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1. Penelope Lively: cenni biografici INTRODUZIONE

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

1. Penelope Lively: cenni biografici

Nel presente elaborato ci si propone di condurre una ricerca sulla figura di una scrittrice britannica ancora poco conosciuta nel panorama critico-letterario italiano, ossia Penelope Lively.

Penelope Low è nata a Il Cairo il 17 marzo 1933, da Roger Vincent Low e Vera Maud Reckitt. Da giovane, suo padre si era trasferito da Londra in Egitto, in quanto all’epoca, in patria, le prospettive di lavoro per la classe media inglese erano decisamente scarse. Penelope passò la maggior parte della sua infanzia in Egitto, tranne qualche viaggio in Inghilterra per far visita ai parenti, e non ricevette una “normale” educazione scolastica in quanto i genitori ritenevano che le scuole vicino al Cairo non fossero sufficientemente attrezzate.

Della formazione culturale della bambina si occupò la sua istitutrice, che seguì le linee indicate dalla Parents’ National Education Union (PNEU)1. L’infanzia solitaria dell’autrice fu accompagnata da una serie di letture che, oltre a compensare i vuoti affettivi, ne stimolarono l’immaginazione e la creatività. La lista delle opere include fiabe e leggende, mitologia greca e nordica e il Vecchio Testamento. Nonostante l’infanzia trascorsa senza amici, Penelope visse

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Si trattava di un sistema para-istituzionale adottato per i figli degli espatriati che vivevano nelle colonie.

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comunque dei momenti felici in Egitto, che ricorderà sempre per i suoi “sights, smells, sounds, tastes”2.

Questo periodo della sua vita fu segnato pure dalla Seconda Guerra Mondiale, che in quegli anni coinvolse anche l’Egitto3. La vista delle truppe britanniche ovunque, i convogli di carri armati e le auto blindate apparivano come normalità ai suoi occhi. Data la sua giovanissima età, Penelope non si rendeva evidentemente conto della portata di eventi simili. Quando iniziò a scrivere uno dei suoi romanzi più importanti, Moon Tiger, ambientato in parte in Egitto durante la campagna di Rommel, ripercorse mentalmente, nella memoria, le varie immagini di guerra.

Contrariamente alla sua infanzia, solitaria ma felice, l’adolescenza di Penelope si rivelò cupa e triste. La guerra finì, i genitori divorziarono e decisero che la ragazzina, allora dodicenne, sarebbe dovuta ritornare in Inghilterra a vivere con la nonna paterna. La madre si risposò subito dopo il divorzio e si trasferì a Malta; quando il padre tornò in patria, ritenne che Penelope dovesse ricevere un’educazione appropriata e la iscrisse a un collegio a Seaford, sulla costa del Sussex. Questo collegio era tuttavia un’istituzione che privilegiava nettamente le discipline atletiche rispetto a quelle accademiche, cosicché Penelope non si trovò mai a suo agio, preferendo la lettura alle attività sportive. Fu il periodo trascorso con la nonna materna nel West Somerset ad aiutarla a sviluppare l’interesse per

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M. Hurley Moran, Penelope Lively, Twayne, New York 1993, p. 8. 3

Il generale Erwin Rommel fu nominato da Hitler comandante delle truppe tedesche in Africa. L’esercito tedesco venne inviato in Libia nel 1941 in aiuto al contingente italiano, cosicché le forze italo-tedesche penetrarono in Egitto cogliendo alla sprovvista quelle britanniche, spinte oltre il confine egiziano. A causa della scarsità di rifornimenti, l’offensiva italo-tedesca finì tuttavia per scardinarsi nei pressi di El Alamein, vicino al Cairo.

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la storia (durante una visita in una vecchia chiesa, ebbe una specie di epifania sull’importanza degli avvenimenti del passato). Un altro elemento di maturazione individuale, rintracciabile sempre nel periodo delle visite alla nonna materna, fu rappresentato dal consolidarsi dell’ottica laica di Penelope, che, avvertendo in sé una propensione all’agnosticismo, si impegnò in discussioni su temi religiosi con la nonna, la quale era invece molto credente. Questa esperienza di dibattito teologico finì per rafforzare nell’autrice l’inclinazione agnostica, percepibile in quasi tutte le sue opere.

Dopo tre anni di collegio, il padre la fece immatricolare in un “crammer”4. Nel 1951 Penelope entrò finalmente al St. Anne’s College di Oxford per studiare Storia, e durante questi anni universitari ebbe una vita sociale molto attiva: “I was rather frivolous: very sociable, but with quite the wrong sort of people – wrong in the sense that I wouldn’t have anything in common with them now”5. La sua formazione si concretizzò grazie allo studio del passato, dei cicli storici e degli approcci esegetici correlati: “reading history totally formed me. It didn’t make me a novelist, but it determined the kind of novelist that I have become”6.

Al di là della laurea, alla fine del loro percorso universitario le giovani donne venivano generalmente indirizzate a seguire un corso di stenografia e battitura a macchina. In quel periodo Penelope non aveva ancora maturato un’idea chiara sul proprio futuro professionale, per cui si iscrisse a una scuola di specializzazione

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La parola “crammer” in inglese si riferisce ad una scuola di preparazione per gli esami, nella quale la didattica è impostata su percorsi densi e mirati.

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Christina Hardyment, “Time Out of Mind: Penelope Lively Talks to Christina Hardyment”, Oxford Today 2, no. 3, 1990, citato in Mary Hurley Moran, Penelope Lively, cit, p. 12.

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tecnica per segretarie e diede lezioni private ai bambini. Sei mesi dopo accettò un posto di Research Assistant nell’ambito delle Race Relations7 al St. Antony’s College, Oxford. Nel 1957 incontrò Jack Lively, impegnato in un progetto di ricerca in scienze politiche, sempre ad Oxford, e sei mesi dopo i due si sposarono. Dopo il matrimonio la sua vita cambiò, in quanto decise di dedicarsi interamente ai suoi due figli, Josephine e Adam. Questi anni trascorsi nella tranquillità domestica la aiutarono altresì ad immergersi nella lettura: “I read my way through twentieth-century literature, as it were, stirring the baby food with one hand and holding a book in the other”8. Fu quando i figli iniziarono a frequentare la scuola che Penelope pensò di intraprendere la carriera di scrittrice: avendo letto molti testi di letteratura per l’infanzia, si appassionò al genere e si cimentò nel campo, tanto che nel 1970 venne pubblicato il suo primo libro per bambini, Astercote. A partire da quella data, avrebbe mantenuto la media della pubblicazione di un libro all’anno e, nel 1977, compose il suo primo romanzo per adulti, The Road to Lichfield. Nonostante la popolarità riscossa, Penelope non cederà mai agli eccessi dell’autoesaltazione, ritenendo che “a writer may have a special skill but he is no different from other people”9.

Nel 1998 la scrittrice è rimasta vedova. Vive tuttora ad Islington, a nord di Londra, ed ha sei nipoti. Nonostante l’età molto matura, continua a dedicarsi proficuamente all’attività creativa. Basti pensare che il suo lavoro più recente,

7 Ibidem. 8 Ivi, p. 14. 9 Ivi, p. 15.

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Ammonites and Leaping Fish, è stato pubblicato nell’ottobre del 2013, quando

l’autrice ha varcato la soglia dell’ottantesimo anno di età.

2. Attività ed opere principali

Penelope Lively è una scrittrice molto produttiva. Come si è già accennato, agli inizi della sua carriera componeva un libro all’anno e si affermò nel campo della letteratura per l’infanzia, finché nel 1977 cominciò a scrivere anche libri per adulti. Oltre a ciò si annoverano sceneggiature per la radio e la televisione, la presentazione del programma radiofonico Treasure Islands, la collaborazione con numerosi quotidiani nazionali e riviste letterarie.

La sua produzione include insomma opere narrative destinate a un pubblico diversificato, racconti, saggi e collaborazioni giornalistiche.

2.1 Narrativa per l’infanzia

La Lively si è appassionata al genere sin da quando ha iniziato a leggere libri per bambini ai suoi figli. A suo avviso, il fascino e l’interesse di questa letteratura risiedono nel fatto che “[s]uch writing recognises the child’s own unconstructed vision. Why shouldn’t animals talk? As adults, we live within the straitjacket of accepted and defined reality; the child does not. Each child sees the world freshly, without preconceptions and without assumptions; the best writing for

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children, while incapable of recovering that vision, can at least acknowledge and respect it”10.

L’autrice imposta dunque le proprie narrazioni focalizzandosi principalmente sulla visione che del mondo avrebbero i bambini, sulle loro domande e il loro cavalcare sulle ali della fantasia, proponendosi però anche di espanderne gli orizzonti in senso realistico e renderli consapevoli del passato storico (alcuni di questi suoi libri anticipano dunque tematiche sviluppate nella narrativa per adulti).

Il rapporto tra passato e presente si concretizza qui attraverso l’introduzione di fenomeni inspiegabili, apparentemente di natura sovrannaturale, al cospetto dei quali il protagonista, in genere un bambino di dieci o dodici anni, si trova a dover risolvere un mistero o una problematica avvalendosi di chiavi interpretative legate al passato. Questi fenomeni consistono infatti solitamente in “manifestazioni” provenienti dal passato del paese in cui il bambino vive. Per superare la difficile prova, il personaggio dovrà chiedere aiuto a coetanei o a persone adulte, ma saranno immancabilmente i bambini a risolvere la situazione, anche se gli adulti, estraniati dalla logica del sovrannaturale e dei flussi temporali, non ne riconosceranno le gesta eroiche.

Gli scritti per bambini della Lively possono essere suddivisi in due diverse categorie, la prima destinata ai lettori di una fascia d’età compresa tra i sette e i dieci anni, e la seconda rivolta ai ragazzini tra gli undici e i quindici anni. Al primo gruppo appartengono ad esempio The Voyage of QV66, Boy without a Name,

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Fanny Books, Dragon Trouble, Debbie and the Little Devil, Uninvited Ghosts and Other Stories, Astercote, The Ghost of Thomas Kempe, The Driftwa, The Whispering Knights. In alcuni di questi testi i protagonisti sono animali parlanti e,

nella maggior parte dei casi, le storie sono ambientate nel passato anziché nella contemporaneità. Per esempio, Boy without a Name cala lettore e personaggi nell’Inghilterra del XVII secolo e ricostruisce con l’immaginazione le vicende di un orfano che non conosce nulla del mondo che lo circonda. In The Ghost of Thomas

Kempe, l’autrice affianca il contesto del XVII secolo a quello del XX, sottolineando

come i bambini possiedano facoltà psicologiche e mentali capaci di proiettarli più facilmente in territori e dimensioni che un adulto giudicherebbe incompatibili o frutto di allucinazioni. Lo scopo della Lively sembra essere quello di incoraggiare in tal modo i bambini a confrontarsi con aspetti e momenti del passato storico.

Il secondo gruppo di testi include due volumi per ragazzi: The House in

Norham Gardens e Going Back. Entrambi anticipano le tematiche dei libri per

adulti pubblicati qualche anno dopo, tanto che la casa editrice Penguindecise nel 1991 di includere Going Back nella serie destinata a un pubblico più maturo.

2.2 Romanzi

Penelope Lively ha al proprio attivo diciassette romanzi. Nell’avvicinarsi a questa sezione del suo macrotesto, si nota immediatamente come l’autrice elabori fabula e motivi intrecciando un dialogo profondo con la Storia, la memoria e l’immaginario, accostandosi talora a forme di contaminazione affini a

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quelle del “metaromanzo storiografico”11 postmoderno, con “its theoretical self-awareness of history and fiction as human constructs” e il conseguente percorso volto al “rethinking and reworking of the forms and contents of the past”12.

La sua prosa narrativa si concentra soprattutto sulla relazione tra il passato e la memoria e su come gli eventi trascorsi e l’archivio dei ricordi (individuali e collettivi, personali e documentari) possano incidere e perfino trasformare la percezione della realtà quotidiana. Questa prospettiva informa la maggior parte delle sue opere romanzesche, tra le quali The Road to Lichfield, Treasures of

Time, Perfect Happiness, According to Mark, Moon Tiger, City of the Mind, The Photograph, Making It Up e Consequences.

The Road to Lichfield (1977), il suo primo romanzo, figurò nella rosa dei

candidati per il Booker Prize. La vicenda ruota intorno alla quarantenne Anne Linton, insegnante di Storia part-time il cui padre, James, alloggia in una casa di riposo a Lichfield ed è ormai ridotto in fin di vita. Le precarie condizioni del padre portano Anne a percorrere molto spesso la strada per Lichfield e a dedicarsi quasi completamente a lui. Durante le visite si verificano una serie di eventi che la disorientano psicologicamente; la sua visione della realtà si trasformerà quando la donna verrà a scoprire la scioccante verità sulla vita del padre. Mettendo in ordine i documenti del genitore e gli estratti conto della banca, Anne, a poco a poco, inizia a sospettare trascorsi inquietanti, poi confermati

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Il termine “historiographic metafiction” è stato coniato dalla studiosa canadese Linda Hutcheon, in particolare all’interno del suo studio A Poetics of Postmodernism, Routledge, New York 1988.

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Questo concetto più generale è stato elaborato da Bran Nicol, Postmodernism and the Contemporary Novel: A Reader, Edinburgh University Press, Edinburgh 2002, p. 303.

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anche dal fratello Graham: ossia, il padre James, che apparentemente ha condotto una vita tranquilla e dignitosa di uomo di famiglia, ha coltivato per anni una relazione clandestina terminata con un divorzio, contribuendo al mantenimento della madre dei suoi figli. Questa scoperta scuote Anne, ma, paradossalmente, lei stessa precipiterà in una situazione molto simile a quella vissuta da James, in quanto la protagonista intreccia parimenti una relazione extraconiugale e finisce per condurre una doppia vita. Per la passionale e loquace Anne, sposare una persona fredda e taciturna come Don Lindon, i cui interessi principali erano avere successo nella carriera legale e trasferirsi in una casa più lussuosa, è stato evidentemente un errore. La vita della protagonista subisce una svolta quando conosce David Fielding, ex vicino di casa del padre e insegnante di Storia. I due furono subito attratti dal punto di vista erotico cosi come dall’interesse comune per le discipline storiche. Quando questa relazione clandestina viene scoperta dai rispettivi compagni, i due decidono di reintegrarsi nel mondo delle convenzioni, soffocando le pulsioni interiori in nome di una rispettabilità conformista.

Treasures of Time (1979), il secondo romanzo della Lively, si focalizza sulle

esperienze del biografo Tom Rider, il quale sta studiando la vita di un antiquario del XVIII secolo (si tratta dunque di un’investigazione biografica su un soggetto che si era a sua volta appassionato alla Storia e ai suoi “tesori”). Tom passa le sue giornate al British Museum a documentarsi, finché non potrà evitare di riflettere su come la “miniera” del passato sia oggetto di scavi ermeneutici che talvolta rischiano di contaminarla con un abuso e un saccheggio di informazioni su cui

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costruire ipotesi. Il tema più importante del romanzo ci spinge a riflettere su come l’individuo possa risultare suggestionato dal passato archeologico. La vita di Tom si intreccia infatti con quella dell’influente famiglia del celebre archeologo Hugh Paxton, in quanto il protagonista si fidanza con Kate (figlia del defunto Hugh), la quale lavora in un museo e ha ereditato dal padre l’interesse per l’archeologia. Le vicende ruotano attorno alla tenuta rurale dei Paxton, Danehurst, in cui risiedono la vedova Laura, moglie di Hugh Paxton, e la sorella di quest’ultima, Nellie, anche lei archeologa ed ex collega di Hugh. La competitività e la gelosia tra le due sorelle, Nellie e Laura, e la relazione tormentata tra Kate e Tom costituiscono altri elementi catalizzatori dell’intreccio. Durante una visita di Tom e Kate alla tenuta, Laura annuncia che la BBC ha deciso di dedicare un intero documentario alla vita e alla carriera di Hugh. Kate e Nellie rifiutano l’idea di divulgare il lavoro dell’archeologo, perché ciò rischierebbe di banalizzarlo, ma Laura decide di accettare. La carriera di Hugh diventa cosi un tema fondamentale nelle conversazioni dei personaggi, ed è proprio in questo punto dell’opera che l’autrice ha modo di soffermarsi sugli aspetti tecnici dell’archeologia e sulla storia di teorie e tendenze critiche connesse. Tom è molto affascinato dall’esplorazione degli studi di Paxton, tanto che fornisce il titolo per il documentario, “Treasures of Time” e, dopo la rottura del fidanzamento con Kate, decide di accettare l’offerta di lavoro della BBC come assistente nei programmi incentrati sui documenti storici.

Perfect Happiness (1983) descrive la lenta ripresa di Frances Brooklin dopo

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amicizie. Penelope Lively adotta anche in questo romanzo una voce narrante in terza persona, capace di calarsi nella dimensione di punti di vista diversi e prospettare ripetizioni frequenti di uno stesso episodio, analizzato, in maniera caleidoscopica. L’effetto di questo approccio è volto a rivelare la personalità e l’animo dei personaggi. Si scoprono infatti, grazie a questo tipo di tecnica narrativa, le notti che Frances ha trascorso lottando con la solitudine ed il dolore e il terrore di Zoe (sua cognata) quando ha scoperto e affrontato da sola il cancro. Perfect Happiness, con il suo titolo ironico, delinea un ritratto intimo e partecipe delle vite emotive dei protagonisti. La scrittrice suggerisce qui come la potenza della memoria e del tempo agisca sul piano interiore e psicologico piuttosto che dispiegarsi in modo lineare.

According to Mark (1984), sesto romanzo, figurò nella rosa dei candidati per il

Booker Prize. Mark Lamming, rispettabile biografo, conduce una vita tranquilla a Londra insieme alla moglie Diana. Egli sta scrivendo una biografia su Gilbert Strong, un saggista conservatore di inizio Novecento e, al fine di ottenere informazioni su questo autore, decide di far visita alla nipote di Strong, Carrie, a Dean Close. Dopo la prima notte trascorsa in questa casa, Mark si accorge di provare una strana attrazione per la nipote di Strong, con la quale avrà una relazione. Inizia poi la fase della ricerca scientifica da parte del biografo, che sarà indotto a ridimensionare la statura del saggista, in quanto i diari ne rivelano uno scrittore cinico e donnaiolo, disposto a tutto pur di avere successo. Durante ulteriori investigazioni in Francia, dove risiede la madre di Carrie, non riusce a reperire nessuna informazione utile o “correttiva”, finché non individua un

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raccordo con Porlock, noto villaggio a nord dell’Inghilterra, dove scopre una serie di lettere che Strong aveva spedito ad una donna di nome Irene. Queste lettere svelano un aspetto più intimo del biografo, profondamente innamorato di Irene, la quale sarebbe tuttavia morta poco tempo dopo il loro incontro, lasciando una ferita aperta nel suo animo. Nel romanzo prevale l’idea che ogni “racconto” sulla vita di una persona sia sempre parziale, poiché il punto di vista dei “testimoni” risulta limitato, vuoi per le prove insufficienti, gli spazi vuoti e le omissioni nei diari e nella corrispondenza, vuoi per le fuorvianti impressioni create ad esempio dalle fotografie. Coloro che dovrebbero testimoniare sulla vita di Gilbert Strong vengono inoltre influenzati da una serie di fattori sia personali che professionali, cosicché Mark arriva alla conclusione che una persona può avere diverse vite, a seconda di come la si interpreta. Il lettore non verrà mai a conoscenza di come si configurerà la biografia su Gilbert Strong di Mark Lamming, poiché il romanzo si conclude prima che egli cominci a scrivere: l’unica cosa certa è che non si proporrà come un resoconto oggettivo sulla vita di Strong, ma sarà la vita di Strong “according to Mark”, in cui eco semi-ironico della formula evangelica.

Moon Tiger (1987), vincitore del Booker Prize e uno dei testi qui presi in

esame, è senza dubbio un’opera rilevante da vari punti di vista. Come si vedrà, la narrazione ha per protagonista Claudia Hampton, storica e giornalista inglese che, sul letto di morte, decide di raccontare la sua vita – familiare, professionale, affettiva – attraverso una complessa operazione di ricostruzione anamnestica. In questo romanzo, la Lively prosegue nella sua sperimentazione narrativa con maggiore padronanza rispetto agli altri testi, con effetti molto apprezzabili. La

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complessa struttura narrativa poggia su un impianto polifonico e su contaminazioni dei livelli temporali che fratturano il tempo cronologico. La vita di Claudia si configura agli occhi del lettore-interprete come un vero e proprio mosaico, dalle cui tessere emerge la rilevanza del tempo psicologico per la coscienza e per le sfaccettature della verità.

In City of the Mind (1991), Matthew Halland, architetto londinese, appare immerso nel suo lavoro e affascinato dal paesaggio e dalla città di Londra, tanto da aver sviluppato una capacità straordinaria di proiezione nella geografia urbana, in cui percepisce la “tangibile presenza” della Storia. Dal titolo si evince come il tema più importante del romanzo sia il passato della capitale, filtrato e rivisitato nella mente di un osservatore appassionato. Matthew, come la stessa Lively, possiede un buon bagaglio storico-culturale, al quale si alternano però momenti di anarchia, incertezza e perfino di immaginazione eidetica. Per esempio, guidando per la città, intravede “for a moment, in the mind’s eye, a sequence of bodies toppling from buildings, squashed under brick and stone and timber Roman slaves, squat medieval peasants, eighteenth-century labourers”13. Come succede ai protagonisti di altri romanzi, Matthew ha qui dei momenti visionari, in cui immaginazione e realtà storica si fondono “plasticamente”.

Nel successivo The Photograph (2003), un indizio agirà da catalizzatore per l’indagine personale e autobiografica di Glyn Peters dopo la morte della moglie Kath: partendo dal ritrovamento di una fotografia in soffitta, egli scopre il tradimento di lei ed intraprende così un viaggio a ritroso nel tentativo di

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Penelope Lively, City of the Mind, Andre Deutsch, London 1991, citato in Mary Hurley Moran, Penelope Lively, cit, p. 147.

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comprendere, anche se ormai in absentia, la vera natura della donna, che evidentemente non ha mai conosciuto fino in fondo. La Lively cerca di capire cosa avviene quando una persona scava così a fondo nel passato anche se il rischio di precipitare nel solipsismo è arginato dall’organizzazione dell’opera dove ogni capitolo è descritto dal punto di vista di uno degli amici, parenti o conoscenti di Kath. Ciò che appare da questa panoramica di prospettive è tuttavia la solitudine della protagonista come se, nessuno dei personaggi avesse realmente conosciuto e capito Kath. L’affondo caleidoscopico della Lively porta, in questo caso, al confronto con un tragico evento associato a ricordi cupi. Il presente romanzo, come Moon Tiger, verrà preso in esame in modo più approfondito nei capitoli seguenti.

Making It Up (2005), il cui titolo pone già in primo piano l’elemento

affabulatorio dell’invenzione, è stato definito dalla stessa Lively come un “anti-memoir”14. Qui la scrittrice avrebbe esplorato strade non ancora intraprese, immaginando come fosse stata la sua vita se avesse privilegiato percorsi diversi. Una nave che viaggia verso Cape Town durante la Seconda Guerra Mondiale, uno scavo archeologico negli anni Settanta e il Cairo nei primi anni Cinquanta: questi sono alcuni dei percorsi che Penelope non ha mai iniziato e, in questo romanzo, ipotizza cosa sarebbe potuto succedere. Concludiamo questa sintetica rassegna con un accenno a Consequences (2007), ad oggi il suo terz’ultimo romanzo. Lorna e Matt si incontrano nel 1935 a Londra, lui artista in cerca di affermazione e lei proveniente dall’upper-class londinese. Il matrimonio li porta a vivere in un

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http://www.penelopelively.net/ (nella sezione dedicata a Making it Up) consultato in data

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cottage nel Somerset e la loro convivenza viene allietata dalla nascita della figlia Molly. Nel 1941, però, Matt perderà la vita tragicamente a Creta, mentre combatte contro i tedeschi, e Molly decide di seguire la madre a Londra, quando la donna è in procinto di sposare il socio di Matt, Lucas. A sua volta Lorna morirà di parto dando alla luce Simon, cosicché Molly si ritrova con la sua nuova famiglia, composta dal fratello e dal patrigno, che saprà infonderle coraggio e determinazione. La giovane deciderà infine di non sposare James, un uomo facoltoso con il quale ha concepito una figlia, Ruth. Quest’ultima è forse la figura più interessante del romanzo, vista la ricerca da lei condotta in merito alle proprie origini e alla propria identità, alle radici storiche e familiari, alla verità sulle coraggiose scelte sentimentali compiute da sua nonna Lorna e sua madre Molly15. Il romanzo è dunque essenzialmente incentrato sulla storia di tre donne (madre, figlia e nipote) appartenenti a generazioni diverse ma legate fra loro, secondo una logica “consequenziale”, da scelte di vita “ribelli” proiettate sullo sfondo della città di Londra, dagli anni Trenta agli anni Novanta16.

2.3 Racconti

Sin dai suoi esordi artistici, Penelope Lively si è dedicata in vari momenti alla stesura di racconti. I suoi primi quattordici testi vennero pubblicati nel 1978 in una raccolta intitolata Nothing Missing but the Samovar. Le sue storie sono

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Crf. http://www.sololibri.net/Tre-vite-di-Penelope-Lively.html consultato in data 01/02/2014. 16

Per un’indagine più approfondita su questi romanzi di Penelope Lively, fino a City of the Mind, si veda in particolare la monografia di Mary Hurley Moran, Penelope Lively, cit. (soprattutto le pp. 29-151). Tra i titoli che non abbiamo citato, figurano: Judgment Day (1980), Next to Nature, Art (1982), Passing on (1989), Cleopatra’s Sister (1993), Heat Wave (1996), Spiderweb (1998), Family Album (2009), How it All Began (2011).

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apparse anche in vari periodici, tra cui Encounter, Vogue, Cosmopolitan, Good

Housekeeping, Options, The Observer, Women’s Own e la Literary Review, e di

alcune è stata data pubblica lettura nelle trasmissioni radiofoniche della BBC e da un’emittente australiana (la Australian Radio).

Al 1984 risalgono le undici storie costituenti Corruption, mentre nel 1986 un unico volume contenente trentaquattro racconti (inclusi quelli apparsi nella prima e nella seconda raccolta) fu pubblicato con il titolo di Pack of Cards.

La Lively sposa la tesi secondo la quale la narrativa breve risponde a principi compositivi diversi rispetto al romanzo, in quanto si incentra su tranche de vie e su un’intensificazione del momento, del singolo episodio, del dettaglio significativo e rivelatore, cosicché, alla fine, il lettore parteciperebbe in modo più diretto all’esperienza epifanica del protagonista. Le storie dell’autrice si correlano però anche all’elemento della memoria, mostrandosi “pungenti” ed evocative. A suo avviso,

[in] its very structure the short story has an eerie relationship with the process of memory […] It holds up for inspection an incident, a relationship, a situation […] and draws therefrom, either obviously or in some quite oblique manner, a significance. It may carry resonances about events beyond the parameters of the story, but it is self-contained: within its own circumference it tells us all we need to know, if it is doing its job properly. And is that not a paradigm for a memory? An episode within the mind that appears an isolation, significant perhaps in a wider context, but complete in itself.17

La Lively rivisita all’interno di questi racconti ricordi personali e immagini del passato, in chiave più dichiaratamente autobiografica. In particolare, il trasferimento durante il periodo pre-adolescenziale dall’Egitto all’Inghilterra rimase impresso nella vita della scrittrice, che ha deciso di prenderne spunto per

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Penelope Lively, “Fiction and Reality: The Limitations of Experience”, Walberberg Conference organized by the British Council, Calogne, West Germany, January 1980, cit. in Mary Hurley Moran, Penelope Lively, cit., p. 23.

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una serie di storie. In una di queste, “A Clear Death”, viene messo in scena un velato resoconto delle vacanze trascorse con i parenti, critici nei confronti delle riserve di Penelope sulle “rigide” norme sociali accolte dal popolo inglese. La scrittrice offre, dunque, una chiara impressione dello spaesamento, delle difficoltà e l’isolamento che la protagonista Carol, di 14 anni, avverte nella dimensione insulare britannica, troppo lontana dalla sua adorata India.

L’autrice rivolge particolare attenzione a tematiche che saranno poi sviluppate in modo più approfondito nei romanzi, in particolare il tempo e i processi della memoria. “Venice, Now and Then” mette in tal senso a fuoco la fenomenologia complessa con cui la nostra memoria si intreccia con la coscienza del presente. La tecnica qui utilizzata - con un’alternarsi di flashback, di narrazione in prima persona e terza persona - fa trasparire come il passato costituisca uno sfondo imprescindibile nella nostra coscienza, tanto che il nostro ricordo di un evento può subire variazioni in prospettiva alla luce di eventi successivi, oltre al fatto che due persone non vivono e percepiscono l’accaduto nello stesso modo.

La narrativa breve di Penelope Lively ingloba comunque una varietà di storie diverse fra loro, includendo racconti non convenzionali e macabri, satirici, storie che hanno come tema il tempo, la memoria e la soggettività.

2.4 Saggi

Durante la sua carriera, l’autrice ha pure composto quattro saggi, i quali sono anche scritti autobiografici. Il primo, pubblicato nel 1976 con il titolo The

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luce sull’idea sfaccettata che la Lively coltiva della Storia. Lo studio si colloca sulle orme del passato britannico, soffermandosi in particolare sulle peculiarità del paesaggio, l’architettura, i nomi delle località e i tratti linguistico-dialettali. La scrittrice ricorre qui alla metafora del “palinsesto” per descrivere una serie di confluenze isotopiche e identitarie, sottolineando inoltre l’importanza del preservare i luoghi e gli edifici storici per scongiurare l’oblio. Il sottotitolo del libro, “An Introduction to Landscape History” aspira ad incuriosire sia i lettori giovani che i più maturi, cercando di stimolare la loro attenzione con una varietà di esempi relativi ai resti rimasti visibili nel territorio. Una vasta gamma di reliquie provengono da tombe, fortezze, strade, chiese, borghi medievali deserti, ponti, edifici, stazioni ferroviarie e siti di industrie minerarie. Il libro testimonia come sia cambiato il territorio, ma anche come certe influenze siano ancora percepibili, in una rete dove i secoli sembrano intrecciarsi l’uno con l’altro, cosicché

history is not a static, settled affair, but something that shifts and changes as new evidence comes to light and as a new generation takes up a different attitude. We do no look at the Middle Ages in the same way as the Victorians did; the Renaissance of the sixteenth century was based on a new set of attitudes towards the ancient world. And the same evidence, to different historians, will seem to point to different explanation18.

Oleander, Jacaranda: A Childhood Perceived (1994) è un saggio in parte

autobiografico in cui la Lively alterna flashback autoreferenziali riguardanti l’infanzia in Egitto con riflessioni di carattere generale sul periodo dell’infanzia stessa. La sua è una meditazione sulle percezioni, le gioie e anche i dubbi o lo

18 Penelope Lively, The Presence of the Past: An Introduction to Landscape History, 1976, cit. in Kerstin Ebel, "Something that people can't do without". The Concepts of Memory and the Past in the Work of Penelope Lively and Other Contemporary British Writers, Universitätsverlag, Winter, Heidelberg 2004, p. 352.

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spaesamento esperiti da un individuo nei primi anni di vita. Molte delle sensazioni e degli attimi trascorsi durante l’infanzia sono stati messi scrupolosamente a fuoco dalla scrittrice, cosicché il saggio appare un’eloquente esplorazione di identità. Peculiare è poi l’associazione che l’autrice fa tra i luoghi e gli oggetti, gli odori o gli eventi; la città di Gerusalemme viene ad esempio collegata all’incenso, Mount Carmel ad un albero, The Mount of Olives a due tartarughe, Tel Aviv ad una spiaggia affollata, la città di Jeffa ad una macchina guasta. Il saggio si conclude nel momento storico del divorzio dei genitori e il trasferimento di Penelope in Inghilterra19.

Il suo penultimo saggio, A House Unlocked (2001), pone al centro della scena la famiglia di Golsoncott, nel West Somerset, eleggendola a “palinsesto della memoria”, ad un archivio umano costellato di ricordi storici e personali: “I thought that I would see if the private life of a house could be made to bear witness to the public traumas of a century”20. Dunque, l’autrice esplora ancora una volta uno dei suoi temi preferiti, ossia la dialettica tra le storie personali e quelle collettive (come aveva fatto ad esempio Virginia Woolf in The Pargiters), utilizzando la casa di Golsoncott come spunto per un’analisi sul tempo e sul cambiamento, sulla guerra e sulla pace, sulla città e sul paese. A tal proposito, il giornalista Brian Martin nell’articolo “The Country House that History Built” (pubblicato sul Financial Times nel 2001), ha sostenuto: “This book helps define one of our leading novelists. It runs the risk of self-indulgence, stuffed full of

19 Cfr.

http://dovegreyreader.typepad.com/dovegreyreader_scribbles/2008/01/oleander-jacara.html consultato in data 22/02/2014.

20

Kerstin Ebel, "Something that people can't do without". The Concepts of Memory and the Past in the Work of Penelope Lively and Other Contemporary British Writers, cit., p. 31.

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memories, nostalgia, reminiscence, comment prompted by the past”21. Nel secondo capitolo, per esempio, viene evocato il ritratto di sei bambini raffigurati su un ricamo realizzato dalla nonna, e da questa immagine si parte per descrivere l’evacuazione nella quale la famiglia venne coinvolta durante il periodo della guerra. Nel primo capitolo si descrive il primo viaggio e le stazioni ferroviarie; nel terzo primeggia il motivo della chiesa in generale e delle chiese di paese; nel quarto vengono narrate le vicende degli sfollati stranieri in Gran Bretagna nel contesto della Seconda Guerra Mondiale; nel quinto ci si focalizza sul giardinaggio, la caccia e la divisione tra città e paese; nel sesto e nel settimo sono protagonisti la città di Oxford negli anni Cinquanta e il matrimonio e i figli; per concludere, nell’ottavo capitolo vengono delineate le differenze di classe all’interno della società.

Ammonites and Leaping Fish è infine uscito nell’ottobre del 2013, quando

l’autrice ha varcato la soglia degli ottant’anni. Durante la mia intervista del 10 febbraio 2014, l’opera è stata da lei definita come “[a] view from old age”22, ossia una descrizione del tempo, della vita e dell’archeologia realizzata con la ponderatezza e la lucidità dell’età più matura, ripercorrendo i periodi più importanti della sua esistenza: da bambina aveva conosciuto i disastri della Seconda Guerra Mondiale in Egitto, l’austerità del dopoguerra in un collegio a Seaford in Inghilterra e, durante la Crisi del Canale di Suez, aveva ottenuto un posto di Research Assistant ad Oxford. La Lively intreccia all’interno di questo suo saggio le vicende personali con la successione degli eventi storici, ricordando

21

Cit. Ibidem. 22

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25

pure il matrimonio con lo storico e teorico politico Jack Lively, celebrato un anno dopo la Crisi del Canale di Suez23. In questo tipo di memoriale l’artista riflette sul vantaggio offerto dalla tarda età, come ci consente di volgere lo sguardo indietro nel tempo e divenirne testimoni.

2.5 Radio, TV, giornalismo e riconoscimenti pubblici

L’autrice si è occupata anche di radio, TV e giornalismo. Ha recensito e scritto articoli per l’Encounter, il Sunday e il Daily Telegraph, l’Independent, The Times, il

Sunday Times, l’Observer, il New York Times, Books and Bookmen, The Literary Review, The Times Educational Supplement, The Standard e altri giornali e

quotidiani. Ha anche composto delle sceneggiature per la radio e la TV e presentato un programma sulla letteratura per bambini a Radio 4, intitolato

Treasure Islands.

Penelope Lively è membro della Royal Society of Literature e fa parte della Society of Authors, di cui è stata presidente. È anche ex membro dell’Arts Council Literature Panel e del Board of the British Library. Nel 1989 è stata insignita del titolo di Officer of the Order of the British Empire (OBE), nel 2001 di quello di Commander of the Order of the British Empire (CBE) e nel 2012 è diventata Dame Commander of the Order of the British Empire (DBE).

Bisogna infine ricordare i numerosi premi letterari. Quello più prestigioso, il Booker Prize, le è stato consegnato nel 1987 grazie a Moon Tiger, candidato anche al Whitbread Award. Nella rosa per il Booker Prize sono poi comparsi The

23

Cfr.

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26

Road to Lichfield e According to Mark. Treasures of Time and Nothing Missing but the Samovar hanno vinto rispettivamente l’Arts Council National Book Award e il

Sothern Arts Literature Prize. The Ghost of Thomas Kempe ha ottenuto la Carnegie Medal, A Stitch in Time il Whitbread Award e Family Album è stato candidato al Costa Prize24.

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CAPITOLO PRIMO

IL TEMPO E LA MEMORIA

1. Alcune concezioni e definizioni di Tempo tra antichità e

contemporaneità

Il tema del tempo è senz’altro un argomento molto ampio e complesso da affrontare, con radici che affondano nella riflessione filosofica e il coinvolgimento di una varietà di questioni articolate. Il tempo è una delle entità intorno alle quali ruotano la nostra vita e il nostro panorama culturale, ed ha dunque un significato sia esistenziale che sociologico. Esso può altresì essere percepito in modo diverso da una comunità all’altra, ma soprattutto ha assunto ruoli differenziati in base alle epoche e alle culture. Il tempo è anche un referente imprescindibile per il concetto di movimento, di cambiamento e per il principio di causalità.

Un aspetto rilevante riguarda la “grammatica” della temporalità ed il suo essere legata a due caratteristiche fondamentali, quella del fluire e quella del

permanere. La retorica del divenire o del fluire è spesso associata ad immagini a

noi ben note, quali il fiume che scorre, la sabbia che cade nella clessidra, la fiamma che consuma la candela; a queste si oppone l’immagine delle lancette, che, per quanto debbano muoversi di continuo, non abbandonano mai la “permanenza” nel quadrante (la loro posizione è in qualche modo predeterminata dalla struttura del meccanismo). Quello che caratterizza il

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passare del tempo non è solo il continuo fluire, ma anche il delinearsi di un’organizzazione, l’affiorare di orizzonti epistemici. Ogni evento si lega infatti ad una porzione temporale che trova assestamento e significato. A questo si accompagna una successione ordinata di luoghi, collocati mentalmente secondo il criterio del “prima” e del “dopo”; non è raro che si pensi metaforicamente al tempo come a una serie di luoghi che ospitano gli eventi. I singoli avvenimenti si susseguirebbero e sarebbero in rapporto l’uno con l’altro, a seconda che vengano correlati, in base a una scansione ciclica, periodica o diacronica, all’evoluzione delle cose.

Il panorama di prospettive resta comunque variegato. Secondo la filosofia eraclitea, ad esempio, il tempo non sarebbe altro che un fanciullo che gioca spostando i dadi, all’insegna di un perpetuo mutamento25. Ad ogni lancio dei dadi si configurerebbe un nuovo sfondo del mondo, una diversa rappresentazione dei fatti, che, però, si disgrega quando i dadi vengono raccolti e stretti in pugno, per poi assumere un nuovo profilo quando si distribuiranno di nuovo sul tavolo. Facendo sempre riferimento ad Eraclito, egli utilizza la metafora del sole, che, sorgendo, si rinnova ogni giorno. Il sole dà ordine ai giorni e misura il tempo; il “sole nuovo” indicherebbe dunque il presente, il movimento e il divenire, uno “ora”. I giorni e le date segnate nel calendario finirebbero per scomparire in vista dell’unità di un giorno nuovo che sempre si ripete; è tutto, dunque, un eterno ritorno.

25

Per queste osservazioni sul pensiero eracliteo si è tratto spunto da Paolo Spinicci, Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, CUEM, Milano 2004, p. 13.

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Facendo un ampio salto cronologico, ricordiamo che nel pensiero filosofico di Plotino il tempo ci apparirà come un’ ”entità inquieta” che, invece di accogliere in sé la calma e la tranquillità dell’Essere, si lascia pervadere dall’Anima e dalle sue tensioni. Esso si pone tuttavia come immagine dell’Eterno, allorché, passo dopo passo, la sua forma disgregata si compatta in unità, facendoci percepire il senso ultimo delle cose, un orizzonte unitario. Alla compiutezza dell’Essere continua comunque ad opporsi il “non-appagamento” dell’Anima, la quale plasma il mondo sensibile a immagine di quello intellegibile, rendendolo mobile; essa temporalizza se stessa e trasforma quindi il tempo in surrogato dell’eternità. L’immagine finale che Plotino disegna relativamente al mondo e al tempo è alquanto amara, poiché la dimensione terrena finisce per assomigliare a una sorta di scena teatrale dove, per connotarsi di un senso, il mondo deve assumere le forme di una finzione. In conclusione, il tempo non sarebbe soltanto l’immagine dell’eternità, ma anche una sua “pantomima”; l’impianto neoplatonico del pensiero di Plotino contrappone notoriamente il caos e la frenesia dell’universo fenomenico alla razionalità del Pensiero e dell’Uno, da cui deriva il molteplice26.

Tutto ciò ci rimanda a una delle prime e importanti riflessioni filosofiche sul significato e sulla percezione del tempo, ovvero a uno degli ultimi dialoghi di Platone, il Timeo, scritto verso la metà del IV secolo a.C. Dal punto di vista cosmologico e cosmogonico, il libro si concentra sulla creazione del mondo da

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parte di un dio demiurgo che avrebbe plasmato la materia a somiglianza delle idee, conferito un’anima al mondo e generato il tempo, uno dei nuclei centrali della dottrina platonica e immagine traslata dell’eternità. Nella voce di Timeo, Platone affianca al tempo gli astri, ossia una costellazione corrispondente a un modello-immagine (prototipo di una relazione siglata tra idee e cose sensibili). A differenziare il mondo umano da un Eterno perfetto e compiuto è ovviamente la mutevolezza, un divenire in relazione al quale il tempo è appunto un’ “immagine mobile” di una dimensione superiore.

Il demiurgo realizzerebbe il mondo come “divino animale” dotato di anima e ragione, e l’essenza dell’anima sarebbe tale da avvicinarla sia alle idee che alle cose sensibili. L’anima, inserita al centro della massa sferica, risiede nei corpi ma “riempie” tutto il mondo, in una dinamica coordinata dal dio demiurgo. Questi crea due cerchi i cui contorni si incrociano in punti opposti, ossia l’equatore celeste, che è unitario, e l’eclittica, immaginaria traiettoria solare divisa in sette cerchi concentrici. I sette cerchi, o moti dell’anima, produrrebbero sempre costellazioni nuove e “diversità” dell’anima da se stessa. Il demiurgo avrebbe collocato sui sette cerchi i sette pianeti (il sole, la luna e gli altri cinque); la luna indica il mese e il sole l’anno. La misura del giorno e della notte è data dalla rivoluzione circolare del cielo con le stelle fisse, ossia dalla rivoluzione della terra. Il divino artefice avrebbe reso più visibile all’uomo tale misura accendendo una luce che schiarisce tutto il cielo, cosicché la rivoluzione celeste diventò visibile all’uomo sia come luce del sole, sia come assenza di questa luce; l’umanità

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avrebbe quindi appreso dal sistema numerico come contare con l’aiuto della luce del sole.

All’interno di questa teoria relativa alla nascita del mondo e al delinearsi della rivoluzione celeste, Platone descrive il tempo come “una eterna immagine che va secondo numero”27. Egli introduce prima le “parti” e poi le “specie” del tempo: le prime sarebbero i giorni, le notti, i mesi e gli anni; le seconde consisterebbero nell’ “era” e nel “sarà”, ossia nel passato e nel futuro dell’uomo. Le specie vengono chiamate “movimenti”, e sono quindi conosciute come entità mobili, mentre le parti sono associate al “numero”, suddivise in tempi singoli. Si tratta di due dimensioni correlate: se il tempo ci appare in una delle due specie dell’ “era” o del “sarà”, anche le parti vi si richiameranno, per cui ogni specie è composta da parti temporali. Come si è detto in precedenza, la definizione platonica del tempo poggia sul concetto di un movimento secondo numero; nella direzione del passato e del futuro, l’anima “conterebbe” gli elementi delle rivoluzioni che circolano davanti al suo centro stabile ed eterno. Per concludere queste brevi riflessioni sul pensiero platonico, si può affermare che l’idea del tempo rimandi a un contare dell’anima in due direzioni opposte, le quali risponderebbero però a un criterio di matrice pitagorica: al senso di un movimento circolare uniforme periodico (ripreso appunto dall’idea pitagorica) Platone avrebbe conferito unità, numero ed eternità28.

27 Platone, Timeo, citato in Enrico de Angelis (a cura di), Undici conferenze sul tempo, Jacques e i

suoi quaderni, vol.11, 1988, p. 9.

28

Diversa fu invece la posizione di Aristotele, che nella Fisica collegò il tempo al ritmo del moto, di cui il tempo stesso sarebbe stato misura.

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A quella che nel Seicento sarebbe diventata una riduzione meccanicistico-materialistica del concetto di tempo, il filosofo tedesco Immanuel Kant rispose, nella sua Critica della ragion pura, con una tesi che correlava il tempo a un “ordine di causalità”. Spazio e tempo vennero intesi da Kant come principali categorie dell’intelletto, “forme a priori” della conoscenza, ossia forme “pure” che esistono prima di ogni esperienza, necessarie e universali. Secondo Kant, tuttavia, erano “pure” solo le “intuizioni sensibili” (appartenenti all’Estetica trascendentale), e non quelle empiriche, “contaminate” dalle contraddizioni della realtà. Dunque, le “intuizioni sensibili” costituivano la strada maestra per percepire “a priori” anche le realtà di spazio e tempo.

Friedrich Hegel si sarebbe distanziato dal pensiero kantiano, sostenendo che le “intuizioni” fanno parte della Psicologia, della sfera relativa all’uomo che “sente”. L’intuizione, mostrerebbe falle dal punto di vista del contenuto e non consentirebbe dunque di distinguere il vero dal falso. Non è quindi fondato, secondo Hegel, il postulato che contempla la possibilità di cogliere l’autenticità di qualcosa col “sentire”, piuttosto che col pensiero. Le realtà di spazio e tempo, a suo parere, dovevano essere scisse dalla Psicologia dell’ “intuizione sensibile”per tornare nell’ambito di una concezione meccanica, o meglio della Filosofia della Natura (e non dello Spirito). Hegel, dunque, non vide nell’intuizione le basi di un valore oggettivamente conoscitivo, e incluse spazio e tempo nell’ambito della Meccanica. A proposito del tempo, il filosofo riteneva che esso si manifestasse tramite l’immediatezza e l’astrazione, mentre lo spazio è visto come realtà anteposta al tempo, che invece è divenire, trasformazione e inafferrabilità.

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Tuttavia, lo spazio è destinato a rimanere indifferenziato finché non è attraversato dal tempo stesso(tempo e spazio, cioè, vengono percepiti nel momento in cui si congiungono).

Facendo un breve salto temporale, si deve poi tener presente l’impostazione nichilistica dell’idea che Arthur Schopenhauer formulò relativamente al tempo; negli scritti del 1808-1809, egli aveva già dato rilievo alla fenomenologia del divenire inteso come un infinito susseguirsi di attimi, sospesi tra il “nulla” del passato e il “nulla” del futuro, come se il mondo perdesse consistenza. Questa sequenza temporale, secondo il filosofo tedesco, non farebbe altro che esautorare l’esistenza, convertendola in nulla. A suo avviso, infatti:

Il tempo è ciò in cui tutto ciò che vi si trova, dopo averci ingannato per un attimo invisibile (presente) con la parvenza di un esistere, diventa completo nulla (passato). Non che nasconda questa nullità dietro un’artificiosa parvenza, per indurci in inganno. No: liberamente e senza nascondersi diventa continuamente, sotto le nostre mani, nulla. Per noi non c’è altro che un attimo invisibile (presente), e prima e dopo il mero nulla. E questo nostro stato si chiama vivere: agli uomini piace tanto, che si possono acquietare solo nella speranza, che dopo questa vita ne ricominci un’altra uguale29.

Questa concezione del tempo in cui l’io si afferma nel presente è in effetti associata al vuoto metafisico; l’io, quindi, vivrebbe ogni attimo come irripetibile unità di fronte al mistero del mondo.

Nell’aforisma 223, riportato di seguito, dal titolo “Verso qual meta si deve

viaggiare” e contenuto in Opinioni e Sentenze diverse30, Friedrich Nietzsche, pur essendone influenzato sotto vari aspetti, si distacca dal pensiero di Arthur

29

A. Schopenhauer, Der Handschriftliche Nachlass, a cura di A. Hübscher, Frankfurt/M 1967, citato in traduzione italiana in Enrico de Angelis (a cura di), Undici conferenze sul tempo, cit., pp. 142-143.

30

Per le opere di Nietzsche, Giuliano Campioni, nel suo saggio “Verso qual meta si deve viaggiare” in Enrico de Angelis (a cura di), Undici conferenze sul tempo, cit. fa riferimento a Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964.

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Schopenhauer, evitando di contrapporre filosofia e storia, e sostenendo al contrario che la sola filosofia che ha valore trova radici nella storia:

L’immediata osservazione di sé è ben lungi dal bastare per conoscere se stessi: abbiamo bisogno della storia, giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde; noi stessi infatti non siamo se non ciò che in ogni attimo sentiamo di questo fluire. Anche qui anzi, se vogliamo tuffarci nel flusso del nostro essere apparentemente più peculiare e personale, vale il detto di Eraclito: che non si scende due volte nello stesso fiume. È questa una saggezza che, anche se divenuta a poco a poco vecchia, è tuttavia rimasta tanto robusta e nutriente quanto lo fu un tempo: altrettanto dell’altra secondo la quale, per capire la storia, si devono visitare i residui viventi delle epoche storiche — si deve viaggiare, come viaggiò il padre Erodoto, nelle nazioni — queste sono infatti solo gradi di civiltà, che si sono fissati, e su cui si può posare — tra le popolazioni cosiddette selvagge e semiselvagge, specie là dove l’uomo ha smesso, o non ha ancora vestito, l’abito dell’Europa. Ci sono comunque ancora un’arte ed uno scopo del viaggiare più sottili, che fanno sì che non sempre sia necessario andare di luogo in luogo e percorrere migliaia di miglia. Molto probabilmente gli ultimi tre secoli sopravvivono ancora in tutte le loro sfumature e rifrazioni culturali anche in nostra vicinanza: essi vogliono solo essere scoperti. In molte famiglie, anzi in singoli uomini, gli strati giacciono ancora sovrapposti in modo bello ed evidente: altrove ci sono fenditure della roccia più difficili da capire. Certo in contrade remote, in vallate montane meno conosciute e in comunità più chiuse, un venerabile campione di un sentimento molto più antico si è potuto più facilmente conservare, e qui deve essere rintracciato: mentre è per esempio improbabile fare tali scoperte a Berlino, dove l’uomo viene al mondo svuotato e insensibile. Chi, dopo lunga esercitazione in quest’arte del viaggiare, è diventato un Argo dai cento occhi, accompagnerà alla fine dappertutto la sua Io — voglio dire il suo ego — e riscoprirà, in Egitto e in Grecia, in Bisanzio e in Roma, in Francia e in Germania, nel tempo dei popoli nomadi o in quelli stabili, nel Rinascimento e nella Riforma, in patria e all’estero, anzi in mare, bosco, pianta e montagna, le avventure di viaggio di questo ego divenente e trasformato. Così la conoscenza di sé diventa conoscenza del tutto in relazione a tutto il passato: come, secondo un’altra concatenazione di considerazioni, qui solo accennabile, la determinazione e l’educazione di sé degli spiriti più liberi e lungimiranti potrebbe un giorno diventare determinazione del tutto in relazione a tutta l’umanità futura31.

Nella filosofia nietzschiana si ravvisa pure una lettura e ripresa del pensiero presocratico, in particolare di Eraclito, rivisitato sia in funzione antischopenhaueriana, sia alla luce di una considerazione storica sulla realtà. In prospettiva nietzschiana, il tempo presenta un’omogeneità di relazioni per cui ogni attimo racchiude in sé tutto il passato e il possibile futuro; parallelamente,

31

F. Nietzsche, Opinioni e Sentenze diverse, cit. in G. Campioni, “Verso qual meta si deve viaggiare”, citato in Enrico de Angelis (a cura di), Undici conferenze sul tempo, cit., pp. 173-174.

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la storia emergerebbe come progressiva espansione di energia. Nietzsche si ispira poi, in opere come Aurora e Gaia Scienza, alle riflessioni di uno degli autori a lui molto cari, Ralph Waldo Emerson, riproponendo un’idea di storia allineabile a quella del maestro statunitense del Trascendentalismo, secondo cui in ogni cosa che facciamo, in ogni azione, si coglierebbero tracce della storia relative a tutta la realtà, e la conoscenza di sé diventerebbe conoscenza del tutto.

L’atteggiamento di Nietzsche verso la storia è però più complesso e decisamente meno ottimista; nel corso dei suoi vari sviluppi in cui entrò in gioco anche una forte componente anti-storicistica. Era per lui insomma necessario sgravarsi del peso degli errori storici del passato, trasformando la decadenza in lotta per un nuovo inizio. Da non dimenticare è poi il profilarsi del fenomeno del nichilismo, associato in particolare alla crisi che avrebbe travolto la società moderna, generando lo spaesamento, la scissione del soggetto morale, la perdita della volontà e del fine ultimo dell’esistenza. Simbolo della perdita di ogni punto di riferimento fu per Nietzsche la “morte di Dio”, massima manifestazione del Nulla universale. Alla morale della rinuncia egli contrappose altresì l’affermazione di sé, una rinascita della volontà umana attraverso la rivalutazione dell’esistenza: portavoce della rinascita della nuova era non sarebbe più stato l’uomo, ma una figura mitica, il “superuomo”, in grado di superare il nichilismo, di distaccarsi dai valori tradizionali, affermando la volontà; il superuomo identifica la propria volontà con quella del mondo, egli è volontà di potenza, intesa come pulsione infinita verso il rinnovamento dei propri valori. L’

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“oltreuomo” assume su di sé tutta l’energia di questa volontà creatrice, in cui ogni momento ha tutto il suo “senso di sé”.

Un’altra corrente di pensiero rilevante per il tema del tempo è quella ispirata dall’Esistenzialismo. Ricordiamo su tutti Martin Heidegger e la sua opera Essere e

Tempo (1927), il cui titolo sigla la correlazione tra i due elementi. Egli studia l’

“esserci” nel carattere singolare della sua esistenza; caratteristica fondamentale dell’“esserci” umano è l’essere nel mondo, non la sua soggettività o il suo pensiero. Nella seconda parte della sua opera, Heidegger analizza il “senso dell’essere dell’esserci” collegandolo alla temporalità e sostenendo che il futuro è la dimensione verso la quale l’essere umano è più incline a proiettarsi, interpretando il tempo in termini di “possibilità” o “progettazione”. Tutto viene dunque rappresentato come una sorta di “circolo” o movimento circolare che si chiude, si rinnova e ricomincia, continuando per l’eternità32.

I filosofi hanno, sin dall’antichità, cercato evidentemente di fare chiarezza sul concetto di tempo, e non mancano associazioni a tre modelli fondamentali: la concezione ciclica, lineare e a spirale. La concezione circolare del tempo (ciclica) delinea il mondo nel suo continuo prodursi e dissolversi, attraverso una successione ipoteticamente infinita. Deterministicamente soggiogato, il tempo non è qui altro che una ruota, nel cui circuito tutti gli esseri umani nascono, muoiono e si rigenerano. Il modello lineare, vede invece il progresso storico dell’umanità come inarrestabile e irreversibile, ossia a senso unico. La concezione del tempo a spirale contempla infine una confluenza tra ciclicità e

32

Per il pensiero di M. Heidegger ho fatto riferimento all’Introduzione di P. Chiodi in M. Heidegger, Essere e Tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, pp. 3-15.

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linearità. In questo caso, il tempo sarebbe governato da fasi, che però si distinguono dall’andamento ciclico poiché rispondono ad un progredire; il tempo a spirale è quindi caratterizzato da semicicli progressivi.

Un tema cosi vasto e complesso non poteva poi essere ignorato da poeti, romanzieri e artisti. Il tempo si manifesta in letteratura in modi molteplici, a partire da una macrodistinzione secondo cui esistono fattori temporali che agiscono all’esterno e elementi che incidono all’interno dell’opera letteraria stessa. Ai fattori temporali esterni appartengono l’origine, la diffusione e l’eventuale canonizzazione dell’opera, cosicché si è indotti a tener conto dell’epoca storica, degli elementi biografici concernenti l’autore, della tipologia di pubblicazione (alcuni hanno scritto, all’inizio della loro carriera, a puntate per riviste o giornali), e dell’eventuale periodo di rielaborazione dell’opera, connesso a esigenze estetiche o ad esperienze di vita. I fattori interni, invece, riguardano l’ambito dell’organizzazione testuale.

A questo proposito, Volker Klotz33 individua due tipi di elaborazione: una implicita e una esplicita. La prima fa sostanzialmente da palinsesto e corredo, manifestandosi spesso tramite le ambientazioni e gli scenari: di qui il legame con diversi periodi della diacronia storica, o con un tempo leggendario, o ancora le stagioni (come in The Winter’s Tale di Shakespeare) e in relazione alle età della vita umana (come nel Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce). L’elaborazione implicita includerebbe anche il tempo dell’ “accaduto fittizio”, a

33

V. Klotz, “Il tempo della vita contrapposto alla morte senza tempo”, citato in Enrico de Angelis, Undici conferenze sul tempo, pp. 30-34.

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seconda che questo si snodi di un solo giorno, come in Mrs. Dolloway di Woolf o

Ulysses di Joyce, o in più anni, come in genere avviene nella scrittura

romanzesca. Inoltre, in questo tipo di elaborazione implicita rientrerebbe una fenomenologia connessa alle tecniche narrative che l’autore decide di impiegare (analessi o prolessi, rimandi, dilatazioni o nuclearizzazioni temporali), cosi come alla sequenza cronologica o non-cronologica che egli intende configurare.

L’elaborazione temporale esplicita si avrebbe quando la dimensione del tempo viene espressamente evidenziata, anatomizzata o personificata all’interno di un testo. In questo tipo di opere, il tempo appare come un elemento dominante; un esempio rilevante è À la Recherche du Temps Perdu di Marcel Proust, in cui prende forma una casistica straordinaria del ricordo e della rammemorazione.

Non bisogna poi dimenticare come, alla fine del XIX e in tutto il corso del XX secolo, il concetto cartesiano e newtoniano di tempo sia cambiato radicalmente, sia dal punto di vista del modo di percepire la temporalità stessa (si pensi allo sviluppo di psicologia e psicanalisi o alla “durata” di Henri Bergson), sia in ambito scientifico, con la teoria della relatività di Albert Einstein e il principio di indeterminazione di Heisenberg. Molti scrittori hanno iniziato parallelamente a concepire il tempo non come misurato su una scala costante o universale, ma come un’entità caratterizzata dalla molteplicità, anziché da una “sostanza” singola o un’essenza unica.

Per una comprensione più profonda delle modalità di rappresentazione della temporalità e del suo rapporto con la narrativa, bisogna partire comunque dal

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presupposto che l’esperienza e la percezione del tempo variano da individuo a individuo e da una circostanza all’altra; bisogna tener conto delle relazioni tra passato, presente e futuro sia nella narrazione che nella vita, e quindi raccordare la forma letteraria alla coscienza e all’esperienza. A tal proposito si è espresso Paul Ricoeur (ad esempio in Tempo e Racconto, 1984), secondo il quale la connessione tra narrativa, temporalità ed esperienza umana è un filo rosso fondamentale. Sulla dimensione e sulle contaminazioni temporali si è soffermato in epoca contemporanea anche Michail Bachtin, che, facalizzandosi sulle forme e sulle strutture narrative, ha riflettuto su quanto la diacronia incida sulle percezioni dei personaggi e su come gli assi temporali si dispongano in una rosa di prospettive poliedriche. “Cronotopo” è il termine chiave che Bachtin ha utilizzato nella sua discussione sul tempo, lo spazio e la narrativa; il “cronotopo” sarebbe un’entità congiunta di “tempo o spazio”, fondamentale in letteratura ai fini della rappresentazione e dell’efficacia comunicativa o simbolica34.

All’inizio del XX secolo le modalità e le strategie compositive del romanzo subiscono dunque un cambiamento legato al configurarsi di nuovi orizzonti culturali ed epistemici e alla crisi dell’idea di continuità. È come se la realtà non si facesse più “ordinare” secondo una logica di successione, ma trapelasse attraverso il disordine, le contraddizioni. A questa esperienza di disorientamento si affianca in qualche modo il senso di una “perdita della storia”35. I dubbi e le incertezze che investono gli scrittori e gli intellettuali in quest’epoca si

34 Cfr. M. Bakhtin, The Dialogic Imagination: Four Essays by M.M., translated by Caryl Emerson and Michael Holquist, University of Texas Press, Austin (Texas) 1981.

35

Cfr. ad esempio A. Heuss, Verlust der Geschichte, Göttingen, 1959, citato in Enrico de Angelis, “Undici conferenze sul tempo”, cit., p. 235.

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rispecchiano anche nella struttura dell’opera stessa, dove generalmente vengono meno lo sviluppo progressivo, un continuum lineare, un finale chiuso e risolutore.

2. L’ “arte” della memoria tra mito, storia e scienza

2.1. Sin dall’antichità, si è cercato di affrontare il tema della memoria e di darne una descrizione appropriata, di analizzarlo e capirne le dinamiche. Sulla memoria si sono pronunciati vari filosofi e studiosi, in un dibattito che ha radici molto antiche; a tal proposito, bisogna tener presente che l’ “arte” della memoria nasce, in primo luogo, come un insieme di pratiche e approcci connessi a una tradizione prettamente orale. Tra i numerosi esempi significativi, ricordiamo che Esiodo, nella Teogonia36, si richiamò al mito di Mnemosine, dea

della memoria e madre delle Muse. Il poeta greco visse, tra la fine dell’ VIII secolo e l’inizio del VII secolo a.C., in una società basata su una cultura orale in cui la poesia veniva recitata in modo da imprimersi nella mente del cantore e degli ascoltatori. Il poeta, quindi, declamava i versi ispirandosi alle Muse e seguendo un canovaccio connesso a una serie di formule e soluzioni formali trasmesse dalla sua tradizione.

L’emergere della scrittura si concretizzò con lo sviluppo della polis e, con la nascita del testo scritto, i processi relativi alla memorizzazione subirono sensibili trasformazioni. Il poeta lirico greco Simonide di Ceo può allora considerarsi un promotore dell’ “arte della memoria” nella cornice di un’argomentazione che vedeva nel testo scritto e nella mente umana dei loci, dei luoghi della memoria,

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spesso paragonati ad un contenitore, una galleria o un edificio (di cui l’incipit testuale costituiva l’ingresso). L’arte della memoria si indirizzerebbe dunque verso la “costruzione” di immagini mentali, scaturenti da un gioco di associazioni le cui “norme” sarebbero poi state messe a fuoco da Aristotele: un ricordo attuale ne richiama alla mente un altro se fra i due esiste un rapporto di somiglianza, contrarietà e contiguità; una persona, quindi, crea immagini con le quali riempie i luoghi mnemonici.

Secondo Platone, le idee costituivano notoriamente un lascito per l’anima quando si proiettava nel corpo, ma sarebbero state dimenticate al momento della nascita; il sapere e l’apprendere coinciderebbero dunque col processo del ricordare. Imparare a conoscere se stesso, per Platone, significa imparare a riconoscere le idee innate. Egli fa poi una distinzione tra la memoria, intesa come la registrazione delle percezioni sensoriali, e il ricordo o la reminiscenza, che sarebbe un atto più nobile dello spirito. L’interesse di Platone per la memoria è principalmente metafisico, volto a trascendere l’esperienza quotidiana verso il piano delle idee che costituiscono le cifre superiori della realtà.

La visione di Aristotele era invece diversa, più ancorata a una concezione di memoria intesa in termini soprattutto psicologici, come parte di un meccanismo mentale. La memoria e il pensiero si nutrirebbero cioè di immagini che si fissano nella mente, anche attraverso il canale delle percezioni esterne. Aristotele opera dunque una distinzione tra immaginazione, memoria e reminiscenza. L’immaginazione è la facoltà di immagazzinare, ricordare, ricostruire o perfino distorcere immagini provenienti dai canali sensoriali; la memoria racchiude in sé

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