneraria romana scavata all'inizio del 1960 da N. Lamboglia.

Sulla prima nave, mercantile da cabotaggio di circa 40 tonnellate di portata utile,

sette delle undici ancore in ferro rinvenute erano raccolte sul ponte, accatastate in

gruppo compatto presso l'albero della nave, mentre le altre quattro erano

(17)

sistemate ai lati e pronte all'uso.

Nel relitto di Punta Scaletta troviamo in associazione, su un'unica nave, ancore in legno con ceppo in piombo e ancore in ferro, una a ceppo mobile e altre di un solo pezzo. Questo, secondo Lamboglia

22

dimostra, per lunghe navigazioni, l'impiego di un'attrezzatura specializzata a seconda delle esigenze e delle circostanze.

Le quattro ancore in legno, delle quali rimangono solo le parti metalliche, erano tutte a ceppo fisso, simili tra loro nella struttura e nelle dimensioni: 1.60 m di lunghezza per i ceppi e 70-80 cm per le contromarre.

La tecnica costruttiva di questi reperti sembra piuttosto progredita, data la loro regolarità; due di essi presentano un incasso quadrangolare, due ovale, tutti sono forniti di un perno in piombo all'interno dell'incasso. Tutti presentano delle torsioni, più o meno evidenti, testimonianza delle sollecitazioni subite durante l'impiego.

Nel caso delle piccole imbarcazioni possiamo supporre che le ancore fossero sistemate a bordo e gettate a mare, e salpate, a mano o con l'aiuto di un rullo di invio o di una puleggia.

Elemento indispensabile per l'ormeggio all'ancora antica fu, per millenni, il cavo.

Tali cime, in qualche raro caso, potevano essere fatte con strisce di cuoio ma, nella quasi totalità dei casi e delle aree geografiche, esse erano costituite con fibre vegetali: papiro, giunchi, canapa, manila, iuta, pitta, corteccia ecc. e, più raramente, in lino. Solo nel XVIII secolo la catena in ferro prese il sopravvento sulla cima.

Prendendo in considerazione navi di stazza maggiore, aumenteranno, proporzionalmente, le dimensioni ed il peso delle ancore impiegate di conseguenza le manovre a mano ed il posizionamento sul ponte diventano impossibili. Un bassorilievo di Narbonne mostra un'oneraria con, a prua, un'ancora sospesa ad una gru mentre un modellino in terracotta di una nave da guerra rinvenuto a Gytheion (antica Gizio, Grecia), mostra, sempre a prua, un elemento orizzontale interpretato da Basch come un argano per salpare l'ancora e

22 Lamboglia, 1964

(18)

all'esterno, nella parte alta della zona prodiera, i resti di due elementi identificati come gru di capone.

Non è chiaro, secondo Dell'Amico

23

, se le cime d'ormeggio passassero direttamente attraverso tali gru o se esistevano delle cubie e le gruette servivano solo a caponare l'ancora.

L'autore ipotizza ancora che anche nell'antichità le ancore di una certa grandezza venissero rizzate a murata fuori bordo. Dimostrazione di questa teoria potrebbe essere considerata la guaina lignea che ricopriva l'ancora in ferro di Nemi, realizzata come rivestimento per evitare sfregamenti tra il ferro dell'ancora e la fiancata della nave

1.3. DALLE ORIGINI ALLE PRIME PIETRE LAVORATE: ANCORE LITICHE A GRAVITA'

“(...) νῆες ὅσαι πρῶται εἰρύαται ἄγχι θαλάσσης, ἔλκωμεν, πάσας δὲ ἐρύσσομεν, εὶς ἄλα δῖαν,

ὔψι δ' ἐπ' εὐνάων ὁρμίσσομεν, εὶς ὃ κεν ἔλθῃ νὺξ ἀβρότη”

Le navi, le prime che sono in secco in riva al mare, tiriamole, spingiamole tutte nel mare divino,

in alto ormeggiamole alle ancore, fino che venga la notte immortale

24

.

Con il termine “a gravità” vengono classificati tutti i corpi morti o pietre di ormeggio che, solamente in virtù del loro peso, sono in grado di trattenere un natante

25

.

Gli autori antichi definiscono questi primitivi oggetti ԑủνὴ (letteralmente “letti” o

23 Dell'Amico, 1999.

24 Hom. Iliade,XIV 75-78.

25 Dell'Amico, 1999

(19)

“giacigli”

26

), termine greco che definisce le prime e più semplici ancore. Nella maggior parte dei casi null’altro che grosse pietre non lavorate, di una certa grandezza e peso, che vengono legate ad una cima di ormeggio oppure imbracate con sagole di fibre vegetali o di pelle animale, alle quali è collegata la cima che le tiene unite allo scafo. Questo tipo di ancora primordiale poteva essere usata su qualsiasi tipo di fondale, fungendo da buon freno alla spinta, spesso eccessiva, della corrente.

Poiché il peso di questi oggetti doveva essere proporzionale alle dimensioni e al carico dell’imbarcazione, ne deriva che tutte le navi protostoriche di una certa grandezza dovessero servirsi di ancore alquanto massicce e pesanti. Pietra dura, naturalmente, scelta in base alla resistenza, alla durata, alla grana e alla lavorabilità

27

.

Bisogna tener presente che questo tipo di ancore erano facilmente reperibili e trasformabili in oggetto d'uso da parte di qualsiasi equipaggio. Apollonio Rodio cita il cambio di una piccola ancora litica con un masso più pesante e più adatto alle esigenze che comporta la navigazione: “ Qui giunse Argo, spinta dai venti di Tracia, e il Porto Bello l'accolse al termine della sua corsa. E qui per consiglio di Tifi sciolsero la piccola pietra, la loro ancora, e la lasciarono sotto una fonte che ha nome Artacia, e ne presero un'altra più adatta, pesante”

28

.

Per ogni tipo di ancora litica si può stabilire con molta approssimazione l’epoca di esordio e la durata d’uso (come ancora di prima scelta); particolarmente complicato è precisare l’effettivo termine d’uso poiché l’introduzione di ogni nuovo modello non ha mai soppiantato quelli precedenti che, nella maggior parte dei casi, hanno continuato ad essere usati anche per secoli.

Non si può omettere la storica Tabella di H. Frost che, per prima, tentò di

26 I commentatori hanno offerto diverse soluzioni in merito al sostantivo che utilizza Omero, nessuna delle quali completamente convincente. Si è spesso ritenuto che le navi omeriche, per ancorarsi, si servissero di “molte pietre legate con gomene al bordo, così che la nave quasi si adagiava in un letto” (Vocino, 1942); altri ritengono che le ancore venissero chiamate così “a causa della forma assunta con l'inserimento dei pioli lignei nella lastra litica” (Purpura, 1986).

27 Principalmente le ancore venivano fabbricate con pietre laviche e calcaree, con travertino, scisto, tufo, quarzite,porfido e granito. Sono state però rinvenute anche ancore di materiale più leggero e fragile, come il macco conchiglifero, la calcarenite o la terracotta. Il materiale utilizzato, nella maggior parte dei casi, era quello più facilmente reperibile in zona e quindi risente delle qualità litologiche dell'area di produzione (Dell'Amico, 1999).

28 Apoll. Rhod., Le Argonautiche, I, 953-960.

(20)

elaborare un catalogo delle principali ancore in pietra

29

(fig. 4). Questa classificazione prende in considerazione le più antiche ancore rinvenute nel Mediterraneo, con particolare riferimento al bacino orientale, senza però rispettare alcun ordine cronologico e tipologico. Rimane in ogni caso utile per analizzare le principali differenze tra le varie tipologie.

Ho deciso di seguire per questa ricerca la classificazione, maggiormente documentata, proposta da F. Papò

30

che prevede una suddivisione delle ancore litiche in pietre a rocchetto (PR), pietre a ciambella (PC) , pietre forate con uno, due, tre o più fori passanti (PF1, PF2, PF3, PF4 ecc.) ed infine killicks (KL).

1.3.1 ANCORE “A ROCCHETTO” E “A CIAMBELLA”

“ (...) αὐτοῦ ἐπ' ἐσχατιῇ πέτρης ἐκ πείσματα δήσας”

proprio lì all'estremità del porto legai ad una roccia le funi

31

Un passo in avanti è costituito da pietre lavorate al fine di migliorare l'unione tra la pietra e la cima.

Il termine “rocchetto” richiama i rocchetti degli antichi telai di tessitura, fatti per avvolgere, svolgere e mantenere tesi i fili e le cordicelle da tessere. Le ancore “a rocchetto” presentano una forma geometrica, oblunga, generalmente con una sezione, un collo o una strozzatura, capace di accogliere gli avvolgimenti di un canapo.

Un esempio può essere un'ancora recuperata da Franco Papò, alla fine degli anni cinquanta, nella baia di Giardini Naxos e attualmente conservata al Museo Archeologico di Rieti. Si tratta di un ovale di tufo di 11 chilogrammi, lungo 34 cm, ben lavorato e tornito, con ampia e profonda scanalatura mediana a tutto giro e un'evidente incisione a croce (fig. 5).

29 Frost, 1963.

30 Papò, 1968.

31 Hom. Iliade,X-96.

(21)

Altrettanto interessante è la forma di alcune pietre recuperate nel sito di Agde

32

, vicino Narbonne (fig. 6). Si tratta di semplici pietre vulcaniche, alcune grossolanamente sbozzate e lisciate su un lato, altre lavorate su entrambe le facce fino a formare delle piramidi tronche o dei parallelepipedi regolari. Presentano una sezione rotonda (C), triangolare (O), rettangolare (I, L, M, N) o trapezoidale (B, G, H). La lunghezza va dai 35 ai 55 cm e l'altezza dai 15 ai 35 cm.

La maggior parte di queste pietre presenta una scanalatura arrotondata o a V (G, H, N) che serviva per essere legata ad una corda.

Una di queste ancore (distinta con la N) presenta un' incisione, molto simile alla lettera A su una delle facce.

Le ancore litiche “a ciambella” sono pietre circolari, cioè a disco, di peso variabile e con un grande foro centrale per legarvi la fune.

Un'ancora di tale tipologia viene raffigurata su una brocca cipriota

33

(fig. 7) risalente al VIII-VII sec. a. C., dove si può osservare un agile marinaio con berretto frigio, arrampicato sulla prua di un imbarcazione medio-piccola, mentre manovra il bilanciere utilizzato per calare e sollevare la grossa pietra forata. Nella rappresentazione la pietra viene calata da prua come generalmente avviene nel sistema di attracco delle imbarcazioni: poppa verso terra e ancora filata di prua.

Interessante è il bilanciere rappresentato sulla brocca, costituito da una lunga asta a cui viene assicurata la pietra e controbilanciato probabilmente all'altro capo dell'asta da un'altra pietra.

Principalmente esistono due diversi tipi di “ciambella”: senza sporgenza forata e con sporgenza forata. Il foro esterno sulla sporgenza è riservato alla fune la cui legatura, in alcuni casi, non avveniva intorno al corpo (fig. 8).

Vale la pena riportare, a titolo di cronaca, l'ipotesi di H Arroyo

34

che presume l'inserimento di un fusto costituito da un paletto o da un ramo, di forma rotonda, con foro centrale in alcune pietre piatte , da molti identificate come semplici ancore a gravità. Arroyo scive:“la verge est constituée par une branche droite

32 Bouscaras, 1964.

33 Attualmente conservata al British Museum, Londra. (Avilia, 2008) 34 Arroyo, 1975

(22)

coupée entre une fourche et une ramure latérale, la fourche arrêtant le disque et l'embranchement latéral servant à fixer la corde.”. Il ramo impiegato presenterebbe, nella parte inferiore, una biforcazione che impediva al disco di sfilarsi, mentre all'altra estremità veniva lasciata la base di un rametto laterale che facilitava la tenuta della cima (fig. 9).

Anche V. Tusa

35

propone una personale interpretazione in merito all'utilizzo di una pietra forata ritrovata a 31 m di profondità nel versante ovest dell'Isola delle Femmine (fig.10). Lo studioso scrive: “Il nostro pezzo presenta ai lati del foro due avvallamenti causati in maniera molto chiara dall'uso, evidentemente dallo sfregamento di corde; inoltre lungo tutto lo spessore corre una scanalatura per la quale passava certamente una corda. Volendo tentare una costruzione ritengo che si debba pensare ad una lunga travedi legno passante attraverso il buco, tenuta stretta da funi, davanti e dietro, che passavano da quelle parti oggi avvallate e quindi giravano attorno alla pietra entro la scanalatura dello spessore per poi ritornare nella trave e finire in alto con un anello di corda per il quale la pietra veniva issata o abbassata.”

1.3.2 DA ANCORE “A PESO” AD ANCORE “A PRESA”: LE PIETRE FORATE

“(...) οἱ δ' ὄτε δή λιμένος πολυβενθέος ἐντὸς ἴκοντο, ἱστία μὲν στείλαντο, θέσαν δ' ἑν νηῒ μελαίνῃ, ἰστὸν δ' ιστοδόκῃ πέλασαν προτόνοισιν ὐφέντες καρπαλίμως, τὴν δ' εἰς ὄρμον προέρεσσαν ἐρετμοῖς.

Ἐκ δ' εὐνὰς ἔβαλον, κατὰ δὲ πρυμνήσι' ἔδησαν∙

ἐκ δὲ καὶ αὐτοὶ βαῖνον ἐπὶ ῤηγμῖνιθαλάσσης”

Essi dunque, come giunsero al porto acqua profonda, raccolsero le vele, le deposero nella nave nera, l'albero spinsero al suo cavalletto, allentando i cavi in fretta, e verso l'ormeggio avanzarono a forza di remi;

35 Tusa, 1961

(23)

fuori gettarono le pietre forate e legarono il cavo di poppa, fuori essi pure uscirono sopra la ghiaia marina

36

Al momento dell'attracco la vela veniva ammainata, mentre l'albero veniva calato tramite gli stralli di prua in una forcella posta a poppa, per evitare oscillazioni durante il remaggio. A questo punto la nave era senza controllo per cui, al più presto e a forza di remi, si raggiungeva la riva dove venivano calate le ancore in pietra da prua e si legava di poppa un cavo a terra. La nave si avvicinava dunque alla riva quanto più possibile di poppa, facendo filare le ancore di prua; giunti in acque basse si poteva scendere dall'imbarcazione e assicurare la cima di poppa a terra.

In questi versi, con il termine εὐνή, che Omero utilizza sempre al plurale

37

, si indicano pietre traforate, ovvero passate da parte a parte da uno o più fori, il più apicale dei quali serviva per infilarvi e legarvi una cima.

Queste ancore possono avere diverse forme, le più antiche sono troncopiramidali, troncoconiche e ovoidali. Altre forme, più rare, sono quelle a lastrone

38

.

Questo tipo di ancore è esclusivamente gravitazionale, senza alcun tipo di appiglio sul fondale e, poiché la tenuta è proporzionale al peso calato in acqua, potevano essere grosse, massicce ed eccezionalmente pesanti. Esiste indubbiamente una correlazione tra il peso dell'ancora e la stazza dell'imbarcazione, perciò da questo fattore si può risalire con una certa approssimazione alle dimensioni delle navi sulle quali esse erano utilizzate . Inoltre è utile considerare anche che non ne veniva calata in acqua una sola ma diverse ancore per volta e che ogni imbarcazione ne possedeva anche quelle di riserva ed altre eventuali da zavorra. Alla luce di ciò risulta evidente che ogni nave dovesse averne in dotazione un numero elevato.

Essendo tutte protostoriche, le PF1 comparvero in epoche diverse, a seconda del luogo.

36 Hom. Iliade, I 432-437.

37 Iliade I,436 e XIV,77. Odissea IX,136 e XV,498. Omero usa il termine anche al singolare, ma esclusivamente con il significato di letto o giaciglio.

38 Questa forma ha forse qualche fondamento archetipo-religioso: come le stele votive, religiose o tombali, anche le ancore avevano connessioni o valenze esistenziali-religiose, se non altro perché permettevano e offrivano, nei momenti critici della vita di mare, speranza di aiuto e salvezza (Papò, 2008).

(24)

L'esordio si ebbe comunque in Egitto, prima sul Nilo e poi in mare, sin dai primi secoli del III millennio a.C. Il loro utilizzo si sarebbe protratto per tutto il millennio iniziale e per buona parte del successivo, sino all'avvento delle pietre composite, pluriforate con marre in legno, alle quali avrebbero lentamente ceduto il posto, mai del tutto scomparendo fino alla fine del I millennio a. C. .

Le PF1 lavorate più antiche vengono chiamate ancore Biblio - NEFER

39

( fig.

11), si presentano come un massicci lastroni litici rettangolare con apice ovale, di cm 80-100 x 45-50 in media e peso tra 1 e 2 quintali. Può essere presente anche una scanalatura verticale che congiunge l'apice al foro passante rotondo, adibita allo scorrimento del cavo di ritenzione. In uno degli angoli della base è presente un altro foro, ad L, con ingresso sulla faccia anteriore ed uscita laterale, destinato ad una fune di emergenza, come nell'ancora appartenente alla flotta del Faraone Sahure (V dinastia, 2458-2446 a. C.). Questi vascelli trasportavano truppe in Siria ed erano costruiti in legno di acacia. La propulsione veniva assicurata da pagaie o remi e da un albero bipode abbattibile verso la poppa, con i due fusti collegati da traversini, la cui posizione risulta decentrata verso la prua. L' albero portava una vela quadra i cui lati orizzontali venivano inseriti in due pennoni mentre il governo dell'imbarcazione era fornito da sei remi-timone, tre su entrambi i lati della poppa, aventi stessa forma ma dimensioni maggiori rispetto alle pagaie

40

(fig 12).

Del XIX sec. a. C. è un'ancora definibile semplicemente Biblio, cioè un'ancora di Biblio destinata a navi della stessa città, da distinguersi, dunque, dalla Biblio- NEFER, normalmente destinata alle navi egizie. Le ancore in questione si presentano come lastroni litici alti, dalla forma triangolare isoscele, con apice non eccessivamente arrotondato e la solita scanalatura verticale per il cavo tra apice e foro, caratteristica di tutte le ancore di questo tipo. Manca, invece, l'intaccatura a forma di L (fig. 13).

Pesanti ancore litiche, seppur meglio rifinite, continuano ad essere utilizzate ancora per tutto il XIV e buona parte del XIII sec. a. C., come dimostra il ritrovamento della “Nave delle Meraviglie”: il relitto di Uluburun. Si tratta di

39 Il primo esemplare recuperato fu rinvenuto a Biblio e presentava un'incisione in geroglifico egizio traslitterabile NFR (NeFeR), significante “bello” o “buono” (Papò 2008)

40 Dell'Amico, 2000

(25)

un'imbarcazione mercantile di area egiziana,affondato nei pressi di Kas, lungo la costa meridionale della Turchia e databile alla fine del XIV a. C. .Fu scavata e studiata a partire dal 1983.

Si ritiene che la nave, partita da un porto della costa siro-cananea, dopo aver fatto scalo a Cipro, si stesse dirigendo verso un centro miceneo per poi fare rotta per l'Egitto quando, a duecento miglia a ovest da Cipro, affondò con il suo prezioso carico.

Oltre ai preziosi materiali trasportati, di diversa provenienza e destinazione

41

, sono state recuperate ventiquattro ancore litiche

42

. Si tratta di grandi PF1, spessi lastroni litici di forma rettangolare-trapezoidale, spesso con appice leggermente arrotondato agli angoli, con un solo foro passante, del peso di 120-250 kg.

Nonostante le ampie dimensioni del relitto, risulta difficile credere che le ancore in questione, così numerose, fossero tutte in dotazione alla nave, già zavorrata, come accertato, da oltre trecento pietre. Si può ipotizzare che almeno la maggior parte di esse fosse merce d' esportazione, particolarmente richiesta e utilizzata in tutta la vasta area del Mediterraneo orientale.

Un importante progresso tecnico, determinato dalla maggiore stazza degli scafi, fu quello di praticare nelle pietre lavorate, oltre al foro per la cima d'ormeggio, ulteriori fori che consentissero l'inserimento di rudimentali marre in legno, per far presa sul fondo, la cui punta era, probabilmente, temperata al fuoco. I fori per le marre, in numero variabile da uno ad otto, presentano sezione squadrata o circolare e permettono di ipotizzare diverse disposizioni delle marre. Queste ultime, in legno duro e resistente (ad esempio leccio o quercia), probabilmente erano bloccate all'interno dei fori per mezzo di legature e di spinotti trasversali.

Non erano lunghe più di 30-35 cm (fig. 14).

In tali ancore l'azione del peso si combina con la presa sul fondo; il peso dell'ancora permette l'affondare delle marre nel fondale, come se fossero uncini.

La conseguenza di questo cambiamento fu una sensibile diminuzione del peso dell'oggetto dai quindici ai cinquanta chili.

Entrate in uso probabilmente a metà del II millennio a. C., rimasero in uso

41 Tonnellate di rame cipriota in lingotti, stagno, pasta vitrea, ceramica cipriota d'esportazione, legno pregiato, zanne di elefante, oggetti in avorio, carapaci di tartarughe, denti di ippopotamo, gioielli d'oro e d'argento,attrezzi da lavoro ecc.

42 C. Calcagno, Il relitto di Uluburun, 2001

(26)

almeno fino all'avvento delle ancore a ceppo litico, nel VII-VI sec. a. C.

Le PF3 sono delle lastre litiche di varie forme geometriche, per lo più con apice arrotondato, di dimensione e peso maggiormente contenuti rispetto alle precedenti. Presentano tre fori: uno apicale, generalmente circolare, destinato alla cima o ad un primitivo fusto in legno e due fori circolari o quadrati dove venivano inseriti i pioli. La tenuta era talmente affidabile che ben presto le PF3 declassarono le precedenti PF2.

Esistono anche lastroni con quattro, cinque o più fori passanti. Queste ancore vengono definite “rastrelliere del mare”

43

in quanto, strisciando sul fondale sabbioso per fare presa, lo rastrellavano letteralmente alla ricerca di un appiglio.

Se, però, per la densità spaziale delle marre, le ancore trovavano facilmente un appiglio, per la stessa ragione non potevano ottenere una presa profonda ed efficace. Questo è il motivo per il quale, unitamente al fatto che fossero ancore unicamente da sabbia e fango, ebbero un successo decisamente mediocre. Ne sono stati infatti rinvenuti pochi esemplari (fig. 15).

1.3.3 I KILLICKS

Si tratta delle ancore litiche più recenti, realizzate quando, intuito il concetto di marra, questo venne applicato in modo proficuo applicando uno o due fori accessori sui lastroni litici che già venivano utilizzati con le PF1, inserendovi ad incastro anche cavicchi di rami o pioli in legno destinati ad agganciare il fondale.

Questo metodo è meno solido ma molto più pratico e di rapida realizzazione (fig.16). I killlicks sono quindi ancore di facile costruzione, costituiti da tavolette o travetti in legno generalmente incrociati e zavorrati con un sasso. La loro perdita non costituisce un problema e spesso vengono utilizzati come ancorotti di fortuna.

1.3.4. CEPPI LITICI

Nel VII sec. a. C. Assistiamo ad una vera e propria rivoluzione del sistema di

43 Papò, 2008

(27)

ancoraggio che porta all'archetipo di tutte le moderne ancore. Questo cambiamento consiste nel fissare all'estremità di un fusto in legno due marre, anch'esse in legno, con un angolatura “a forma di freccia” (fig. 17).

La pietra non è più un lastrone ma diventa una barra più o meno lunga; questo ceppo di pietra viene ad incrociare, con una rotazione di novanta gradi rispetto al piano delle marre, l'altra estremità del fusto, alla quale viene imbragato, funzionando da contrappeso a tutta l'ancora. Sarà proprio questa rotazione del ceppo, insieme al suo peso, a costringere le marre a mordere il fondale.

I ceppi litici presentano generalmente la forma allungata di una barra, con sezione rettangolare, un assetto simmetrico, superficie regolare e spesso levigata. Al centro di essi vi era un incavo per la l'imbragatura; questa rientranza spesso veniva lavorata per ottenere un incastro a perfetta tenuta con le corrispondenti tacche del fusto. L'inserimento nel fusto poteva avvenire per incastro o per la divisione del fusto a metà e la successiva chiusura tramite spinotti e legature; in tal modo il ceppo risultava bloccato e perfettamente solidale con il resto dell'ancora. Talvolta veniva alloggiato in una sorta di cassetta di legno o fra due assi parallele di legno che rinforzavano i suoi punti deboli nel momento di impatto con il fondale (fig. 18).

La nuova ancora ebbe subito una grande fortuna, le sue modifiche strutturali comportarono anche un cambiamento del nome greco utilizzato per indicarlo : il termine εὐνὴ venne sostituito dal nuovo ἄγχυρα .

Il primo ad utilizzare questo nuovo vocabolo fu il poeta lirico Alceo tra la fine del VII e i primi anni del VI sec. a. C.

Alceo vive intorno alla metà del VII sec. a. C. ed un confronto con la sua testimonianza può essere considerata un'anfora attica

44

a figure nere,di fine VI sec. a. C.. su di essa è dipinta una scena con guerrieri in armi e, sullo scudo di uno di questi, è raffigurata un ancora, delineata nelle sue componenti essenziali.

Questa ha le marre lignee fortemente ripiegate verso l'esterno, con un ceppo fisso che, per come è rappresentato, potrebbe essere in pietra ( fig. 19).

Strabone attribuisce l'invenzione dell'ancora a due marre al filosofo scita Anacarsi, Pausania invece ritiene che sia stata creata da Mida, re di Frigia, mentre

44 Anfora attica a figure nere, fine VI sec. a. C., conservata al British Museum (Avilia, 2007).

(28)

Plinio concorda con Strabone riguardo all'ancora con due marre, mentre attribuisce ad Eupalamo l'invenzione dell'ancora ad una marra.

Il ceppo poteva essere di varie pietre: tufo, marmo, arenaria, a seconda delle disponibilità del posto, prediligendo chiaramente materiale resistente alla corrosione, urto e sfregamento

45

.

La corretta analisi della pietra con cui è fatto il ceppo, solitamente frutto di recuperi occasionali, può costituire un elemento guida estremamente importante per comprendere la rotta della nave

46

.

A tal proposito, vorrei riportare l'interessante ricerca effettuata da L. Baccele Scudeler, C. Beltrame e L. Lazzarini in merito alla determinazione litologica e la provenienza di ceppi e ancore del Museo Archeologico Regionale di Camarina (RG)

47

. In particolare quattro ceppi d’ancora in pietra e cinque blocchi litici forati, rinvenuti lungo la costa di Punta Braccetto

48

. Questo modesto promontorio roccioso si inserisce in un tratto di costa della Sicilia sud-orientale caratterizzato dal rinvenimento di numerosi relitti e di materiale archeologico sporadico di epoche diverse. Già nel 1987 vennero rinvenuti reperti decontestualizzati, ma fu nell'anno successivo ad essere individuato a nord del promontorio un giacimento archeologico, in cui figuravano anche ancore antiche.

I ceppi litici (fig. 20), databili genericamente tra il VII e il IV sec. a. C., presentano, per la maggior parte (numeri 1-5), la fascia centrale ribassata, atta a fermare il il ceppo nel fusto ligneo dell'ancora e hanno una forma che si può definire classica per la caratteristica centinatura superiore. Il numero 5, con i bracci asimmetrici, potrebbe essere un ceppo di appesantimento di un' ancora ad una sola marra. Il numero 6 è simile ad una barra, di spessore non regolare e a sezione rettangolare che potrebbe identificarsi con un ceppo di appesantimento collegato ad un fusto mediante legature

49

.

I risultati di analisi petrografiche e geochimiche effettuate su nove delle ancore recuperate e attualmente conservate al Museo, fanno parte di un progetto di ricerca più ampio, finalizzato ad analisi archeometriche su un consistente numero

45 Dell'Amico, 1999.

46 Gianfrotta, 1983.

47 Subcolonia di Siracusa, fondata nel 598 a. C., parzialmente distrutta nel 258 a. C. dai romani, sopravvisse fino all'età augustea e successivamente fu abbandonata.

48 Baccele Scudeler, Beltrame, Lazzarini, 2012.

49 Boetto, 1996.

(29)

di ceppi litici di età greca rinvenuti lungo le coste dell’Italia, o in aree santuariali dove venivano spesso offerti come ex voto.

Obiettivo della ricerca è, prima di tutto, identificare le aree di provenienza, possibilmente gli affioramenti (ed eventuali cave) di approvvigionamento per la fabbricazione di questi manufatti. Risultato raggiungibile con maggiore facilità (ma solo attraverso analisi archeometriche) quando si tratta di marmi e possibilmente di marmi largamente diffusi di cui esistono in letteratura estese banche dati, possibile per lave e rocce granitoidi con cui erano fatti macine e materiali da costruzione antichi, sui quali esistono studi dedicati. Al contrario è molto più difficile da ottenere per manufatti ricavati da litologie comuni quali i calcari e le arenarie, la cui diffusione nell’area mediterranea è oltremodo estesa e abbondante.

Una buona determinazione della provenienza delle pietre delle ancore comporterebbe, nel migliore dei casi, l’identificazione del luogo di provenienza della nave a cui apparteneva l’ancora di cui faceva parte il ceppo. Questo obiettivo è però difficilmente raggiungibile, in quanto: nel caso di rinvenimenti sottomarini non è possibile determinare con certezza se l’ancora sia stata imbarcata nel porto di partenza della nave o in quello in cui la nave è stata armata: è possibile infatti che questi manufatti circolassero e venissero reimpiegati, anche mediante riduzione di esemplari più grandi. La località di provenienza indicata dalla pietra rimane dunque solo un indizio, che attribuisce all’imbarcazione una provenienza generica. Stessi limiti presenterà l’informazione offerta da un ceppo rivenuto in contesto santuariale, o comunque terrestre, come d’altronde è il caso della maggior parte dei pezzi in corso di studio.

Nonostante queste premesse, le analisi archeometriche, fino a oggi assai raramente applicate su questo tipo di oggetti, permettono di ricavare indizi preziosissimi per la conoscenza della navigazione e dei commerci nel Mediterraneo preromano e greco in particolare.

I ceppi analizzati non sono molto diversi l’uno dall’altro e, viste le dimensioni

piuttosto simili, non è possibile escludere, almeno per alcuni di essi, una

provenienza effettiva da un medesimo relitto di nave (fig. 21).

(30)

• Il n. 1 è lungo cm 111 ed è alto al massimo cm 16,5;

• il n. 2 è lungo cm 121 ed è alto al massimo cm 19;

• il n. 3 è lunga cm 130 ed è alta al massimo cm 18;

• il n. 4 è lungo cm 139 ed è alto al massimo cm 20.

Per quel che riguarda le ancore litiche, si tratta di cinque pietre forate di provenienza sconosciuta, ma evidentemente non lontana dal museo, visto che esso raccoglie rinvenimenti prevalentemente dalla baia di Camarina o da località marine prossime.

• La n. 5 è alta cm 47 ed è larga cm 29. Presenta un’estremità lavorata ad arco in cui è presente un foro circolare; l’altra estremità è mutila.

• La n. 6 è alta cm 57 ed è larga cm 32. Ha una forma a tronco di piramide con fori a sezione quadrata sia sulla parte più stretta sia sulla parte più larga, dove il foro è più grande.

• La n. 7 è alta cm 53 ed è larga cm 23. Presenta una forma troncopiramidale con bordi smussati; ha un unico foro circolare nella parte più stretta.

• La n. 8 è alta cm 63 ed è larga cm 38; presenta una forma parallelepipeda rettangolare con un foro circolare verso un lato corto e due fori circolari vicino al lato opposto.

• La n. 9 è alta cm 81 ed è larga cm 36 e presenta forma parallelepipeda rettangolare con una faccia corta molto deteriorata. Un foro circolare è presente vicino ad una faccia corta, mentre vicino alla faccia opposta è presente un foro a sezione quadra.

Tutte le determinazioni sono state eseguite sulla medesima piccola scheggia

campionata mediante uno scalpellino ben affilato da parti lasciate grezze, o

nascoste, del manufatto, e comunque in modo da procurare il minimo, e meno

visibile, danno possibile. Dalla scheggia si è ricavato un frammento minuto che è

stato ridotto in polvere in mortaio di agata per l’analisi diffrattometrica,

finalizzata alla determinazione dell’eventuale presenza di dolomite, e,

(31)

successivamente per l’analisi isotopica. Il frammento più grosso è stato invece inglobato in resina poliestere, sezionato, e di seguito utilizzato per la preparazione di una sezione sottile standard, poi studiata petrograficamente in dettaglio al microscopio polarizzatore. Questo studio microscopico è servito ad evidenziare i minerali accessori e secondari diversi dalla calcite / dolomite, cioè dei principali costituenti di tutti i marmi, nonché gli altri parametri dei cristalli di calcite / dolomite e della struttura cui essi danno luogo, dati tutti utili alla determinazione delle cave di origine.

Sono stati così determinati:

1. tipo di struttura (omeoblastica = con grani isodiametrici o eteroblastica = con grani di diverse dimensioni, e a mosaico, a calcestruzzo, lineata, stressata, ecc.), in diretta relazione con il tipo e le modalità di sviluppo ed evoluzione del metamorfismo.

2. - forma dei contorni dei grani (dritti, curvi, a golfi, suturati), anch’essa collegata al tipo di evento/i metamorfico/i che ha/hanno generato il marmo

3. - MGS (Maximum Grain Size), dimensione massima del grano maggiore di calcite/dolomite, parametro di notevole importanza diagnostica come evidenziato da recenti studi

50

, essendo legato al grado metamorfico massimo (temperatura) raggiunto dai marmi.

Per il dettaglio dell’indagine petrografia, e per i necessari confronti dei risultati, si è tenuto conto soprattutto di studi specifici sui marmi antichi

51

, nonché di trattati classici di petrotettonica, e sono state eseguite comparazioni con sezioni sottili di marmi di riferimento da cave note.

Le analisi isotopiche sono state eseguite mediante uno spettrometro di massa dedicato secondo

il metodo introdotto da McCrea

52

. I risultati degli esami petrografici e delle

50 Moens, Roos, De Rudder, De Paepe, Van Hende, Waelkens, 1988.

51 Lazzarini, 2002.

52 Mccrea, 1950.

(32)

analisi isotopiche sono stati confrontati con la banca dati attualmente più aggiornata per i principali marmi usati in antico

53

; in particolare, i dati isotopici sono stati inseriti nei diagrammi di riferimento colà riportati per i marmi a grana fine o medio-grossolana (rispettivamente con grana <, o > di 2 mm di MGS).

I risultati dell'analisi petrografica sono i seguenti.

CAMPIONE N° 1

Struttura isotropa

54

, tessitura cristallina-organogena-clastica

55

.

I granuli, tondeggianti con taglia media superiore a 2mm, sono flottanti in cemento carbonatico limpido, grossolano.

Il cemento sembra aver subito intensa dissoluzione successiva ricristallizzazione e/o dolomitizzazione.

La morfologia, le dimensioni e la composizione dei granuli suggerisce che si tratta di coproliti

56

, prodotti metabolici della rielaborazione di fanghi marini da parte di organismi limivori.

L’associazione di microrganismi sembra indicare il tardo Cretaceo-Eocene.

L’ambiente di deposizione era un basso fondale di piattaforma protetta, a sedimanetazione mista.

La roccia si può classificare come grainstone grossolano a coproliti, ricristallizzato.

53 Gorgoni, Lazzarini, Pallante, Turi, 2002.

54 Si definisce isotropa una sostanza che presenta le stesse proprietà fisiche in tutte le direzioni.

55 Così definite le rocce sedimentarie originatesi per l'accumulo di detriti di natura e dimensioni diverse, cementati o disciolti.

56 Escrementi fossili di Vertebrati, costituiti da una mescolanza di carbonati e fosfati.

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