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1 Le forme incentivanti della retribuzione

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Academic year: 2021

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1 Le forme incentivanti della retribuzione

Sommario: 1.1 Diffusione dei sistemi incentivanti. – 1.2 La retribuzione incentivante dal 1993 a oggi. – 1.3

Gli sgravi contributivi per favorire la contrattazione aziendale. – 1.4 Un confronto con la Germania. – 1.5 Carenza di ricerche e studi sulle conseguenze della retribuzione incentivante. – 1.6 Fattori dell’incentivazione. – 1.7 Produttività, qualità, risultati finali dell’azienda. – 1.8 La retribuzione incentivante e i principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza. – 1.9 Produttività e salario di risultato. – 1.10 Retribuzione di produttività e retribuzione di produttività programmata. – 1.11 La remunerazione del top management. – 1.12 Politiche economiche europee.

Il capitolo esamina le forme retributive incentivanti ripercorrendone l’evoluzione temporale. Nei paragrafi iniziali si pone la questione della remunerazione come strumento d’incentivazione dei membri dell’impresa. Nella sua determinazione, la retribuzione, richiede un bilanciamento tra incentivi e tutela dei lavoratori dai rischi. Il capitolo analizza il mutato equilibrio nella struttura della contrattazione italiana e non solo, a favore della contrattazione di secondo livello e a discapito della contrattazione collettiva nazionale. Si esaminano gli interventi legislativi dal 1993 a oggi che hanno perseguito l’obiettivo di introdurre strumenti, tra cui la retribuzione incentivante, al fine di favorire la crescita della produttività e della competitività delle imprese italiane. In realtà, la situazione dell’Italia mostra il declino della produttività e l’incertezza dei risultati prodotti dai sistemi retributivi incentivanti. Si propone l’alternativa della produttività programmata inserita in un contesto di nuove politiche economiche, in Italia e in Europa, e l’abbandono delle riforme del mercato del lavoro, incentrate sull’aumento della flessibilità e il contenimento dei salari e la conseguente depressione della domanda. L’alternativa è lo sviluppo di politiche industriali che rappresenterebbero le riforme strutturali veramente necessarie.

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1.1 Diffusione dei sistemi incentivanti

Le strategie delle imprese sono il risultato del compromesso tra gli interessi dei propri membri, questi interessi sono il riflesso della struttura proprietaria dell’organizzazione. Le aziende, generalmente, hanno un’organizzazione che incentiva i manager e i lavoratori a perseguire gli obiettivi del proprietario. Il proprietario ha l’obiettivo di far crescere l’efficacia e l’efficienza per aumentare i profitti, per raggiungere questi obiettivi è necessario che i membri dell’impresa siano incentivati nel modo giusto.

Gli incentivi presenti nel mercato e nelle imprese influenzano i comportamenti degli agenti economici e condizionano la competitività delle aziende. Possiamo evidenziare diversi tipi d’incentivi che influenzano il comportamento degli agenti economici: a) incentivi del mercato; b) incentivi delle organizzazioni che regolano il funzionamento del mercato; c) gli incentivi delle imprese per indirizzare il comportamento dei propri membri.

Soffermando l’analisi sugli incentivi interni alle imprese possiamo vedere come le stesse utilizzano compensi, sanzioni e una serie di strumenti: incentivi contrattuali espliciti come salari variabili, stock options e incentivi impliciti come possibilità di apprendimento e avanzamento di carriera, orario di lavoro flessibile, possibilità di scelta su turni e ferie, scelta del posto di lavoro. La remunerazione, solitamente, è la forma d’incentivo più utilizzata all’interno delle imprese.

Le retribuzioni incentivanti hanno assunto un ruolo centrale tra gli elementi del rapporto di lavoro, sia nell’ambito delle relazioni industriali sia nell’ambito dei metodi di gestione delle risorse umane. L’utilizzo di queste forme retributive si è sviluppato dapprima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo e nelle diverse tipologie di organizzazioni, non solo private. Può essere definito incentivo retributivo ogni elemento che ha come fine il miglioramento quantitativo e qualitativo della prestazione lavorativa. Alcuni esempi di remunerazione incentivante sono il cottimo, la partecipazione agli utili, provvigione legati alle vendite e moderni sistemi d’incentivazione legati a indicatori di performance. Mi limito qui a descrivere brevemente la più tradizionale forma di retribuzione incentivante, il cottimo. Il cottimo è una forma d’incentivo esplicito in quanto collega la retribuzione alla prestazione individuale, questo sistema comporta che si paghi al lavoratore un ammontare specifico per unità di prodotto (pensiamo al lavoro agricolo di raccolta). Il cottimo rappresenta una forma facilmente comprensibile di retribuzione incentivante, anche se in certi contesti le unità che costituiscono la base della

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remunerazione non sono facili da individuare. Il cottimo può produrre degli effetti positivi in un sistema di produzione tradizionale. Con l’utilizzo della catena di montaggio, in cui il singolo lavoratore non può accrescere la propria produttività indipendentemente dagli altri, il cottimo non è più funzionale. Con un sistema di produzione che applica il just in time, può essere difficile economizzare sulle scorte e dare ai dipendenti la possibilità di fissare il proprio ritmo di lavoro (Milgrom, Roberts, 2005, pp. 572-575).

Il giudizio positivo sulla retribuzione incentivante, da sempre, deriva dalla possibilità di utilizzarla come strumento di crescita della produttività. Oltre ha essere considerata una leva per la crescita della produttività, la retribuzione incentivante permette meglio all’azienda di rispondere all’instabilità del mercato. Il problema, come vedremo più avanti, è che queste conclusioni sul ruolo della retribuzione incentivante, sia riguardo alla crescita della produttività sia come strumento di flessibilità per rispondere alle incertezze del mercato, non sono mai state sottoposte a una critica seria e a un’indagine approfondita. La retribuzione è centrale nel rapporto di lavoro e le sue diverse modalità di applicazione ci possono far comprendere quali sono gli equilibri e come cambia la natura del rapporto di lavoro.

1.2 La retribuzione incentivante dal 1993 a oggi

Un impulso positivo verso la retribuzione incentivante lo troviamo nell’Accordo tra governo e parti sociali del 23 luglio del 1993, definito come la Carta costituzionale delle relazioni industriali italiane (Cella, Treu, 2009, p. 36), nel quale è assegnata alla contrattazione decentrata il compito di implementare l’uso del salario variabile per far crescere la produttività e la competitività delle aziende.

Nell’Accordo quadro fra governo e parti sociali sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, è stata ribadita la funzione della contrattazione di secondo livello di collegare la retribuzione alla produttività, già assegnata nella riforma del 1993, ma le è stato attribuito come compito quasi esclusivo. Si ridimensiona il ruolo della contrattazione centralizzata cui è conferita la funzione di tutelare in generale il potere d’acquisto. L’Accordo interconfederale del 15 aprile 2009 sottoscritto da Confindustria, CISL e UIL, riprendendo l’Accordo del 22 gennaio, legava la diffusione della contrattazione integrativa alle agevolazioni fiscali confermando che la contrattazione di

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secondo livello si esercita per le materie delegate dal CCNL, per quanto riguarda le retribuzioni incentivanti l’accordo, confermava la competenza esclusiva della contrattazione integrativa (CNEL-ISTAT, 2015). Nell’accordo del 1993 era ancora data la possibilità alla contrattazione centralizzata di intervenire nel legare la retribuzione a parametri di produttività, in questo modo si volevano tutelare le piccole e medie imprese, dove l’uso della contrattazione aziendale era quasi assente.

Nell’Accordo Quadro del 2009 le piccole e medie aziende furono tutelate con l’introduzione del c.d. elemento di garanzia retributiva. Questo elemento fisso della retribuzione è previsto dal contratto nazionale in favore di quei lavoratori delle piccole e medie imprese, in cui non si attua la contrattazione di secondo livello e che non elargiscono altri trattamenti economici individuali o collettivi, oltre a quanto previsto dal contratto collettivo di categoria. Un incremento dell’elemento di garanzia può essere attuato senza doverlo in qualche modo collegare a indicatori di produttività. In relazione alla nostra analisi, il problema sorge quando l’elemento di garanzia è utilizzato in alternativa alla retribuzione incentivante. L’elemento di garanzia, fisso e non necessariamente legato a parametri di produttività, può essere preferito da quelle aziende che vogliono evitare di fare ricorso alla contrattazione integrativa e rischiare così di rompere degli equilibri a volte fragili. La contrattazione decentrata potrebbe risultare in ogni caso conveniente, se effettivamente riuscisse a realizzare una relazione positiva tra retribuzione e produttività. Il vantaggio dell’utilizzo della contrattazione integrativa, come vedremo in seguito, si accresce con l’aggiunta della defiscalizzazione di tale strumento che ha avuto varie fasi nel corso degli anni.

L’Accordo interconfederale sottoscritto da Confindustria CGIL, CISL, UIL il 28 giugno 2011, anche a causa della ritrovata unità tra i sindacati, rappresenta un ulteriore passo nel processo di decentralizzazione della contrattazione, l’Accordo prevedeva che: “I contratti collettivi aziendali possono….definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei CCNL di lavoro. In verità, però, è poi specificato nel dettaglio che ciò può avvenire “nei limiti e con le procedure previste dagli stessi accordi collettivi nazionali di lavoro”, con l’esplicazione di un evidente funzione di chiusura dei profili funzionali e strutturali delle relazioni negoziali tra le parti sindacali, nel tentativo di rilegittimare un rinvio al primo livello di contrattazione, in chiave di “cornice” e di principi fondativi delle forme decentrate di negoziazione” (Romeo, 2014, p. 5). Da questo si evince che lo scopo dell’Accordo non era

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destabilizzare il sistema ma attuare una destrutturazione, delle funzioni della contrattazione collettiva, più graduale.

L’intervento legislativo in materia di “contrattazione di prossimità”, con l’introduzione dell’art. 8 del decreto-legge 2011 n. 138, comportava una destabilizzazione dell’equilibrio appena trovato con gli accordi interconfederali tra contrattazione nazionale e contrattazione integrativa, permettendo alla contrattazione di secondo livello di definire materie inerenti all’organizzazione del lavoro anche in deroga a disposizioni di legge e al CCNL. Il legislatore ha voluto realizzare pienamente il processo di aziendalizzazione della contrattazione collettiva. L’art. 8 comporta degli effetti peculiari come: a) l’efficacia nei confronti di tutti i lavoratori, quindi l’efficacia verso tutti è conferita da una norma di legge che automaticamente deroga all’Accordo interconfederale; b) possibilità per la contrattazione collettiva di prossimità di derogare non solo ai contratti ma anche alla legge, nei limiti del rispetto dei principi espressi dalla Costituzione. Ricapitolando possiamo affermare che l’art. 8:

“1) vulnera il principio dell'inderogabilità delle norme di legge da parte del contratto collettivo e

2) tende a scardinare il principio della gerarchia tra contratti collettivi di diverso livello, perché attribuisce a titolo originario al contratto aziendale la funzione di derogare la norma di legge senza la mediazione del contratto collettivo nazionale. E, sotto questo profilo,

3) favorisce la competizione tra i contratti collettivi nazionale e aziendale con l'obiettivo ultimo del superamento del livello nazionale di contrattazione” (Santoro Passarelli, 2015, p.15).

Queste disposizioni furono confermate nel successivo Accordo interconfederale del 16 novembre 2012 confermando nuovamente una spaccatura nel mondo sindacale.

Un ulteriore capitolo, nel percorso di definizione degli ambiti di manovra della contrattazione nazionale e decentrata, è l’Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014 sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL. Riprendendo l’accordo del 2011 si afferma che la contrattazione collettiva aziendale si applica per le materie delegate dalla contrattazione nazionale e seguendo le modalità di delega da questa previste.

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1.3 Gli sgravi contributivi per favorire la contrattazione aziendale

L’art. 1, commi 67 e 68, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, istituiva, presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, un fondo per la concessione di sgravi fiscali al fine di favorire la contrattazione aziendale. La norma prevedeva la richiesta da parte dell’azienda dello sgravio fiscale quindi il beneficio non veniva elargito automaticamente. Il decreto interministeriale Lavoro/Economia del 7 maggio 2008, di attuazione dei commi 67 e 68, stabiliva che lo sgravio contributivo dovesse essere collegato a parametri atti a misurare la crescita di produttività e la maggiore competitività dell’azienda richiedente. La concessione degli sgravi contributivi è proseguita per gli anni dal 2011 in poi sulla base delle indicazioni dell’art. 53 del decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78 che introduceva un esplicito riferimento, al fine di beneficiare degli sgravi, a parametri come l’incremento d’innovazione, redditività, produttività ed efficienza organizzativa. Analizzando in particolare il tema della retribuzione incentivante e sgravi fiscali l’art. 2 del decreto-legge 27 maggio 2008 n. 126 prevedeva un’imposta fiscale agevolata del 10% per le somme percepite per prestazioni di lavoro straordinario, in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa. All’origine il beneficio non faceva riferimento alla contrattazione aziendale. Dal 2012 in poi la detassazione veniva subordinata all’individuazione di parametri precisi per evitare una dispersione a pioggia delle risorse. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2013 confermava l’imposta agevolata del 10% e introduceva, per la prima volta, in modo esplicito le aree d’intervento su cui operare per ottenere il beneficio:

 Sistemi di orari di lavoro flessibili legati a innovazione tecnologica, a un più efficiente utilizzo delle strutture produttive;

 Distribuzione flessibile delle ferie;

 Impiego di nuove tecnologie;

 Interventi in materia di fungibilità delle mansioni.

Nell’anno 2015 si è assistito alla soppressione degli sgravi fiscali. La legge di stabilità 2016 ha ripristinato la detassazione dei premi e del salario di produttività. La legge di stabilità oltre a ripristinare lo sgravio fiscale favorisce il welfare aziendale e la partecipazione agli utili. L’intento del legislatore è ampliare le possibilità di contrattazione integrativa e di acuire le tensioni tra azienda e sindacati. Tutte le iniziative di welfare

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aziendale contrattate con i sindacati sono totalmente esenti da tasse fino a un limite previsto di 2.500 euro (Leonardi, 2015).

1.4 Un confronto con la Germania

Il tema della contrattazione, in particolare in riferimento alla negoziazione del salario, si può confrontare utilmente con il paese che nel bene e nel male condiziona la politica economica europea. Anche in Germania, negli ultimi anni, assistiamo a un forte decentramento della contrattazione sempre con l’intento di far crescere la produttività. Il problema delle comparazioni con gli altri paesi è che molto spesso non si tiene conto delle specificità che non permettono l’utilizzo dei medesimi strumenti in tutti i tipi di contesti. Nell’ambito delle relazioni industriali, in Germania, troviamo un sistema che distingue: “a) le funzioni assegnate al sindacato, riconducibili alla determinazione, di concerto con la controparte datoriale, delle condizioni generali di lavoro, per mezzo della contrattazione collettiva, che in Germania si svolge prevalentemente a livello federale o territoriale; b) le funzioni di rappresentanza degli interessi dei lavoratori a livello di unità produttiva, affidate al consiglio d’azienda” (Biasi, 2014, p. 348).

L’unità produttiva (Betriebliche Mitbestimmung) si occupa, oltre che dei normali diritti d’informazione riguardo alla gestione del personale, di questioni economiche e sociali. Riguardo all’unità produttiva si parla di diritto di codeterminazione (Mitibestimmungsrecht), infatti questo si esplica nella determinazione d’importanti questioni come: inizio e fine della prestazione lavorativa giornaliera, pause, distribuzione di ore lavorative durante la settimana, ferie, la struttura della retribuzione, introduzione e modifica dei sistemi retributivi anche se il livello retributivo è sempre fissato dal contratto collettivo. Va evidenziato che, proprio per il principio della codeterminazione, il management non può adottare una decisione se manca l’approvazione del consiglio d’azienda. Se non viene raggiunto un accordo tra le parti, sono esclusi strumenti di lotta collettiva, ma ci si rivolge al collegio arbitrale interno, che può adottare una decisione vincolante per le parti come se fosse un accordo.

Si può sostenere, in linea teorica, che gli accordi aziendali sottoscritti dal consiglio d’azienda intervengono nelle materie non regolate dalla contrattazione collettiva, anche riguardo alla retribuzione nei casi in cui gli accordi collettivi non sono applicati all’interno

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dell’unità produttiva, per esempio, quando il datore di lavoro non appartiene all’associazione datoriale firmataria dell’accordo collettivo o quando i lavoratori dell’unità produttiva non appartengono al sindacato firmatario (Biasi, 2014, p. 349).

Il legislatore tedesco vuole evitare la competizione tra consiglio d’azienda e sindacato. Infatti, a uno spetta la funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, all’altro la funzione rivendicativa. Negli ultimi anni si è assistito a un cambio di tendenza, si sono accresciute le intese aziendali anche oltre i limiti seguiti in passato per esempio in ambito di retribuzione, si è assistito a una riduzione anche sotto il livello stabilito dalla contrattazione collettiva con l’obiettivo di evitare licenziamenti e crisi aziendali. Dapprima la deroga alla contrattazione collettiva adottata per ridurre la retribuzione si era diffusa nella Germania dell’est dopo l’unificazione, si è riproposta con la crisi del 2007 con l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, ridurre l’orario e abbassare il livello delle retribuzioni. Gli studi mostrano come questa tendenza sia maggiormente presente in aziende di grandi dimensioni, dove è presente il consiglio d’azienda, e in situazioni di crisi aziendale. La deroga alla contrattazione collettiva si presenta come una necessità di salvaguardare i posti di lavoro.

Il decentramento della contrattazione in Germania si è sviluppato quasi spontaneamente senza interventi del legislatore neanche ex post.

1.5 Carenza di ricerche e studi sulle conseguenze della retribuzione

incentivante

La tematica della retribuzione incentivante ha avuto una scarsa attenzione sia dagli studi di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, sia da quelli di gestione del personale. Mancano indagini accurate anche solamente descrittive del fenomeno. I dati raccolti dal CNEL e dall’ISTAT nel 2015 ci dicono (Figura 1.1) che le imprese coinvolte da contrattazione individuale e collettiva che prevedono integrazioni retributive attraverso contrattazione di secondo livello sono il 31,6%. Il 9,6% delle imprese applica contratti individuali, il 21,2% applica la contrattazione collettiva. Il premio di risultato è erogato dal 13,4% delle imprese.

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16 Figura 1.1 Imprese per classi di dipendenti coinvolte da contrattazione di secondo, solo collettiva e solo individuale e che erogano premio di risultato anno di riferimento 2012-2013 (Valori percentuali sul totale imprese del settore).

Fonte: CNEL-ISTAT (2015, p. 110)

Considerando sia l’impegno dei governi per la defiscalizzazione della contrattazione decentrata, sia gli sforzi delle parti sociali nel favorire tale tipo di contrattazione, si potrebbe concludere che i contratti collettivi decentrati in materia di salari variabili e organizzazione del lavoro siano ampiamente diffusi. La diffusione della contrattazione aziendale è rimasta contenuta, in particolare nelle imprese di piccole dimensioni e nel Sud. Come possiamo vedere nella Figura 2.1 la contrattazione decentrata è localizzata soprattutto nel Nord-est (38,9%) e nel Nord-ovest (35%), spicca la quota modesta del Sud (20,8%) e delle Isole (18,4%). 27,9 50,2 66,7 73,9 31,6 17,5 38,5 60,5 69,1 21,2 9,6 10,8 5,8 4,6 9,6 9,6 31,6 52,9 63,6 13,4 0 10 20 30 40 50 60 70 80 10-49 50-200 200-500 500 e oltre Totale

Presenza di contrattazione di 2° livello Contrattazione Collettiva Solo Contrattazione individuale Premio di risultato

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17 Figura 2.1 Imprese per ripartizione territoriale coinvolte da contrattazione di secondo, solo collettiva e solo individuale e che erogano premio di risultato anno di riferimento 2012-2013 (Valori percentuali sul totale imprese del settore).

Fonte: CNEL-ISTAT (2015, p. 112)

Come possiamo vedere dalla Figura 3.1 i temi principali affrontati sono la retribuzione sia riguardo alla parte fissa (61,1%), sia riguardo al premio di risultato (58,9%). L’efficacia dei premi dipende dagli indicatori scelti dalle aziende. Infatti, gli indicatori dovrebbero segnalare quali sono gli obiettivi perseguiti. Il sistema retributivo incentivante rischia di essere inefficace se gli obiettivi e gli indicatori a questi collegati non sono chiaramente identificabili, in quanto non può bastare il mero riferimento alle motivazioni individuali.

34,96 38,9 29,79 18,4 20,77 31,58 23,5 26,8 19,8 11,6 13,1 21,2 10,9 11,4 9,2 5,3 6,9 9,6 15,5 17,1 12,3 7,2 5,9 13,4 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45

Nord-ovest Nord-est Centro Sud Isole Totale

Contrattazione collettiva Solo Contrattazione individuale presenza di contarattazione di 2§ livello Premi di risultato

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18 Figura 3.1 Quote di materie negoziate o disciplinate dai contratti di secondo livello anno di riferimento 2012-2013 (incidenza percentuale sul totale delle materie indicate).

Fonte: CNEL-ISTAT (2015, p. 116)

Nelle retribuzioni determinate dalla contrattazione di secondo livello che prevedono l’erogazione di un premio di risultato, si osserva che i lavoratori percepiscono una quota di salario accessorio pari al 19,9% della retribuzione lorda, di cui il 4,9% come premio di risultato e il rimanente 15% voci derivanti da contrattazione collettiva individuale (CNEL-ISTAT, 2015, p. 121).

1.6 Fattori dell’incentivazione

Una valutazione sull’intensità da attribuire agli incentivi retributivi per raggiungere gli obiettivi prefissati risulta molto complessa. La teoria economica e le verifiche empiriche mostrano i diversi fattori che condizionano l’efficacia degli incentivi anche di natura non retributiva.

Nella determinazione della retribuzione è necessario trovare un equilibrio tra gli incentivi e la protezione dei dipendenti contro i rischi (Milgrom, Roberts, 2005, p. 312). L’ideale sarebbe rendere i dipendenti responsabili dei risultati delle loro attività e quindi legare la loro retribuzione a questi. In questo modo il reddito dei lavoratori diviene incerto,

61,1 58,9 38,5 50,7 22,8 31,9 25,3 44,6 15,7 24,7 0 10 20 30 40 50 60 70

Materie negoziate

Materie negoziate

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essendo le persone avverse al rischio, il costo dell’incentivazione aumenta. Legare la retribuzione alla performance risulterebbe facile da applicare se i lavoratori fossero sempre in grado di agire come loro richiesto e se la valutazione del loro operato fosse facile da realizzare. In caso contrario rendere i dipendenti responsabili delle loro azioni li espone al rischio.

I risultati, spesso, sono influenzati da fattori che i lavoratori non possono controllare perché sono slegati dal loro agire. Quando la retribuzione è basata sui risultati, un evento casuale comporta l’aleatorietà del reddito. L’aleatorietà può essere causata dalla verifica dei risultati realizzata con elementi casuali e soggettivi. Se si sottraggono totalmente i dipendenti da tali rischi, cioè si separa la retribuzione dalle loro performance, questi non avrebbero incentivi a comportarsi in maniera efficiente, senza incentivi e senza punizione il lavoratore diviene neutrale. Un contratto efficiente bilancia gli incentivi e la protezione contro i rischi. Partendo dall’assunzione che le persone sono avverse al rischio, possiamo sostenere che: “L’ammontare monetario che una persona è disposta a pagare per ottenere il reddito certo al posto di quello stocastico costituisce il premio per il rischio associato al reddito incerto” (Milgrom, Roberts, 2005, p. 316). Il valore del premio dipende sia dalla rischiosità del reddito sia da quanto il soggetto è avverso al rischio.

L’imprenditore, quando acquista il lavoro, non può avere la certezza che otterrà il pieno sforzo da parte del lavoratore, anzi il datore di lavoro e i dipendenti hanno interessi contrapposti, uno cercherà con il minimo costo di avere il massimo rendimento (datore di lavoro), l’altro con il minimo sforzo il massimo rendimento (lavoratore). Il dipendente potrebbe avere dei comportamenti opportunistici e il controllo da parte del datore molte volte è impossibile o troppo costoso (Tridico, 2014, p. 155). Il problema di incentivare qualcuno ad agire nell’interesse di qualcun altro è definito come problema principale-agente. Il sistema retributivo incentivante permette al datore di lavoro (principale) che il dipendente (agente) agisca secondo il suo interesse. “Supponiamo che l’indicatore dello sforzo possa essere scritto nella forma z =e + x, dove x è una variabile casuale, e che y costituisca un secondo indicatore, non influenzato dallo sforzo e ma statisticamente correlato a x, il disturbo tra e ed il suo valore osservato z. Si noti che e ed x non sono osservabili separatamente, mentre risulta tale solo la loro somma z, e che molte combinazioni differenti di e ed x possono condurre ad uno stesso valore osservato per z. Perciò, un elevato livello d’impegno del dipendente può essere bilanciato da uno stato del mondo sfavorevole, ed un basso sforzo poterebbe essere mascherato dalla fortuna”

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(Milgrom, Roberts, 2005, pp. 324-325). Possiamo dire che la retribuzione risulta: w = α +

β (e + x +γ1

y), dove w è il salario, la retribuzione è formata dal salario base α più una

quota che varia in relazione a z e y, β misura l’intensità dell’incentivo quindi se il dipendente aumenta il suo sforzo di un’unità, il suo salario aumenta di β dollari.

Gli individui più avversi ai rischi devono ricevere incentivi meno intensi, il caso italiano mostra un valore non alto dei premi e una modesta diffusione (Treu, 2010, p. 651). Il fatto che le retribuzioni incentivanti sono maggiormente presenti nelle imprese di grandi dimensioni può essere spiegato dalla maggiore capacità di queste di misurare le performance dei propri lavoratori rispetto alle piccole aziende.

1.7 Produttività, qualità, risultati finali dell’azienda

Gli incentivi possono riferirsi alle diverse componenti della performance che sono: “La qualità del lavoro (grado di soddisfazione dei dipendenti, loro partecipazione, etc.); i risultati intermedi della prestazione (qualità dei prodotti, produttività, etc.); i risultati finali dell’azienda (vendite, redditività, margine operativo, profitti), i risultati generali dell’impresa (andamento finanziario, quote di mercato, prestigio, etc.)” (Treu, 2010, p. 653).

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti tutte le tappe, che si sono susseguite nel processo di decentramento della contrattazione collettiva, facevano riferimento a questi indicatori, a volte in maniera più superficiale altre volte in maniera più precisa. In particolare, nel caso italiano, si riscontra una prevalenza degli indicatori intermedi di performance come la produttività. Si è preferito rifarsi a indicatori intermedi perché, probabilmente, sono più controllabili da parte di chi riceve i premi, infatti i risultati finali dell’impresa sono difficili da valutare per i lavoratori in un rapporto con il datore di lavoro che è tipicamente asimmetrico per quanto riguarda le informazioni. Gli effetti sulla produttività dipendono dalla cooperazione tra sindacati e direzione aziendale perché le azioni isolate di entrambe le parti non possono produrre effetti positivi.

Si evince dalla complessità della struttura retributiva, che non si possono fare delle generalizzazioni, nel determinare dei sistemi incentivanti che producano degli effetti

1

Rappresenta il peso relativo dell’informazione convogliata dalla variabile y nella determinazione della retribuzione.

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positivi, piuttosto sembra più opportuno considerare l’applicazione di questi sistemi un

work in progress. Questa complessità della materia è palese in un contesto in cui ogni

realtà aziendale ha le proprie peculiarità e dove le caratteristiche delle risorse umane sono molto eterogenee (Treu, 2010, p. 658). La variabilità del mercato del lavoro relativizza il ruolo della retribuzione come incentivo, non a caso si sono diffuse pratiche di welfare aziendale più complesse che erogano dei benefits come l’assistenza sanitaria e sociale, etc.

Alcuni autori sostengono, che nell’esperienza italiana, i sistemi retributivi incentivanti hanno avuto effetti positivi sulla crescita della produttività, accompagnati da profondi cambiamenti, sia nelle forme organizzative, sia di gestione delle risorse umane. I dati, però, ci mostrano una situazione economica del nostro paese in stallo da troppo tempo. Dagli anni novanta, l’Italia cresce meno rispetto agli altri paesi europei. Tra il 1995 e il 2005 il tasso di crescita medio annuo dell’Italia si distaccava dalla media di Francia, Germania, Spagna e Regno Unito di 0,8 punti percentuali. Questo divario si è attestato a 1,5 punti percentuali nel decennio successivo (CNEL-ISTAT, 2015, p. 13). Nella figura 4.1 possiamo vedere che, prendendo a riferimento il periodo 1995-2014, la produttività del lavoro è cresciuta del 24,4% nel Regno Unito, del 17% in Francia e Spagna, del 13% in Germania ed è diminuita in Italia del 2,2%.

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22 Figura 4.1 Dinamica del PIL per occupato: 1995-2014

Fonte: CNEL-ISTAT (2015, p. 14)

Il ritardo dell’Italia emerge anche analizzando la produttività del lavoro espressa come ore lavorate come si vede nella Figura 5.1 nel 2001 la crescita italiana era inferiore alla media dell’Europa a 15, dopo la crisi finanziaria e alla caduta dei tassi di crescita di tutti i paesi abbiamo una ripresa della produttività italiana nel 2010 per rallentare nuovamente nel periodo 2012-2014.

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23 Figura 5.1 Dinamica della produttività per ora lavorata: Italia e EU15 dal 2001 al 2014

Fonte: CNEL-ISTAT (2015, p. 15)

La crescita della produttività dipende dagli investimenti in beni capitali, conoscenza, innovazione, ricerca e sviluppo.

Nel periodo considerato, in Italia, si è registrata una crescita quantitativa dei fattori produttivi a discapito di un miglioramento delle tecnologie produttive e all’introduzione di nuovi modelli organizzativi.

Come possiamo vedere da questi dati statistici, la produttività non cresce a causa di: un basso tasso d’innovazione tecnologica, la riduzione d’innovazione di prodotto e di processo, mancanza d’innovazione organizzativa e d’investimenti pubblici e privati. Condizioni negative possono essere riscontrate sul fronte reddito-domanda con gli squilibri delle dinamiche distributive tra salario e profitto (Pini, 2013, p. 34).

Ai fini della nostra analisi le riforme della contrattazione dal 1993 in poi, che si proponevano di avviare delle dinamiche di crescita retributiva attraverso una maggiore partecipazione dei lavoratori e in questo modo aumentare la produttività e competitività delle aziende italiane, a parere di molti sono fallite.

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1.8 La retribuzione incentivante e i principi costituzionali di

proporzionalità e sufficienza

La retribuzione incentivante, pone un problema di valutazione sul rispetto dei principi costituzionali in materia di retribuzione. Nell’art. 36 della Costituzione sono enunciati i principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, principi che concorrono a definire il concetto di “giusta retribuzione”.

Si è ritenuto fino ad oggi, che gli elementi retributivi decisi in ambito di contrattazione collettiva aziendale non rientrino nella parte di retribuzione sufficiente e proporzionata con copertura costituzionale. I principi costituzionali associati alla retribuzione hanno portato a individuare un riferimento nel salario tabellare fissato nel contratto nazionale.

Gli elementi retributivi stabiliti in sede aziendale riguardano forme retributive incentivanti che sembrano non essere destinati a retribuire in modo adeguato il comportamento lavorativo, ma finalizzati al raggiungimento di obiettivi differenti come la produttività. Gli elementi retributivi incentivanti, pur scaturendo dalla prestazione lavorativa, non sono il compenso della quantità e qualità del lavoro, e dipendono da fattori esterni alla prestazione. “La norma costituzionale, sembra doversi concludere, non legittima l’applicazione generalizzata delle clausole retributive in un accordo aziendale separato, attribuendo indistintamente a tutti i lavoratori il diritto alle medesime componenti salariali” (Rampazzo, 2015, p. 254).

Come abbiamo visto, però, il cambiamento della struttura della contrattazione collettiva che sposta il baricentro a livello decentrato, comporta un ripensamento del legame tra “giusta retribuzione” e contrattazione nazionale. Nell’incremento della retribuzione dei lavoratori assume una rilevanza prevalente la contrattazione di secondo livello.

Si osserva che non è in discussione il principio di sufficienza, data la scarsa diffusione delle retribuzioni variabili, il problema potrebbe sussistere qualora le retribuzioni variabili raggiungessero un livello tale da mettere in discussione la libertà e la possibilità di vivere una vita dignitosa da parte dei lavoratori. In relazione al principio di proporzionalità sussistono più dubbi. Infatti, legare gli incentivi retributivi a indicatori che esulano dalla prestazione del lavoratore, come le vendite, prodotti finali dell’azienda, il

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valore delle azioni, può comportare una mancanza di proporzionalità tra prestazione e retribuzione (Treu, 2010, pp. 666-665).

La giurisprudenza ha ritenuto di non dover sindacare le scelte attinenti alla retribuzione introdotte a livello di contrattazione collettiva , e altrettanto insindacabili le decisioni sugli indicatori prese dal datore di lavoro nell’esercizio del suo potere di gestione del rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione in materia di “giusta retribuzione” è stata orientata a distinguere la retribuzione nel suo complesso e il trattamento minimo stabilito dalla contrattazione collettiva. A precisare ciò, anche la Corte Costituzionale ha stabilito che il principio di giusta retribuzione non si applica alle singole parti della retribuzione. Prevale il pensiero che dallo standard per definire la “giusta retribuzione” vadano esclusi gli elementi aggiuntivi alla paga-base quindi: aumenti di anzianità, elemento sostitutivo del premio di produzione, mensilità aggiuntive oltre alla tredicesima (Ichino, 2010, p. 740).

1.9 Produttività e salario di risultato

Come abbiamo visto, a favore dell’applicazione della retribuzione incentivante si sostiene che legare la retribuzione alla performance contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro e migliorare i rapporti tra azienda e dipendenti.

Spesso le organizzazioni sindacali si oppongono al salario di risultato, noto anche con la sigla PRP (Performance Related Pay), per diverse ragioni: “1. innanzitutto perché questi schemi minaccerebbero la sicurezza e la stabilità dei salari; 2. inoltre gli schemi Performance Related Pay, soprattutto quelli basati su schemi individuali, potrebbero minacciare la cooperazione del lavoro in gruppo; 3. tali schemi allargherebbero il gap di reddito, individuale e di una parte della forza lavoro, e potrebbero pertanto minacciare l’organizzazione sindacale collettiva; 4. infine, gli schemi Performance Related Pay minaccerebbero il ruolo della contrattazione collettiva dei sindacati e la loro forza” (Tridico, 2014, pp. 156-157).

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26 Figura 6.1: Atteggiamento dei sindacati verso i PRP, per paese (in %)

Fonte: Eurofound (2011)

Come si vede dalla Figura 6.1, il sostegno dei sindacati al salario di risultato cambia molto da paese a paese. Si evince, in particolare, il sostegno dei sindacati dei paesi nuovi entrati, oltre a Germania, Italia e Portogallo. Il sostegno è contenuto nell’Europa continentale, nei paesi anglosassoni e nei paesi scandinavi. Ovviamente sono diversi i modelli economici in questi paesi ed è differente il livello di sindacalizzazione.

Nei paesi con maggiore sostegno agli schemi Performance Related Pay si registra un livello più basso dei salari rispetto alla media europea. Si potrebbe ipotizzare che: “il sostegno dei sindacati agli schemi Performance Related Pay non è una scelta liberamente dettata dalla convinzione che in generale le condizioni dei lavoratori e le loro retribuzioni migliorano con gli schemi Performance Related Pay, ma al contrario suggerisce una debolezza della scelta dei lavoratori, spinta dalla necessità di bassi salari: cioè laddove i salari sono più bassi, i Performance Related Pay possono essere usati come una leva per alzarli” (Tridico, 2014, p. 157). I sindacati dei paesi anglossassoni e dei paesi scandinavi, dove la retribuzione ha un buon livello, vedono nel salario di produttività un pericolo per la paga base. Inoltre, come possiamo vedere dalla Figura 7.1, i paesi che hanno adottato di più la forma retributiva del salario di produttività non sono quelli che hanno avuto i migliori risultati di produttività. In ogni caso non si può sostenere che queste pratiche

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retributive siano all’origine della bassa produttività e allo stesso modo possiamo dire che le migliori performance dei paesi del nord europa non sono dovute all’applicazione di queste pratiche retributive. Non sembra esserci una relazione stabile tra salario di risultato e produttività.

Figura 7.1 Crescita produttività 1990-2011 e PRP 2010

Fonte: Elaborazione dati Eurofound e OECD

1.10 Retribuzione di produttività e retribuzione di produttività

programmata

Nell’Accordo interconfederale del 21 novembre 2012, non sottoscritto dalla CGIL, si possono sottolineare alcuni aspetti fondamentali: 1) valorizzare la contrattazione collettiva per migliorare la produttività; 2) al contratto nazionale resta il compito di garantire i trattamenti economici fondamentali, alla contrattazione integrativa è affidato il compito di aumentare la produttività attraverso un migliore impiego dei fattori della produzione, legando a questo aspetto la crescita delle retribuzioni dei lavoratori.; 3) i contratti collettivi nazionali possono introdurre elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività, definiti dalla contrattazione integrativa che beneficia della detassazione; 4) per migliorare l’impiego dei fattori della produzione si

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individuano le discipline su cui far leva (mansioni, flessibilità dell’orario di lavoro, impiego di nuove tecnologie); 5) le parti chiedono al governo sostegno nella detassazione per favorire questo processo. Come abbiamo visto nel paragrafo 1.3 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2013 ha stabilito le modalità di applicazione dei contenuti dell’Accordo interconfederale del 2012 (Vitaletti, 2014, pp. 109-112).

Nel proseguo della mia trattazione, mi soffermo sul D.P.C.M. del 2013, in quanto esso introduce una distizione fondamentale tra la retribuzione tradizionale di produttività e la retribuzione di produttività programmata. Nella retribuzione di produttività programmata l’erogazione non è condizionata al raggiungimento di un determinato risultato, come avviene nel tradizionale salario di risultato, ma semplicemente per l’avvenuto intervento di un accordo collettivo che preveda misure atte a raggiungere un maggior livello di produttività. Il salario di produttività è erogato in funzione di accordi che regolano ex ante le misure per far crescere la produttività. La retribuzine di produttività programmata è lontana dalla struttura pensata dal Protocollo del 23 luglio del 1993 e da tutti gli accordi che sono seguiti.

Il tradizionale modelllo di salario di produttività è variabile e incerto, perché legato al raggiungimento di determinati obiettivi di incremento di produttività e di un maggior livello qualitativo. Questi obiettivi devono essere fissati, secondo il Protocollo del 1993, dalla contrattazione integrativa. Nella retribuzione di produttività programmata la variabilità non si riferisce al risultato incerto da raggiungere, ma all’adozione o meno della contrattazione integrativa per il miglioramento organizzativo e di produttività. In sostanza: “non è rchiesta la valutazione di un risultato, qualora conseguito, ma sono le stesse misure indicate nella contrattazione collettiva a poter essere considerate risultato, senza che sia necessario verificare il nesso tra i criteri definiti e la conseguenza/evento che deriva dalla loro adozione” (Vitaletti, 2014, p. 112). Ai fini del livello retributivo percepito dal lavoratore, questo non assume un carattere variabile di condizionamento al raggiungimento di un obiettivo ma è stabilito in sede di contrattazione collettiva. La retribuzione diventa il risultato di un accordo organizzativo tra il lavoratore e l’azienda, non più basata sulla promessa di un trattamento economico legato al raggiungimento di risultati positivi. L’incertezza della retribuzione non dipende dal raggiungimento di una maggiore produttività ma dall’introduzione di un accordo tra lavoratori e datore di lavoro che permetta quelle condizioni che possano accrescere la produtttività.

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Con una retribuzione di produttività programmata potrebbe essere preferibile assegnare aumenti di quote salariali, derivanti da rinnovi contrattuali, alla contrattazione aziendale. In questo modo, l’incremento salariale va a tutti i lavoratori nella stessa misura perché non si lega al raggiungimento di un risultato, ma all’applicazione di un accordo che favorisca la produttività. Questa parte di salario spostata al secondo livello può beneficiare della maggiore detrazione fiscale e quindi la retribuzione complessiva risulterà quantitativamente maggiore: “sommando, dunque, le due componenti del trattamento economico (del primo e del secondo livello), la retribuzione complessiva per tutti i lavoratori sarà in proporzione maggiore” (Vitalitti, 2014, p. 113).

Nel Protocollo del 1993 il favore attribuito alla contrattazione integrativa era giustificato per il suo carattere innovativo e per l’utilità generale che avrebbe comportato, quindi gli si attribuiva il carattere di bene pubblico (Treu, 2010, p. 659). Le riforme avviate nel 1993 sono servite principalmente a rallentare la crescita dell’inflazione e a contenere i salari, ma non hanno avuto effetti significativi sulla produttività.

Dalla trattazione fin qui esposta, si deduce come, dagli anni Novanta in Italia, si assiste a due fenomeni: a) la crescita modesta del reddito e della domanda aggregata al di sotto della media dei paesi europei; b) il declino della crescita della produttività del lavoro. Questi due fenomeni sono la causa del circolo virtuoso descritto dalla seconda legge di Kaldor-Verdoorn. “La prima legge statuisce che il saggio di crescita di un sistema economico è legato positivamente al tasso di crescita della manifattura, vero motore di un’economia. La seconda legge introduce una specifica alla prima in quanto stabilisce che un aumento del saggio di crescita del volume prodotto dalla manifattura determina un incremento della produttività del lavoro in questo stesso settore grazie a rendimenti di scala dinamici o statici” (Lo Re, Meleo, Pozzi, 2015, p. 478).

Nella nostra analisi la crescita del reddito e della domanda stimolano la crescita della produttività, quest’ultima permette una dinamica distributiva tra salari e profitti che a sua volta stimola i consumi e gli investimenti. “I due meccanismi di causazione, quello interno e quello esterno, possono essere considerati mutualmente esclusivi solo in condizioni statiche (per una data crescita della produttività), mentre si autoalimentano in un contesto dinamico” (Pini, 2013, p. 34). Nel nostro paese la rottura del circolo virtuoso descritto da Kaldor è dovuto, da un lato al basso tasso di innovazione tecnologica, organizzativa, di prodotto e di processo, dall’altro alla mancanza di investimenti pubblici e privati. Come abbiamo visto, nei precedenti paragrafi, le difficoltà dell’Italia sono evidenti

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da diversi anni. Si assiste allo sbilanciamento della dinamica distributiva tra salario e profitto a favore di quest’ultimo.

Questi due punti deboli del sistema italiano hanno arrestato il circolo virtuoso descritto da Kaldor, determinando il rallentamento della dinamica esogena della produttività e della dinamica endogena del reddito-domanda. Più in generale nel nostro paese assistiamo a problemi caratterizzati da: a) componenti sistemiche, come mancanza di infrastrutture e burocrazia poco efficiente; b) componenti connettive, come la produttività, formazione, ricerca scientifica e tecnologica, tecnologie dell’informazione e comunicazione, dimensioni e strutture delle imprese; c) componenti aziendali, come il divario tra costo del lavoro e salario del lavoratore, contrattazione collettiva e rapporto tra centralizzazione e decentralizzazione. In riferimento ai compiti assegnati alla contrattazione collettiva nazionale e alla contrattazione decentrata possiamo sostenere che nelle riforme del 1993 c’era l’intenzione di migliorare il rapporto tra tra i due livelli della contrattazione, per favorire forme di partecipazione dei lavoratori; purtroppo il risultato è stato una scarsa diffusione della contrattazione di secondo livello e contemporaneamente un ridimensionamento del ruolo del contratto nazionale. Non si è relizzato quel decentramento contrattuale, che avrebbe dovuto portare alla negoziazione ampia di misure di innovazione organizzativa nelle aziende italiane, anzi ha avuto luogo un processo di incentivizzazione della contrattazione separata, al fine di accrescere la flessibilità di lavoro e il precariato di cui molti oggi si lamentano.

Questa politica non ha creato quella flessibilità interna alle imprese, che avrebbe potuto produrre degli effetti positivi, ma una flessibilità esterna alle imprese che ha comportato una situazione paradossalmente opposta a quella auspicata dalla riforma del 1993, cioè un vantaggio per quelle imprese che hanno rinunciato ad investire in innovazione, e che fronteggiano la concorrenza con la riduzione del costo unitario del lavoro, più che agire sui fattori che rendono effettivamente competitive le imprese.

La globalizzazione, per esempio, ha permesso di delocalizzare la produzione senza che ci fosse la necessità di adottare delle innovazioni tecnologiche, il salario tenuto basso dalle forme di lavoro temporaneo ha permesso di non investire troppo nelle risorse umane (Acocella, 2015, p. 103). Si è osservato che: “il mantra circa la necessità di maggiore flessibilità nel mercato per avere più produttività è più che altro una ideologia priva di fondamento, piuttosto che una policy risultante dalla ricerca scientifica” (Pini, 2013, p. 35).

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È evidente che lo stimolo alla contrattazione decentrata, senza degli interventi di politica economica a supporto, non avrebbe conseguito dei risultati sostanziali. Non possono bastare interventi di defiscalizzazione del salario di produttività, tra l’altro applicati in modo altalenante secondo le esigenze di bilancio, a stimolare l’utilizzo della contrattazione integrativa. Si sono diffusi i modelli tradizionali di salario di risultato che non accrescono la produttività e la partecipazione dei lavoratori, è stato osservato che: “le normative di agevolazione fiscale e contributiva, invece di alimentare veri e propri incrementi di produttività concordati a livello territoriale o aziendale, hanno per lo più generato accordi fotocopia, mentre eccellenti accordi aziendali (Zf, Italiana Assicurazioni, Endress-Hauser, Luxottica, Zanussi, Nestlé, Ferrero e altri) sono stati sottoscritti al di fuori di quelle normative” (Campanella, 2013, p. 13). Per questo la detassazione, in molti casi, non ha comportato un vero cambiamento organizzativo o maggiore flessibilità retributiva. Si richiede la defiscalizzazione del salario variabile per ottenere, non la crescita della produttività, ma la riduzione del costo del lavoro e allo stesso tempo ridimensionare il ruolo del contratto nazionale.

Spostare la determinazione del salario al secondo livello di contrattazione può portare a un situazione pericolosa: “quella di considerare il salario come una variabile indipendente dalle condizioni macroeconomiche, legandola esclusivamente alle condizioni microeconomiche di breve periodo della singola impresa” (Fadda, 2013, p. 22). Non si capisce in che modo il contenimento dei salari può contribuire a far crescere l’economia, infatti i bassi salari non incrementano l’occupazione. L’aumento del profitto non genera necessariamente investimenti in capitale, i profitti possono trasformarsi in investimenti speculativi, esportazione di capitale, acquisizioni di imprese già esistenti, non comportando così una crescita della produttività.

Molti (Antonioli, Fadda, Palumpo, Pini, 2013) hanno avanzato la proposta di fissare dei target di produttività e realizzare una programmazione di crescita di quest’ultima, senza intaccare i salari, che dovrebbero essere sostenuti indipendentemente dai risultati di produttività ottenuti. Per questi autori, nel legame tra produttività e salario, bisogna distinguere gli aspetti incentivanti dagli aspetti distributivi della retribuzione. I valori programmati della produttività possono poi risultare effettivamente superiori o inferiori, ciò dovrebbe comportare degli incentivi e delle sanzioni per le singole imprese, ma data la sua scarsa diffusione, non si può affidare la programmazione della produttività alla

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contrattazione decentrata. I valori programmati di produttività determinerebbero dei risultati sostanziali, solo se decisi a livello di contrattazione centralizzata.

Un modello accentrato prevede una solida struttura, nella quale le parti sociali e il governo si impegnano in un patto macroeconomico, per la crescita della produttività. L’accentramento eccessivo può non tenere conto delle peculiarità settoriali. Un modello decentrato tiene sicuramente conto delle peculiarità microeconomiche, ma in un contesto come quello italiano, dove la contrattazione decentrata è scarsamente diffusa, l’adozione di questo modello può essere compromessa. In ogni caso, bisogna tenere in considerazione che il problema dell’Italia è di carattere macroeconomico, cioè la crescita della produttività e della competitività del nostro sistema economico, quindi la ripresa di un circolo virtuoso che porti alla crescita della produttività senza una flessione dei salari, si può concretizzare con un patto macroeconomico che può essere meglio strutturato a livello accentrato. Per rilanciare il circolo virtuoso tra produttività e salari sembra opportuno riaffermare la contrattazione nazionale. Il contratto nazionale, oltre a garantire il minimo trattamento economico e la garanzia dei diritti, dovrebbe impiegare gli strumenti necessari alla crescita della produttività e della competitività. Definito l’obiettivo, le parti sociali e il governo dovrebbero utilizzare tutti gli strumenti necessari come: innovazione organizzativa e tecnologica, investimenti in capitale tangibile e intangibile, investimenti pubblici e privati, innovazione di processo e di prodotto, formazione, riduzione delle tasse sul lavoro, interventi di lotta all’evasione fiscale, lotta alla criminalità, investimenti in infrastrutture. La contrattazione di secondo livello è la leva che rende possibile il raggiungimento degli obiettivi perseguiti.

Il tradizionale salario di incentivazione, che lega la retribuzione ai tradizionali indicatori di produttività è opportuno che venga sostituito dal salario di partecipazione, legando gli incrementi retributivi alle innovazioni organizzative. Il salario di partecipazione richiede una gestione del personale che preveda il coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali. La partecipazione dei lavoratori si può concretizzare attraverso pratiche come team-work, multi-tacking, job.rotation. Può essere auspicabile che le rappresentanze sindacali assumano un ruolo più centrale.

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1.11 La remunerazione del top management

La remunerazione dei dirigenti presenta delle caratteristiche peculiari che vanno oltre gli aspetti normalmente affrontati riguardo alle retribuzioni. Negli ultimi anni il dibattito sulla remunerazione dei manager è stato molto vivace soprattutto negli Stati Uniti, dove c’è stato un aumento superiore alla crescita del prodotto nazionale lordo.

Come abbiamo detto precedentemente, la remunerazione può fungere da incentivo interno, sia per i lavoratori, sia per i manager per fare in modo che sia perseguito l’interesse del propietario. In ogni caso, le teorie manageriali dell’impresa ci spiegano che il top management può avere benefici da obiettivi diversi dal profitto, pensiamo per esempio, alla crescita dimensionale o il tasso di crescita dell’impresa, varie forme di

benefits, riconoscimento e prestigio.

Ogni anno molte riviste mettono in risalto i livelli retributivi dei CEO (Chief

Executive Officer) più pagati al mondo. Il dibattito si articola sempre tra chi ritiene queste

delle retribuzioni adeguate e chi invece le condanna come eccessive.

Per un lungo periodo, in particolare tra gli anni ’60 e gli anni ’80, il sistema di compensazione del top management dei paesi economicamente avanzati è stato generalmente stabile e prevedibile infatti “ a) la remunerazione di un CEO rappresentava un multiplo «ragionevole» rispetto a quella del dipendente medio,ovvero circa 40 volte negli USA,molto meno in Europa ed in Giappone (Adriano Olivetti sosteneva che il moltiplicatore tra il salario del dipendente meglio pagato e quello del meno pagato in Olivetti non dovesse essere superiore a 10); b) la crescita media dei principali mercati azionari risultava allineata con la crescita del PIL (Prodotto Nazionale Lordo) a livello mondiale ovvero circa 3% all’anno1; c) i livelli retributivi del settore finanziario erano sostanzialmente allineati con quelli degli altri settori economici” (Marchettini, 2014, p. 519).

La crisi finanziaria del 2008-2009 ha favorito un ricambio nei vertici delle principali società quotate perché si è attribuita la responsabilità del crollo delle azioni, oltre che alla crisi, alla gestione di quei manager che avevano influenzato significativamente la strategia delle imprese.

La retribuzione degli alti dirigenti è composta da: a) stipendio, come somma pagata nel corso dell’anno; b) bonus, cioè una quota variabile collegata alla prestazione che è

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misurata nel breve termine, utilizzando ad esempio, i profitti ottenuti negli anni precedenti; c) opzioni su azioni, che si esplicano come un diritto concesso al dirigente di acquistare azioni dell’impresa a un prezzo stabilito, in un periodo preciso. Il compenso quindi è la differenza tra prezzo di mercato dell’azione e il prezzo pagato dal dirigente; d) premi azionari che consistono in quote d’azienda cedute al dirigente molto scontate; e) piani azionari fantasma, dei titoli che corrispondono ad azioni ordinarie senza comportare diritti di proprietà; f) diritti sull’incremento di valore azionario cioè un incremento di valore calcolato su un ammontare specifico di azioni (Milgrom, Roberts, 2005, pp. 619-620).

Generalmente si ritiene che gli eccessi retributivi, che hanno interessato gli alti dirigenti d’impresa negli ultimi decenni, è legato all’utilizzo delle stock options. In ogni caso le stock options non possono essere considerate uno strumento negativo in sé; il problema probabilmente sorge a monte, cioè nella fissazione degli obiettivi di performance da assegnare al top management: “In particolare sulla base di un famoso testo di Kaplan e Norton sono state identificate quattro categorie di misure di performance aziendale a cui fare riferimento nell’assegnazione degli obiettivi al top management, ovvero:

 le misure di natura finanziaria (suddivise tra creazione del valore e re-munerazione degli azionisti);

 le misure relative alla clientela (suddivise tra tempi di introduzione del prodotto /servizio sul mercato e livello di soddisfazione del cliente);

 le misure di natura operativa (suddivise tra efficienza operativa ed uti-lizzazione delle risorse);

 le misure relative alle capacità aziendali (suddivise tra capacità delle risorse umane ed efficacia interna);

peraltro la grande maggioranza delle società quotate ha scelto di privilegiare le misure di natura finanziaria, ignorando talora totalmente le altre tre categorie” (Marchettini, 2014, pp. 522-523).

Molte società quotate hanno scelto di utilizzare principalmente gli indicatori di natura finanziaria, la ragione di questo può essere rintracciata nel fatto che si è adottata una separazione tra l’economia reale e la finanza. Questo fenomeno si è sviluppato soprattutto a partire dalle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, principalmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna a partire dagli anni ’80. L’utilizzo di obiettivi di natura

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finanziaria, inevitabilmente, hanno contribuito alla crescita esponenziale della remunerazione degli alti dirigenti.

1.12 Politiche economiche europee

La concertazione delle parti sociali, senza il sostegno del pubblico, non può conseguire l’obiettivo di produttività, anzi, può portare a risultati negativi, come la contrazione dell’occupazione e una crescita della flessibilità delle condizioni di lavoro che produce una redistribuzione del reddito a sfavore dei lavoratori. “Le imprese trarrebbero vantaggi dalla contrattazione decentrata e dalla maggiore flessibilità interna all’impresa, ma i redditi da lavoro nel complesso ne soffrirebbero e quindi la domanda interna stagnerebbe” (Pini, 2013, p. 38).

Il modello proposto è caratterizzato dalla bassa crescita trainata dai mercati esteri, una crescita frutto della svalutazione interna del lavoro in sostituzione della svalutazione della moneta. La regola che prevede un’esatta proporzionalità tra crescita della produttività e incrementi salariali reali sembra non più attuabile. Non essendo più utilizzabile lo strumento della svalutazione della moneta nazionale, spesso, si attuano aggiustamenti interni che incidono sui livelli dei salari, si crea una distanza tra produttività e salari reali attraverso la svalutazione di quest’ultimi. In sostanza si penalizza la domanda interna a favore di quella estera. Risulta necessario istaurare un equilibrio tra domanda estera e domanda interna, tra reddito da lavoro e profitto, tra welfare pubblico e welfare privato. Per fare in modo che la competitività tra i paesi europei si giochi sulla svalutazione del salario sarebbe auspicabile tracciare uno standard retributivo europeo attraverso l’aumento delle retribuzioni reali in quei paesi in cui il costo del lavoro è contenuto e in questo modo sostenere la domanda interna, in modo opposto in paesi come l’Italia caretterizzati da deficit commerciale e bassa produttività, la crescita dei salari può servire a far crescere la produttività e la competitività nei confronti dell’estero, crescita della produttività dovuta all’innovazione e non alla svalutazione dei salari. Questo può realizzarsi solo attraverso un coordinamento sovranazionale a livello delle istituzioni europee.

Come abbiamo detto, una delle criticità più evidenti dell’Italia è la mancanza di investimenti. Come scrive Mariana Mazzucato il livello di investimento delle imprese rappresenta un forte grado di incertezza e per questo non può essere considerato una

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funzione di tasse e tassi di interesse. La cosiddetta “economia dell’offerta”, sviluppatasi negli anni Ottanta, incentrata sulla riduzione delle tasse sui profitti come incentivo a fare investimenti, non ha prodotto risultati significativi sugli stessi e di conseguenza nemmeno sul Pil, ma ha avuto effetti significamente negativi sulla distribuzione del reddito (Mazzucato, 2014, p. 47). Anche la deregolamentazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi.

La mancata crescita dell’economia non può essere attribuita solo alla crisi ma era già evidente prima del 2009. Le previsioni di crescita sono riviste sempre al ribasso perché i risultato appaiono nulli nel breve periodo e modesti nel lungo periodo. “Contemporaneamente, le retribuzioni contrattuali reali per l’intera economia italiana sono rimaste ferme fra il 1993 e il 2011. In quest’ultimo anno, valevano il 77% della media dei paesi OCSE, mentre erano pari all’85% della media dodici anni prima. Non c’è bisogno di ricordare qui i disastrosi dati sulla caduta, in Italia, dei livelli di occupazione e sulla crescente incidenza del precariato” (Ginzburg, 2014, p. 68).

Anche le politiche della Banca Centrale Europea indirizzate all’abbassamento del costo del denaro non hanno prodotto risultati sulla crescita e sugli investimenti, tutt’al più hanno permesso la crescita di redditi parassitari. Queste politiche hanno contribuito ad accrescere il divario tra le retribuzioni dei “supermanager” e quelle dei lavoratori.

Il problema è che tra le politiche di natura monetaria e la realizzazione degli investimenti si frappongono quelle interposizioni di cui parlava Keynes, cioè l’aumento della moneta non crea automaticamente effetti espansivi a causa di altre circostanze avverse.

La presa d’atto del fallimento delle “politiche dell’offerta” in Europa non trova concretatizzazione, infatti si continua ad affermare che per sostenere l’euro bisogna intervenire sui salari e sui prezzi. Questa teoria si basa su due elementi: a) il rapporto tra il costo unitario del lavoro rispetto al CLUP, di un gruppo di paesi concorrenti, b) l’idea che la crescita della Germania, paese di riferimento, sia dovuta all’andamento favorevole del CLUP ottenuto grazie alle riforme del mercato del lavoro avviate nel 2003. “In entrambi gli elementi, la crescita (diminuzione) del CLUP relativo indicherebbe perdita (aumento) di competitività di prezzo del paese. In particolare, l’aumento del CLUP relativo dell’Italia fornirebbe le basi per giustificare misure generali di aggiustamento al ribasso dei salari (oltre che a prediche sulla necessità di aumentare la produttività)” (Ginzburg, 2014, p. 73).

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Queste interpretazioni non tengono conto dei profondi cambiamenti provocati dalla globalizzazione come la frantumazione internazionale della produzione attuata tramite la delocalizzazione, la competitività giocata sul lato della qualità dei prodotti e non dal prezzo.

Nel mercato in cui operano in questo momento le aziende, non è più pensabile una crescita quantitativa, molti mercati sono saturi quindi sarebbe più opportuno concentrarsi sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Il passaggio dalla quantità alla qualità può essere possibile solo con lo sviluppo delle competenze e delle conoscenze dei lavoratori accompagnate da investimenti in innovazioni sia tecnologiche sia organizzative. Troppa flessibilità del lavoro non permette un’elevata qualificazione professionale dei lavoratori e di conseguenza orientare la produzione alla qualità. Comprimere il costo del lavoro con la convizione che sia sufficiente a far crescere la competitività a discapito della qualità non tiene conto che i prodotti di maggiore qualità permettono di aumentare le vendite e quindi la produzione (Sylos Labini, 2014, pp. 1-2).

Quanto alle riforme riforme adottate in Germania tra il 2003 e il 2005, possiamo notare come il riordino del sistema industriale fu caratterizzato dalla delocalizzazione di fasi della produzione a Est e esportazioni verso i paesi emergenti, permettendo, nel medesimo tempo, esportazioni di qualità e contenimento dei costi di produzione. La riforma del lavoro ha provocato anche una forte disegualglianza salariale tra lavoratori addetti alla produzione dei beni destinati alle esportazioni e i lavoratori impiegati nei servizi. Questo ha causato una compressione dei consumi da parte dei lavoratori a basso reddito e di consuguenza l’importazione di beni di basso prezzo e qualità dalla Cina. Hornberg, ricercatore della KFW (banca pubblica della ricostruzione tedesca), sottolinea che le riforme applicate in Germania non posso essere trasposte automaticamente all’Italia, per esempio nel decentramento negoziale del salario. Sicuramente il sistema di negoziazione aziendale tedesco è stato positivo, ma non ci sono evidenza empiriche che la centralizzazione della negoziazione salariale del sistema italiano rappresenti un intralcio all’adeguamento alle circostanze mutevoli dell’economia (Ginzburg, 2014, pp. 75-76).

Il problema della distribuzione del reddito è fondamentale, una delle conclusioni a cui arriva Piketty nel suo lavoro “Il capitale nel XXI secolo” ci dice che: “La distribuzione del reddito è tornata a essere molto diseguale. All’inizio del Novecento il 10 per cento più ricco della popolazione americana guadagnava il 45-50 per cento del totale del reddito.

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Questa percentuale era scesa al 35 negli anni ’50. Oggi siamo tornati ai livelli di inizio Novecento” (De Bonis, 2015, p. 435).

I dati mostrano che nel mondo tra la fine degli anni ’80 e oggi i miliardari sono cresciuti in modo esponenziali. La ricchezza totale è cresciuta poco più del reddito ma la ricchezza dei più ricchi è cresciuta in modo molto di più.

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