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Academic year: 2021

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IV. I ROMANZI

IV.1. Feria d’agosto. Mitopoiesi dell’infanzia

«Allora ero un bambino, e tutto è morto di quel bambino tranne questo grido»

(Cesare Pavese, Il campo di granturco)

Tra il 1941 e il 1944 Cesare Pavese scrive una serie di racconti che vengono inizialmente pubblicati su vari giornali quotidiani e riviste.

Nel 1945 lo scrittore raccoglie alcuni di questi scritti e prepara, per la collana «Narratori contemporanei» di Einaudi, l’uscita in volume di un nuovo libro intitolato Feria d’agosto, composto più precisamente da ventinove prose, divisi tra saggi e racconti.

Feria d’agosto non è un romanzo vero e proprio ma si presenta piuttosto come una raccolta di vari

generi discorsivi, motivo per cui Bart Van Den Bossche ha parlato di una «polifonia discorsiva»445 che caratterizza quest’opera.

Lo stesso Pavese, nel risvolto di sovracopertina della prima edizione, aveva scritto: «Non sempre si scrivono romanzi. Si può costruire una realtà accostando e disponendo sforzi e scoperte che ci piacquero ognuno per sé, eppure siccome tendevano a liberare da una stessa ossessione, fanno avventura e risposta [...]»446.

I racconti e i saggi contenuti all’interno del libro, però, non sono disposti in un ordine casuale: essi corrispondono a un preciso lavoro di montaggio secondo cui ogni singolo testo, invece di rappresentare un’unità a sé stante, diventa tassello significativo di una sistema più ampio, proprio in virtù della sua specifica posizione all’interno della raccolta.

Il libro è diviso in tre ampie sezioni intitolate rispettivamente Il mare, La città e La vigna, luoghi mitici che caratterizzano in modo significativo la poetica pavesiana: i racconti e le prose liriche si suddividono principalmente tra la prima e la seconda sezione, mentre i testi d’impronta saggistica si trovano nell’ultima sezione.

445 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 247. 446 C. PAVESE, Feria d’agosto, cit., p. 205.

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La critica è generalmente concorde nel ritenere Feria d’agosto come il punto di partenza della nuova poetica che prende spunto dai simboli e dalle immagini mitiche447, veri e propri sedimenti memoriali risalenti al periodo dell’infanzia-adolescenza.

Feria d’agosto è dunque la risposta, sul piano narrativo, a quella necessità di un mito come

alimento della poesia, di cui Pavese aveva scritto in alcune lettere indirizzate nel 1942 a Fernanda Pivano448: il tema dominante del mito si sviluppa in questa raccolta come un’interpretazione tutta personale e interiore che s’intreccia con il ricordo, la campagna, l’infanzia, i simboli, cioè gli «stampi mitici», come li chiama Pavese. Si tratta, sottolinea Elio Gioanola, del passaggio dalla «campagna-infanzia come “vivaio di simboli” poetici al vero e proprio “mito”, al senso cioé di quanto di sacro, di unico, di universalmente significativo può nascondere un paesaggio, una campagna»449.

La principale evoluzione che si registra in quest’opera rispetto alla produzione precedente è, infatti, legata al tema della campagna: in Lavorare stanca questa aveva rappresentato il luogo oscuro e istintivo della coscienza, una zona non illuminata che si contrapponeva alla città; in Paesi

tuoi assumeva i contorni un paesaggio angoscioso, teatro di accadimenti feroci e truci che

culminavano nell’incesto finale, descritto in uno stile fortemente realistico; Feria d’agosto, invece, segna una svolta nell’atteggiamento e nei procedimenti narrativi di Pavese: qui la wilderness, il tema pavesiano del “selvaggio”, categoria del pensiero avente a che fare con tutto ciò che ci giunge come inaccessibile e proibito, acquista un ulteriore significato diventando dimensione interiore della psiche, retaggio del mondo mitico che si riflette nell’uomo civilizzato, i primordi che sono dentro ciascuno di noi.

A ben guardare, anche il titolo Feria d’agosto si riferisce a una particolare condizione dell’ambiente contadino: il mese di agosto nella campagna è il periodo delle feste e dei falò in cui, come scrive Pavese nel racconto Il mare, «non si fa più niente e la giornata dura ancora metà della notte»450.

L’estate allora, sottolinea Gioanola, diventa «un’occasione di esperienze estatiche»451 dove la dimensione temporale sembra essere abolita, come racconta il protagonista di Storia segreta: «Venivo in paese per le vacanze e così mi sembrò di essere stato ragazzo solo d’estate [...] così il

447 Cfr. J. HÖSLE, Cesare Pavese, «Sigma», n. 3-4, dicembre 1964, p. 202. Cfr. E. GIOANOLA,Feria d’agosto: alle

origini della «prima volta», in Cesare Pavese: la realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 109: Gioanola parla di Feria come

«un’opera centrale nella poetica dello scrittore». Cfr. anche A. GUIDUCCI, op. cit., p. 321.

448 Cfr. C. PAVESE, Lettere 1945-1950, cit., p. 639 : «[...] andando per la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che

ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo».

449 E. GIOANOLA, op. cit., p. 23.

450 C. PAVESE, Il mare, in Feria d’agosto, cit., p. 69. 451 E. GIOANOLA, op. cit., p. 113.

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tempo in casa nostra non passò quasi più. Tutti gli anni l’estate fu come quando non andavo ancora via, un’unica estate che durò sempre»452.

L’accadere nel tempo non ha senso se non a partire proprio dall’abolizione del tempo stesso: così nel racconto La vigna, ad esempio, si legge di «un attimo fatto di nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e si scopre infantile, di là dalle cose e del tempo [...]»453.

Il paesaggio di campagna viene quindi trasformato in uno scenario più drammatico che pittoresco, poiché questo non costituisce più, per i personaggi che lo animano, soltanto un’evasione panica, ma diventa sofferta partecipazione, coro della natura e delle cose al loro destino umano.

Protagonisti del racconto Il nome sono due ragazzi che decidono di intraprendere un’avventura andando a caccia di una vipera. La trama della vicenda è avvolta in un alone di mistero in cui il ritmo narrativo contribuisce ad alimentare un’atmosfera estatica e latamente mitica.

Uno dei due ragazzi, di nome Pale, viene descritto come una figura selvaggia, dall’aspetto sinistro; egli cammina scalzo, instaurando un forte legame con la natura e la terra, tipico tratto di molti personaggi pavesiani protagonisti di questa raccolta:

Chi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati – due – forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all’altro.[...] Così, il giorno che salimmo insieme sulle coste aride della collina di fronte – prima, nelle ore bruciate, avevamo battuto il fiume e i canneti – non so bene se fossimo soli, io e Pale. É certo che il mio socio aveva i denti scoperti e la testa rossa, e me ne ricordo perché gli raccontavo che il leone, che vive nei luoghi aridi, aveva i denti come i suoi e il pelo fulvo.[...] Pale – ben diverso da me – camminava scalzo sui sassi e sugli spini, senza badarci.454

La vipera compare in più di un’occasione nei racconti della raccolta, evidenziando la connessione tra mito e simbologia legata alla campagna: il serpente, infatti, animale ctonio e misterioso, vive a contatto con il terreno e la sua dimora è rappresentata dalle profondità terrestri;

452 C. PAVESE, Storia segreta, in Feria d’agosto, cit., p. 189. 453 IDEM, La vigna, ivi, p. 166.

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questo è un simbolo antichissimo legato ai movimenti della Madre Terra, di cui rappresenta il potere della trasformazione455.

Il serpente che si morde la coda è anche il simbolo del tempo mitico circolare: divorandosi continuamente forma un ciclo continuo di nascita, morte e rinascita. Esso è un vero e proprio archetipo primordiale, simbolo dell’unità perduta con il tutto che riconduce all’utero materno della Grande Madre, a sua volta «archetipo pieno di inaudite possibilità di significato»456.

Ma nel finale del racconto, quando i due ragazzi hanno finalmente scovato la vipera, la madre di Pale grida il nome del ragazzo per richiamarlo a casa: l’eco del nome che rimbomba nell’aria, urlato improvvisamente, scatena la dimensione del proibito nell’atteggiamento dei due ragazzi verso la natura, generando una paura mista a senso di colpa:

Ma ecco che il silenzio s’era appena rifatto, e di nuovo la voce – inumana in quel salto d’aria – strillò «Pale! Pale!» E fu allora che il socio gettò, con rabbia, il vincastro e disse in fretta: – Quei bastardi. Se la vipera sente il nome mentre la cerchiamo, poi mi conosce. – Vieni via, – dissi con un filo di voce. La vecchia maledetta continuava a chiamare. Me la vedevo alla finestra, sbucare ogni tanto con un lattante in braccio e cacciare quello strillo come se cantasse. Pale mi prese un momento per il polso e gridò «Scappa!» Fu una corsa sola fino alla piana; ci gridavamo «La vipera!» per eccitarci, ma la nostra paura – la mia, almeno – era qualcosa di più complesso, un senso di aver offeso le potenze, che so io, dell’aria e dei sassi 457.

Questi eventi non sono narrati mediante l’uso di un linguaggio nostalgico che ripercorre un semplice ricordo, ma sono essenziali e significanti: ogni particolare è quindi rivelatore di essenze.

É infatti in Feria d’agosto che la campagna acquista un valore assoluto: questo è il luogo dove sono nate le strutture costitutive dell’io, il vivaio di simboli immaginativi che sta ad indicare l’autentica sostanza di una persona.

La campagna diventa una dimensione interiorizzata avente a che fare con la psicologia del profondo, come emerge dal seguente passo tratto dal racconto La langa:

Il mio paese io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire

455 Cfr. C.G. JUNG, La libido, simboli e trasformazioni, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Per Jung il serpente

rappresenta la libido che si introverte: «Il serpente come simbolo di trasformazione e rinnovamento è un archetipo di tutte le culture».

456 ID., Anima e terra, in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, cit., p. 129. 457 C. PAVESE, Il nome, in Feria d’agosto, cit., p. 7.

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“Conoscete quei quattro tetti?”, ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre a me quella terra non esisteva nulla [...], sapevo ch’io venivo di là, che tutto ciò che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia coscienza458.

A questa dimensione si collega il tema del ritorno: il protagonista, ritornato al paese natale, decide inaspettatamente di non sposare una delle ragazze del paese ma di partire nuovamente e non tornare mai più. Egli ha capito che l’unico modo per possedere completamente la sua terra è attraverso la dimensione della memoria.

É infatti sul filo della memoria che in Feria d’agosto si gioca il recupero della purezza delle immagini interiori: non attraverso il semplice «fotografare all’indietro»459, un ricordare impuro, ma nello scavo profondo del «ricordo assoluto» pavesiano che sfuma nell’atemporalità.

Ai due poli di questo viaggio estremo della memoria si situano le due figure del ragazzo e dell’adulto.

Nel risvolto di sovracopertina che ha accompagnato la pubblicazione di Feria d’agosto, Pavese, oltre a specificare la particolare natura atipica di questo romanzo, metteva in risalto un altro punto fondamentale: «Qui, come in tutte le avventure, si è trattato di fondere insieme due campi d’esperienza. E la risposta potrebbe essere questa: solamente l’uomo fatto sa essere ragazzo»460. L’adulto e il ragazzo sono quindi i veri protagonisti della raccolta, specialmente nella prima sezione

Il mare, dove la dimensione evocativa scorre sulla scia di sensazioni e ricordi che fanno scontrare la

percezione fantastica dell’infanzia in campagna con la coscienza razionale dell’adulto.

Ne è un esempio il racconto Fine d’agosto in cui il protagonista, un uomo adulto, sta rincasando con la sua compagna, e una semplice folata di vento notturno suscita in lui un’emozione così intensa e profonda da riportarlo a un’antica dimensione d’infanzia: «Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai. [...] Quel turbine di vento notturno mi aveva, come succede, inaspettatamente riportato sotto la pelle e le narici una gioia remota, uno di quei nudi ricordi segreti come il nostro corpo, che gli sono si direbbe connaturati fin dall’infanzia»461.

458 ID., La langa, ivi, pp. 16-17.

459 Cfr. A. GUIDUCCI, op. cit., p. 317: «Niente è più lontano non solo dal modo ma dalle intenzioni della sua narrativa

della tecnica moderna del flash -back».

460 C. PAVESE, Feria d’agosto, cit., p. 205. 461 ID., Fine d’agosto, ivi, pp. 9-10.

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Ma i suoi ricordi d’infanzia risultano in qualche modo incompatibili con la presenza della donna accanto a lui: «C’è qualcosa nei miei ricordi d’infanzia che non tollera la tenerezza carnale di una donna – sia pure Clara»462.

Si crea allora un rapporto a tre sull’asse uomo-donna-ragazzo, ma anche l’identificazione tra l’uomo e il ragazzo viene a configurarsi come un intreccio nel contempo di ritrovamento e smarrimento:

In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento [...]. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo.[...] L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli 463.

L’uomo, avvilito, soffocato dal tempo, è separato dal ragazzo che fu, generando un «senso di spreco»464 che ha poco a che fare con la nostalgia del passato: adulto e ragazzo non sono in naturale continuità ma coesistono in una dimensione sdoppiata, quasi lacerata.

Nel finale, proprio a causa dell’intensità con cui l’uomo sente riaccendersi questi ricordi d’infanzia, il rapporto con la donna, presenza tangibile e «carnale», risulta inevitabilmente compromesso: «Clara, poveretta, mi volle bene quella notte come sempre. Forse me ne volle di più, perché anche lei ha le sue malizie.[...] Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne»465.

Ne Il campo di granturco la sensazione mnemonica è attivata dal fruscio di un campo: un uomo, di cui Pavese non fornisce alcun dettaglio, passa con la sua bicicletta davanti a un campo di granturco. Il ricordo appare come una rivelazione sacrale e misteriosa che riconduce ad una realtà intatta e immobile, in cui passato e presente sono chiamati ad un ennesimo confronto.

Qui le private immagini infantili legate alla campagna costituiscono dei veri e propri simboli della coscienza:

462 Ibid. 463 Ibid.

464 Cfr A. GUIDUCCI, op. cit., p. 320: «L’immagine poetica di Pavese suggerisce, al colmo della sua riuscita, non la

malinconia del “perduto” e la nostalgia del passato, ma lo spreco e lo sciupìo insito nel tempo, il quale seppellisce e soffoca, simile a un vento, ciò che di puro, di intatto e di fervido è stato da noi vissuto».

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Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscio dei lunghi steli secchi mossi dall’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato.[...] Quel giorno fu un campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada, un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo. Certi colloqui remoti si apprendono e concretano in figure naturali. Queste figure io non le scelgo; sanno essere sorgere, trovarsi nella mia strada al momento giusto, quando meno ci penso. Non c’è persona di mia conoscenza che abbia un tatto come il loro466.

In questo senso la visione del campo potrebbe essere una riattualizzazione del momento mitico in cui il simbolo, l’archetipo, lo «stampo», si è rivelato per la prima volta nella coscienza del ragazzo.

Questo passo pavesiano sembra essere ciò che più si avvicina al concetto dell’archetipo così come Jung lo ha definito nel saggio Anima e Terra, in cui sono analizzati i rapporti tra la natura e la struttura dell’inconsciente. Scrive infatti Jung:

Gli archetipi sono sistemi potenziali che sono insieme immagine ed emozione. Si ereditano colla struttura cerebrale, anzi, ne sono l’aspetto psichico. Formano da una parte un fortissimo pregiudizio istintivo, e sono d’altra parte il più efficace aiuto per gli adattamenti istintivi. Sono veramente la parte ctonica dell’anima – se ci è lecito usare quest’espressione – quella parte per cui essa è attaccata alla natura, o in cui almeno appare nel modo più comprensibile il suo legame colla terra e col mondo. In queste immagini primordiali ci si presenta chiarissimo l’effetto psichico della terra e delle sue leggi467.

Ma l’uomo stesso non conosce il motivo per cui il ricordo viene suscitato: tutto rimane indeciso, avvolto in un’atmosfera incerta. Egli sa solo che il tempo viene sospeso perché si tratta di qualcosa rimasto intatto e accaduto nell’infanzia ma, alla fine, non può far altro che constatare l’implacabile distanza tra l’adulto e il ragazzo:

[...] E nemmeno so che cosa potevano essersi detto, un campo di granoturco e un ragazzo.[...] Che il tempo allora si sia fermato lo so perché oggi ancora davanti al campo lo ritrovo intatto. É un fruscio immobile. Capisco d’avere innanzi una certezza, di avere come toccato il fondo di un lago che mi attendeva, eternamente uguale. L’unica differenza è che allora osavo gesti

466 ID., Il campo di granturco, ivi, p. 12.

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bruschi, penetravo nel campo gettando un grido alle colline familiari che mi pareva mi attendessero. Allora ero un bambino, e tutto è morto di quel bambino tranne questo grido468.

Adulto e ragazzo ancora una volta a confronto. La seconda sezione della raccolta, intitolata La

città, simboleggia invece l’età adulta: qui i protagonisti conducono un’esistenza vuota e sterile a

causa della mancanza di momenti contemplativi, come se la loro vita fosse vissuta da qualcun altro che non è il loro io. Si legge in Una certezza:

La mia vita è tutt’altro che sedentaria; posso anzi dire di aver avuto avventure insolite, rovesci, riprese, burrasche, né le prove sono tuttora finite; eppure, in mezzo a tutto ciò, se mi accade di fermarmi un momento e pensare, mel mio passato non mi ritrovo e le sue agitazioni non le capisco. É come se tutto fosse toccato a un altro, e io sbucassi adesso da un nascondiglio, un buco dove fossi vissuto sinora senza saper come469.

I protagonisti del racconto Piscina feriale, invece, avvertono dentro di loro una solitudine che è «un vuoto. Un’immobilità di pensieri.[...] Siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda»470.

Questo senso di estraneità è dovuto alla dimensione perduta dell’infanzia: «i momenti di maggior soddisfazione sono quelli più lontani, che uno neanche sapeva di aver vissuto, quando cominciava a scappare di casa e lo faceva con paura»471.

E ne La vigna si legge: «L’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato»472.

L’esperienza dell’età adulta, maturata in un contesto cittadino, si viene così a contrapporre a quella dell’infanzia e del ragazzo, affidata invece alle pagine della prima sezione.

Ed è proprio il motivo del ragazzo che scappa di casa in cerca di avventure a risultare una situazione decisiva nella poetica di Pavese, come egli stesso aveva già ammesso verso la metà degli anni Trenta473.

468 C. PAVESE, Il campo di granturco, in Feria d’agosto, cit., p. 13. 469 ID., Una certezza, ivi, p. 95.

470 ID., Piscina feriale, ivi, p. 105. 471 ID., Una certezza, ivi, p. 97 472 ID., La vigna, ivi, p. 166

473 Cfr. ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 17: «Se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato

di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere una donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare».

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Questo tema centrale può essere interpretato come il viaggio mitologico dell’eroe in una sorta di percorso iniziatico, in cui il neofita lascia la comunità per addentrarsi nelle regioni inesplorate e selvagge. Secondo questa interpretazione, Beatrice Mencarini ha proposto una lettura dell’opera pavesiana nella quale viene sottolineato il ripetersi dei simbolismi legati ai miti di vita, morte e rinascita del ragazzo-eroe474.

L’infanzia, età pre-cosciente e mitica per eccellenza, è il terreno privilegiato per questo tipo di esperienze, ed è inoltre significativo il fatto che Pavese abbia dato alla sezione del libro dedicata alla fanciullezza proprio il titolo Il mare.

L’elemento marino, come emerge in alcune lettere475, non è considerato da Pavese come un «mondo naturale» nel quale potersi muovere poeticamente, venendo a mancare quella particolare carica poetica propria di uno stampo immaginativo originario.

Tuttavia, il mare rappresenta un elemento ricorrente fin dalle sue prime esperienze poetiche: si pensi alla celebre poesia I mari del sud in apertura della raccolta Lavorare stanca.

Esso rappresenta, come ha messo in luce Elio Gioanola, un simbolo dell’altrove476: il mare possiede quella carica immaginativa e fantastica proprio in virtù del fatto che in campagna è assente, e quindi non si presenta come dato realistico e tangibile, ma il ragazzo lo immagina sempre al di là delle colline e della campagna.

Tutti i racconti dell’infanzia che rientrano nella sezione intitolata Il mare, compreso il racconto eponimo, sono ambientati in campagna: ciò conferisce sicuramente una forte carica suggestiva, attribuendo al mare e alla stessa campagna una valenza mitica, vero e proprio (non)luogo dell’assoluto.

Gioanola mette in evidenza che «la mitizzazione, a cui è rigorosamente sottoposto l’immaginario attivo in questo libro della svolta, è precisamente allontanamento o abolizione della presenza, in modo da creare i filtri che allontanano l’incombenza schiacciante del reale»477.

Protagonisti del racconto Il mare sono due ragazzi compagni di gioco: uno si chiama Gosto, abbreviazione di Augusto, nome che richiama al mese che dà il titolo all’opera, l’altro corrisponde all’io-narrante e si tratta di un ragazzo piuttosto goffo e impacciato che abita in campagna, non è in paese per le vacanze.

474 Cfr. B. MENCARINI, Appunti per una mitobiografia pavesiana, «In Limine», Nuova Cultura, Roma 2013. 475 Cfr. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 232: «[il mare] non è però per te né un ricordo né

una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo. Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna, ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo[...]».

476 Cfr. E. GIOANAOLA, op. cit., pp. 133-150.

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È il mare che scatena nei ragazzi il desiderio di fuga dalla campagna, pronti a scappare di casa in cerca di avventure e novità, come era successo per i compagni protagonisti de Il nome nella caccia alla vipera.

Il nonno di Gosto, narrando un racconto, aveva assicurato di aver visto il mare dall’alto delle colline: è questa la spinta fantastica che accompagna i ragazzi in un viaggio alla ricerca di qualcosa di mitico, di un mare senza una connotazione e collocazione precisa, come si legge nel seguente passo:

Ma un giorno Gosto si vantò che da ragazzo suo nonno era scappato di casa e andando per il vallone era salito così in alto che di lassù si vedeva il mare. Noi il vallone ci portava dentro una vigna quasi piana, chiusa intorno dai càrpini. Che cosa facessimo là fino a sera, non so. Guardavamo le punte degli alberi. Io dicevo a Gosto che al mare non accendono falò, perché il mare è pianura, e disteso nell’erba mi annoiavo a guardare le nuvole.[...] Il sole da noi spunta dietro le colline basse, dove il nonno di Gosto aveva visto da ragazzo il mare. Che il mare fosse da quella parte, l’avevo detto io a Gosto. I giorni di temporale, era là che si apriva lo slargo e il sole tornava a battere come sopra un gran campo di fiori, mentre da noi sgocciolava ancora. Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua478.

Anche in questo racconto la campagna è vissuta in una dimensione di echi e richiami, in una reminiscenza continua: «[...]e mi pareva che quell’eco, quel sole, la collina bassa, li avessi già visti, ci fossi già stato una volta»479.

Quando il protagonista svela a Gosto la sua intenzione di non voler più proseguire il cammino con lui, annunciando che sarebbe andato a Cassinasco, Gosto risponde: «[...] Che cosa vuoi salire lassù? Tanto il mare di là non lo vedi»480. Ed è a questo punto che l’io-narrante svela: «Lo sapevo che il mare di là non si vede; l’avevo saputo fin da quando credevamo alle Ca’ Rosse, ma con Gosto non l’avevo mai detto. [...] Adesso non m’importava più se di là da Cassinasco non avrei visto il mare. Mi bastava sapere che il mare c’era, dietro discese e paesi, e pensarci camminando tra le siepi[...]»481.

Giovanni Bàrberi Squarotti ha messo in luce come in questa raccolta «l’aspirazione verso il mare non significa già nostalgia o curiosità, ma il mito originario (junghiano) della nascita, quella a cui i

478 ID., Il mare, ivi, p. 66. 479 Ivi, p. 74.

480 Ivi, p. 78. 481 Ivi, p. 79.

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ragazzi anzitutto, nella loro inquietudine ansiosa di recupero delle origini ancestrali, aspirano, tanto da fuggire di casa per mettersi in cammino e allontanarsi dalle colline e dalla terra [...]»482.

Si capisce a questo punto quanto per Pavese l’infanzia risulti fondamentale nella sua esperienza di scrittore: «il concepire mitico dell’infanzia – scrive Pavese – è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva»483.

È in Feria d’agosto che il fascino e lo stupore determinati dal contatto col paesaggio vengono concepiti come il risultato di un sedimento inconsapevole legato alla memoria: la dimensione campagnola nell’infanzia diventa un vero e proprio complesso di ricchezze spirituali e inconsce riguardanti l’identità di un individuo.

482 G. BÀRBERI SQUAROTTI, Il ragazzo e l’avventura: Feria d’agosto, «Esperienze letterarie», n. 3-4, 2000, p. 7. 483 C. PAVESE, Del mito, del simbolo e d’altro, in Saggi letterari, cit., p. 274.

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IV.2. Dialoghi con Leucò. Il mito ellenico come parabola esistenziale

«CIRCE L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia»

(Cesare Pavese, Le Streghe)

Centro di tutta la poetica pavesiana è il rapporto tra mito e poesia, secondo cui poeta è colui che esprime il proprio mito. E senza mito non c’è poesia: questo principio, elaborato nei saggi contenuti in Feria d’agosto, è il presupposto che sta alla base della scrittura dei Dialoghi con Leucò, opera che s’inserisce senza soluzione di continuità all’interno di un disegno unitario che ha nel mito il suo fulcro essenziale.

Guardando la cronologia di questi scritti si può notare, infatti, che Pavese elabora la stesura dei

Dialoghi a partire dal 1945, anno in cui Feria d’agosto viene pubblicato, fino al 1947, periodo in

cui lo scrittore soggiornò prevalentemente a Roma con l’incarico di organizzare una sede della casa editrice Einaudi.

Nella capitale Pavese instaura una relazione sentimentale con Bianca Garufi, all’epoca giovane segretaria della Casa editrice e già in quegli anni attratta dallo studio del pensiero di Jung.

Bianca Garufi condivise con Pavese forti interessi legati alla psicoanalisi e ai miti greci484, dei quali la psicologia di stampo junghiano si occupò spesso.

La scelta del titolo dell’opera sembra collegarsi proprio al nome della donna amata e ispiratrice di molti dialoghi mitici: la divinità marina Ino-Leucotea, letteralmente “la dea bianca” e abbreviata da Pavese in Leucò, in greco significa appunto “bianca”.

È in questi anni che il poeta si sofferma sulla lettura dei miti classici e primitivi, forte dell’avvallo scientifico degli studi antropologici ed etnologici, come ben evidenziato da gran parte della critica485: le fonti della scrittura dei Dialoghi possono essere ricondotte sostanzialmente a opere quali The Golden Bough di Frazer per la riscrittura dei miti riguardanti la fecondità, la vegetazione e la propiziazione magico-rituale; a Töchter der Sonne di Karoly Kerényi per un approccio attualizzante del mito; alla Thessalische Mythologie di Paula Philippson, un libro che, confessava Pavese in una lettera, gli fece «un grande effetto» e il dialogo intitolato Le cavalle «ne è

484 Cfr. S. MARTUFI,La musa della coscienza. Bianca Garufi tra letteratura e psicologia, in AA.VV. Sei la terra e la

morte. Biografia, poetica e poesia in Cesare Pavese, Settima rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, A.

Catalfamo(a cura di), I Quaderni del CE.PA.M., Santo Stefano Belbo, Cuneo.

485 Cfr. E. CORSINI, Orfeo senza Euridice. I Dialoghi con Leucò e il classicismo di Pavese, «Sigma», I (dicembre 1964),

nn. 3-4, pp. 124-135. Cfr. anche M.I.PREMUDA, I Dialoghi con Leucò e il realismo simbolico di Pavese, «Annali della Scula Normale Superiore di Pisa, Vol. XVI, 1957, pp. 221-249.

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tutto intriso»486; infine, nuovamente al binomio Jung-Kerényi, i quali nei Prolegomeni allo studio

scientifico della mitologia avevano descritto il meccanismo universale della genesi delle mitologie.

Queste erano tutte opere che Pavese lesse in questo periodo e pubblicò attraverso la «Collana Viola» in collaborazione con Ernesto de Martino.

L’avvicinamento al mondo ellenico da parte di Pavese è stato poi ampiamente documentato da Attilio Dughera487: già a cavallo tra il 1935 e il 1936 lo scrittore aveva tradotto opere omeriche, dai tragici ai lirici greci; successivamente, intorno al 1947, Pavese tradusse per se stesso la Teogonia di Esiodo, che ebbe un notevole influsso sui Dialoghi in relazione al processo della nominatio488.

Pavese aveva seguito al liceo Massimo D’Azeglio di Torino l’indirizzo moderno e per questo motivo non studiò il greco a scuola489, ma si accostò allo studio della lingua da autodidatta e con grande determinazione, come testimonia questa lettera indirizzata al classicista Mario Untersteiner che Pavese elogiò per l’opera La fisiologia del mito:

[...] Il mio libro è nato da un interesse per il problema del mito e delle cose etnologiche che mi ha indotto e mi induce a molte strane letture – ma poche mi hanno dato la soddisfazione e lo stimolo della sua Fisiologia. Pensi che le sue pagine hanno anche avuto questo effetto, che ho ripreso grammatiche e dizionari (dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone) di venti anni fa e vado, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto di non poter procedere scioltamente come vorrei. È una lingua terribile – divina e terribile, come la terra secondo Endimione490.

Il fatto che ora Pavese sposti lo sguardo in direzione del mondo ellenico non deve essere inteso come un’apertura verso un nuovo cambio di prospettiva: rispetto a Feria d’agosto, come evidenziato da Sergio Givone, non c’è un salto o una frattura491; piuttosto, sarà da sottolineare un diverso rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva, nel passaggio da un microcosmo di miti personali a un macrocosmo di miti e archetipi universali: Pavese porta le sue riflessioni nella

486 C. PAVESE, Lettere 1926-1950, cit., p. 630.

487 A. DUGHERA, Tra gli inediti di Pavese: le traduzioni dei classici greci, in Tra le carte di Pavese, Bulzoni, Roma

1992, pp. 13-37.

488 Cfr. A. GUIDOTTI, I Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, in Forme del tragico nel teatro italiano del Novecento,

ETS, Pisa 2016, pp. 110-111.

489 D. LAJOLO, Il vizio assurdo, cit., pp. 33,45. All’indirizzo moderno era previsto lo studio della cultura greca ma non

della lingua.

490 C. PAVESE, Lettere 1926-1950, cit., p. 571.

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sfera della mitologia, le cui «immagini primordiali – scrive Jung – sono proprietà comune dell’umanità»492.

I miti di un passato millenario hanno lasciato profonde tracce nel nostro inconscio individuale e collettivo, e Pavese guarda a questi miti con l’occhio della contemporaneità.

Secondo lui il recupero mitologico è più che mai attuale attraverso l’utilizzo del mito greco come modello esemplare di riferimento e veicolo interpretativo per comprendere l’esperienza del mondo contemporaneo, producendo quella che Bart Van den Bossche ha denominato una «lettura generativa del mito»493.

Occorre comunque tenere presente quanto l’atteggiamento di Pavese risulti, in quegli anni, decisamente controcorrente rispetto al clima culturale storicista italiano di segno crociano e gramsciano.

A questo proposito è utile leggere la prefazione, quasi una sorta di «ombrello protettivo»494, che il poeta scrisse per la prima edizione dei Dialoghi nel 1947:

Potendo, si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioé non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene – come a tutti i linguaggi – una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere. Quando riportiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, una cosa sintetica e comprensiva, un midolo di realtà che vivifica tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale.[...] Qui ci siamo accontentati di servirci di miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro immediata e tradizionale accettabilità495.

Nello specifico, la scelta di utilizzare i miti greci come motivo centrale del libro è motivata dallo scrittore per la loro immediatezza e “familiarità”. Proprio su questa dimensione di un mito accessibile a tutti, Pavese costruisce ventisei dialoghi brevi e carichi di tensione, in cui i personaggi mitologici adoperano un linguaggio colloquiale, privo di elementi ricercati.

492 C.G. JUNG, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella

psicologia moderna, cit., p. 47.

493 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 296: «[...] Con tale lettura generativa del mito sono

gettate le basi per un’esegesi in chiave mitica della contemporaneità. L’etnologia, l’antropologia, la storia e la filosofia delle religioni forniscono l’avvallo scientifico e le strategie interpretative per individuare delle analogie tra situazioni ed esperienze contemporanee da una parte e miti antichi e primitivi dall’altra, analogie considerate come spie di un’affinità e di una continuità più profonda, radicata in una comune matrice spirituale».

494 Cfr. A. BRUNI, Pavese controcorrente: i Dialoghi con Leucò, «Cuadernos de filologia italiana», Volumen

extraordinario, 2011, p. 77.

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Il tessuto linguistico coinciso, lo stile talvolta ironico, hanno indotto la critica ad accostare i

Dialoghi con Leucò ai Dialoghi di Luciano496 e, data la forte presenza di elementi del pensiero leopardiano, alle Operette morali di Leopardi497.

Per comprendere a fondo il significato di quest’opera è necessario partire dalle modalità con cui Pavese si avvicinò al mondo antico, indagandone la componente tragica e problematica: il suo rivolgersi al classicismo non è stata un’operazione volta a recuperare un mondo ideale dell’eidos o atteggiamenti di un passato lontano in cui cercare conforto.

Secondo Carlo Saccà, in Pavese la vera spinta classica e tragica è determinata dall’immergersi nel mondo classico «per cercare il reale, la rivelazione. Per lui i classici non sono una veste, ma la sua carne»498.

Sulla scia di un grande pathos e lontano da un’impostazione dotta e filologica, Pavese interpreta il mito da un’angolazione psichico-esistenziale, esprimendo in forma simbolica i sentimenti, le paure e gli affanni, cioé i grandi temi che da sempre riguardano l’uomo: l’io e il mondo, il trapasso dall’infanzia alla maturità, l’amore e la morte, il desiderio e l’insoddisfazione del sesso, la speranza e il destino.

É attraverso l’impianto dialogico che le antinomie principali dell’universo poetico pavesiano raggiungono la loro massima espressione: così l’opposizione tra città e campagna di Feria d’agosto diventa, nei Dialoghi, lo scontro tra i Titani e l’Olimpo, come indicato da Pavese stesso499.

Il mondo titanico corrisponde all’età del caos, mondo irrazionale legato al mito e a divinità preolimpiche dall’aspetto indeterminato che vivono sulla terra in simbiosi con gli elementi naturali come i boschi, i corsi d’acqua, il vento e le montagne; gli dèi olimpici, invece, hanno sembianza umana e determinata, contraddistinti da una bellezza ideale, abitano sull’Olimpo e mantengono un rapporto d’indifferenza con la sorte degli umani prendendosi spesso gioco del loro destino.

L’età olimpica si lega alla maturità per via dell’acquisizione della coscienza di sé e del mondo; il mondo titanico corrisponde invece all’infanzia, età in cui ancora non si è contrapposti alle cose e si può goderne con ingenuità, vivendo ogni istante nella dimensione in cui la vita e la morte corrispondono allo stesso momento di un’inesausta vicenda ciclica: l’accettazione della morte diventa allora la cifra del passaggio dal mondo del ragazzo a quello dell’uomo.

496 Cfr. U. MARIANI, The Sources of Dialogues with Leucò and the Loneliness of the Poet’s Calling, «Rivista di Studi

italiani», 2, VI, 1988, pp. 46-47.

497 Cfr. G. CONTINI, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Sansoni, Firenze 1968, p. 1003. Contini definisce i

Dialoghi «le Operette morali del neorealismo».

498 C. SACCÀ, Senza il velo di Leucotea: discorso su Pavese classico, in AA. VV., Cesare Pavese: il mito, la donna e le

due americhe, Terza rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, A. Catalfamo(a cura di), I Quaderni del

CE.PA.M., Santo Stefano Belbo, Cuneo, p. 84.

499 Cfr. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 335: «[...] La città-campagna dei primi libri è

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Significativo a questo proposito è il dialogo I due, in cui parlano personaggi celebri come Achille e Patroclo prima del rientro in battaglia:

ACHILLE [...] Quando stavamo sempre insieme e giocavamo e cacciavamo, e la giornata era breve ma gli anni non passavano mai, tu sapevi che cos’ era la morte, la tua morte? Perché da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte. Poi viene il giorno che d’un tratto si capisce, si è dentro la morte, e da allora si è uomini fatti. Si combatte e si gioca, si beve, si passa la notte impazienti. Ma hai mai visto un ragazzo ubriaco?

PATROCLO Mi chiedo quando fu la prima volta. Non lo so. Non ricordo. Mi pare di aver sempre bevuto, e ignorato la morte.

ACHILLE Tu sei come un ragazzo Patroclo500.

Il mondo titanico è un tempo inattingibile e senza leggi in cui uomini, mostri, titani, animali, vissero sulla terra mischiandosi gli uni con gli altri nel pieno contatto con la natura.

Il passaggio al mondo olimpico implicherebbe il trionfo dell’ordine e della legge sul caos delle origini: è dunque l’ elemento olimpico il vero responsabile della scissione tra l’uomo e la natura. Il libro si apre infatti con il dialogo tra la nube Nefele e Issione, re dei Lapiti, che testimonia l’avvento del nuovo ordine:

ISSIONE E che cosa è mutato , Nefele, sui monti?

LA NUBE Né il sole né l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.[...] La tua sorte, il limite...[...] Non puoi più mischiarti a noialtre [...]501.

A questo punto gli dèi olimpici si sono insediati e il ragazzo o il bambino è stato sostituito dall’adulto: l’uscita dal tempo originario dell’infanzia costa all’umano l’instaurarsi di una nuova dimensione dell’esistenza che, nelle parole della Nube, è una «legge», un «limite».

Diventare adulti significa allora essere consapevoli di abitare nel mondo, di dare un nome alle cose, di prendere coscienza del senso del tempo e di ogni gesto e atto della vita: in una parola, il logos.

Gli eroi pavesiani dei Dialoghi sono vittime di questo trapasso esistenziale e di una tragica consapevolezza morale data dal nuovo ordine degli dèi: è il caso di Bellerofonte che, dopo aver

500 ID., I Due, in Dialoghi con Leucò, cit., p. 59. 501 ID., La Nube, ivi, p. 9.

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ucciso la mostruosa Chimera, accusa una perdita di senso tale da lasciarlo disorientato e smarrito a vagare per i boschi, «imbestiato», come dice Pavese:

SARPEDONTE Ascolta Ippòloco...Anch’io mi son chiesto, vedendo quell’occhio smarrito, se parlavo con l’uomo che un tempo fu Bellerofonte. A tuo padre è accaduto qualcosa. Non è vecchio soltanto. Non è soltanto triste e solo. Tuo padre sconta la Chimera.

IPPÒLOCO Sarpedonte, sei folle?

SARPEDONTE Tuo padre accusa l’ingiustizia degli dèi che hanno voluto che uccidesse la Chimera. «Da quel giorno», ripete, «che mi sono arrossato nel sangue del mostro, non ho più avuto vita vera. [...] Dov’è un’altra Chimera? Dov’è la forza delle braccia che l’uccisero? Anche Sísifo e Glauco mio padre furon giovani e giusti – poi entrambi invecchiarono, gli dèi li tradirono, li lasciarono imbestiarsi e morire. Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi a morire?»502.

L’identità di questi eroi è fondata su un dissidio interiore determinato da un sorte inevitabile ormai stabilita che li porta al patimento, mentre gli dèi «sorridono davanti al destino»503.

É il caso di Prometeo incatenato alla rupe, luogo della tortura quotidiana e simbolo della sofferenza; qui l’eroe annuncia a Eracle, venuto a liberarlo, il suo destino, la sua “rupe”:

PROMETEO Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. Ma gli dèi sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere. Sorridono davanti al destino. [...] Giorno verrà che crederai di avere ucciso un altro mostro, e più bestiale, e avrai soltanto preparato la tua rupe. [...] Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.

ERACLE Torneranno i titani?

PROMETEO Non ritornano i sassi e le belve. Ci sono. Quel che è stato sarà. [...] Il mondo ha stagioni, come i campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca?504

Nel dialogo I Ciechi la metafora della rupe si collega all’immagine della roccia, simbolo della realtà primordiale e dell’istinto sessuale. Si tratta del mito di Tiresia: in gioventù ha spiato due serpi che si accoppiavano sul monte Cillene e per questo viene tramutato in donna.

502 ID., La Chimera, ivi, pp. 15-16. 503 ID., La Rupe, ivi, pp. 72-73. 504 Ibid.

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Roccia e serpe sono simboli che testimoniano la centralità del sesso e del sangue come una trauma, dove «le cose del mondo sono roccia»505. Tiresia si rivolge così a Edipo:

TIRESIA [...] Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. [...] Non c’è dio sopra il sesso. È la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto? [...] Il sesso è ambiguo e sempre equivoco. È una metà che appare un tutto. L’uomo arriva a incarnarselo, a viverci dentro come il buon nuotatore nell’acqua, ma intanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine un’idea, un’illusione gli resta: che l’altro sesso ne esca sazio. Ebbene, non crederci. Io so che per tutti è una vana fatica506.

In questo dialogo Tiresia viene presentato come un vecchio che ha già visto tutto e insegna ad un giovane Edipo inconsapevole come funziona il mondo: Tiresia sa già che ciò che accade nella vita è una ripetizione vana e ambigua di eventi.

Il destino sessuale è una tappa fondamentale per la formazione individuale, ma costa una disgregazione dell’identità che fino all’infanzia era rimasta intatta: chi non ha conosciuto la rupe non è, dice Tiresia, «un uomo valido – è ancora un bambino»507, cioé qualcuno che non ha conosciuto ancora la tremenda verità.

Ma Pavese, attraverso questo dialogo, ci dice un’altra cosa. Nel colloquio tra Tiresia ed Edipo il sacerdote svela l’impotenza degli dèi nel cambiare le leggi della natura, aprendo uno scenario diverso: gli dèi, secondo Tiresia, sono arrivati tardi, sono troppo giovani rispetto al mondo stesso che continua a esistere eternamente; nonostante tutto essi non possono nulla contro la natura e il caos primordiale. Tiresia sostiene che «il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancora nato. Le cose stesse, regnavano allora. [...] Gli dèi possono dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi»508.

505 ID., I Ciechi, ivi, p. 22. 506 Ibid.

507 Ibid. 508 Ibid.

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Ciò che rimane nell’uomo adulto del tempo olimpico, ci dice Tiresia, è l’Eros, il sesso, impulso supremo che guida e fa accadere le cose, ma allo stesso tempo dimensione equivoca in cui «c’è la vita e la morte»509.

Sesso e sangue risultano così due realtà ambigue che nascondono un tratto bestiale, come nel dialogo La Belva. La leggenda narra che Endimione fosse un pastore condannato dagli dèi a dormire un sonno eterno. La dea Artemide, descritta da Pavese come «signora delle belve» e dal carattere «non dolce»510, innamoratasi del giovane dormiente, ogni notte andava a fargli visita nella sua grotta sul monte Latmo. Endimione nel dialogo si rivolge così a uno straniero:

ENDIMIONE O straniero, io non trovo più pace nel sonno. Credo di aver dormito sempre, eppure so che non è vero. [...] Compagno, hai mai guardato con spavento e con voglia la natura di una lupa, di una daina, di una serpe? STRANIERO Intendi il sesso della belva viva?

ENDIMIONE Sí ma non basta. Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei le racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze, e un’altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere?511.

Il destino di Endimione è un tormento, così come quello di Meleagro appare un conflitto interiore totale: egli è oppresso dalla consapevolezza che sua madre è stata al tempo stesso la sua genitrice e la sua assassina. La leggenda narra che alla nascita di Meleagro, la Moira Atropo sentenziò che egli sarebbe morto quando il tizzone che andava nel camino sarebbe stato consumato. La madre Altea allora spense il tizzone e lo nascose. Successivamente, Meleagro, diventato grande, uccise gli zii dopo una battuta di caccia; allora Altea, saputa la fine dei suoi fratelli, corse a cercare il tizzone nascosto, lo gettò nel fuoco, e appena questo fu consumato, Meleagro morì. Qui Meleagro discute con Ermete:

MELEAGRO Una madre...nessuno conosce la mia. Nessuno sa cosa significhi sapere la propria vita in mano a lei e sentirsi bruciare, e quegli occhi che fissano il fuoco. Perché, il giorno che nacqui, strappò il tizzone dalla fiamma e non lasciò che incenerissi? E dovevo crescere, diventare quel Meleagro, piangere, giocare, andare a caccia, veder l’inverno, veder le

509 Ibid.

510 ID., La Belva, ivi, p. 38. 511 Ivi, p. 40.

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stagioni, essere uomo – ma saper l’altra cosa, portare nel cuore quel peso, spiarle in viso la mia sorte quotidiana [...].

ERMETE Siete stranezze voi mortali. Vi stupite di ciò che sapete. Che un nemico non pesi, è evidente. Così come ognuno ha una madre. E perché dunque è inaccettabile saper la propria vita in mano a lei?

MELEAGRO Ermete, bisogna aver visto i suoi occhi. Bisogna averli visti dall’infanzia, e saputi familiari e sentiti fissi su ogni tuo passo e gesto, per giorni, per anni, e sapere che invecchiano, che muoiono, e soffrirci, farsene pena, temere di offenderli. Allora sí, è inaccettabile che fissino il fuoco vedendo il tizzone.

ERMETE Sai anche questo e ti stupisci, Meleagro? Ma che invecchino e muoiano vuol dire che tu intanto ti sei fatto uomo e sapendo di offenderli li vai cercando altrove vivi e veri. E se trovi questi occhi – si trovano sempre, Meleagro – chi li porta è di nuovo la madre. E tu allora non sai più con chi hai da fare e sei quasi contento, ma sta’ certo che loro – la vecchia e le giovani – sanno. E nessuno può sfuggire al destino che l’ha segnato dalla nascita col fuoco.

MELEAGRO Qualche altro ha avuto il mio destino, Ermete?

ERMETE Tutti, Meleagro, tutti. Tutti attende una morte, per la passione di qualcuno. Nella carne e nel sangue di ognuno rugge la madre512.

Il destino è visto come una prigione da cui non è possibile evadere: ne La Strada Pavese ripropone la figura di Edipo ma, rispetto a I Ciechi, troviamo un anziano Edipo distrutto dalla vita e cieco, tormentato dal fatto che egli non ha capito se è stato lui a scegliere o il destino a scegliere per lui:

EDIPO [...] Non sapevo di cercare la mia sorte. Adesso non vedo più nulla e le montagne son soltanto fatica. Ogni cosa che faccio è destino. Capisci? [...] Val la pena di fare una cosa ch’era già come fatta quando ancora non c’eri? MENDICANTE Val la pena, Edipo. A noi ci tocca e basta. Lascia il resto agli dèi.

EDIPO [...] E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi domando: chi fu Edipo?513.

512 C. PAVESE, La Madre, ivi, p. 54. 513 ID., La Strada, ivi, p. 65.

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La riflessione sul destino mostra come questo sia una realtà che non si comprende ma neppure si può discutere. Destino e sesso sono strettamente legati e anche in questo caso entra in gioco una forza ambivalente: gli eroi dei Dialoghi sono costretti sempre a una scelta esistenziale, posti di fronte al bivio che li porta ad accettare o a rifuggire.

Questo dilemma è espresso in Schiuma d’onda, in cui Saffo e Britomarti dialogano dopo la morte; entrambe si sono tolte la vita gettandosi in mare: la poetessa per porre fine a una delusione d’amore, la ninfa per il terrore di essere posseduta da un uomo, sfuggendo quindi al loro destino sessuale:

BRITOMARTI Oh Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare se stesse e il destino.

SAFFO Tu l’hai dunque accettato?

BRITOMARTI Sono fuggita, Saffo. Per noialtre è più facile. [...] Il destino è gioia e quando tu cantavi il canto eri felice

Saffo Non sono mai stata felice, Britomarti. Il desiderio non è canto. Il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento514.

Ci sono dunque eroi che hanno provato ad opporsi: l’episodio più incisivo, in questo senso, è quello che vede protagonista Orfeo. La didascalia pavesiana che accompagna il dialogo è lapidaria: «Orfeo si volta. Non è preda del destino ma consapevole. Valse di più»515.

La versione classica del mito, infatti, vuole che Orfeo, sceso nell’Ade per riprendersi Euridice, si sia voltato per amore, condannando in questo modo l’amata nell’oscurità degli abissi.

Orfeo, musico e poeta, era riuscito a scendere negli Inferi grazie alla sua musica dolcissima, metafora della potenza ma anche limite del canto: se questo affronta la morte e la vince non può comunque ridare la vita ai corpi. Pavese stravolge il senso di questo mito e ci restituisce un Orfeo diverso, consapevole di quell’eterno ritorno del destino e che quindi lo accetta affermando: «Pensavo alla vita con lei, com’era prima: che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà»516. Orfeo se ne rende conto grazie all’esperienza limite del nulla, scendendo negli Inferi; egli ha conosciuto la morte, il gelo e il vuoto che ormai sono dentro Euridice. Per questo motivo è necessario abbandonarla:

514 ID., Schiuma d’onda, ivi, pp. 48-49. 515 ID., L’Inconsolabile, ivi, p. 76. 516 Ivi, p. 77.

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ORFEO Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi «Sia finita» e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. [...] Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.

BACCA Qui si dice che fu per amore. ORFEO Non si ama chi è morto.

Orfeo allora non si volta per errore, egli vuole voltarsi per non dover essere costretto a portare nella sua vita un passato ormai finito. Ma Euridice non c’entra; Orfeo cerca nel canto il proprio sé più autentico, affrontando con coraggio l’abbandono dell’amata per accettare la solitudine:

ORFEO Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzi e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo. [...] Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo517.

Ma ecco che a un certo punto nei Dialoghi si avverte un’oscillazione, una specie di risalita verso l’alto: dopo che tutti questi eroi hanno sofferto e pianto per la loro caduta, schiacciati dal peso del destino e per la perdita di quel mondo titanico primigenio, Pavese propone delle situazioni in cui uomini mortali desiderano rimanere tali senza cambiare la propria condizione, rifiutando di mescolarsi con gli immortali.

È il caso di Odisseo che rinuncia alla felicità dell’isola di Ogigia: Calipso gli propone di rimanere sull’isola insieme a lei offrendogli una vita immortale, ma Odisseo continuerà a viaggiare, mosso dal desiderio bruciante di tornare in patria:

CALIPSO Qui puoi vivere sempre. [...] Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più domani. [...] Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto.[...] Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci.

ODISSEO Si tratta sempre di accettare un orizzonte. E ottenere che cosa? [...] Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e

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socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere. [...] Non sono immortale.

CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti.

ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.[...] Quello che cerco l’ho nel cuore, come te518.

Oppure ne Il Lago dove Virbio, reso immortale da Artemide, si ritrova nella solitudine del bosco e gli pare di «essere un’ombra tra le ombre degli alberi»519 ; egli sente il bisogno di stringere a sé «un sangue caldo e fraterno»520. Si assiste dunque a un ribaltamento: la forza ambigua del sesso si capovolge e il desiderio diventa motore centrale dell’esistenza che fa della vita una ricerca continua, sostenendola nella speranza e nell’amore.

Il culmine di questa risalita e rovesciamento è espresso ne Il Mistero: a dialogare sono Dioniso e Demetra, due divinità che nei Prolegomeni Jung e Kerényi avevano definito «archetipiche», rispettivamente Fanciullo Divino e Kore, Fanciulla Divina.

Le due divinità mettono in luce come la vita mortale possa raggiungere quella degli dèi, oltre il dolore e la morte, annullando di fatto la distanza tra mortali e immortali. Essi provano quasi una sorta di ammirazione nei confronti degli uomini.

Ciò che si coglie in questo dialogo è che la morte rappresenta la stessa condizione della vita: sapere di dover morire allora non significa più andare incontro a un oblio insensato, ma diventa la spinta per lasciare un segno nel mondo, per accettare i rischi insiti nella vita e affrontarli:

DIONISO Questi mortali son proprio divertenti. [...] Senza di loro mi chiedo cosa sarebbero i giorni. Che cosa saremmo noi Olimpici. Ci chiamano con le loro vocette e ci danno dei nomi.

DEMETRA Io fui prima di loro, e ti so dire che si stava soli. [...] Eravamo la terra, l’aria, l’acqua. Che si poteva fare? Fu allora che prendemmo l’abitudine di essere eterni.

DIONISO Questo con gli uomini non succede.

DEMETRA È vero. Tutto quello che toccano diventa tempo. Diventa azione. Attesa e speranza. Anche il loro morire è qualcosa.

DIONISO Hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arrichisce la vita. [...] Dappertutto dove spendono fatiche e parole nasce un ritmo, un senso, un riposo.

518 ID., L’Isola, ivi, pp. 101-103. 519 ID., Il Lago, ivi, p. 108. 520 Ivi, p. 108.

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DEMETRA Chi direbbe che nella loro miseria hanno tanta ricchezza? [...] DIONISO Non sarebbero uomini, se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare e prevedere. E poi non credere, Deò, che il loro sangue valga più del frumento o del vino con cui lo nutriamo. Il sangue è vile, sporco, meschino. [...] Insegnarli che ci possono eguagliare di là dal dolore e dalla morte. Ma dirglielo noi. [...] Condurli per questo racconto. Insegnarli un destino che s’intrecci col nostro521.

In questo modo i Dialoghi con Leucò radicalizzano a tal punto la loro ambivalenza che rimangono «un’opera aperta»522 di difficile interpretazione, in cui le contrapposizioni quali mito /

logos, titanico / olimpico, dei / uomini, vita / morte, non riescono a sciogliersi in una sintesi ma

vivono in una complementarietà assoluta.

Si capisce a questo punto il motivo per cui questo libro, con la sua carica ambigua e misteriosa, non ottenne un’attenzione adeguata all’indomani della pubblicazione, «dati i tempi di “lumi”»523, usando un’espressione di Pavese con la quale ironizzava sul clima culturale di quegli anni.

Nel 1947, in pieno neorealismo, quest’opera apparve come una netta eccezione rispetto alla produzione in prosa pavesiana degli anni Quaranta. A ciò si deve aggiungere che nello stesso anno uscì il romanzo Il compagno, collocato nella corrente neorealista e il cui tema è legato a un ben definito contesto storico-sociale del mondo contemporaneo, con un diretto riferimento al fenomeno della Resistenza.

Tutto ciò ebbe l’effetto di opacizzare in qualche modo l’uscita dei Dialoghi e di creare qualche fraintendimento circa il ruolo di Pavese all’interno del neorealismo524.

Pavese, d’altra parte, si sforzò di giustificare la portata eccentrica e controcorrente di quest’opera, quasi si volesse scrollare di dosso l’etichetta di scrittore realista che la critica, ormai da tempo, gli aveva affibbiato sui modelli dei romanzi americani. È emblematico il risvolto di copertina della prima edizione dell’opera, scritto dal poeta stesso:

Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. [...] Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha

521 ID., Il Mistero, ivi, pp. 150-152. 522 Cfr. N. ARRIGO, op. cit., p. 67.

523 C. PAVESE, Lettere 1926-1950, cit., pp. 639-640.

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smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccatamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi 525.

Una recensione particolarmente positiva arrivò, invece, proprio dal filologo Mario Untersteiner, l’unico a cogliere pienamente il tema della conflittualità insito nell’opera, accettandone la problematicità526: cioé la «compresenza di debolezza e dignità dell’essere umano»527, tensione verso la chiarezza del logos e allo stesso tempo abbandono al mito e al mistero.

E in effetti Pavese rispose entusiasta ad Untersteiner, sostenendo che egli aveva letto i Dialoghi proprio come il poeta sperava che la gente potesse leggerli, ovvero «dipanandone i motivi, interpretandoli»528.

Il saggio junghiano sui rapporti tra psicologia analitica e arte poetica che Pavese fece pubblicare per Einaudi nel 1942 allora potrebbe avergli offerto un solido terreno d’appoggio: se per Pavese il compito del poeta è «esorcizzare i suoi miti trasformandoli in figure»529, ricercare la chiarezza, gettare la luce su un mistero, egli non può comunque eludere la storia, poiché le immagini archetipiche assumono nel corso del tempo diverse configurazioni, come afferma Jung:

L’aspirazione dell’artista è raggiungere il suo incosciente nell’immagine primordiale che potrà compensare nel modo più efficace l’imperfezione e la parzialità dello spirito contemporaneo. Egli s’impossessa di questa immagine, e traendola dalla più profonda incoscienza per ravvicinarla alla coscienza, ne modifica la forma in modo che essa possa essere accettata all’uomo di oggi, a seconda delle sue capacità530.

In questo modo la resa simbolica dei Dialoghi con Leucò sprigiona la sua carica più potente: l’universalità dell’arte è garantita dal fatto che i simboli cui Pavese attinge riflettono il cuore e i sentimenti dell’essere umano e sono, in senso junghiano, archetipi universali che rimandano a «innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate»531.

525 C. PAVESE, Dialoghi con Leucò, cit., p. XVII.

526 Cfr. M. UNTERSTEINER, Recensione a Dialoghi con Leucò, «Educazione Politica», I, nov.-dic. 1947, p. 344. 527 G. BERNABÒ, op. cit., p. 291.

528 C. PAVESE, Lettere 1926-1950, cit., p. 571. 529 ID., Poesa è libertà, in Saggi letterari, cit., p. 303.

530 C.G. JUNG, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella

psicologia moderna, cit., pp. 50-51.

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