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Angelo Bianchi

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TAGETE 2-2010 Year XVI

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THE VALUE OF THE HUMAN BEING

IL VALORE DELL’UOMO

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Angelo Bianchi**

* In corso di pubblicazione su “Danno e Responsabilità” n. 2/2010.

Relazione presentata al convegno organizzato dall’Associazione medico-giuridica Melchiorre Gioia: Il danno alla persona dopo un anno dalla sentenza delle Sezioni Unite. Suprema Corte di Cassazione, Roma, 13-14 novembre 2009.

** Neuropsicologo forense, U.O. Psicologia, Ausl di Arezzo ABSTRACT

The pronunciation of the Court of Cassation of the 11 November 2008 stated that the non patrimonial damage is only one and consists of all the prejudices caused to a person from a tort.

Usually these prejudices were related to the subjective suffering, but nowadays this is not sufficient any more because the non patrimonial damage provided from the pronunciation includes several different aspects of the human capacities that can be compromised by the tort.

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Le sezioni unite hanno spiegato che il danno non patrimoniale (dnp) è uno, e si identifica con la totalità dei pregiudizi capaci di incidere negativamente sul valore dell’uomo, purché conseguenti ad un’ingiustizia qualificata, e non generica.

Tradizionalmente, tutte le conseguenze negative di natura non patrimoniale erano state ricondotte alla sofferenza soggettiva, ed il loro apprezzamento affidato all’equità pura. Questa riduzione, del tutto coerente con i presupposti concettuali del codice civile del 1942, non è tuttavia adeguata a soddisfare pienamente le complesse funzioni giuridiche che il “nuovo” dnp è chiamato a svolgere nei tempi moderni.

La tutela della persona, costituzionalmente intesa, postula una pluralità di capacità umane fondamentali, tra loro incommensurabili, ognuna delle quali rappresenta una dimensione autonoma dell’unico dnp. La perdita di ognuna di queste capacità umane fondamentali costituisce uno specifico profilo di pregiudizio non patrimoniale, suscettibile di essere misurato e risarcito secondo regole ragionevolmente basate su evidenze condivise.

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234 UN SALTO NEI TEMPI ANTICHI

Nel mondo giuridico antico, dove pure il risarcimento compare assai presto, nessuno ha mai pensato seriamente di poter, ma soprattutto di dover risarcire tramite denaro il valore dell’uomo.

Le ragioni di questa scelta non sono innanzitutto giuridiche, ma metafisiche.1

In tutto il mondo antico, ciò che può e deve essere risarcito tramite denaro è il danno alle cose, non alle persone. Mentre il risarcimento è pacificamente accettato per compensare la perdita di beni che possono essere facilmente scambiati sul mercato delle merci (attrezzi, animali, schiavi, …), la sola idea di riparare col denaro il danno inferto ai beni della persona (corpo, affetti, onore, libertà) è semplicemente ripugnante.

Questi beni, infatti, sono letteralmente insostituibili, e la loro perdita irreparabile, dal momento che il rapporto che la persona intrattiene con essi non è in alcun modo assimilabile alla proprietà delle cose. Si comprende bene che il diritto antico considerasse questi beni inestimabili ed inalienabili, cioè ontologicamente eterogenei rispetto alle cose. Qualcosa di cui si dispone (entro certi limiti), ma che non si possiede.

Il corpo, proprio ed altrui, non fa eccezione. Il divieto di commerciare sangue ed organi, che è pervenuto intatto fino a noi, trova qui il proprio fondamento.2

1 Nessuno si turbi: non esiste alcuna costruzione giuridica senza un qualche fondamento metafisico (né psicologico, del resto), anche se il più delle volte questi fondamenti tendono a rimanere impliciti. Sull’argomento, si vedano i recenti volumi curati da Raffaele Caterina: I fondamenti cognitivi del diritto, Bruno Mondadori, Milano, 2008, e La dimensione tacita del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009.

2 Lo studio fondamentale è quello di Guido Calabresi e Douglas Melamed: Property Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of the Cathedral. Harvard Law Review, Vol. 85, No. 6 (Apr., 1972), pp. 1089-1128, e quello di Margaret Jane Radin: Market-Inalienability. Harvard Law Review, Vol. 100, No. 8 (Jun., 1987), pp.

1849-1937. In entrambi gli studi, volutamente, si accostano aspetti del diritto che vengono comunemente trattati separatamente. L’effetto è quello di produrre, dopo l’iniziale spaesamento, un sentimento di ammirato stupore.

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235 Si deve prestare attenzione al fatto che ciò che rende un bene inestimabile non è la sua natura materiale (il corpo proprio o dei propri cari) od immateriale (onore, libertà), ma bensì l’intensità dell’investimento affettivo, o comunque il valore che la persona accorda ad esso. Affetti ed utilità soggettive, essendo fenomeni in qualche modo incomparabili, non possono entrare a far parte della valutazione economica senza stravolgerne le regole fondamentali.3 La magia del diritto, se così si può dire, consiste nella possibilità di dividere ciò che in natura è unito: la mano amputata, tanto per fare un esempio, si dissocia dalla persona che la subisce, e può quindi essere risarcita come se fosse una semplice cosa danneggiata (cioè patrimonialmente: spese sostenute e mancati guadagni). Ciò che resta, cioè il danno direttamente inferto alla persona (alla sua salute, certamente, ma anche alla capacità di accarezzare moglie e figli, di apparire in pubblico senza vergogna, di combattere valorosamente per la patria, di sentirsi parte attiva della comunità, magari di diventare senatore...) va punito penalmente, e non può in alcun modo essere oggetto di risarcimento in denaro. Il corpo dell’uomo libero, in estrema sintesi, è strutturalmente ambivalente, materiale ed immateriale allo stesso tempo: quando è considerato una cosa materiale, lo si risarcisce come le altre cose;

quando è considerato un bene immateriale, chi lo ha danneggiato deve essere punito con una pena pubblica.4

3 Se ad esempio uno schiavo è tuo figlio naturale, non puoi pretendere che la sua vita ti venga ripagata al prezzo che tu saresti disposto a pagare per riaverlo vivo. Lo stesso vale per la concubina prediletta, per cui Agamennone, tutto sommato, non aveva tutti i torti a prendersela con i capricci di Achille per la Briseide dalle belle guance... Uno dei più grandi storici dell’antichità, Moses Finley, ha sostenuto che nulla del diritto greco-romano può essere veramente compreso se non tenendo conto della schiavitù, e della necessità della sua giustificazione... FINLEY M.I.: Schiavitù antica e ideologie moderne. Tr. it. Laterza, Bari, 1981.

4 Questa impostazione, seppur implicitamente, è presente in molti passi importanti delle sentenze di san Martino.

La definizione normativa di dnp, in particolare, richiama direttamente l’antica nozione di inestimabilità economica (“interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”), e fa quindi riferimento al corpo-persona.

Altrove, si dice – sempre in modo implicito - che il pregiudizio non patrimoniale non biologico sarebbe riferito a beni immateriali: “Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale...”. Se così fosse, se ne

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236 Questa è una costante della giustizia antica, senza significative distinzioni tra giustizia barbarica (mosaica, in particolare) e greco-romana.

E’ nota la durezza della legge del taglione, tipica dei sistemi orientali, consistente nell’imposizione, da parte dello Stato, di un castigo corporale equivalente al danno cagionato. La giustizia romana, pur avendo assai presto eliminato o perlomeno ridotto al minimo la pena corporale,5 non era certo meno severa, come emblematicamente mostra la nota leggenda riferita al giusto Traiano, che è risuonata per secoli attraverso l’Europa.6

La novità introdotta a Roma già in periodo imperiale, almeno stando ad una certa interpretazione di un frammento risalente ad Ulpiano, sarebbe consistita proprio nell’“invenzione” del danno che in seguito sarà chiamato morale, accanto a quello patrimoniale. Secondo i commentatori successivi,7 quest’invenzione sarebbe tanto

dovrebbe dedurre che il pregiudizio biologico attiene a beni materiali, ma in questo caso dovrebbe essere considerato solo patrimonialmente. La lesione corporale a cui si riferisce il danno biologico, in realtà, è quella del corpo-persona, e non quella del corpo-cosa, ed in quanto tale immateriale al pari degli altri beni non patrimoniali.

Il fatto che sia visibile e tangibile non rileva sulla scena del diritto. Anche il danno alla sessualità, a dispetto delle apparenze, è in realtà un danno immateriale. Diversamente, lo si dovrebbe risarcire al prezzo di mercato, non senza imbarazzanti implicazioni… Vedete dove conduce la metafisica implicita?

5 Piano con gli entusiasmi umanitari: la legittimità della pena corporale (come pure della tortura) non è mai stata messa in discussione per gli schiavi, i militari in servizio, i sovversivi (fra cui i cristiani), e più tardi per i liberi cittadini humiliores, cioè la plebe. Cfr. FINLEY M.I., op. cit., pp.121-164.

6 La leggenda è la seguente: mentre Traiano muove verso la Siria, un soldato del suo esercito investe col cavallo ed uccide un ragazzo. La madre del giovane, una povera vedova, gli si para innanzi chiedendo giustizia.

Inizialmente Traiano prende tempo, ma poi, di fronte alle insistenze della donna, ferma l’esercito e fa decapitare il colpevole. Secoli dopo, quando il cranio di Traiano fu portato a Milano per ordine del papa Gregorio Magno, si scoprì che la sua lingua era miracolosamente intatta: Dio stesso aveva approvato la sua giustizia!

Dante – un grande apologeta, oltre che un divino poeta - ricorda Traiano nel canto X del Purgatorio, come esempio di giustizia pagana, e lo pone addirittura in Paradiso, nel cielo di Giove, il cielo dei giusti, accanto al re Davide! Fino alla fine del ‘600, quando andò sfortunatamente distrutta, una tavola celeberrima di Roger van der Weyden illustrava la giustizia di Traiano nella sala principale dell’Hotel de Ville di Bruxelles. Ne esiste una copia, su tappezzeria, a Berna. Nel palazzo di giustizia di Milano esistono ben due diverse raffigurazioni moderne dell’episodio, un bassorilievo di Romano Romanelli ed un encausto di Ferruccio Ferrazzi.

7 Il frammento fu infatti inserito, verso l’inizio del V secolo, in un’operetta intitolata Confronto fra le leggi mosaiche e romane, anche se tale intento “comparativistico” era del tutto estraneo alle preoccupazioni di Ulpiano, che si

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237 importante da costituire una radicale differenza tra legge romana e legge mosaica, introducendo un elemento di pietas tipicamente latina.8

Nell’architettura giuridica complessiva, il risarcimento contribuisce al mantenimento dell’ordine sociale, funzionando come deterrente alla vendetta privata (sempre in agguato), e limitando peraltro l’eccessivo ricorso alla sanzione penale, laddove la condotta dell’offensore non lo renda necessario né opportuno. Non solo la vittima, ma anche l’offensore merita una attenta personalizzazione della sanzione, qualora la sua condotta non risulti troppo biasimevole.

In caso di gravi disgrazie (per esempio la morte o il ferimento di un figlio o di una persona cara), le vittime tendono facilmente a dilatare l’area della responsabilità dell’offensore. Spesso, attribuire la colpa a qualcuno è comunque preferibile al sentimento di essere in balìa di forze impersonali, e quindi del tutto incontrollabili. L’area della moderna “colpa” medica è, al riguardo, quanto mai emblematica.

limita a riportare l’episodio, di pochi decenni anteriore (Adriano, successore di Traiano, era morto nel 138). Sono debitore, per questa parte, al prezioso studio di Remo Martini Sul risarcimento del danno morale in diritto romano, in Studi in onore di Sergio Antonelli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, pp. 525-532.

8 CONFRONTO FRA LE LEGGI MOSAICHE E ROMANE 1, 11, 1-4 (UI.PIANO, libro settimo Dei compiti del proconsole). Secondo alcuni autorevoli interpreti, si tratta di una delle prime attestazioni di un risarcimento non patrimoniale nel diritto europeo: Taurino Egnazio, proconsole della Betica, giudica il caso della morte accidentale di un ragazzo a causa di un gioco pericoloso durante un banchetto, avvenuta cinque giorni dopo l’incidente. Il responsabile della disgrazia, tale Evaristo, viene condannato ad una pena pubblica (esilio per cinque anni) ed in più a risarcire Lupo, il padre del ragazzo, con la somma di duemila sesterzi, una cifra tutto sommato abbastanza modesta (uno schiavo valeva all’epoca circa seimila sesterzi). Non vengono fornite ulteriori motivazioni circa il contenuto esatto del risarcimento (ma si potrebbe anche tradurre rimborso) accordato impendi causa. Taurino, tuttavia, sente il bisogno di rimettersi all’imperatore Adriano perché approvi il suo operato, consapevole – si suppone - di applicare un principio innovatore, o perlomeno inusuale. Se si fosse trattato di un mero risarcimento patrimoniale (per le cure e per il funerale, ad esempio), non si comprende perché Taurino avrebbe dovuto scomodare l’imperatore. E’ pertanto ragionevole supporre – come fa ad esempio il Serrao - che Taurino abbia inteso risarcire proprio il dolore del padre. Il pretium doloris, in questo caso, sarebbe davvero un’invenzione romana, e non tedesca.

La risposta del divino Adriano è quanto mai deludente per i moderni civilisti, e si limita ad elogiare la mitezza della pena a fronte di una condotta colposa.

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238 La storia della civiltà giuridica europea, da questo punto di vista, è la storia di una graduale, grandiosa opera di educazione civile, mai compiutamente realizzata.

L’uomo può diventare disumano non solo quando commette, ma anche quando subisce il male, come nel selvaggio canto di Lamech, ricordo di un mondo hobbesiano anteriore al diritto:

Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido.

(Genesi 4,23)

Ma ancor più nel caso di Ecuba: colei che piange i suoi figli, e subito dopo si trasforma in spietata assassina. Di nuovo, è Dante che ci ricorda questa figura tragica (mettendola all’Inferno, naturalmente):

Ecuba triste, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta,

e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta,

forsennata latrò sì come cane, tanto il dolor le fè la mente torta.

(Inferno XXX, 16-18)

Ecuba – protagonista dell’omonima tragedia di Euripide,9 che fino ad alcuni secoli fa era uno dei testi più conosciuti e studiati - è la figura che più di ogni altra mostra con quanta profondità le disgrazie possono scuotere i fondamenti stessi dell’umanità, e non solo rendere infelici le persone.

9 Sono debitore, per questa interpretazione della figura di Ecuba, a Martha Nussbaum. NUSSBAUM M.C.: La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca. Tr. it. Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 711- 755. La tragedia di Euripide era certamente nota a Virgilio, che ricorda la vicenda, ed in particolare Polidoro, nell’Eneide.

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239 Nella prima parte della tragedia, Ecuba è solo infelice: privata della città, vedova, i figli maggiori morti sul campo, schiava in terra straniera, ma ancora moralmente integra.

Perfino il martirio di Polissena, un fulgido esempio di abnegazione, non la smuove dalla sua compostezza. Essa è, fino a questo punto, un emblema della virtù incorruttibile, un’eroina socratica.

Ma di fronte al cadavere straziato di Polidoro, essa diventa – letteralmente – una bestia furiosa. Stermina uno dopo l’altro i figli di Polimestore, il traditore assassino, e infine lo acceca, riducendolo come un cane, prima di essere, a sua volta, trasformata in cagna.

Nessuno, nel mondo antico, aveva mai osato proclamare con tanta forza la vulnerabilità dell’uomo di fronte agli eventi del mondo.10

Quando noi, i moderni, parliamo di attività realizzatrici della persona umana (come ad esempio la cura e la protezione dei propri cari), non dovremmo mai dimenticare quali immensi danni la loro perdita è in grado di cagionare, alla persona e all’intera comunità.

Le attività realizzatrici della persona umana (ciò senza cui la persona umana non realizza il proprio fine), peraltro, non debbono essere confuse con la lista degli hobbies...

10 Proprio per questo Platone non sopportava i poeti tragici, e li considerava dei profanatori e dei cattivi maestri. Il suo pensiero al riguardo era comunque assai più complesso, come mostra questo brano delle Leggi, un’opera della maturità. Rivolgendosi ai poeti tragici, i Legislatori (i fondatori della città ideale) dicono loro: “Ospiti nobilissimi, noi stessi siamo poeti di una tragedia che è la più bella e la più nobile: tutta la nostra costituzione (politèia) si è formata sull’imitazione della vita, e in questo noi diciamo che consiste in realtà la tragedia più vera.

Poeti siete voi, poeti siamo anche noi, vostri rivali nel comporre il dramma più bello che soltanto la vera legge può per natura compiere”. (Leggi, 817b). Un testo davvero straordinario, da meditare a lungo.

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240 IL VECCHIO DNP, 1942

Questo impianto, nella sua essenza, è arrivato inalterato fino al codice civile del 1942, pur con alcuni importanti correttivi, dovuti specialmente agli apporti della grande tradizione stoico-cristiana,11 attraverso la mediazione del pietismo e dello spiritualismo ottocentesco. Grazie a questi correttivi, il risarcimento del danno morale era diventato, all’inizio del secolo XX, una prassi largamente consolidata, ma anche fieramente contrastata. E’ nota a tutti la repulsione di Carlo Francesco Gabba (e di altri) non solo per gli eccessi, ma per la nozione stessa di danno morale risarcibile. E’ così che si arrivò al “compromesso” del 1942.

La caratteristica principale del danno non patrimoniale del 1942 consisteva nel suo legame inscindibile col sistema penale. Il rapporto tra 2059 cc e 185 cp non era affatto accidentale, ma sostanziale. Tutte le caratteristiche del dnp del 1942 – in particolare il suo contenuto, ovvero la sofferenza soggettiva transeunte – sono comprensibili unicamente a partire da questo dato iniziale.

Si deve innanzitutto ricordare che fin dalla fine del XIX secolo (in Italia, l’INAIL fu istituita nel 1883) le legislazioni sociali europee avevano assicurato che gli infortuni sul lavoro e sui trasporti collettivi (che rappresentavano, allora, la più cospicua sorgente di lesioni somatiche) fossero indennizzati con agili procedure no-fault, prive di indagini circa la responsabilità, secondo un’impostazione rigorosamente patrimonialistica. I primi barèmes medico-legali, che si diffondono in Europa a quell’epoca, sono interamente

11 Non è questa la sede per analizzare a fondo la posizione stoica, che è particolarmente complessa ed articolata.

Basti dire che lo stoicismo ha influenzato non solo il pensiero cristiano (sia cattolico che protestante), ma anche il pensiero di un Autore che del cristianesimo intendeva porsi agli antipodi: molti rimarrebbero stupiti di fronte all’ultrastoicismo di Nietzsche. Forse Gabba ammirava lo stoicismo nicciano, chi lo sa...

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241 orientati alla valutazione delle conseguenze che la lesione corporale produce sulla capacità lavorativa, e non certo sulla vita quotidiana o sugli aspetti dinamico-relazionali del lavoratore, termini del tutto estranei al lessico e alle preoccupazioni dell’epoca.

Personalmente ritengo, ma lo dico sommessamente, che il sistema tabellare (ed in particolare la sua metodologia di accertamento) sia stato un pò troppo frettolosamente adattato alle esigenze che il danno biologico avrebbe in seguito richiesto, e che alla fine il Codice delle Assicurazioni ha normativamente sancito. Ironicamente, non c’è testo legislativo più esistenzialista degli artt. 138 e 139 del CdA...

Al momento in cui il codice civile viene promulgato, pertanto, la tutela principale per la lesione dei beni di natura personale (derivanti da omicidi, percosse, lesioni, calunnie, diffamazioni, sequestri di persona, riduzioni in schiavitù, ecc.) non è il risarcimento monetario, ma la sanzione penale. Chi offende la persona danneggia prima di tutto se stesso e l’ordine sociale, e per questo va corretto, sorvegliato e punito.

La dignità della vittima, che consiste essenzialmente nella sua personalità morale (ragione e buona volontà), non è un bene che possa essere diminuito né accresciuto dall’offesa ricevuta. L’oltraggio al pudore, perfino lo stupro, non toglie dignità alla vittima dell’oltraggio, anzi semmai la nobilita. Questa è una delle più grandi eredità (etiche, prima ancora che giuridiche) del pensiero stoico e cristiano, che trova nell’esaltazione del martirio una delle più alte espressioni artistiche e letterarie. Gli eventi mondani – anche i più catastrofici – possono certamente arrecare dolore e sofferenza, soprattutto ai soggetti più deboli e vulnerabili (vengono in mente certi passi della Corte Cost. 372/94...), ma non possono intaccarne la dignità morale, che in quanto tale resta incorruttibile. Il risarcimento, pertanto, si limita ad offrire ristoro al corollario soggettivo della dignità oltraggiata, ciò che è stato chiamato pretium doloris. Coerentemente, la sofferenza soggettiva è stata da sempre considerata transeunte, non potendosi concepire

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242 che la forza del carattere, la pazienza e la sopportazione (virtù stoico-cristiane per eccellenza) non avrebbero finito, prima o poi, per prevalere. Si deve ricordare che la tristitia (ciò che oggi chiameremmo depressione) è stata a lungo considerata un vizio capitale, prima di confluire nella più comprensiva accidia, la cui qualità fondamentale consiste proprio nell’indugiare morboso, quasi compiaciuto, nel lamento e nell’insoddisfazione?

La morale stoico-cristiana, che tanta parte ha avuto nel plasmare i fondamenti metagiuridici del danno alla persona, è insieme compassionevole ed austera: essa si piega sulla condizione della vittima, ma nello stesso tempo la solleva indicandole la possibilità (e quindi la necessità, salvo sporadiche eccezioni) di una vittoria morale sul male.12 Il suo fondamentale ottimismo è basato sulla ferma, incrollabile fiducia nella natura inviolabile della dignità umana da parte degli eventi del mondo, fossero pure i più catastrofici.13 Essa non dipende che marginalmente dalle condizioni materiali dell’umana esistenza, né tantomeno dai suoi riflessi soggettivi, che in quanto tali sono moralmente indifferenti.14

12 Se qualcosa è moralmente possibile, il suo conseguimento diventa un dovere e perfino un obbligo per l’agente morale. Volere è potere tutto il possibile. Ogni fallimento (o, peggio ancora, ogni mancanza di volontà) non può che essere ascritto a debolezza o corruzione morale. E’ forse qui che la morale cristiana (con la sua insistenza sulle ragioni della debolezza) si separa dalla morale stoica, o almeno da una certa sua austera versione. Non sempre, del resto, la morale cristiana è stata ugualmente attenta alle ragioni della umana debolezza.

13 Sentiamo Kant, il più grande dei neo-stoici moderni: “Anche se l’avversità della sorte o i doni avari di una natura matrigna privassero interamente la volontà del potere di realizzare i propri progetti, essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha in sé il suo pieno valore. L’utilità o l’inutilità non possono né accrescere né diminuire questo valore” (KANT I:. Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it in Scritti morali, Torino, Utet, 1970, p. 50). Nulla di ciò che oggi chiamiamo bioetica è comprensibile senza queste premesse metafisiche.

14 Ancora Kant:. “La vera forza della virtù è la tranquillità d’animo (unita a una risoluzione meditata e ferma di praticare la legge morale) (...) Questo costituisce lo stato di buona salute della vita morale; il moto d’animo, all’opposto, anche quando è suscitato dalla rappresentazione del bene, è un’apparizione di fuggevole splendore, la quale lascia dopo di sé stanchezza ed esaurimento” (KANT I.: La metafisica dei costumi, tr. it. Laterza, Bari, 1971, p. 262). Di sicuro, la sola idea del danno da castità forzata gli avrebbe fatto venire, come minimo, un attacco di colite.

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243 Il risarcimento monetario è, nella sua essenza, un rimedio compassionevole che il sistema accorda in aggiunta alla pena pubblica, che resta in ogni caso il rimedio principale. Il risarcimento non appartiene in prima istanza al diritto giusto, ma al diritto misericordioso. Chi viene risarcito, avendo già ricevuto giustizia tramite la sanzione penale, non ha da avanzare eccessive pretese, e deve semmai esprimere gratitudine.

La sofferenza (chiamata anche patema d’animo) è, in questa visione, un descrittore generico per indicare la totalità dei riflessi negativi di natura immateriale che la condotta ingiusta riversa sulla vittima del reato. Tutto ciò che consegue, sul piano soggettivo, al fatto di essere ferito, calunniato, stuprato, percosso, ingiuriato, derubato o ridotto in schiavitù, ma anche al fatto di aver visto un proprio caro ucciso.

Anche in questi casi estremi, si badi bene, ciò che viene risarcito non è la perdita del bene personale in quanto tale (che è e resta al di fuori della risarcibilità monetaria), ma il suo riflesso soggettivo sulla vittima, la sofferenza transeunte appunto. Trattandosi di un bene non suscettibile di valutazione economica, è del tutto evidente che la sofferenza non possa che essere oggetto di apprezzamento secondo equità, che è come dire a seconda dell’indole compassionevole del giudice e/o del pathos suscitato dagli attori (nel doppio significato della parola). Ma sempre con sobrietà, per non corrompere la vittima stessa, che dalla propria virtù – e non certo dal denaro - dovrà trarre sostegno e forza d’animo.

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244 IL NUOVO DNP, 2008

Dopo la Costituzione e l’enorme sforzo legislativo del secondo dopoguerra, molte cose sono cambiate. Forse tutto è cambiato, ed in modo irreversibile.

Prima di ogni altra cosa, è mutata la percezione collettiva riguardante la vastità e la profondità del male che incombe sulla condizione umana. La visione serenamente ottimistica che aveva prevalso fino ad allora ha dovuto essere profondamente rivista.

Dopo gli orrori totalitari, la protezione e la cura della persona umana e dei suoi diritti fondamentali è diventata, in tutto il mondo occidentale, l’esigenza di gran lunga prioritaria. I Costituenti, espressione delle migliori tradizioni culturali del Paese, hanno condiviso in pieno queste preoccupazioni, ed hanno accordato ampio spazio al riconoscimento di una gamma ampia e diversificata di diritti personali inviolabili, laddove inviolabili non significa più “che non possono essere violati”, ma bensì “che non devono essere violati”. Il descrittivo è diventato normativo. Nulla di materialistico in tutto ciò, semmai di genuinamente personalistico, favorito dal progressivo recupero della tradizione aristotelica e tomistica, che com’è noto assegna ai beni esteriori una rilevanza non soltanto accidentale.15

La sfera di tutela della persona umana, dalla Costituzione in poi, non ha cessato di ampliarsi in ogni direzione. Le Carte dei Diritti si sono moltiplicate. Le circostanze concrete dove la persona umana può essere offesa si sono estese fin dove mai, in

15 Due sole citazioni aristoteliche: “Sembra tuttavia che la vita buona (eudaimonia) abbia bisogno anche dei beni esteriori, come dicemmo; infatti è impossibile o non è facile compiere belle azioni senza mezzi d’aiuto”

(ARISTOTELE, Etica nicomachea, 1099a 31-33). “Nessuna attività è perfetta se è ostacolata, e la vita buona appartiene alle cose perfette; perciò la persona felice (eudaimon) ha bisogno dei beni del corpo, di quelli esteriori e di quelli della fortuna affinché le sue attività non siano ostacolate. Quelli poi che affermano che, se una persona è buona, è felice anche se sottoposta al supplizio della ruota e anche se cade in grandi disgrazie, fanno volontariamente o involontariamente un’affermazione priva di senso” (Ibidem, 1153b, 16-21).

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245 passato, si era ritenuto di doverle inseguire, o neppure soltanto concepire. Le modalità stesse dell’offesa non cessano di essere, giorno dopo giorno, sottoposte a revisione e continuo aggiornamento.

Accanto alle tradizionali vittime di reato, si sono affacciate sulla scena del diritto civile figure del tutto inedite: dapprima (e copiosamente) le vittime del trasporto privato, poi quelle della meccanizzazione della vita domestica e del tempo libero, della terziarizzazione e precarizzazione del lavoro, delle nuove relazioni familiari ed affettive, dell’urbanizzazione, della società dei consumi, delle nuove forme di comunicazione, poi tutte le minoranze discriminate ed oppresse, infine le vittime del welfare stesso...

L’offensore, come persona fisica, è quasi del tutto scomparso dalla scena del diritto, sostituito da terze parti impersonali (le compagnie assicuratrici private, i grandi enti burocratici, la pubblica amministrazione). Da forma di tutela minima, il risarcimento è diventato – in misura crescente – forma di tutela unica a fronte di una quantità e varietà davvero impressionante di posizioni giuridiche che reclamano tutela. Lasciato solo a soddisfare una domanda di giustizia crescente, ed a volte stravagante, il risarcimento è stato via via caricato di attese sociali e di funzioni giuridiche che mai in passato era stato chiamato a sostenere.

All’apice del suo sviluppo (o all’inizio della sua decadenza...), il sistema della responsabilità civile ha finito per diventare uno strumento di ridistribuzione del reddito, una sorta di welfare sussidiario. La deriva bagatellare è a tutti nota.

A ciò hanno reagito, con energia, le SS.UU. nel 2008.

Nessuno può fingere di non vedere ciò che le SS.UU. avevano di fronte come un’evidenza inaggirabile, pesante e dura come un macigno: il nostro sistema richiede che il danno non patrimoniale debba essere risarcito “solo nei casi determinati dalla legge”. Ciò implica che si debba rinvenire, da qualche parte, un criterio per escludere

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246 qualcuno dei casi altrimenti risarcibili senz’altro requisito rispetto a quello dell’ingiustizia generica.

Non si trattava di arginare la sfera di tutela dei diritti della persona, ma di riaffermare in modo autorevole, ed in qualche modo solenne, che questo criterio non solo esiste, ma deve esistere. La tutela della persona, per essere all’altezza del bene che intende proteggere, deve essere mantenuta distinta dal puro e semplice proliferare dei desideri e delle preferenze individuali. Ciò equivale a sostenere la necessaria antecedenza logica e cronologica del diritto rispetto al danno sofferto. Il diritto deve già essere riconosciuto dall’ordinamento affinché le conseguenze negative derivanti dalla sua lesione possano essere considerate risarcibili. Non importa che tale riconoscimento sia dato una volta per tutte, come in una sorta di immutabile legge naturale: esso può benissimo essere concepito come storicamente plasmabile e modificabile. Ciò che conta è che esso, al momento in cui qualcuno ne rivendica l’offesa, sia già stato riconosciuto dall’ordinamento, e quindi preesistente all’offesa lamentata. Il soggetto è il depositario di un diritto, ma non ne è l’artefice. La semplice rivendicazione di un danno – comunque denominato – non ne legittima l’automatica risarcibilità.

Bene hanno fatto, quindi, le SS.UU. ad innalzare la soglia di accessibilità al dnp, facendola coincidere non con l’ingiustizia generica, ma con l’ingiustizia qualificata.

Non altrettanto felice, a mio avviso, è la soluzione proposta per quanto riguarda il contenuto del nuovo dnp, ovvero la sua concreta fenomenologia.

La pretesa di fare della sofferenza l’oggetto risarcibile principale (ed in taluni casi esclusivo) rappresenta, a mio avviso, un inopportuno ritorno allo schema concettuale proprio del “vecchio” dnp. La sofferenza è concettualmente incompatibile con l’impianto

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247 complessivo del “nuovo” dnp (in particolare con la definizione legislativa di danno biologico), metodologicamente fragile e alla fine destinata ad aumentare ulteriormente l’imprevedibilità – e quindi la litigiosità – del processo civile. Proprio ciò di cui meno abbiamo bisogno, in questi tempi moderni.16

La focalizzazione sulla sofferenza, inoltre, è destinata a lasciare in ombra dimensioni del pregiudizio del tutto indipendenti e in alcun modo riconducibili alla sofferenza stessa.

Al pari della metrica utilitaristica del benessere – di cui rappresenta, a ben guardare, l’immagine speculare – la metrica della sofferenza fa degli stati d’animo soggettivi il criterio ultimo del valore, finendo così per ignorare o per aggregare in maniera confusa dimensioni del pregiudizio del tutto eterogenee tra loro, che devono invece essere accuratamente distinte.

L’essere umano non realizza il proprio fine nella massimizzazione del benessere, né nell’evitamento della sofferenza. L’essere umano realizza il proprio fine dedicandosi ad una pluralità di attività in grado di rendere la sua vita migliore e più completa, alle quali l’agente – in seguito ad una autonoma deliberazione – decide di assegnare un valore intrinseco, e non soltanto strumentale. Dedicarsi alla cura di un genitore o proteggere un figlio vulnerabile, queste sono attività degne di valore non in quanto rendono gli agenti felici, ma in quanto realizzatrici della loro umanità. Il loro valore non dipende minimamente dalla loro connotazione in termini di felicità o infelicità soggettiva.17

16 La sofferenza implica necessariamente una pretesa valutativa circa il vissuto interno della vittima, e trasforma i giudici ed i loro consulenti, lo vogliano o no, in lettori della mente. Non c’è modo di indagare la sofferenza se non attraverso il soggetto che tale sofferenza lamenta. Non esiste, né mai esisterà, alcun affidabile patometro, né patoscopio (come non esiste alcun algometro né algoscopio). L’illusione di poter fare ricorso alla nosografia psicopatologica è altrettanto ingenua e pericolosa. Anche il danno psichico, infatti, è un oggetto assai complesso, da maneggiare con estrema cura. Sul punto, mi permetto di rinviare al recente MAGLIONA B., BIANCHI A, VOLTERRA V: Sulla materia del danno psichico, in Resp Civ Prev, n. 11/2009, in corso di stampa.

17 Il non poter più fare ciò che liberamente si è scelto di fare, a mio avviso, dovrebbe essere un oggetto risarcibile anche se il contenuto dell’attività risultasse – allo sguardo di chi osserva - spiacevole: per esempio combattere per

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248 Occorre porci alcune domande, anche se apparentemente provocatorie ed irriverenti.

Si deve risarcire un cieco felice? E un orfano, una vedova, un prigioniero felice?

Immaginiamo, per attualizzare, che si disponga di un farmaco capace di eliminare ogni sofferenza, una vera e propria pillola della felicità, o perlomeno dell’oblio perfetto.

Dovremmo ancora risarcire coloro che, come diligenti lotofagi, ne hanno beneficiato dopo l’ingiustizia loro capitata?

Tutto il tragitto concettuale che separa il vecchio dal nuovo dnp dipende da come rispondiamo a questo genere di domande.

Se crediamo che qualcuno reso ingiustamente cieco, o paraplegico, debba essere risarcito in quanto infelice, e non in quanto cieco o paraplegico, siamo ancora nel vecchio dnp. In questo caso, il danno biologico – e non solo il danno esistenziale - non sono che figure pleonastiche, bastando largamente al risarcimento integrale il solo pretium doloris.

Se invece riteniamo che il cieco debba essere risarcito in quanto cieco – cioè in quanto la cecità ne ostacola la realizzazione umana – allora siamo nel nuovo.

Lo stesso deve accadere per l’orfano, la vedova, il prigioniero e lo straniero (figure paradigmatiche, forse, del non poter fare, o dell’essere costretti a fare altrimenti).

Ciò che ci serve, allora, è una fine analisi di tutto ciò che può – in linea di principio – impoverire l’umana esistenza, diminuire o perfino cancellare il valore dell’uomo. Una tavola, necessariamente complessa, di capacità umane fondamentali, senza le quali nessuna vita può essere definita una vita buona, una vita degna di essere vissuta. La compromissione di ognuna di queste capacità fondamentali – grosso modo

la Patria, rischiare la vita in servizio, vivere in completa solitudine, accettare rinunce e privazioni, perfino mortificare il proprio corpo con digiuni e penitenze. Non credo proprio che il santo o il soldato diano troppa importanza ai riflessi soggettivi della loro scelta di vita, quanto piuttosto alla bontà – cioè al valore intrinseco – che la loro scelta incarna.

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249 corrispondenti ad una tavola, sempre provvisoria, dei diritti inviolabili - rappresenta un autonomo profilo di pregiudizio non patrimoniale, in quanto impedisce alla persona di realizzare il proprio fine, e non (soltanto) perché lo rende infelice.

LE CAPACITÀ UMANE FONDAMENTALI

Vivere una vita lunga Mantenersi in buona salute

Comunicare Ragionare

Provare affetti ed emozioni Essere liberi dal dolore in eccesso Apparire in pubblico senza vergogna Godere della relazione coi propri cari

Svolgere attività che rendono migliore la propria vita Partecipare attivamente alla vita della comunità

Decidere liberamente il proprio piano di vita Avere rispetto di sé18

Affermare che il valore dell’uomo sia in quanto tale impoverito dal venir meno dell’integrità del corpo: questo è stato il più grande dei contributi che la dottrina del danno biologico ha apportato alla civiltà giuridica del nostro paese.

18 Secondo John Rawls, “il rispetto di sé e la fiducia nel senso del proprio valore costituiscono forse il bene principale più importante”, alla cui promozione l’intero ordinamento giuridico è finalizzato. Gli altri beni principali sociali (diritti e libertà, poteri e opportunità, ricchezza e reddito), come pure i beni principali naturali (salute e forza, intelligenza e fantasia) sono gerarchicamente sottordinati all’incremento del rispetto di sé. Preferisco il rispetto di sé al più generico concetto di dignità, per designare quel genere di pregiudizi che attentano direttamente alla personalità morale dell’agente, e che hanno il loro contenuto prevalente nelle esperienze di umiliazione, oltraggio, disonore, sottomissione forzata, vessazione. Cfr. RAWLS J.: Per una teoria della giustizia. Tr. it. Feltrinelli, Milano, 1982, pp. 67 ss.

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250 Che non la sola biologia, ma l’intera biografia della persona possa essere, in linea di principio, danneggiata dall’ingiustizia: questo è stato, in estrema sintesi, il maggiore contributo della dottrina esistenzialista. La lesione biologica è solo uno dei percorsi attraverso cui la vita umana si impoverisce e perde valore.

Di entrambi i contributi, a mio parere, il diritto civile italiano deve essere fiero, e di entrambi avrà ancora bisogno negli anni a venire.

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