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Diritto alla paura e doveri di solidarietà sociale nel quadro normativo italiano vigente

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Diritto alla paura e doveri di solidarietà sociale nel quadro normativo italiano vigente

Una difficile convivenza di Roberto Mazzola

The right to fear and duties of social solidarity in the Italian legally binding framework.

A difficult co-existence

The problem of jihadism raises some crucial questions concerning liberal democracies.

Especially in the political and legal Italian system, it obliges us to ask ourselves if there is an individual right to fear on the basis of which other fundamental rights can be limited. Keywords: fear, Fundamental Right, religious pluralism, security, Islam, solidarity

Sommario: 1. Necessità di una più complessa visione sistemica del diritto di sicurezza in rapporto alle paure generate dal fenomeno jihadista – 2. Dal particolare al generale. Jihadismo e fenomeno migratorio. Crisi del modello liberal-democratico – 3. Paura diversità e diritto penale – 4. Esiste un diritto alla paura?

1. Necessità di una più complessa visione sistemica del diritto di sicurezza in rapporto alle paure generate dal fenomeno jihadista

Affrontare il problema della paura e della conseguente domanda di sicurezza limitandosi all’esame della normativa specificamente predisposta da Governo e Parlamento italiano dal 2005 ad oggi in riferimento alle strategie di contrasto al fenomeno terroristico di matrice jihadista

1

(Fasani 2016, 13 ss.) non consentirebbe di ricostruire la complessità del quadro generale all’interno del quale tale fenomeno

1 In seguito alle successive riforme realizzate nello stretto arco temporale di poco più di un decennio (2005-2016), in attuazione di normative europee o internazionali, il legislatore ha previsto quattro nuove fattispecie criminali: quella di arruolamento introdotta nel 2005 e riformata nel 2015, che punisce la condotta dell’arruolatore e dell’arruolato (art. 270-quater c.p.); la fattispecie di addestramento, anch’essa introdotta nel 2005 e riformata nel 2015, che punisce la condotta dell’addestratore e dell’istruttore, da un lato, e quella dell’addestrato, dell’istruito e dell’autoistruito, dall’altro lato (art.

270-quinquies c.p.); la fattispecie di organizzazione di trasferimenti, introdotta nel 2015 (art. 270-quater.1 c.p.), e la fattispecie di finanziamento, introdotta nel 2016 (art.

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s’inscrive. Quest’ultimo, infatti, va letto e interpretato in chiave sistemica, quale segmento di una più complessa rete di macro- fenomeni: i flussi migratori, la crescita del tasso di pluralismo religioso, il rafforzamento delle istanze identitarie, la critica radicale al modello secolarista, ma soprattutto la sempre più diffusa intolleranza, e in taluni casi finanche odio e insofferenza

2

, verso le minoranze, anche religiose, islamica e ebraica in particolare (Gometz 2017, 16 ss; Borile 2018, 9)

3

, ma più in generale verso gli stranieri inattesi, rappresentanti di un ‘anti- mondo’ percepiti da segmenti sempre più ampi dell’opinione pubblica come una vera e propria minaccia

4

, portatori di conflitti, di bisogni, di costi e di pretese (Simone 2018, 123). Perché è vero che quando gli uomini avvertono una qualche forma di minaccia e si sentono insicuri e vulnerabili, «la risposta più usuale è quella di stringersi vicendevolmente tra gli uguali, escludendo e demonizzando chi è diverso» (Nussbaum, 2012, 38 ss.; Romeo, 2018, 3 ss; Pastore 2018)

5

270-quinquies.1 c.p.). In particolare nel 2016 è stata approvata dal Parlamento la l. 28 luglio 2016, n. 153 «Norme per il contrasto al terrorismo, nonché ratifica ed esecuzione:

a) della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005; b) della Convenzione internazionale per la soppressione di atti di terrorismo nucleare, fatta a New York il 14 settembre 2005; c) del Protocollo di Emendamento alla Convenzione europea per la repressione del terrorismo, fatto a Strasburgo il 15 maggio 2003; d) della Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del terrorismo, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005; e) del Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, fatto a Riga il 22 ottobre 2015. A tutto ciò si aggiunga: Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Proposta di legge n. 3558 – ad iniziativa dei deputati Dambruoso, Manciulli e altri,

«Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista», presentata il 26 gennaio 2016. Sono in vigore, inoltre, altre disposizioni normative:

D.Lgs. n. 90/2017 in materia di controllo dei flussi di finanziamento delle organizzazioni terroristiche con il quale il legislatore italiano ha attribuito alle Autorità nazionali un autonomo potere di congelamento. «L’intentio legis è quella di munirsi» – osserva Cerfeda – «di un proprio strumento, «autonomo e flessibile« di controllo dei traffici economici volti al finanziamento del terrorismo di matrice jihadista (ISIL, Al Qaeda, ANF), perché le procedure di listing ONU si sono rivelate eccessivamente lente e farraginose, come evidenzia la relazione del Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF) per l’anno 2015 e la relazione di accompagnamento al D.Lgs., scontando il limite (forse fisiologico) dell’eterogeneità dei criteri applicativi rilevanti per i diversi Stati membri».

Si veda al riguardo Valsecchi 2015, 3 ss . Si legga soprattutto, Bartoli 2017, 1-28.

QUADERNI DI DIRITTO E POLITICA ECCLESIASTICA /

n. 2, agosto 2019

2 «Osservatorio dei diritti -Vox», 2019, in www.voxdiritti.it (visitato il 10 giugno 2019).

3 Si veda anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 1o giugno 2017 sulla

lotta contro l’antisemitismo (2017/2692 (RPS)), in

http://www.europarl.europa.eu/portal/it (visitato il 3 maggio 2019).

4 Si legga al riguardo il romanzo di J. Raspail, Le Camp des Saints (Paris, Laffont,1973).

5 Si legga anche Romeo 2018, 3 ss.

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I dati forniti nel 2015 da Eurobaromentro

6

non lasciano spazio ad equivoci se è vero che il 58% dei cittadini europei ritiene che gli immigrati, soprattutto quelli di origine islamica, costituiscono una minaccia per la loro cultura, per la loro identità e religione

7

, e in Europa la percentuale di coloro che vedono nella diversità e nel pluralismo un’occasione di apertura, e di crescita per la società civile è sensibilmente calata negli ultimi anni passando dal 56% al 48%. Un trend filo-omogeneista confermato dai dati presentati a Milano il 10 giugno di quest’anno dall’Osservatorio italiano sui diritti. Il monitoraggio continuo e sistematico di più di due milioni di tweet fa emergere una mappa dell’intolleranza all’interno della società civile, almeno di quella che frequenta e utilizza i social, dove l’islamofobia si conferma fenomeno in crescita nella scala dell’odio in rete

6

. Il Rapporto denuncia, in particolare, una seria problematicità rispetto alla questione musulmana in Italia, se è vero che il 63% dei cristiani prati-

6 Special Eurobarometer 437, Discrimination in the EU in 2015, in https://ec.europa. eu/commfrontoffice/publicopinion/ (visitato il 3 maggio 2019). Come osserva infatti Pastore, 2018, 1 la diffusa preoccupazione in merito al fenomeno migratorio si fonda su una percezione distorta, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno, esse sono largamente sovrastimate: mentre la percentuale di immigrati proveniente da paesi non appartenenti all’Unione europea rispetto all’intera popolazione è oggi intorno al 7%, i cittadini italiani stimano una presenza pari al 25%. Si tratta di uno scarto particolarmente ampio, anche in una prospettiva comparata: «L’errore di percezione commesso dagli italiani è quello più alto tra tutti i paesi dell’Unione Europea».

7 Basti pensare a questo riguardo ad alcuni dei comunicati diffusi recentemente in Francia dal Parti de l’Innocence sul proprio sito. Nel Comunicato n. 2021 di sabato 4 novembre 2017 «Sur la naturalisation de l’état d’urgence» nella parte finale, riprendendo le tesi sostenute da Renaud Camus, viene esplicitata la teoria del cd

«sostituzionismo», ovvero la convinzione, cara a molte forze politiche sovraniste e populiste in Europa, del Grand Remplacement, ovvero del pericolo della «Grande Sostituzione» consistente nella colonizzazione della Francia (e più in generale dell’Europa) da parte di migranti islamici provenienti da Medio Oriente ed Africa, che minaccia di «mutare» permanentemente il paese e la sua cultura e portare il continente al ‘genocidio bianco’. Nel citato comunicato si legge: «Le parti de l’innocence et le NON (au Changement de Peuple et de Civilisation) considèrent la naturalisation de l’état d’urgence comme l’expression inévitable, dans la langue du droit et dans la brutalité des faits, de la situation de conquête coloniale, d’occupation étrangère elle aussi naturalisée et de criminelle substitution ethnique imposée à notre pays. Il n’y connaît d’autre issue que la résistance, la révolte anticoloniale, la mise à l’écart des traîtres et la libération du territoire», in http://www.in-nocence.org/index. php?

page=communiques (visitato il 13 giugno 2019).

canti è convinto e crede che l’Islam sia incompatibile con la loro cultura e i loro valori, e all’interno di questo 63% ben il 48% ha dichiarato che

6 Su 215.377 tweet monitorati tra marzo e maggio 2019, 30.387 contengono parole sensibili relative al cluster islamofobia. Le parole che sono state mappate per evidenziare i fenomeni di intolleranza e discriminazione più presenti sui social sono state: terrorista (riferito alla comunità musulmana); jihadista; beduino; abdullah;

tagliagole; vu cumprà; marocchino; magrebino. Sulla base del parametro MOAS (Modified Overt Aggression Scale) su 21.894 tweet il software sempre durane il medesimo lasso temporale ha estrapolato, in base al parametro di ‘aggressività’, 4.908 tweet positivi a fronte di 16.986 negativi.

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non gradirebbe aggiungere un posto a tavola ad un musulmano come membro di famiglia. Se si aggiunge che il 35% degli italiani concorda sul fatto che la recente migrazione dai paesi islamici costituisce una grave minaccia per la civiltà occidentale e il 26% risulta fermamente convinto che l’insegnamento islamico promuove la violenza ed è incompatibile con un sistema democratico o, in forma più attenuata, è troppo tradizionalista, e pertanto incapace di adattarsi al presente e assoggettarsi a processi di modernizzazione (38% degli italiani), il risultato finale è preoccupante, non solo sotto il profilo delle future politiche di integrazione, al momento alquanto deboli, se non del tutto assenti, ma anche in riferimento alla reale ed effettiva tenuta dei processi di inclusione già avviati e in più casi ampiamente consolidati.

A tutto ciò si aggiunga il fatto che le argomentazioni di natura garantista fondate sulla difesa e tutela dei diritti fondamentali rispetto ai macro fenomeni indicati sono sempre meno persuasive e sempre più soggette a critiche e sarcasmo. Stato di diritto; principi costituzionali;

legalità; diritti umani, solidarietà e non discriminazione stanno perdendo forza persuasiva, anzi, sono sempre più sovente oggetto di una più o meno velata ironia, e questo perché, osserva la Nussbaum:

«principles loose their grip in times of fear» (Nussbaum, 2007, 307).

Non stupisce pertanto il fatto che l’Agenzia europea per i diritti umani segnali quanto le stesse istituzioni nazionali tendano ad utilizzare in modo assai meno diffuso e continuo di quanto si dovrebbe fare il linguaggio dei diritti fondamentali contenuti nella Carta di Nizza divenuta, a partire dal 1

o

dicembre 2009, grazie al Trattato di Lisbona, fonte vincolante di diritto primario (art. 6 par. 1 TUE). A dieci anni dalla entrata in vigore del TFUE, infatti, il ruolo e l’utilizzo di tali diritti è stato eterogeneo e contraddittorio e non sembrano emergere, evidenzia la FRA, miglioramenti significativi nel loro uso da parte degli organi giudiziari o nei processi legislativi, anzi, si constata la difficoltà d’individuare politiche pubbliche volte a promuoverla e il loro potenziale non è stato pienamente valorizzato, tant’è vero che i riferimenti ai diritti richiamati dalla Carta di Nizza nei tribunali, nei parlamenti e nei governi nazionali sono il più delle volte esigui e superficiali, là dove, al contrario, osserva il Rapporto FRA, dovrebbero costituire norme pertinenti e indispensabili «nello svolgimento dei compiti quotidiani di giudici o funzionari pubblici […]»

7

. Ma come se non bastasse, le stesse politiche atte a promuoverli sembrano quasi totalmente assenti, sebbene gli Stati membri siano obbligati a promuoverne «l’applicazione secondo le rispettive competenze (art. 51 della Carta)»

8

, e comunque anche là dove tali politiche siano presenti, esse risultano spesso poco convinte e incisive.

Quanto finora descritto dimostra come il problema riassunto nel rapporto paura-sicurezza, così come è andato sviluppandosi in riferimento al fenomeno terroristico di matrice islamista, non è che la spia, spesso drammatica, di un più ampio e generale malessere sociale,

7 Relazione sui diritti fondamentali 2018. Pareri della FRA, https://fra.europa.eu/it (visitato il 6 aprile 2019).

8 Ibidem.

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di una regressione caratterizzata da un clash sociale che, più che di civiltà, è culturale e sta crescendo all’interno delle comunità nazionali, complice l’affanno degli apparati democratici nel controllare e gestire, con gli argomenti e le categorie politiche proprie del garantismo costituzionale-democratico, la spirale d’intolleranza e d’odio crescenti, Sono molteplici i fattori che stanno erodendo, quanto meno dal 2001, il paesaggio istituzionale e sociale delle democrazie in Occidente:

certamente l’emergenza jihadista e la c.d. «Grande Migrazione» hanno giocato un ruolo rilevante in questo senso, tuttavia insieme ad esse, a partire dal 2008, grande peso ha avuto l’indebolimento economico di intere classi sociali, in particolare quella media, da sempre custode di un moderatismo politico e sociale che ha per lungo tempo assicurato la conservazione di un ventaglio di valori funzionali alla tenuta del tessuto sociale. La coscienza sociale e la diligenza politica media del ‘buon padre di famiglia’ si sta indebolendo lasciando spazio ad una generale e confuso sentimento d’insofferenza e di rancore verso le ‘diversità’, nodo politico fondamentale intorno al quale si sta giocando la tenuta degli assetti liberal-democratici. La necessità vitale, biologica direi, di ridurre la dissonanza cognitiva a livello sociale sta innescando, infatti, atteggiamenti di ostilità e d’isolamento che conducono ad una spirale di azioni insofferenti, intolleranti, a volte violente, contro coloro che non condividono, su opposti fronti, il patrimonio cognitivo e assiologico degli altri.

Dunque in gioco v’è, non solo la ridefinizione delle clausole fondamentali del contratto sociale, ma la riscrittura, in chiave culturale, prima ancora che giuridica, del rapporto di cittadinanza, dell’idea di sicurezza, del concetto stesso di giustizia riparativa e del principio di dignità umana, in una parola, del modello di società e dell’idea di convivenza da lasciare in eredità alle future generazioni. In gioco, osserva Forte «ci siamo noi, con la nostra civiltà, la nostra cultura, e quella convivenza civile che la Costituzione repubblicana fonda su principi inderogabili della dignità della persona, dell’uguaglianza di tutti nei diritti e nei doveri e della solidarietà, imprescindibile per un popolo che voglia dirsi ed essere veramente civile» (Forte 2019, 26).

D’altronde proprio in occasione della Giornata

Mondiale del Rifugiato voluta, non dai Centri sociali o dall’associazionismo anarchico, ma dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

11

per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni, spesso insostenibili, di oltre settanta milioni di essere umani costretti a fuggire da persecuzioni nei loro Paesi d’origine, si è voluto ribadire un valore molto semplice, che dal 1948 sta a fondamento dei sistemi democratici più evoluti e maturi: quello del rispetto della

‘dignità umana’ e della solidarietà verso la fasce più esposte ai venti della discriminazione, del disprezzo e dell’indifferenza. Ma v’è di più, non un pericoloso sovversivo, ma l’attuale Vescovo di Roma nella lettera

9

inviata il 27 maggio 2019 in occasione della Giornata mondiale

9 Messaggio del Santo Padre Francesco per la 105ma Giornata mondiale del

migrante e del rifugiato, in

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/ documents/papa-

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dedicata ai migranti e ai rifugiati, nel riflettere sul drammatico fenomeno migratorio ha stigmatizzato la retorica cinica e sprezzante di una parte della comunità politica e della società civile, non solo italiana, ravvisando in tale linguaggio «un drammatico declino morale perché abbandonando il rispetto della dignità di ogni persona umana, quale che sia la sua provenienza o condizione culturale e sociale viene sempre più a farsi spazio una «cultura dello scarto» in forza della quale «ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione» (Forte 2019, 26). Il caso francese Baby Loup, sfociato nella sentenza della Corte di Cassazione francese del 25 giugno 2014

10

evidenzia con forza quanto appena detto, manifestando come ciò che sempre di più rileva, non sia tanto la tutela dei diritti soggettivi e delle garanzie democratiche, quanto la protezione e la difesa di un astratto ‘modo d’essere’, di un generale e generico ‘stile di vita’ che è anche un vero e proprio ‘stile etico’. Si assiste, cioè, al prevalere di un «ordine pubblico immateriale» dove la difesa di valori e di principi morali, ritenuti superiori e indiscutibili, prevale su qualsiasi

11 https://www.unhcr.it/news/giornata-mondiale-del-rifugiato-2019-withrefugees.

html (visitato l’11 luglio 2019)

considerazione circa l’effettiva potenzialità deviante di un determinato comportamento

11

. In tale quadro, il bene per il quale impostare una politica di sicurezza diviene l’assolutismo culturale dei valori e degli interessi pubblici e generali posti a pietra angolare del sistema costituzionale statuale. Attentare a tale unità costituisce una minaccia per la sicurezza dello Stato (Hennette Vauchez, Valentin 2014, 84 ss.).

Ovviamente tutto ciò va di pari passo con l’assunzione del principio di

‘omologazione’ quale valore costitutivo dell’ordine pubblico costituzionale. Ancora una volta ad essere chiamato in causa è il fattore religioso con la sua potenziale forza identitaria ed eversiva, e la sua

francesco_20190527_world-migrants-day-2019.html. Una posizione, quella ribadita da Francesco, ben radicata nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, come dimostra la Popolorum Progressio di Paolo VI: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. In questa affermazione di Gesù troviamo il cuore della sua missione:

far sì che tutti ricevano il dono della vita in pienezza, secondo la volontà del Padre. In ogni attività politica, in ogni programma, in ogni azione pastorale dobbiamo sempre mettere al centro la persona, nelle sue molteplici dimensioni, compresa quella spirituale. E questo vale per tutte le persone, alle quali va riconosciuta la fondamentale uguaglianza. Pertanto, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (S. Paolo VI, Enc. Populorum Progressio, 14).

10 Arrêt n. 612 du 25 juin 2014 (13-28.369) Cour de cassation - Assemblée

Plénière - ECLI:FR:CCASS:2014:AP00612, in

https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/

assemblee_pleniere_22/612_25_29566.html (visitato il 4 aprile 2019).

11 Si legga a questo riguardo la recente sentenza della Corte Suprema di Cassazione, Sez. I Penale, 15 maggio 2017, n. 24084.

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tendenziale concezione comunitarista che sembra mal conciliarsi con gli assetti costituzionali liberaldemocratici.

2. Dal particolare al generale. Jihadismo e fenomeno migratorio. Crisi del modello liberal-democratico

Quelle finora esaminate sono categorie complesse e contraddittorie che mettono al centro la ridefinizione stessa del modello di organizzazione politico-sociale in Occidente. Lo jihadismo internazionale è la classica pietra lanciata nello stagno. Il punto di irradiazione di onde progressivamente più ampie capaci di ricomprendere problematiche di sempre più ampia portata. L’Islam da alcuni anni a questa parte, costringe infatti a riflettere sulle categorie generali in base alle quali ripensare le clausole del contratto sociale, su come intendere il pluralismo’, su quale modello di cittadinanza fondare il vivere ‘democratico’, e quale modello di sicurezza e ordine pubblico attuare, ma ancor più, obbliga a chiedersi, in concomitanza ai flussi migratori, a chi appartenga il paese: a chi vi entra cercando aiuto e rifugio pur non avendo fatto nulla per formarlo, oppure «a quelli che, nel corso del tempo, hanno trasformato il mero territorio in un paese, lavorandone la terra, mettendone a frutto le risorse, umanizzando il paesaggio e dotandosi di ‘valori sia materiali che simbolici’?» (Simon, 2018, 50).

A fronte di questa crescente complessità, l’analisi critica di tutto ciò sta diventando sempre più difficile e faticosa. Alla retorica dominante del ‘noi contro loro’ è stata da tempo affiancata quella divisiva del

‘loro contro di noi’ ma, ancor più, quella dell’odio di italiani contro altri italiani, quelli, nello specifico, che si occupano di migranti, secondo il pericoloso schema del ‘noi contro voi che aiutate loro’. Si tratta, dunque, di un filo di cresta sottile quello che si è obbligati a percorrere parlando di sicurezza e di paura in contesto democratico: da un lato il rischio sempre più alto di essere accusati di ‘buonismo’ irresponsabile, o di mielosa retorica democratica, dall’altra di cedere ad un pragmatismo cinico, insofferente al tema dei diritti e delle libertà, se non altro di quelli delle minoranze. Da ciò la necessità di optare per un’argomentazione ‘secca’, fondata sul rigore della logica giuridica, senza alcuna indulgenza verso analisi condizionate sul piano emotivo o ideologico.

Fare parlare le norme, ecco che fare, ma quali sono le disposizioni normative simbolo di tale metamorfosi? Senza dubbio tutte quelle che, in vario modo, negli ultimi anni hanno direttamente o indirettamente regolato il diritto di sicurezza in riferimento ai macro fenomeni appena descritti.

Il materiale normativo è sicuramente eterogeno, ma se lo si osserva con attenzione si scopre un denominatore comune: la paura

12

(Robin

12 Per Robin La paura politica può avere le ripercussioni più vaste. Nei primi anni della guerra fredda, la paura del comunismo servì a ridimensionare la legislazione del

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2005). Quella verso gli immigrati di prima generazione che si ritiene accrescano il tasso di criminalità nei centri urbani causando degrado sociale e spesso alimentando derive di radicalizzazione religiosa; quella verso chi, provenendo da paesi lontani si presume porti con sé malattie da tempo debellate o ne importi di nuove (Sona 2019). E’ la paura verso tutti coloro che si ritiene tolgano, a torto o a ragione, lavoro ai cittadini italiani abbassando il livello dei salari; è la paura e il rancore verso coloro che si ritiene approfittino dei servizi sociali senza averne diritto, ma è anche la paura, generica e astratta, lo si è appena visto analizzando i dati forniti dal Rapporto dell’Osservatorio sui diritti, verso i musulmani, e la convinzione che la crisi economica sia stata principalmente causata dai centri di potere finanziari in mano agli ebrei.

C’è, ancora, la paura di perdere i privilegi economici o di vedere indebolita l’identità nazionale a fronte dell’aggressività identitaria e demografica delle minoranze etnicoculturali o religiose (Battistelli 2016, 9; 2008, 5-21; 2004; Amendola 2003); v’è, infine, la diffusa percezione d’insicurezza che tutto questo ventaglio di paure, a torto o a ragione, genera. Non è casuale che a partire dal 2001, con sempre maggiore frequenza, le politiche di sicurezza siano state condizionate, più dalla dimensione ‘percepita’ che ‘rilevata’ d’insicurezza e di paura.

Lo conferma il fatto che una parte della produzione normativa e dell’azione amministrativa negli ultimi anni, più che essere fondata sulla raccolta di dati sistematici e empiricamente fondati, è stata sempre più condizionata dagli umori della società civile, spesso manipolati da quelli che Howard Becker definisce imprenditori morali pronti a lanciare l’allarme su questa o quella minaccia, oggi quella islamica e dei migranti, trasformandola in un’emergenza sociale e, dove possibile, in norme o atti amministrativi limitativi delle libertà personali (Battistelli 2016, 9ss). Insomma, semplicemente la gente ha paura, teme che la Grande Migrazione «sottrarrà» risorse ai nativi e cambierà per sempre la faccia dell’Europa» (Simone 2018, 21).

Dinnanzi a tali timori quali sono state le direttrici che hanno ispirato la risposta normativa del Governo e del Parlamento italiano? Quali istituti giuridici sono stati utilizzati al riguardo? Dovendo rassicurare innanzitutto la popolazione autoctona (Garapon, Rosenfeld 2016, 159;

Maneri 2001, 5), quella che nel linguaggio politico attuale viene sempre più identificata attraverso parametri di natura «nazionalistica», dimenticando che all’interno di tale categoria vi rientrano anche le seconde e terze generazioni d’immigrati nate in Italia, si è fatto ciò che è più logico e facile fare: allontanare ciò che genera paura e crea tensione sociale. Espellere chi non detesta ciò che la città detesta e non venera ciò che la città venera è una strategia antica, la conosce bene

New Deal. La paura nera del dominio bianco e la paura bianca del dominio nero avallarono politiche e regimi di segregazione razziale. Molti credono nel valore coalizzante della paura, ovvero la paura come forza in grado di trasformare una insieme di persone isolate in un gruppo o in un popolo unito. La paura è vero che costituisce il più grande ostacolo alla libertà, tuttavia è anche stata, ed è tuttora, una importante leva di governo. Si legga anche: Di Amato 2016, 3 ss; Legrenzi 2001, 1024-1029.

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Edipo

13

. Di fronte ad un pericolo la reazione più ancestrale è l’allontanamento di colui che lo genera, e per fare questo l’istituto più adatto sembra essere quello dell‘espulsione’. Così ha fatto il nostro legislatore ricorrendo all’istituto della ‘espulsione amministrativa’

regolata dal Testo Unico sull’immigrazione. L’art. 13 comma 1

14

, infatti, prevede che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato il Ministro dell’Interno possa disporre «l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri».

L’istituto previsto non esaurisce tuttavia la gamma di strumenti destinati all’allontanamento dal territorio delle persone, soprattutto straniere, sospette, ad esempio, di connivenza con gli ambienti islamisti.

Gli artt. 15 e 16 prevedono, infatti, altre due forme di ’espulsione’:

quella a titolo di misura di sicurezza e quella a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione

15

. Ma v’è di più. Recentissimamente la legge 1

o

dicembre 2018, n. 132

19

, meglio conosciuta come «Decreto Salvini» ha introdotto un altro strumento per allontanare dal territorio italiano, per ragioni di sicurezza, persone ritenute indesiderate. L’art. 14 della l. 132/2018 ha infatti modificato la l. 5 febbraio 1992, n. 91

20

contenente la disciplina del diritto di cittadinanza, introducendo in quest’ultima l’art. 10 bis

21

. Tale norma, novità assoluta nel panorama del diritto pubblico italiano, non in quello europeo

16

, prevede infatti l’istituto della ‘revoca di cittadi-

13 Cfr. Sofocle. Edipo Re, trad. it. Milano: Feltrinelli, 2013.

14 «1. Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri».

15 Art. 15 «1. Fuori dei casi previsti dal codice penale, il giudice può ordinare l’espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, sempre che risulti socialmente pericoloso. 1-bis. Della emissione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna ad una pena detentiva nei confronti di uno straniero proveniente da Paesi extracomunitari viene data tempestiva comunicazione al questore ed alla competente autorità consolare al fine di avviare la procedura di identificazione dello straniero e

16 L’art. 25 del Code civil francese prevede tale decadenza per quattro ipotesi tassativamente elencate, salvo si tratti di cittadini francesi ‘originari’ e cittadini francesi

‘non originari’ che non abbiano una seconda cittadinanza (onde evitare situazioni di apolidia). In particolare su tale normativa il Consiglio costituzionale francese (Conseil constitutionnel, Décision n. 96 - 377 DC du 16 juillet 1996 e Décision n. 2014 - 439 QPC du 23 janvier 2015) si è espresso dichiarando che: «les personnes ayant acquis la nationalité française et celles auxquelles la nationalité française a été attribuée à leur naissance sont dans la même situation; que, toutefois, le législateur a pu, compte tenu de l’objectif tendant à renforcer la lutte contre le terrorisme, prévoir la possibilité, pendant une durée limitée, pour l’autorité administrative de déchoir de la nationalité française ceux qui l’ont acquise, sans que la différence de traitement qui en résulte viole le principe d’égalité».

(11)

consentire, in presenza dei requisiti di legge, l’esecuzione dell’espulsione subito dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o di detenzione». L’art. 16 recita: «1. Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o nell’applicare la pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, quando ritiene di dovere irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi dell’articolo 163 del codice penale ovvero nel pronunciare sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 10 bis, qualora non ricorrano le cause ostative indicate nell’articolo 14, comma 1, del presente testo unico, che impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, può sostituire la medesima pena con la misura dell’espulsione. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano, in caso di sentenza di condanna, ai reati di cui all’articolo 13, commi 5-ter e 5-quater».

19 L. 1 dicembre 2018, n. 132 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata». Delega al Governo in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate.

(18G00161) (G.U. Serie Generale n.281 del 03-12-2018).

20 l. 5 febbraio 1992, n. 91. Nuove norme sulla cittadinanza (G.U. n. 38 del 15- 2-1992)

21 Art. 10-bis. «1. La cittadinanza italiana acquisita ai sensi degli articoli 4, comma 2, 5 e 9, e’ revocata in caso di condanna definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), n. 4), del codice di procedura penale, nonche’ per i reati di cui agli articoli 270-ter e 270-quinquies.2, del codice penale. La revoca della cittadinanza e’ adottata, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno».

nanza’(Bertolino 2019, 1-9)

17

applicabile, guarda caso, solo a coloro che, nati stranieri o apolidi sono divenuti cittadini italiani per loro volontaria richiesta o per coniugio o per naturalizzazione ai sensi degli artt. 1-5 della legge del 1992. La suddetta revoca è adottabile con d.p.r.

su proposta del Ministro dell’Interno, e le sue immediate conseguenze consistono nel rendere le condizioni di vita di chi subisce la perdita di cittadinanza quasi impossibili, dal momento che priva il destinatario dell’atto di tutti i diritti che consentono l’accesso a prestazioni pubbliche che hanno per presupposto la presenza legale sul territorio dello Stato, come la pienezza della tutela del diritto alla salute, all’istruzione, all’assistenza e alla previdenza sociale, all’esercizio del diritto al lavoro e le libertà economiche ex artt. 41 ss. Cost. Dunque una disciplina, quella che ha novellato l’art. 10 della 91/1992, che inevitabilmente sarà destinata a creare un solco insuperabile fra la figura del cittadino ‘degno’ e quello ‘per suolo e sangue’, sapendo che la dignità non la si trasmette per sangue, ma la si guadagna quotidianamente attraverso l’adempimento dei doveri e degli obblighi che derivano dal fatto di essere parte di una comunità politica, e ciò vale, tanto per cittadini per sangue, quanto per coloro la cui cittadinanza è stata acquisita per via amministrativa. Non stupisce dunque, osserva

17 Si vedano anche: Panzera et al. 2016; Loprieno 2018), 280 ss. Si veda anche Cavasino 2019, 1 ss.

(12)

361

Bertolino, come la l. 132/2018 presenti più profili di illegittimità costituzionale

18

: «in specie, per la violazione del divieto di privazione della cittadinanza per motivi politici, previsto dall’art. 22 Cost.; inoltre per violazione dell’art. 117, comma 1, laddove si preveda la revoca della cittadinanza nelle ipotesi in cui la persona non abbia la cittadinanza di alcun altro Stato membro, poiché si creerebbe una situazione di apolidia, vietata dall’art. 8 della Convenzione sulla riduzione dei casi di apolidia del 30 agosto 1961, cui l’Italia ha invece aderito e dato esecuzione nel 2015. Illegittimità conseguente anche per manifesta violazione della funzione di rieducazione della pena prevista dall’art. 27 Cost.: la perdita della cittadinanza risulta infatti «una sanzione anti-socializzante, che mira a escludere definitivamente il reo dal consesso sociale, anziché reinserirlo all’interno del tessuto e della vita sociale del Paese. Finalità, quest’ultima, che dovrebbe invece essere propria di ciascuna pena, in un ordinamento democratico quale motivatamente aspira a risultare il nostro» (Bertolino,

2019, 1-9)

25

.

In altri casi, al contrario, i fantasmi generati dalle paure e dalle insicurezze provocate dalle dissonanze e dalle diversità vengono contrastati con strategie esattamente opposte, ovvero, respingendo chi non è desiderato; lasciando fuori dalla porta chi non è gradito. È il caso di quanto prevede l’art. 10 del già menzionato TU sull’immigrazione, così come modificato dal D.lgs. 7 aprile 2003, n. 87 in materia di respingimento.

Si può espellere, si può respingere, si può anche solo semplicemente creare le condizioni per rendere meno attraente possibile l’ingresso in Italia, il fine non cambia. Si è così pensato di ridimensionare e depotenziare l’istituto del ‘permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria’ (Zorzella 2018, 1 ss; Morozzo Della Rocca 2018; Conti 2018; Favilli 2018). Se prima del 2018 il sistema normativo italiano dimostrava attenzione e ampiezza interpretativa nell’applicare le fattispecie di riconoscimento della protezione umanitaria ai richiedenti asilo come testimoniano, tanto la circolare del 2015 della Commissione nazionale per il diritto d’asilo, quanto la giurisprudenza di Cassazione

26

nel ricondurre il diritto alla protezione umanitaria, il diritto allo status di rifugiato e il diritto di asilo costituzionale, alla categoria dei diritti umani fondamentali

19

, dopo la

18 Tale valutazione trova conferma nel ricorso fatto alla Corte costituzionale da otto Regioni in merito alla l. 132 del 2018, Di queste otto, due hanno ritirato il ricorso (Sardegna, Basilicata) e il Piemonte sta trattando un rinvio dell’udienza davanti alla Corte per dare modo alla nuova Giunta Cirio di riunirsi e deliberare il ritiro del ricorso.

Ovviamente un ritiro totale di tutte le Regioni governate da una colazione di Centrodestra creerebbe imbarazzo politico, in quanto lascerebbe controbattere con il Governo solo le Regioni a guida PD (Calabria, Marche, Emilia Romagna, Toscana).

19 Con la successiva ordinanza n. 19393 del 2009 delle Sezioni unite civili, la Cassazione ha precisato che questo diritto soggettivo ha la stessa natura del diritto di asilo, ovvero è a tutti gli effetti un diritto umano fondamentale e trova copertura costituzionale

(13)

25 Si legga anche al riguardo Curreri 2018, 11 ss.; Algostino 2018, 191 ss.

26 Ord. Cass.- Sezioni Unite Civili, n. 11535 del 19 maggio 2009, in https://www.meltingpot.org/Ordinanza-della-Corte-si-Cassazione-Sezioni-Unite- Civili-n.html#. XQW844_OM2x (visitato il 14 giugno 2019). In particolare le S.U.

hanno, per la prima volta affermato la giurisdizione del giudice ordinario su un provvedimento del Questore di diniego di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, richiesto ai sensi dell’art. 5, sesto comma del d.lgs n. 286 del 1998.

La Corte, per affermare questo nuovo orientamento, ha valorizzato il mutato quadro normativo del regime giuridico del permesso per ragioni umanitarie emergente dall’inserimento dell’art. 1 quater (ex art. 32 L. n. 189 del 2002) del d.l. n. 416 del 1989, convertito nella l. n. 39 del 1990, ai sensi del quale le Commissioni territoriali competenti a decidere delle domande di asilo devono, nei casi in cui non accolgano la domanda di protezione umanitaria, trasmettere gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno, quando ricorrano gravi motivi di carattere umanitario. Questa rilevante innovazione, entrata in vigore il 20 aprile 2005 e puntualmente confermata nella successiva normazione di derivazione comunitaria sulla protezione internazionale (art. 32 del d.lgs n. 25 del 2008 non derogato dal d.lgs n. 159 del 2008), ha radicalmente modificato, secondo l’interpretazione delle S.U., il rapporto tra attribuzioni della Commissione territoriale e poteri del Questore in quanto le Commissioni sono dotate di tutte le competenze valutative, di natura esclusivamente tecnica e non politico discrezionale in ordine alla pluralità di misure di protezione umanitaria previste dall’ordinamento (status di rifugiato, protezione sussidiaria e misure residuali e temporanee desumibili dall’art. 5, sesto comma del d.lgs n. 286 del 1998) mentre al Questore residua il compito di dare attuazione a tali deliberazioni senza alcun margine di autonoma valutazione sulla condizione

«umanitaria« dello straniero.

Circolare Salvini n. 8819 e la l. 132/2018 il quadro normativo in materia

è profondamente mutato e la volontà di vulnerare la protezione

umanitaria, prima a livello amministrativo e poi normativo, si è

dispiegata in tutta la sua forza con l’effetto di vedere consistentemente

ridotta la platea di coloro che possono beneficiare del permesso di

soggiorno, e quelli che in qualche modo lo otterranno si troveranno,

comunque, in condizioni di maggiore precarietà e con minori tutele

giuridiche e assistenziali rispetto al passato. A questo riguardo una parte

della dottrina evidenzia come sotto il profilo della tutela dei diritti

fondamentali non tutto sia perduto. Un minimo di garanzia dei diritti

fondamentali potrebbe infatti essere salvaguardata partendo innanzitutto

dalla constatazione che l’art. 10, terzo comma, Cost. va considerato

norma direttamente applicabile. In tal modo si sterilizzerebbe, almeno

in parte, la modifica normativa, in quanto la norma costituzionale

manterrebbe viva la possibilità di rilasciare il permesso umanitario là

dove esso sia attuativo del diritto di asilo, cioè, nei casi di privazione

dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza. Tuttavia dal momento

che appare difficile immaginare un compatto orientamento dei giudici

ordinari nel senso dell’applicazione diretta della suddetta norma

costituzionale, forse la via interpretativa più percorribile appare

un’altra: accettando l’idea che la l. 132 del 2018 abbia previsto una

vera e propria preclusione dell’istituto del permesso di soggiorno per

motivi di protezione umanitaria, l’incostituzionalità di tale disciplina

parrebbe evidente. Dunque, sarebbe ipotizzabile che qualsiasi giudice a

quo possa sollevare una questione di legittimità costituzionale per

violazione degli artt. 2 e 10, comma 3, Cost. nella parte in cui la norma

non prevede più la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno

(14)

363

umanitario «generico», infatti, la legge cui rinvia il terzo comma dell’art. 10 Cost. ha il compito di precisare le condizioni del rilascio e i requisiti del richiedente; regolare la procedura del riconoscimento e i casi di cessazione, e finanche di fissare i limiti numerici, ma non può

nell’art. 2 Cost.: «La situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost. esclude che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidata solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato al legislatore».

Questo orientamento è stato successivamente tenuto fermo, anche dal Consiglio di Stato: cfr. ad es., la sent. Cass. civile, sez. I, n. 4455/2018; l’ord. Cass., sez. unite civili, 28.2.2017, n. 5059; l’ord. Cass., sez. VI, n. 16362/2016; la sent. Cons. Stato, sez. III, 9.5.2013, n. 2524; la sent. Cons. Stato, sez. III, 5.9.2012, n. 4714; l’ord. Cass., sez. VI, n. 26481/2011; l’ord. Cass., sez. unite civili, 16.9.2010, n. 19577». Dunque, la Pubblica amministrazione ha una funzione di accertamento del diritto al permesso di soggiorno umanitario; in mancanza se ne può chiedere il riconoscimento al giudice ordinario.

assolutamente limitare il diritto di asilo a un gruppo di soggetti (gli aventi diritto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria), escludendo tutti coloro che si trovano in altri modi privati dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza. Se tutto ciò non bastasse, potrebbe venire in aiuto quale extrema ratio anche il parametro costituzionale contenuto nel primo comma dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 8 CEDU, là dove si riesca a dimostrare che lo straniero abbia ormai stabilito solidi legami sociali e familiari in Italia.

Rimane, tuttavia, il problema dei rifugiati che hanno ottenuto il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie prima del d.l. 113/2018 e della sua successiva conversione in legge. Quest’ultima ha o non efficacia retroattiva? I rifugiati con permesso di soggiorno per ragioni umanitarie si troveranno o non a non avere più i requisiti per il rinnovo di quest’ultimo, con conseguente rischio d’espulsione? A detta della più autorevole dottrina, la normativa in esame sembrerebbe non escludere il rilascio del permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto prima della pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale. A favore di tale linea interpretativa viene in rilievo, in primo luogo, il dovere d’interpretazione «adeguatrice» conforme a Costituzione. Infatti, qualora la l. 132/2108 impedisse di rilasciare il permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto, ci si troverebbe di fronte a una norma estintiva in toto,

[…] di un diritto soggettivo, con conseguente violazione dei principi

costituzionali di ragionevolezza e certezza del diritto e compromissione della

tutela dell’affidamento […]. Dunque, a prescindere dal rango costituzionale del

diritto al permesso umanitario, […] se il d.l. 113/2018 avesse questo significato

si potrebbe dubitare della sua conformità all’art. 3 Cost. (oltre che all’art. 117,

primo comma, Cost., dato che il principio di certezza è anche un principio

generale del diritto europeo e ci muoviamo in un ambito di applicazione del

diritto europeo) (Padula 2018).

(15)

Inoltre, v’è da sottolineare che la legge 132/2018 non si limita a circoscrivere in qualche misura il permesso umanitario «generico», ma lo sopprime del tutto, lasciando in vita solo le ipotesi tipiche. Pare dunque difficile ritenere che tale normativa rispetti il principio di proporzionalità e sia conforme all’art. 3 Cost., anche in considerazione del tipo di affidamento sacrificato e dell’importanza degli interessi che entrano in gioco

20

.

In conclusione, si può ipotizzare, in relazione ai migranti che hanno maturato il diritto al permesso umanitario prima del 5 ottobre 2018, il prevalere della soluzione favorevole alla non retroattività della norma, almeno questo sembra essere l’orientamento consolidato della giurisprudenza ordinaria. In tal senso soccorre infatti la recente decisione della Corte di Cassazione, n. 4890/2019 sulle conseguenze dell’abrogazione del permesso umanitario. Pronuncia con cui si è ribadita la natura di diritto fondamentale anche della protezione umanitaria, e si è affermata l’irretroattività delle nuove disposizioni del decreto sicurezza, cioè la loro inapplicabilità alle domande proposte prima dell’entrata in vigore dello stesso. La questione rimane tuttavia complessa e contraddittoria in quanto a fronte dell’orientamento della Cassazione

21

favorevole, insieme ai giudici ordinari, alla irretroattività della norma, vi sono le ‘Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale’ che, al contrario, la applicano retroattivamente, seguendo l’orientamento ribadito anche dalla

‘Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo’ in una nota di inizio gennaio 2019 (Ponzo 2019).

Non può dunque passare inosservato come la autentica ratio del d.l.

113/2018, oggi legge 132/2018, sia, in verità, di creare e diffondere tra l’opinione pubblica, ma soprattutto l’elettorato, la percezione di un disordine sociale funzionale all’ideologia dell’esecutivo attuale. Già il fatto di unire la questione «asilo» (di cui tratta la prima parte del decreto) con la «sicurezza» (prevista nella seconda parte del medesimo), è sintomatica della finalità perseguita dalla norma, ovverosia individuare categorie so-

riconoscimento di giugno 2018 al 2% di gennaio 2019. Anche qui è interessante notare l’andamento: 23% a luglio, 26% ad agosto, 17% a settembre, 12% ad ottobre, 5% a novembre, 3% a dicembre e 2% nel gennaio 2019. Se da ottobre in poi l’aumento dei rigetti può essere conseguenza dell’immediata applicazione da parte delle Commissioni territoriali della nuova disciplina introdotta dal decreto legge n. 113 del 5 ottobre 2018 – 20 Secondo i dati forniti dalla Commissione nazionale asilo – osserva Zorzella (2018, 1) – il tasso di rigetti delle domande è stato complessivamente del 67% (il rifugio politico al 7%, la protezione sussidiaria al 5% e la protezione umanitaria al 21%). Tuttavia, guardando la ripartizione mensile, si può notare che quantomeno dal settembre 2018 c’è stato un aumento dei tassi di diniego, passando dal 72% al 75% in ottobre, all’80% in novembre, all’82% in dicembre, raggiungendo nel gennaio 2019 il picco dell’88%. Per converso, nello specifico della protezione umanitaria, si è passati dal 27% di

21 Vi è stato dissenso all’interno della Cassazione; pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto necessario investire il Primo Presidente perché valuti l’opportunità di rimetterne l’esame alle Sezioni Unite.

(16)

365

di abrogazione della parte dell’art. 5, co. 6 TU 286/98 che, con rinvio all’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008, consentiva alle Commissioni territoriali di riconoscere la protezione umanitaria se ritenuti insussistenti i presupposti per quella internazionale –, certamente i dati dei mesi precedenti l’entrata in vigore del d.l. 113 non trovano in esso giustificazione, tenuto anche conto che le nazionalità dei richiedenti asilo sono sostanzialmente le medesime in tutto il periodo. È lecito, dunque, ritenere che la flessione nel riconoscimento della protezione umanitaria sia conseguenza diretta delle direttive impartite dal Ministro dell’interno insediatosi dopo le elezioni del 2018, il quale già a luglio ha emanato una circolare alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale invitandole ad un maggiore rigore con riguardo, soprattutto, alla protezione umanitaria. Questi dati, tuttavia, lasciano aperta la storica questione italiana del generale basso tasso di riconoscimento delle due forme della protezione internazionale, cioè il rifugio politico e la protezione sussidiaria, che prosegue anche dopo la riforma, che mostra un’incapacità degli organi amministrativi di applicare efficacemente le disposizioni normative.

ciali da rendere giuridicamente deboli e sanzionarle. Solo così si spiega come mai accanto alle disposizioni che riguardano i ‘richiedenti asilo’

sia stata prevista una nuova disciplina in materia di: occupazioni abusive (aggravandone la punibilità); blocchi stradali (il reato comporta, per gli stranieri, una nuova causa ostativa all’ingresso ed al soggiorno, essendo stato modificato l’art. 4, comma. 3 TU 286/98); DASPO urbani, in una parola, tutti quei contesti sociali dove «la penalizzazione ha l’evidente obiettivo di sanzionare la marginalità sociale, ma nel contempo anche l’opposizione sociale, non essendo altrimenti giustificato l’aumento delle penalità, aggravata dall’effetto di impedire ai cittadini stranieri di aggregarsi politicamente» (Zorzella 2018, 1).

3. Paura, diversità e diritto penale

La paura e l’insicurezza si affrontano ovviamente anche attraverso l’armamentario penale dando enfasi agli istituti penalistici ascrivibili al c.d. diritto penale del nemico (Padovani 2015, 288) dove riemerge, tra l’altro, l’uso della somministrazione del dolore come strumento processuale d’inquisizione e di ricerca della verità e di affermazione dell’autorità come risposta, osserva Giovanni Maria Flick, al terrorismo

«attraverso una prevenzione fondata anch’essa in ultima analisi sul terrore» (Flick 2018, 2)

22

in pieno dispregio con quanto disposto tanto dall’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani, quanto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per i quali nessun individuo può «essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti».

In quest’ottica di scarsa sensibilità sul piano dei diritti fondamentali va quindi letta la proposta di legge dei deputati Cirielli e Altri del 11 aprile 2018 finalizzata all’abrogazione degli artt. 613 bis e 613 ter. c.p

23

«In materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere

22 Cfr. anche Bonetti 2006, 812 ss.

23 Proposta di legge C. 494, XVIII legislatura, presentata l’11 aprile 2018: Cirielli ed altri: «Abrogazione degli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, e introduzione di una circostanza aggravante comune per i pubblici ufficiali».

(17)

tortura e introduzione di una circostanza aggravante comune per i pubblici ufficiali». Insomma l’idea alla base della proposta di legge è di sdoganare come costituzionalmente legittime le violenze e le sofferenze provocate durante le operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia, in ragione di una presunta superiore ‘ragion di stato’ motivata da esigenze di sicurezza. In verità, come osserva ancora Flick «riemerge sotto vari profili il dibattito sulla tortura: la sua ammissibilità in linea di principio, […] la sua utilità; in modo sempre più palese, sempre meno sotto traccia e sempre più senza pudore» (Flick 2018, 2). A detta dei promotori della proposta di legge, infatti:

non rientrerebbero nella nozione di tortura i trattamenti che, pur procurando forti dolori alla vittima, risultano in ultima analisi giustificati in vista dello scopo lecito preso di mira dall’agente [corsivo dell’Autore]. Tra queste

condotte rientrerebbero senz’altro le violenze compiute nell’ambito di operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico, fermo restando il dovuto rispetto del principio di proporzionalità. In questi casi, qualora si ravvisasse un eccesso nell’uso della forza, l’agente di polizia o il militare che avesse agito per fini diversi da quelli di cui all’art. 1 della CAT dovrebbe rispondere non di tortura, bensì di trattamenti inumani o degradanti, sempre che gli stessi costituiscano illeciti penali nel sistema giuridico di riferimento. L’infamante accusa di tortura rimarrebbe così confinata ai casi in cui la vittima si trovi in stato di completa dipendenza o asservimento all’aggressore, essendo la sua sfera di libertà alla mercé di quest’ultimo in modo simile alle situazioni di schiavitù. Il nostro legislatore, optando per una figura criminosa contrassegnata dal dolo generico, ha quindi praticamente eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti rendendo concreto il rischio, paventato anche dai rappresentanti delle Forze di polizia, di veder la disposizione applicata nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia (Flick 2018, 2).

È vero che i proponenti insistono nel distinguere la fattispecie di tortura, che si guardano bene dal reintrodurre consci dei limiti previsti dal diritto interno e da quello internazionale

24

, da quella di ‘trattamenti inumani e degradanti’ evidenziando come tale distanza sia prevista dallo stesso diritto internazionale

25

, tuttavia rimane grave il fatto che si consideri comunque giusto e normale l’uso della ‘violenza inumana e degradante’ per ragioni di ordine pubblico. Si pensava di aver

24 La storia del diritto contemporaneo è segnata dalle numerose tappe della condanna della tortura, dopo l’ultimo conflitto mondiale, a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo; a seguire con la Convenzione di Ginevra nel 1949; con il Patto internazionale sui diritti civile e politici del 1966; con la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti delle Nazioni Unite nel 1984 (ratificata dall’Italia con legge n. 498 del 1998), sottoscritta da centossessantatré paesi. Percorso analogo nell’ambito europeo, con la convenzione CEDU del 1950;

l’attività del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea e da ultimo la Carta di Nizza del 2000/2007 sui diritti fondamentali dell’Unione Europea.

25 «Infatti i trattamenti crudeli, inumani e degradanti che non integrano la definizione di tortura, pur oggetto del medesimo divieto assoluto, non sono accompagnati da uno specifico obbligo di incriminazione, né da tutti gli altri vincoli preventivi o repressivi aventi implicazioni penalistiche».

(18)

367

esorcizzato tali categorie grazie alle conquiste della civiltà ed alla riscoperta del valore e principio giuridico della dignità umana. Così non è. La verità è che la proposta di legge del 2018 s’inscrive all’interno di un filone di pensiero politico che attraverso l’ipocrisia di una condanna apparentemente unanime e sotto l’ombra di un divieto assoluto ha continuato e continua a sopravvivere, anche nelle democrazie, non soltanto negli stati autoritari. Lo testimoniano le ombre che gravano sul Memorandum di intesa tra Italia e Libia firmato a Roma il 2 febbraio 2017 sulla «cooperazione nel campo dello sviluppo e del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica italiana»

26

. Le clausole di accordo sono infatti pienamente conformi al linguaggio della migliore tradizione del diritto internazionale umanitario: «edificazione di uno Stato civile e democratico» (art.1); «tutela del comune patrimonio artistico e culturale» (Premessa); «amicizia fra i due popoli» (libico e italiano) (Premessa); «rilancio del dialogo e della cooperazione con i Paesi africani»; «governo congiunto dei flussi migratori» (artt. 1 lett. A); 2);

«istituzione di fondo per l’Africa» (Premessa); «lotta contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani, e il contrabbando di carburante»

(art. 3)’.

Ciò che in verità accade è ben diverso. Le fonti documentarie

27

e la stessa magistratura italiana testimoniano una realtà, quella dei cd campi di transito di Bani Walid, a sud-est di Tripoli, e di Sabrata in prossimità della costa, fatta di lesioni sistematiche dei diritti fondamentali

28

. In particolare si riscontra la consumazione di molteplici fattispecie criminose: dall’omicidio, allo stupro e altre forme di violenza sessuale, fino alla tortura, al lavoro forzato e alla tratta di esseri umani. Tant’è che il 28 novembre di due anni fa il Presidente delle Repubblica francese Macron richiese la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu in merito alla situazione dei migranti in Libia.

Preoccupazione fatta propria anche dalla Procuratrice generale della Corte penale internazionale la quale l’8 maggio del 2017, nel suo tredicesimo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU

29

sulla situazione in Libia, «esprimeva la propria preoccupazione con riferimento alla natura e alla portata dei crimini presumibilmente commessi a danno dei migranti in transito nel Paese nordafricano,

26 Cfr.http://www.amnesty.it/Libia-orribili-abusi-spingono-i-migranti-a-rischiare- la-vitaattraverso-il-Mediterraneo;

www.mediciperidirittiumani.org/pdf/FUGGIRE_O_MORIRE_ sintesi.pdf;

http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/2017/466;https://www. icc- cpi.int/iccdocs/otp/otp-rep-unsc-lib-05-2017-ENG.pdf; https://www.avvenire.it/c/

attualita/Documents/n1803952.pdf.

27 Cfr. Il reportage della Cnn dalla Libia di Nima Elbagir - Video - Rai News www.

rainews.it/.../reportage-cnn-libia-nima-elbagir-3063828d-f7a1-40ac-862d-a483 (visitato il 12 giugno 2019).

28 Si veda: Corte d’assise di Milano, sent. 10 ottobre 2017 (dep. 1 dicembre 2017).

Si legga a questo riguardo: Bernardi 2018.

29 Cfr. Thirteenth report of the Prosecutor of the International Criminal Court to the United Nations Security Council pursuant to UNSCR 1970 (2011).

(19)

dichiarando di valutare l’apertura di un’indagine in merito» (F. Pacella, 2018, 1). Analogamente l’avvocatessa libica Azza Maghur ha più volte ribadito che l’accordo tra l’Italia e la Libia lede i regolamenti europei sull’asilo, in quanto consente il respingimento dei profughi in un paese che innanzitutto non può essere considerato sicuro, e che inoltre non riconosce la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati

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.

4. Esiste un diritto alla paura?

Condivisibile o non tale cornice normativa? Supponendo che tali disposizioni servano effettivamente a contrastare i fenomeni che generano paure e producono insicurezze all’interno della società civile, il punto è chiedersi se esista o non un diritto ad avere paura, e qualora ciò sussista, se esso giustifichi la sospensione di alcune fondamentali garanzie costituzionali. L’evidente contrasto fra l’art. 22 Cost. e l’art. 10 bis della l. 132/2018 nell’introdurre una nozione di cittadinanza fondata sul principio di dignità riconducibile alla nozione etnico/nazionalista di

‘italianità’; lo smantellamento di tutto il sistema di protezione umanitaria da parte del ‘Decreto Salvini’ al fine di ridurre, i dati numerici lo confermano, la presenza di stranieri richiedenti asilo sul territorio nazionale a salvaguardia degli interessi ‘italici’; la genericità della fattispecie penale contenuta nell’art. 613 bis c.p e, ancora più, la richiesta della sua abrogazione fondata sul fatto di considerare legittima la ‘violenza fisica’ esercitata in contesto di operazioni lecite di ordine pubblico, sono costi accettabili in nome della sicurezza e dell’ordine pubblico? Sono compatibili con uno Stato di diritto? Se l’UE, e con essa l’Italia, deve essere, così recita l’art 67 comma 1 TFUE, uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia da attuarsi nel rispetto dei diritti fondamentali, la linea politica intrapresa in questi ultimi anni dal legislatore e dai Governi in Italia è condivisibile? Pur di non essere tacciati di ‘buonismo’ o di elitarismo o, peggio ancora, di snobismo liberale (Simone 2018, 66-67), si possono barattare i principi e i valori fondanti il nostro assetto costituzionale in nome della sicurezza della nazione e del suo popolo, o in nome di un presunto diritto a non avere paura?

Forse ha ragione Ricolfi

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nel ricordare che serve a poco dimostrare con tabelle e percentuali che le ragioni di alcune paure degli italiani sono amplificate, o affermare che una buona politica dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza. Forse è vero che nel ripetere insistentemente il fatto che sia falso pensare che l’Islam nella sua globalità sia incompatibile con la democrazia vi sia

30 Il Rapporto stimava che le persone arbitrariamente detenute fossero tra le 4.000 e le 7.000 ma secondo le successive stime, aggiornate al 14 novembre 2017 e riportate dall’OHCHR, i migranti detenuti nei centri di detenzione ufficiali sarebbero circa 19.900. In ogni caso, il numero è probabilmente più elevato, data la presenza di numerosi centri di detenzione non ufficiali. Si legga: Giuffré 2012, 692-734, in part.

700.

31 Ricolfi 2017. Si veda anche Legrenzi 2001, 1024-1029.

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una vena d’illuminismo ingenuo, incapace di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne scaturisce, così come è forse vero che pensare al processo della Grande Migrazione (Simone 2018, 27 ss) esclusivamente in chiave irenico-umanitaria sia strategicamente sbagliato.

Accettiamo dunque l’idea che la paura e la diffusa insicurezza che ne deriva siano uno dei motori principali dell’opinione pubblica e del comportamento politico, e che essa, più che rispondere ad informazioni razionali precise e complete, risponda ad impulsi radicati nella dimensione psico-biologica; e diamo anche per vero il fatto che quando la paura riemerge all’interno del tessuto sociale, questo, di solito, accade perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di garantire la sicurezza. Ammettiamo anche che Ricolfi abbia ragione nell’affermare che in simili frangenti non si debba andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma, al contrario, diventa doveroso riconoscere loro il diritto di avere paura e di essere insicuri e di dimostrare, coi i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla. Ma proprio qui sta il problema, il nodo non sciolto: come dovrà agire lo Stato per combattere le paure e soddisfare la domanda sempre più diffusa e insistente di sicurezza

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? Le norme appena esaminate costituiscono una giusta risposta al problema? È corretto porre il problema in termini di giustizia, o non sarebbe più opportuno declinarlo in chiave di effettività?

Non si può negare che tutte le soluzioni normative analizzate si muovono nel rispetto del principio di legalità, ed è vero che rispettare sempre e comunque la legge è atto in primo luogo morale, anche quando queste non ci piacciono, perché nella legge e nel suo rigoroso rispetto, così scriveva Calamandrei, «sta la giustizia di giuristi, giudici, avvocati e studiosi del diritto»

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(P. Calamandrei, 2008, 6), tuttavia, e qui la strada si biforca, la legalità la si può attuare, o rimanendo nell’alveo dei valori costituzionali, o muovendosi in una prospettiva eccentrica e centrifuga rispetto ad essi. Forse sarà anacronistico e retorico, ma continuo a credere, e ne sono profondamente convinto, che una legge vincoli solo nella misura in cui si innervi e faccia suoi i valori e principi costituzionali, soltanto se assume la forma di ‘legalità costituzionale’. Si tratta di una impostazione seguita e proposta anche dal Consiglio d’Europa, là dove nel Rapporto del 2005

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in materia di diritti dell’uomo e lotta contro il terrorismo, nell’elencare le linee guida

32 Le leggi di natura, come la solidarietà, la giustizia, la moderazione, la misericordia, insomma il fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi senza un potere che costringa a comportarsi in quel modo, non sarebbero rispettate perché contrarie alle passioni naturali che ci portano all’orgoglio, alla parzialità, allo spirito di vendetta. Patti senza spada – osservava Thomas Hobbes (Leviatano o la materia la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi, A. Lupoli, Roma-Bari: Laterza 201817) – sono vuote parole essendo assolutamente privi di forza nel dare sicurezza agli uomini. Tutte le azioni che gli uomini fanno negli Stati per timore della legge, sono azioni che coloro che le compiono avevano la libertà di non fare.

33 Si legga anche: Morelli 2007, 141-205; Platone Critone, trad. it. a cura di G.

Reale, Milano: Bompiani, 2000, 143. Si veda anche: Sciolla 2000, 803-820.

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