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Capitolo terzo

TITOLARITA’ FORMALE DEL RAPPORTO DI FILIAZIONE NATURALE

Sommario:1.Riconoscimento del figlio naturale. - 1.1.Sua natura

giuridica. - 1.2.Relative impugnazioni. - 2. Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. - 3. L’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima. - 4. La filiazione non riconoscibile o non riconosciuta.

1.Riconoscimento del figlio naturale

Per affrontare ora il tema del riconoscimento va ripetuto che con la locuzione filiazione naturale si intende quella derivante dal concepimento ad opera di due persone non sposate fra di loro.

Il rapporto giuridico di filiazione naturale si costituisce peraltro solo se sopravvengono il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ne consegue che l’espressione filiazione naturale si intende far riferimento tecnicamente, allo status conseguente a riconoscimento o dichiarazione giudiziale.

La filiazione meramente biologica, perciò ove non sia accompagnata dalla nascita da genitori sposati o da riconoscimento

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piuttosto che da dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, non dà luogo di per sé all’acquisto di alcun status filiationis.

Premesso ciò bisogna tener presente che il sistema normativo italiano

opportunamente, non dà una definizione dell’ istituto del

riconoscimento per cui è bene tener presente che la disciplina della filiazione naturale o, come specifica l’art. 30 Cost., fuori del matrimonio, si compendia nella sistematica del codice in due sezioni di cui la prima è dedicata alla filiazione naturale e la seconda alla legittimazione.

La prima sezione, poi, si suddivide a sua volta, in due paragrafi di cui il primo è dedicato alla disciplina del riconoscimento del figlio naturale, il secondo concerne, invece, la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale.

E’ quindi facile constatare che l’istituto della filiazione naturale si articola principalmente intorno al riconoscimento che non solo dà l’avvio nell’art. 250 comma 1 cc, alla disciplina della materia, ma di questa sembra costituirne la parte più rilevante sia per il numero di norme ad esso specificatamente dedicate, sia per i frequenti riferimenti al riguardo contenuti nella restante disciplina.

Per una corretta trattazione, allora, del tema del riconoscimento del figlio naturale, è indispensabile tener presente che, affinchè il rapporto di filiazione naturale si perfezioni con l’attribuzione di uno specifico status, è necessario formalizzare la relazione genitore-figlio o, come già ricordato, con una dichiarazione resa dai genitori o da uno di essi, riconoscimento di figlio naturale o con un accertamento giudiziale, dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, previsto nell’art. 269

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c.c., attribuzione che, a differenza di quanto avviene nel caso di filiazione legittima, non è automatica.

Come è stato precisato dalla giurisprudenza, riconoscimento e dichiarazione di paternità naturale sono figure del tutto indipendenti, che non possono essere confuse tra di loro e che, per il loro contenuto intrinseco, si collocano anche topograficamente su piani diversi nel sistema del codice.

L’unico punto di contatto, che hanno, consiste nel fatto che la dichiarazione giudiziale è possibile nelle ipotesi in cui sarebbe consentito il riconoscimento.

Ai sensi degli artt. 250 ss., c.c., il riconoscimento del figlio naturale è l’atto spontaneo di accertamento formale del rapporto di filiazione, ossia l’atto con cui un soggetto dichiara di essere genitore del proprio figlio naturale, nato o anche solamente concepito. (art. 254 c.c.).

Sebbene in dottrina discussa ne sia la natura giuridica (in conseguenza del fatto che, taluno, lo intenda come dichiarazione di scienza, negandone, pertanto, la natura negoziale), maggiormente aderente alle caratteristiche della fattispecie è la qualificazione di essa in termini di negozio unilaterale di accertamento, non suscettibile di revocazione e che non ammette termini o condizioni; il riconoscimento non va a costituire il rapporto di filiazione, come al contrario era prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, ma si limita, appunto, ad accertarlo tramite l’ esercizio del diritto del dichiarante di assumere pubblicamente la posizione di genitore.

Se ciò, per un verso, risponde, dunque, al diritto soggettivo primario del genitore, diritto costituzionalmente garantito dall’art.30

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della Costituzione, di riconoscere il figlio come proprio, per altro verso integra il diritto del figlio al proprio stato ed è, pertanto, da valutarsi in relazione all’ interesse di quest’ ultimo,tenendo presente, però, che il diritto del genitore non si pone in termini di contrapposizione con lo interesse del figlio minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso.(95)

Secondo la lettera della legge, ai sensi dell’art. 250 c.c., legittimati a riconoscere come proprio il figlio naturale sono il padre e la madre, congiuntamente o separatamente, purchè abbiano compiuto i sedici anni, anche se già uniti in matrimonio, al tempo del concepimento, con altra persona.

Ai fini della produzione degli effetti del riconoscimento, la norma richiede l’assenso del figlio che abbia compiuto sedici anni, o se di età inferiore, il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento; atti entrambi autorizzativi, informati alla valutazione dell’interesse del figlio al riconoscimento.

La norma in definitiva, qualifica l’autorizzazione del genitore al secondo riconoscimento come consenso e la mancata autorizzazione come opposizione mentre la posizione dell’altro genitore viene definita come di colui che vuole effettuare il riconoscimento.

Nella realtà, prescindendo dalle notevoli imperfezioni di tecnica legislativa, si osserva che il consenso del genitore che per primo ha riconosciuto non è di per sé impeditivo dell’atto di riconoscimento, bensì

(95)V., ex plurius, Cass. 3 novembre 2004, n. 21088 in Giust. civ., 2005, I, p.2999;

Cass. 10 maggio 2001, n. 6470 in Fam. dir., 2001, p. 526 ss., ed in Nuova giur. civ.

comm., 2002, II, p. 294, con nota di B. Lena, Questioni in tema di riconoscimento del figlio naturale.

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78 dell’efficacia di tale atto.

Il consenso del genitore deve basarsi esclusivamente sulla valutazione dell’interesse del figlio, per cui la motivazione del rifiuto si configura solo nel caso in cui il secondo riconoscimento sia contrario ad esso.

Il minore, infatti, non è oggetto di appropriazione da parte del genitore che, quindi, non può rifiutare il consenso per motivazioni egoistiche ritorsive nei confronti dell’altro genitore.

Si aggiunge che un rifiuto ingiustificato di consenso, poi supplito da una sentenza, può considerarsi indice di non affidabilità del genitore alla tutela del figlio, con rilevanza sia sull’esercizio che sulla titolarità della potestà; pertanto si ritiene che, qualora il genitore sia stato dichiarato decaduto dalla potestà, egli non sia più legittimato ad esprimere il consenso, in quanto inidoneo alla tutela di tale interesse.

Per il caso in cui il riconoscimento, però, risponda all’interesse del figlio, il 4° comma dell’ art. 250 c.c. precisa che il consenso dell’altro genitore non può essere rifiutato e se vi è opposizione, si apre un giudizio contenzioso, con intervento del P.M., innanzi il tribunale, che decide su ricorso del genitore che vuole effettuare il riconoscimento, sentito il minore in contradditorio con il genitore che si oppone.

La prescrizione ultima, che riguarda l’audizione del minore, è rivolta ad accertare se il rifiuto del consenso del genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento, risponda o meno all’interesse del figlio(96); nel giudizio il minore infrasedicenne non assume la qualità di parte evidentemente perché non è considerato portatore di una posizione

(96)

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soggettiva autonomamente tutelata(97), ma diviene tale quando vi sia stata la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’ art. 78, II co, c.p.c. (98).

Al contrario, al compimento del sedicesimo anno, il minore diviene titolare di un autonomo potere che può incidere sul diritto al riconoscimento del secondo genitore, determinando, così, il venir meno della necessità del consenso del primo genitore.

La disparità di trattamento dei figli infrasedicenni rispetto agli ultrasedicenni non si pone, altresì, in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, trovando giustificazione nella presunzione relazionata all’ età, del raggiungimento da parte di questi ultimi, di un grado di maturità che ha consentito loro un meditato giudizio sul proprio interesse al riconoscimento(99).

Pertanto, in generale, il secondo riconoscimento potrà essere sacrificato solo in presenza di gravi e irreversibili motivi, tali da far intravedere la probabilità di una forte compressione dello sviluppo psico-fisico del minore(100) e della sua serena crescita.(101)

Sulla scorta di quanto finora argomentato, sulla filiazione naturale risulta che non costituisce impedimento al riconoscimento lo stato di coniugo del proprio genitore.

Il riconoscimento,infatti, può essere compiuto anche dal genitore coniugato con persona diversa dall’altro genitore del figlio, essendo

(97)

Cass. 22 giugno 1983, n. 4273, in Giust. Civ., 1984, I, p.233 ss., con nota di A. Finocchiaro, Il secondo riconoscimento: interesse del minore, diritto-dovere del

genitore, onere della prova; Cass. 3 gennaio 2003, n.14.

(98)

Cass. 4 agosto 2004, n.14934, in Giust. Civ., 2005, I, p. 2662 ss.

(99)

Cass. 10 maggio 2001, n. 6470, cit.

(100)

Cfr. ex multis, Cass. 3 aprile 2003, n. 5115, in Dir. Fam. pers., 2003, I, p. 342.

(101)

V. GRASSANO, In tema di interesse del minore al secondo riconoscimento

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venute meno, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, le norme che, in contrasto con il principio stabilito nell’art.30 Cost., sancivano l’irriconoscibilità dei figli nati da relazioni extraconiugali.

Nel caso del riconoscimento, compiuto da madre coniugata, si pone un problema di coordinamento con la presunzione di paternità disposta dall’art. 232c.c.

Al riguardo, prevale l’opinione secondo cui la regola di cui all’art. 232 c.c., non è tale da precludere alla donna coniugata di riconoscere il proprio figlio come naturale.

L’acquisto dello stato di figlio legittimo in forza della presunzione in parola non è infatti automatico per il solo fatto della procreazione da donna coniugata, dal momento che è richiesta, per il suo operare, anche la formazione di un titolo attributivo di tale stato, o dell’atto di nascita come figlio legittimo: la presunzione di paternità non trova, dunque applicazione quando dall’atto di nascita risulti che il figlio è stato dichiarato dalla madre come figlio naturale, ossia come concepito da persona diversa dal marito.

Da tutto ciò, minoritaria risulta l’opinione di chi nega del tutto alla madre la possibilità di riconoscere il figlio come naturale o di chi ammette che tale riconoscimento possa avvenire solo contestualmente al riconoscimento del padre naturale.

A confutazione di queste posizioni, si rileva che subordinare

l’ammissibilità del riconoscimento all’intervento del padre

comporterebbe un’illegittima compressione dei diritti della madre e del figlio nei casi in cui il padre non possa o non voglia riconoscere il figlio.

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per tutti i figli, anche se generati da persona coniugata, con la sola eccezione dei figli incestuosi, che sono riconoscibili solo da parte del genitore in buona fede e previa autorizzazione del giudice.(App. Roma, 10 giugno 1985)(102).

L’esclusione della riconoscibilità dei figli incestuosi sembra il retaggio di concezioni della famiglia, ormai superate, che miravano a sanzionare, nei figli, i comportamenti dei genitori; ciò nonostante, con la riforma, sembra realizzarsi una inadeguata tutela dei figli incestuosi, e per questo se n’è prospettata l’illegittimità costituzionale.

La Corte Costituzionale (Corte Cost., 28 novembre 2002, n.494)

(103)

ha condiviso queste critiche anche se, con prudenza forse eccessiva, si è limitata a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 278c.c., (secondo cui le indagini sulla paternità o maternità non sono ammesse

nei casi in cui, a norma dell’art. 151 c.c., il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato), e non quella dell’art. 251 c.c., come invece aveva

chiesto, nell’ordinanza di rimessione, la Corte di Cassazione (Cass. 4 luglio 2002, n. 9724). (104)

La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità dei figli incestuosi viene, perciò, ammessa anche nei confronti del genitore in mala fede (art. 278), mentre il riconoscimento può essere fatto solo da parte del genitore in buona fede (art. 251).

Accertando formalmente il rapporto di filiazione, l’ effetto del

(102)

M. TRIMARCHI, La filiazione legittima e naturale, Bologna, 2007, p. 453 ss..

(103) P. UBALDI, La filiazione naturale, in Tratt. Zatti, II, La filiazione, Milano,

2002, p. 282 ss..

(104)

P. VERCELLONE, La filiazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1987; A. PALAZZO, La filiazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2007.

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riconoscimento (titolarità formale della filiazione e, dunque, della potestà, il cui esercizio spetta, però, ad entrambi i genitori se conviventi, e assunzione di tutti i doveri e diritti che si hanno nei confronti dei figli legittimi, art. 261 c.c.) si produce esclusivamente nei confronti di colui che lo effettua (art. 258 c.c.).

La norma in questione, anche se intesa da qualcuno nel senso che il riconoscimento non crea relazione di parentela tra figlio riconosciuto e famiglia del genitore che riconosce (tesi questa che è sostenuta dal convincimento che il rapporto di parentela deriva da legame di sangue), è da leggere nel senso che il riconoscimento non ha effetto nei confronti del coniuge di colui che lo effettua, in quanto atto negoziale unilaterale; la tesi, dianzi esposta, ampiamente sostenuta in dottrina, trova ulteriore conferma nel secondo comma dell’art. 258 c.c., per il quale l’ atto di riconoscimento non può contenere indicazioni relative all’ altro genitore e, se del caso, esse saranno senza effetto.

Riguardo alla forma del riconoscimento, l’art. 254 c.c. prevede che esso possa esser fatto nell’atto di nascita, oppure con una apposita dichiarazione posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale di stato civile con atto pubblico o in un testamento qualunque sia la forma di questo.

Peraltro, data l’irrevocabilità del riconoscimento, qualora sia contenuto in un testamento, ha effetto dal giorno della morte del testatore, anche se il testamento è stato revocato (art. 256 c.c.).

Per effetto del riconoscimento, a norma dell’art. 262 c.c., il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo effettua; mentre, per il caso di riconoscimento congiunto, assume il cognome del

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83 padre.

Se il riconoscimento, o l’accertamento, della filiazione nei confronti del padre è successivo rispetto al riconoscimento della madre,il figlio può assumere il cognome paterno aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre.

E nel caso di minore di età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del padre.

1.1 Sua natura giuridica

Il riconoscimento consiste nell’atto formale mediante il quale il dichiarante attesta di essere il genitore del proprio figlio naturale; esso può considerarsi come la dichiarazione di paternità o maternità proveniente dal genitore(105).

La dottrina è molto discorde nel definire la natura giuridica del riconoscimento: da alcuni autori viene considerato un negozio di accertamento, da altri un atto di autonomia negoziale, da altri ancora una dichiarazione di scienza; tutte le correnti sono rivolte comunque a rendere certa una situazione di fatto, dando origine allo status di figlio.

Prima della riforma del 1975, il riconoscimento veniva considerato come l’atto dal quale far dipendere il rapporto di filiazione, ad esso quindi veniva attribuita efficacia costitutiva del rapporto giuridico di filiazione e tendeva ad inquadrarsi come un atto di concessione dello stato di figlio.

(105)

M. BIANCA, Trattato di diritto civile, vol. II – Successioni e famiglia,

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In seguito alla riforma gran parte della dottrina ha ritenuto di avvalorare la tesi del riconoscimento come negozio di accertamento, (negozio atto cioè a eliminare controversie, discussioni, dubbi sulla situazione esistente): con esso il genitore esercita il potere autonomo di dare certezza al fatto naturale della procreazione.

Si discute, tuttavia se possa dimostrarsi dopo la conclusione del negozio che la situazione accertata non corrisponda, in realtà, a quella che effettivamente preesisteva, in tal caso si sostiene che prevale il regolamento contenuto nel negozio (art. 1969 c.c.).

Questa disciplina del negozio di accertamento contrasta con l’art. 263 c.c. che prevede la possibilità di impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità(106).

Il riconoscimento del figlio naturale come atto di autonomia negoziale trova punti di debolezza nel fatto che la semplice volontà, caratteristica dell’atto di autonomia, non è sufficiente per ottenere il riconoscimento, manca infatti l’elemento oggettivo del fatto naturale della procreazione(107).

D’altra parte, però l’atto di riconoscimento è considerato atto di autonomia privata appunto perché volontario(108).

L’autore compie una scelta libera e incondizionata sull’opportunità di compiere l’atto.

Egli pone in essere un atto unilaterale, soggetto ad una particolare disciplina in ordine ai requisiti soggettivi, alla forma, agli

(106)

A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano,

1990.

(107)

F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1993.

(108)

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85 effetti e alle impugnazioni.

Gli effetti, anche se trovano la loro spiegazione nel fatto della nascita, si producono indipendentemente dal fatto, fino a quando il riconoscimento non venga annullato per difetto di veridicità ( art. 263 c. c.).

Si tratta quindi di un negozio unilaterale anche se in parte si sottrae alla normativa propria dei negozi giuridici per il fatto di essere diretto a regolare interessi non patrimoniali.

L’atto di riconoscimento, presenta infatti le caratteristiche strutturali nel negozio giuridico: la manifestazione di volontà è espressa e consiste in una dichiarazione, la causa, funzione economico-sociale del negozio, è quella di rendere certa una situazione di fatto.

Se si considera l’atto di riconoscimento come negozio giuridico, la dichiarazione di volontà è sottoposta al principio di responsabilità, secondo il quale il dichiarante è ovviamente responsabile della dichiarazione espressa, e al principio dell’affidamento secondo il quale i terzi in buona fede danno piena validità alla dichiarazione.

La tesi di atto negoziale è sostenuta dalla giurisprudenza di merito ( App. Napoli 8-10-1946)(109), nella quale si è affermato che il riconoscimento volontario del figlio naturale è un negozio giuridico unilaterale che può essere fatto da entrambi i genitori, tanto separatamente che congiuntamente.

Tuttavia si deve considerare, secondo quanto disposto dall’art.1372 c.c. che l’atto di autonomia produce effetti solamente per l’ autore o per gli autori mentre non tocca la sfera giuridica di soggetti

(109)

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86 estranei.

Una parte della dottrina, quindi, esclude la negozialità dell’atto in relazione al fatto che il genitore non ha disponibilità della qualità personale del figlio strettamente inerente ai bisogni fondamentali della persona umana(110).

Sembra ormai esclusa del tutto la teoria dottrinale secondo la quale il riconoscimento viene considerato un atto di confessione, esso infatti non è la dichiarazione della verità di fatti a sé sfavorevoli in quanto la paternità o maternità non possono essere qualificati come fatti

sfavorevoli a chi effettua il riconoscimento(111).

La dottrina prevalente considera il riconoscimento come una dichiarazione di scienza.

Il genitore al momento del riconoscimento adotta il principio di veridicità e dà atto di una situazione già verificatasi e a lui nota;il dichiarante subisce le conseguenze stabilite dalla legge che derivano dalla assunzione di responsabilità in ordine alla veridicità di quanto da lui affermato(112).

Requisito della dichiarazione del genitore è l’atto di assenso del figlio ultrasedicenne o il consenso dell’altro genitore, infatti il riconoscimento non produce effetti se non presenta anche questi elementi.

In conclusione appare evidente, dopo aver analizzato le diverse posizioni della dottrina, la difficoltà di inquadrare il riconoscimento in

(110)

U. MAJELLO, Della filiazione naturale e della legittimazione, Bologna,

1982.

(111)

A. CICU, La filiazione, cit., 207.

(112)

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modo pieno ed univoco in una data categoria di atti.

Il problema consiste quindi nel valutare se il riconoscimento presenta maggiormente gli aspetti di uno o di altro atto giuridico.

In relazione a quanto esposto sembra che la tesi dominante sia quello di considerare l’atto di riconoscimento un atto in senso stretto in cui quindi gli effetti siano preordinati dalla legge.

Tra gli atti in senso stretto, la dichiarazione di scienza appare

quello che risponda maggiormente alle caratteristiche del

riconoscimento.

1.2 Relative impugnazioni

Gli effetti conseguenti al riconoscimento, escluse le ipotesi di irriconoscibilità (art. 251 c.c.) e di inammissibilità (art. 253 c.c.), possono essere eliminati con l’impugnazione del riconoscimento, ma in casi limitati: per difetto di veridicità (art.263 c.c.), per estorsione con violenza (art.265 c.c.), quando è stato effettuato da un interdetto giudiziale (art. 266).

Mentre nell’ipotesi di impugnazione per difetto di veridicità il legislatore mira a favorire la verità biologica rispetto alla certezza legale risultante dall’atto di nascita (ciò che viene inteso come favor veritatis), quando si stabilisce l’impugnazione per violenza o per dichiarazione proveniente da un interdetto giudiziale si intende salvaguardare il carattere spontaneo del riconoscimento.

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effettuata da un interdetto giudiziale, infatti, sicuramente non possono essere qualificate alla stregua di manifestazioni libere di una volontà che si richiede, invece, responsabilmente manifestata.

Le tre diverse impugnazioni, pertanto, rispondono a esigenze distinte e non necessariamente rivolte a far valere, sempre, la verità biologica.

Sia nell’ipotesi di riconoscimento estorto con violenza che in quella di riconoscimento effettuato da un interdetto giudiziale, l’azione è proponibile anche quando il riconosciuto sia figlio del dichiarante; è questo il motivo per il quale, nel primo caso, legittimato all’azione è soltanto l’autore del riconoscimento che ha subito la violenza (art. 265 c.c.) e, nel secondo caso il rappresentante dell’interdetto o anche quest’ultimo ma dopo che sia stata revocata la sentenza di interdizione ( art. 266 c.c.); è per queste stesse ragioni che l’azione è proponibile entro un anno a decorrere, rispettivamente, dal giorno in cui la violenza è cessata o dalla data di revoca della sentenza di interdizione.

D’altra parte, gli stessi termini si devono osservare qualora l’autore del riconoscimento sia morto senza averlo impugnato e l’azione sia promossa dai suoi discendenti, ascendenti o eredi (art. 267 c.c.).

Analogamente impugnabile è il riconoscimento effettuato da un minore di sedici anni che, secondo una parte di dottrina, sarebbe assolutamente inefficace mentre, secondo altri, semplicemente annullabile e sottoposto, in linea di massima, alla stessa disciplina prevista per il caso di riconoscimento effettuato da un interdetto giudiziale.

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tentativo di tutelare l’autore dell’atto in tutte le ipotesi di incapacità, criticava la giurisprudenza quando escludeva la legittimazione a impugnare il riconoscimento da parte di chi lo aveva effettuato in stato di incapacità di intendere e volere.

La giurisprudenza e la dottrina più recente, al contrario, sul presupposto che l’esigenza di tutela del dichiarante in stato di incapacità naturale si manifesta soltanto in corrispondenza della non verità della dichiarazione, esclude la possibilità di impugnare il riconoscimento nelle ipotesi di incapacità soltanto naturale.

Il legislatore non prevede, espressamente, le ipotesi di impugnazione del riconoscimento per errore e per dolo perché, evidentemente, queste sono considerate circostanze riconducibili nell’ambito operativo dell’impugnazione per difetto di veridicità.

Non per nulla, l’impugnazione per difetto di veridicità è proponibile quando il riconoscimento è erroneo o falso.

L’azione, pertanto, prescinde dallo stato di buona o mala fede dell’autore del riconoscimento.

Specialmente in passato, il riconoscimento mendace,sanzionato anche a livello penale (art. 495 c.p.), veniva utilizzato per aggirare le disposizioni dell’adozione.

Il fenomeno, che con le sue perverse criminali manifestazioni dà luogo a un vero e proprio mercato di bambini, è tuttora esistente.

Un freno, a tutto ciò, è stato posto dall’introduzione dell’art.74 L. 184/1983, che impone all’ufficiale di stato civile di trasmettere immediatamente al Tribunale per i minori comunicazione, sottoscritta

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dal dichiarante, del riconoscimento effettuato da parte di una persona coniugata, di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore.

Ricevuta la comunicazione, il Tribunale dispone gli opportuni accertamenti e, se vi sono fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento, autorizza l’impugnazione nominando un curatore speciale.

Proprio perché mira direttamente all’accertamento della verità biologica, diversamente dalle altre ipotesi accennate, l’impugnazione del riconoscimento di filiazione naturale per difetto di veridicità è

imprescrittibile e può essere promossa, sia dall’autore del

riconoscimento sia da chiunque vi abbia interesse, anche dopo la legittimazione.

Sull’imprescrittibilità dell’azione non sono mancati dubbi anche di legittimità costituzionale; se l’impugnazione dovesse essere promossa dopo un periodo di tempo dal riconoscimento eccessivamente lungo, potrebbero verificarsi situazioni interamente particolari per il consolidato rapporto che si è venuto a creare.

La Corte Costituzionale ha reputato infondata la questione di legittimità della disciplina prevista per l’impugnazione del figlio minorenne nei limiti in cui non prevede che l’azione deve essere subordinata all’interesse del minore.

Secondo la Corte Costituzionale,infatti, non può esserci conflitto tra favor minoris e favor veritatis, considerato che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, come inviolabile diritto alla sua identità (113).

(113)

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La giurisprudenza, tuttavia, pur nel rispetto del favor veritatis, valuta con opportuna prudenza queste impugnazioni.

L’impugnazione per difetto di veridicità, ovviamente, spetta anche al riconosciuto.

Questi, però, non può promuovere l’azione durante la minore età, nemmeno se abbia compiuto sedici anni, età in cui è anche possibile chiedere il riconoscimento, o se è interdetto per infermità di mente.

In tutte queste circostanze, tuttavia il giudice, su istanza del P.M., del tutore, dell’altro genitore che abbia riconosciuto il figlio, o del figlio stesso che abbia compiuto il sedicesimo anno di età, può dare l’autorizzazione per impugnare il riconoscimento, nominando un curatore speciale (art. 264).

Affinchè l’impugnazione per difetto di veridicità venga accolta non è necessario dimostrare chi sia il vero genitore, essendo sufficiente soltanto provare che l’autore del riconoscimento non è il genitore del riconoscimento.

La dimostrazione non è sottoposta a vincoli probatori, la non genitorialità può essere provata con ogni mezzo, anche presuntivo.

Non necessita neppure l’indagine combinata degli esami genetici ed ematologici, richiesti invece, per l’accertamento della paternità.

La prova della mancanza di genitorialità, anche per la Cassazione,può essere acquisita da uno soltanto di quegli esami se da essi risulti presente, nel patrimonio del figlio, un gene assente però nella madre e nel padre; segno evidente che sia stato trasmesso da altro genitore.

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perde lo stato di figlio naturale e, se lo portava, il cognome dell’autore del riconoscimento, salvo che, quel cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale e della sua famiglia(114).

2.Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità

Il riconoscimento, quindi, non è l’unico strumento attraverso il quale si può ottenere lo stato di figlio naturale.

Poiché dalla procreazione derivano in ogni caso in capo ai genitori delle responsabilità, il legislatore stabilisce che la filiazione naturale possa essere accertata anche contro la loro volontà ma entro i limiti e secondo le disposizioni stabilite dal legislatore per la ricerca della paternità (art. 30 Cost.).

In questi ordine di idee gli stessi effetti che conseguono al riconoscimento sono previsti per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità (art.277 c.c.) che mira, appunto all’accertamento giudiziale dello stato di filiazione naturale quando i genitori, o uno solo di essi, non abbiano effettuato il riconoscimento.

In capo ai genitori naturali non sussiste l’obbligo giuridico, sebbene soltanto morale, di manifestare il riconoscimento del figlio naturale.

La mancanza di spontaneo riconoscimento da parte di uno o di entrambi i genitori naturali, non può essere di pregiudizio al figlio; in verità, qualora questi non vogliano o non possano riconoscerlo con l’atto

(114)

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di accertamento privato, a quell’assenza deve potersi supplire giudizialmente: è quanto dispone l’art. 269 c.c., che disciplina l’azione diretta alla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale.

E’ questa un’azione di stato, essendo diretta all’accertamento della filiazione naturale, vale a dire all’acquisto, da parte del figlio naturale, del formale status non risultante dall’atto di nascita, in quanto è mancato il riconoscimento dei genitori.

A questo punto è bene ricordare che sotto la disciplina del’42, l’accertamento della paternità era ammesso solo in ipotesi tassativamente previste dalla legge.

Data la difficoltà della prova, l’ordinamento consentiva di agire solo se ricorrevano circostanze in presenza delle quali la corretta identificazione dell’autore del concepimento risultava altamente probabile.

La disciplina previgente, quindi, limitava la possibilità di far dichiarare giudizialmente la filiazione naturale a casi espressamente stabiliti.

Tali limitazioni sono state poi opportunamente rimosse dalla riforma del ’75, la quale lascia ampia libertà di azione all’interessato.

Oggi la paternità o la maternità possono essere dichiarate negli stessi limiti in cui è possibile il riconoscimento(art. 261c.c.); ferma restando, quindi soltanto l’inamissibilità di una dichiarazione in contrasto con lo stato legittimo, legittimato o naturale in cui la persona si trova (art.253 c.c.).

In queste circostanze, dovrà prima essere rimosso il precedente stato e solo successivamente si potrà chiedere la dichiarazione giudiziale.

(21)

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La normativa del ’75 aveva però mantenuto il divieto di accertamento giudiziale della filiazione naturale per i figli incestuosi concepiti da genitori consapevoli del rapporto incestuoso (art. 278 c.c.), ammettendo solo un’azione volta a far valere, nei confronti del genitore, il diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione (art. 279 c.c.).

Di recente la Corte Costituzionale ha ritenuto incostituzionale tale divieto per violazione del principio di uguaglianza, rilevando però che esso non viene meno per il riconoscimento spontaneo da parte del genitore.

La diversità di detta soluzione viene giustificata per il fatto che il figlio è totalmente privo di responsabilità per l’incesto(115)

.

Il diverso trattamento riservato al riconoscimento della filiazione naturale (incestuosa) e alla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità (incestuosa) risiederebbe nell’interesse del minore;interesse che si deve dimostrare nel riconoscimento non per nulla proponibile dal padre o dalla madre, e che, per contro, sarebbe dimostrato dalla stessa richiesta nella dichiarazione giudiziale, proponibile infatti dal solo figlio. Comunque sia, sembra ormai che si possa dire che con la procreazione si viene a costituire, per la persona nata, un diritto allo

stato di figlio, diritto cioè che farà accertare la titolarità formale del

rapporto di filiazione.

Unico limite, se si vuole, è l’accertamento sull’ammissibilità dell’azione che è previsto venga svolto, in via preliminare, dal giudice attraverso un giudizio distinto e autonomo rispetto a quello relativo alla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità.

(115)

Corte Cost. 28 novembre 2002 n. 494, GD, 02, fasc. 48, 44. La questione di

(22)

95

Prima di poter iniziare il giudizio sulla dichiarazione giudiziale infatti, il giudice, in ogni caso, deve accertare se sussistono specifiche circostanze(116) che facciano apparire l’azione giustificata(117) e cioè verosimilmente fondata(118)(art. 274, 1° co, c.c.).

Nel dettaglio dunque, nonostante gli ampi margini di esperibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità e maternità, il legislatore del ’75 aveva conservato all’art. 274 c.c. la regola per cui l’azione doveva essere preventivamente ammessa dal Tribunale competente per il giudizio di merito, invero dai più criticata e ritenuta non conforme alla Costituzione.

Il Tribunale, pur godendo di larga discrezionalità in questa fase, doveva motivare in ordine alla sussistenza del fumus boni iuris ed anche dell’interesse del minore.

In sostanziale conformità con lo spirito del codice precedente, nell’intenzione del legislatore del ’42 lo scopo originario del giudizio di ammissibilità era quello di compensare l’ampliamento dei casi di

(116)

Pur in mancanza di una espressa previsione, si ritiene che la competenza spetti

al tribunale per i minorenni se si tratta di un minore: N. SALME’, in Nuovelciv. 1984, 216.

(117) Cass. 13 giugno 1998, n. 5427: in tema di dichiarazione giudiziale della

paternità naturale, il giudice della fase preliminare ex art. 274 cc, oltre al compimento del giudizio di probabilità del fatto, è tenuto ad esaminare, con pienezza di giurisdizione non solo le questioni pregiudiziali di rito, ma anche quelle preliminari di merito, fra cui i motivi di improponibilità della domanda che valgono a risolvere immediatamente la lite, e la statuizione su tali questioni di diritto (per sua natura non delibativa, ma piena e completa) costituisce giudicato esterno rispetto al successivo giudizio ordinario.

(118)

Cass. 18 aprile 1991, n. 4033 in GI 1992, I, 1, 1802: (in motivazione) la pronuncia di ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità non postula l’acquisizione di elementi forniti in un grado elevato di efficacia probatoria, ma solo il concorso di circostanze che valgono a convincere il giudice della probabilità che la domanda, in base alle prove da acquisire nel successivo giudizio di merito, possa essere riconosciuta fondata.

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96

esperibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e di impedire azioni temerarie o ricattatorie ai danni del preteso genitore.

A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, si è avuto un significativo mutamento della originaria funzione della fase di ammissione.

Infatti, con la sentenza n.341 del 1990, la Consulta ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art.274 c.c. nella parte i cui non prevedeva che l’azione promossa nell’interesse del figlio infrasedicenne fosse ammessa solo quando il giudice avesse ritenuto l’accertamento rispondente all’interesse del figlio minore.

In forza di quella pronuncia, il Tribunale, pur godendo in questa fase di ampia discrezionalità, era così tenuto a motivare il decreto conclusivo non solo in ordine alla sussistenza del fumus boni iuris, ma anche dell’interesse del minore.

Di recente, la Corte Costituzionale ha dichiarato

costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c. nella sua integralità, cosicchè oggi l’azione può essere intrapresa senza alcuna preventiva indagine.

L’accertamento dell’interesse del minore potrà essere effettuato direttamente nel giudizio di merito.

Legittimato a proporre l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e della maternità è il figlio la cui azione è imprescrittibile (art. 270 c.c.).

(24)

97

Se però il figlio è minore o nascituro(119) l’azione può essere proposta in suo nome dal genitore esercente la potestà(120); se poi il minore è sottoposto a tutela o è interdetto giudiziale l’azione è proposta dal tutore previa autorizzazione del tribunale (art. 273 c.c.)(121).

Partendo dal dato di fatto che vede la ricerca della maternità e della paternità naturale fondata sul principio della libertà della prova, possiamo sottolineare che, in particolare, la disciplina di tale prova rimane sostanzialmente invariata rispetto al passato e non pone particolari problemi interpretativi: ai sensi dell’art. 269, co3, c.c., tale prova è raggiunta quando sia dimostrata l’identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume essere madre.

Detta disposizione non pone una limitazione dei mezzi di prova, ma indica l’oggetto della prova, che può essere raggiunta con ogni mezzo, e quindi anche mediante presunzioni.

(119)Cfr. T. Brindisi 1° febbraio 1982 (decr.), in GI 1983, I, 2, 350, con nota di

Mezzanotte.

(120)

Cass. 11 marzo 1993, n. 2970: l’art.274, 1° comma c.c., che consente al

genitore esercente la potestà o al tutore di promuovere, nell’interesse del minore, l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, prevede un’ipotesi di sostituzione processuale, conferendo un potere di azione a soggetti diversi dal titolare del diritto in funzione di un loro particolare interesse all’esercizio di detto potere.

(121) Cass. 2 marzo 1993, n. 2576: l’azione per la dichiarazione della paternità o

maternità naturale ha carattere personalissimo e la legittimazione al suo esercizio compete esclusivamente al figlio e, dopo la sua morte, ai suoi discendenti. Se il soggetto legittimato è legalmente incapace, essa può essere promossa, nel suo interesse, unicamente dal genitore che esercita la potestà o dal tutore, in forza delle tassative ipotesi di sostituzione processuale previste dal’ art.273 cc. Ne consegue che l’eventuale nomina di curatore speciale (art. 274, u.c., cc) comporta la necessità della presenza di questo in giudizio – per tutelare l’incapace da possibili conflitti di interesse con chi ha proposto l’azione- ma non determina una legittimazione attiva concorrente con quella del genitore o del tutore, né escludente la stessa.

(25)

98

Si è discusso in passato se la norma di cui all’art.9 del r.d.l. 8 maggio 1927 n. 798, che vietava alle direzioni sanitarie degli istituti di assistenza all’infanzia di rivelare l’esito delle indagini compiute per accertare la maternità degli illegittimi, avesse come destinatari soltanto i dirigenti dei servizi oppure anche gli organi giurisdizionali; l’opinione prevalente in dottrina è quella della applicabilità erga omnes del divieto, con la conseguenza che una prova della maternità che comportasse la pubblicizzazione di dette indagini dovrebbe considerarsi contra legem.

La giurisprudenza, invece, è orientata nel senso che la funzione della norma debba assicurare al neonato una migliore tutela di carattere sanitario e sociale, garantendo nello stesso tempo alla madre l’anonimato, e non quella di limitare i poteri del giudice all’esame.

Come la prova della maternità, anche quella della paternità può essere data con ogni mezzo, salva la limitazione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.

Si ritiene, peraltro in dottrina, che la coesistenza delle due circostanze possa valere a fornire la prova suddetta, e che comunque ognuna di esse, in concorso con altri elementi di adeguato valore probatorio, possa essere assunta come mezzo di prova della paternità.

Specifici limiti all’ammissibilità di taluni mezzi di prova possono ravvisarsi in ragione della indisponibilità del bene controverso; non si potrà, di conseguenza, ammettere il giuramento decisorio o suppletorio, mentre la confessione, pur non costituendo piena prova, può certamente integrare un indizio sul quale fondare una presunzione.

(26)

99

E tuttavia la problematica, relativa alla prova, può considerarsi in qualche misura superata, attesa la rilevanza assunta negli ultimi anni dalle indagini ematologiche e dall’esame del DNA.

Il cammino per arrivare al riconoscimento del valore probatorio di dette indagini non è stato breve, nonostante l’art. 235 cc, nella sua formulazione novellata, ne avesse decretato l’ammissibilità nell’azione di disconoscimento della paternità, una volta provato l’adulterio della madre.

Per lungo tempo, infatti, la giurisprudenza mancò di cogliere la portata innovativa di tale disposizione, che usando l’espressione

caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno aveva inteso

chiaramente ricomprendere anche indagini genetiche su base non strettamente ematologiche, con una formula così ampia da consentire l’impiego delle conoscenze già raggiunte e di quelle che si sarebbero in seguito acquisite, grazie alla progressiva evoluzione delle ricerche in campo biologico.

Nonostante la portata della norma, si continuò a sostenere che l’esame ematologico, richiedendo una ispezione della persona, non poteva essere considerato un mezzo ordinario di prova, ma uno strumento del tutto eccezionale, da ammettere solo quando non fosse altrimenti possibile accertare i fatti di causa.

Solo con l’importante sentenza del 1980 la Cassazione valorizzò le prove ematologiche e genetiche nella loro pienezza, riconoscendo, per la prima volta, il rilevante grado di probabilità della paternità che dette indagini consentono di raggiungere e considerandole non più come mezzi eccezionali di prova, ma come accertamenti dotati di piena dignità

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probatoria, idonei ad affermare la paternità in positivo, e non solo ad escluderla.

Negli ultimi anni gli enormi progressi compiuti dalla scienza immunoematologica e gli elevatissimi livelli raggiunti di probabilità della paternità, fino al limite della certezza assoluta fornita dall’esame del DNA, hanno indotto i giudici di merito ad avvalersi normalmente di dette indagini, come elemento indispensabile di giudizio, e la Corte di Cassazione ad affermare che i risultati delle analisi possono valere a dimostrare, anche in via esclusiva, il rapporto di filiazione.

C’è però da aggiungere che la legge processuale (art. 118 c.p.c.) non consente l’esecuzione coattiva sulla persona che non voglia sottoporsi all’esame,e pertanto l’esperimento dell’indagine tecnica richiede la disponibilità del preteso padre:tuttavia il giudice di merito può trarre argomento di prova da tale rifiuto ai sensi dell’art. 116 c.p.c.

L’esperienza giurisprudenziale rivela che, sempre più spesso, la parte convenuta in giudizio rifiuta di sottoporsi all’esame, per la consapevolezza della decisività del mezzo, e che sempre più di frequente i giudici di merito attribuiscono a tale scelta processuale un valore primario, fino a fondare la dichiarazione di paternità su questo solo elemento.

3. L’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima

La previsione normativa che regola la procedura per l’inserimento del figlio naturale all’interno della famiglia legittima del

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101

suo genitore naturale di cui all’art. 252c.c., tende a suscitare non oche perplessità.

Come prima osservazione c’è da segnalare che l’ipotesi dell’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima non differisce sostanzialmente dall’ipotesi dell’introduzione del figlio naturale nella casa coniugale di cui all’abrogato art. 259 c.c.(122)

.

La nuova differente locuzione da una parte esprime con maggior chiarezza che l’ipotesi, come era senza dubbio prima della riforma, concerne la convivenza stabile e non la permanenza occasionale nell’abitazione, dall’altra implica una più ampia considerazione degli interessi familiari, non più limitata a quelli del coniuge del genitore naturale ma estesa a quella dei figli legittimi.

Puntuale conferma di questo secondo significato si riscontra, peraltro, nella previsione normativa del consenso dei figli legittimi di età superiore ai sedici anni la cui volontà o anche la semplice opinione erano prima della riforma del tutto irrilevanti.

L’eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli adulterini poi, ha reso necessaria una riconsiderazione della disciplina, riguardante l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima del genitore che lo ha riconosciuto, in una prospettiva di tutela degli interessi, costituzionalmente prevalenti, dei membri della famiglia legittima.

Il legislatore, infatti, mosso dall’intento di ricercare un difficile equilibrio tra diritto del figlio naturale a crescere in un ambiente familiare che gli possa assicurare un armonico sviluppo della

(122)

(29)

102

personalità(123) ed il diritto dei membri della famiglia legittima a non vedere turbata la serenità ed armonia del nucleo familiare, ha dettato all’art. 252c.c. una disciplina che, non a caso, è stata definita una delle più complesse e discusse dell’intera legge di riforma(124)

.

Nel tentativo di tutelare le diverse posizioni giuridiche, ma in un ottica di preminenza della famiglia legittima, l’art. 252 c.c. ha infatti predisposto un complesso ed articolato sistema di consensi da parte dei soggetti interessati e di autorizzazione da parte del Tribunale per i minori, espressione del principio fissato all’art. 30, co 3, Cost., secondo cui la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti della dei membri della famiglia legittima.

L’innovazione è di un certo rilievo e si inquadra in una nuova concezione della famiglia, non più organizzata gerarchicamente ma comunitariamente, articolata in modo che la tutela degli interessi familiari risulti affidata al consenso di i suoi membri e pertanto anche dei figli che abbiano raggiunto un’ età ritenuta capace di decisione responsabile.

Certamente la ratio della norma, allora, è da individuarsi nell’esigenza di tutela della famiglia legittima, costituzionalmente prevista dall’art. 30 Cost., per cui i diritti dei figli naturali sono soggetti a cedere qualora si pongano in contrasto con i diritti dei membri della famiglia legittima.

(123) C.M. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 363; B. LENA, La filiazione naturale,

cit., p. 342; P.UBALDI, La posizione del figlio naturale, cit., p. 270.

(124)

G. FERRANDO, La filiazione naturale, cit., p.247; A. PALAZZO, La

(30)

103

Tuttavia, il sistema creato dalla norma, con la previsione del consenso all’inserimento da parte del coniuge e dei figli legittimi ultrasedicenni conviventi, pone tali soggetti in una posizione di assoluta supremazia concedendo loro un potere di veto alla convivenza del figlio, mentre al contrario, nessun parere è previsto per il figlio stesso, il quale non è chiamato, almeno nella previsione dell’art. 252 c.c., ad esprimere alcuna volontà sulla futura eventuale convivenza, neppure se sia ultrasedicenne e abbia facoltà di discernimento.

Nella disciplina dell’art. 1252 c.c., si può identificare, nondimeno, una astratta forma di tutela anche per il figlio, in quanto l’intervento giudiziale è idoneo a valutare le difficoltà che eventualmente si frapporrebbero per il figlio nella convivenza, al fine di evitargli convivenze in ambienti ostili (125).

La riforma, però, non si è limitata alla previsione di una più estesa partecipazione decisionale dei membri della famiglia legittima, ma ha condizionato l’inserimento del figlio naturale all’ulteriore consenso dell’altro genitore naturale che abbia effettuato il riconoscimento, oltre che all’autorizzazione del giudice che deve preventivamente accertare che l’inserimento non sia contrario all’interesse del minore.

Prima di considerare la rilevanza giuridica del consenso del coniuge e dei figli legittimi, allora, sarà bene soffermarsi sul consenso dell’altro genitore naturale, la cui previsione normativa sembra esulare

(125)

C. BIANCA, op. cit., 319. Osserva G. FERRANDO, op. cit., 102, che l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima presenta notevole interesse, in quanto è l’unico caso in cui viene positivamente disciplinato il fenomeno, assai più articolato della convivenza della famiglia, fenomeno tutt’altro che trascurabile e vasto.

(31)

104

dalle reali esigenze del caso e sembra risentire di un difetto di coordinamento oltre che di coerenza con l’art. 317 bis.

Infatti, a norma di quest’ultimo articolo, l’esercizio della potestà e quindi l’affidamento ad uno dei genitori, quando questi non siano conviventi, può essere disposto dal giudice nell’esclusivo interesse del minore.

E allora non si comprende per quale ragione, nel caso in questione, il giudice debba escludere l’inserimento del figlio nella famiglia legittima non per il dissenso, eventualmente arbitrario, manifestato dall’altro genitore naturale .

Va considerato, inoltre, che tale dissenso, oltre che arbitrario e capriccioso, potrebbe nascondere una finalità ricattatoria non solo di natura patrimoniale, ma anche allo scopo di una convivenza stabile.

Si può ritenere che la previsione normativa del consenso dell’altro genitore naturale costituisca un pericolo per la famiglia legittima e soprattutto un’ingiustificata prevalente tutela degli interessi dei genitori naturali.

A questo punto vien fatto di chiedersi se la norma in questione non debba ritenersi illegittima per violazione dei principi di ordine costituzionale.

In verità essa sembra costituire un grave limite ad una oggettiva valutazione dell’interesse del minore; per questo sembra rivelarsi in contrasto con la piena tutela giuridica e sociale che la Costituzione garantisce ai figli nati fuori dal matrimonio (art. 30, co 3, c.c.) e ancor più se si considera che tale limitazione non è in ragione dei diritti dei membri della famiglia legittima quanto piuttosto rivolta ad una non

(32)

105

giusta protezione degli interessi dell’altro genitore naturale, protezione che, comunque, non trova riscontro nella disciplina generale della potestà sui figli naturali, così come poi è stata regolata dall’art. 317 bis.

Indipendentemente da una soluzione radicale di ordine costituzionale, va inoltre aggiunto che in ulteriori ipotesi, nelle quali si riconosce all’altro genitore il potere di esprimere il proprio consenso, come nel caso del riconoscimento successivo di cui all’art. 250 c.c., il nostro ordinamento, nell’esclusivo interesse del minore, consente sempre l’intervento del giudice che, quando il rifiuto del coniuge non sia convenientemente giustificato, può decidere diversamente.

Concludendo, allora, o si riconosce l’illegittimità costituzionale della norma 252 c.c. per violazione degli artt. 30, 31 e 24 Cost., o si ritiene comunque applicabile la regola generale di cui all’ art. 317 bis, così che il giudice possa, nell’esclusivo interesse del minore, autorizzare l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima dell’altro genitore, nonostante il dissenso, sempre che non sia per giustificato motivo.

Riassumendo la nuova disciplina in primo luogo, diversamente dal passato(126), vediamo che distingue a seconda che il riconoscimento sia avvenuto durante il matrimonio o prima di esso; se il figlio naturale è stato riconosciuto durante il matrimonio, l’art. 252, co 2, c.c. dispone che

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Nel codice del ’42, stante il divieto di riconoscimento dei figli adulterini, il

figlio naturale, se riconosciuto durante il matrimonio-il che poteva avvenire se il concepimento era avvenuto prima del matrimonio (art. 252, c. 1°, c.c. vecchia formulazione)- non poteva essere introdotto nella casa coniugale del genitore, senza il consenso dell’altro coniuge, salvo che questi avesse già dato il suo assenso al riconoscimento (art.259 abr.). Poiché, invece, nulla era detto a proposito del figlio riconosciuto prima del matrimonio, si riteneva, per interpretazione a contrariis del medesimo articolo, che questi potesse essere liberamente introdotto senza la necessità del consenso di alcuno: cfr. L. FERRI, Lezioni sulla filiazione, cit., p. 171.

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il suo inserimento nell’ambito della famiglia legittima possa essere autorizzato dal Tribunale per i minori, a condizione che non sia contrario all’interesse del minore stesso(127)

, che sia accertato il consenso del coniuge e dei figli legittimi che abbiano compiuto i sedici anni e siano conviventi(128), nonché dell’altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento(129).

Se invece, il figlio naturale è stato riconosciuto prima del matrimonio, il suo inserimento nella famiglia legittima non è soggetto ad autorizzazione giudiziale, ma subordinato al solo consenso del coniuge, consenso che non sarà necessario se il figlio era già convivente con il genitore all’atto di matrimonio o se il coniuge ne conosceva comunque l’esistenza, (art. 252, comma 3, c. c.) e a quello dell’altro genitore.

La necessità del consenso dell’altro coniuge si spiega con il richiamo al principio di cui all’ art.144 c.c. secondo il quale i coniugi

(127)

La giurisprudenza ha più volte affermato, ad esempio, che non merita accoglimento la domanda diretta ad ottenere l’affidamento e l’inserimento nella propria famiglia di minore riconosciuto, qualora vi siano fondati sospetti che il riconoscimento non sia veritiero, ma sia stato effettuato con dolosa violazione della normativa in tema di adozione: cfr., Trib. Min. Catania, 13 agosto 1982, in Dir.

famiglia, 1983, I, p. 135; analogamente, Trib. Min. Potenza, 23 febbraio 1984, I, p.

,651.

(128)

Il consenso dei figli conviventi è richiesto fino a che essi non abbiano

raggiunto la maggiore età o comunque fino a che siano sottoposti alla potestà dei genitori; in questo senso: U: MAJELLO, Della filiazione naturale, cit., p.64 ss. Cfr. B. LENA, Della filiazione naturale e della legittimazione, sub art. 252 c.c., in M. SESTA (a cura di), Codice della famiglia, cit., p. 1297; ID., La filiazione naturale, cit., p.342; P. UBALDI, La posizione del figlio naturale, cit., p. 272; A. PALAZZO,

La filiazione, cit., p.556.

(129)

Il giudice può autorizzare l’affidamento e l’inserimento del minore nella

famiglia legittima di un genitore nell’ipotesi in cui il rifiuto dell’altro genitore sia contrario all’interesse del figlio. In argomento cfr., B. BRANDANI, Legittimazione e

inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima, in M. Sesta- V. Cuffaro (a

cura di), Persona, famiglia e successione nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, p. 613.

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107

concordano fra loro l’indirizzo della vita familiare; sotto questo profilo, la manifestazione di volontà del coniuge è senz’altro espressione del suo diritto di partecipare, in modo determinante, ad ogni scelta relativa alla famiglia.

E’ da chiedersi, inoltre, se il rifiuto del coniuge consenta all’altro di ricorrere al giudice ex art.145 c.c. per tentare una soluzione concordata o per demandare a quest’ultimo la ricerca di una soluzione più adeguata alle esigenze della famiglia; tuttavia considerando che, stando al tenore letterale del comma 2, art. 145 c. c., il giudice ha il potere di decidere solo se richiesto congiuntamente ed espressamente dai

coniugi, l’ammissibilità in suo intervento potrà tutt’al più esaurirsi in un

tentativo di conciliare le contrapposte esigenze ( art. 145, comma 1, c. c.) su istanza del coniuge che chiede l’inserimento, senza, però, che tale soluzione possa essere autoritativamente imposta.

Da non tralasciare, infine, la novità più qualificante dell’articolo in esame consistente, come già, riportato, nella previsione del consenso dei figli legittimi che abbiano compiuto il sedicesimo ano di età.

La necessità di tale consenso si giustifica per il fatto che, pur avendo i genitori il diritto di avere presso di sé i figli minori sia legittimi che naturali, tuttavia ai primi, perché membri della famiglia legittima, viene riconosciuto il potere di escludere i secondi rappresentando la convivenza imposta con soggetti estranei alla propria famiglia una limitazione ingiustificata della libertà dell’individuo.

In ultima analisi, dunque, si può asserire che la determinazione di affidare alla discrezionalità dei figli legittimi, oltre che al coniuge, la

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valutazione di una possibile coesistenza, appare meritevole di approvazione, anche in considerazione dell’art. 30 Cost.

4.La filiazione non riconoscibile o non riconosciuta

La categoria dei figli non riconoscibili ricomprende quei soggetti il cui rapporto di filiazione naturale, biologicamente sussistente, non può essere spontaneamente accertato dal genitore.

Nel vigore del codice civile del 1942 la condizione del figlio non riconosciuto o non riconoscibile – categoria assai ampia stante il divieto concernente gli adulterini – era regolata dal combinato disposto degli artt. 278 e 279 c.c.

Il primo fissava il divieto di indagini nella paternità e maternità nei casi in cui il riconoscimento era vietato, ed anche nei casi in cui era ammissibile ai sensi degli artt. 251 e 252, c. 3 c.c.

Il secondo disponeva che nei predetti casi –riconoscimento vietato- e in ogni altro caso in cui non poteva più proporsi l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, il figlio potesse agire per gli alimenti, ricorrendo determinati presupposti e precisamente: 1) se la paternità o maternità risultasse indirettamente da sentenza civile o penale; 2) se la paternità o maternità dipendesse da un matrimonio dichiarato nullo; 3) se la paternità risultasse da una non equivoca dichiarazione scritta dei genitori.

Tenuto conto che l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità-diversamente da quella di maternit - era all’epoca prescrittibile

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109

anche riguardo al figlio (art. 271 c.c.), ne derivava che l’azione di cui all’art. 279 c.c. era di fatto riservata ai figli adulterini ed incestuosi, a coloro che non erano in grado di comprovare una delle condizioni richieste dall’art. 269 c.c., e infine, a coloro che avrebbero potuto agire per la dichiarazione di paternità, ma erano decaduti.

Da notarsi, peraltro, che i legittimati potevano pretendere tutela solo se in grado di provare la paternità o la maternità in uno dei modi elencati dalla disposizione in rassegna, a che, di fatto, escludeva da ogni tutela tutti quei figli non in grado di invocare una sentenza civile o penale, l’esistenza di un matrimonio dichiarato nullo, ovvero l’esistenza di una non equivoca dichiarazione scritta.

E’ probabile, quindi, che la grande maggioranza dei legittimi non riconoscibili restasse priva di qualsiasi forma di tutela nei confronti dei genitori, e, quand’anche fosse riuscita a beneficiare della tutela di legge, doveva accontentarsi dei soli alimenti (130).

Nel complesso, la disciplina era in sicuro contrasto con l’art. 30 Cost.(131), onde necessariamente il legislatore della riforma era tenuto ad intervenire.

Il gruppo, che originariamente comprendeva i figli adulterini, oggi si è sensibilmente ridotto.

(130) Ciò sino al 1974, allorchè la Corte Costituzionale (sent. 8 maggio 1974, n.

121, in Foro it., 1974, I, c. 1981) dichiarò illegittimo l’art. 279 c.c. – in relazione all’art. 30 Cost.- nella parte in cui riconosceva al figli naturale i soli alimenti e non anche il diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione.

(131) M. BESSONE, Rapporti etico-sociali (artt. 29-34), in G. Branca(a cura di),

Commentario alla Costituzione, -11 Foro it., Bologna-Roma, 1976, p. 95 Id., Patria potestà, funzione educativa dei genitori e disciplina dell’obbligo di mantenimento, in Riv notar., 1975, 11, I, p. 527.

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110

Vi rientrano, infatti, coloro che hanno già un titolo di stato di filiazione legittima o naturale altrui per i quali il riconoscimento è, a norma dell’art. 253 c.c., inammissibile, ed i figli di genitori incestuosi in malafede, ossia consapevoli al momento del concepimento, del vincolo di parentela o affinità tra loro esistente (art. 251c.c.).

Alle due categorie normativamente definite deve poi aggiungersi una variegata eterogeneità di situazioni in cui l’irriconoscibilità del figlio è ricavabile dalla disciplina relativa al riconoscimento; rifacendosi alla riforma del ’75 ad esempio nel caso di dei figli di genitori che non abbiano ancora compiuto il sedicesimo anno di età (art.250, co 5, c.c.), nonché in quello dei figli infrasedicenni di genitori a cui il Tribunale abbia negato l’autorizzazione al riconoscimento (art. 250, co 4, c.c.).

Nella prima ipotesi si tratta, evidentemente, di una situazione per il figlio naturale, di irriconoscibilità soltanto temporanea, destinata a venir meno con il compimento dei sedici anni da parte di entrambi i genitori o del genitore; tanto è vero che l’art.11, co 3, l. adoz., prevede per tale situazione, un rinvio d’ ufficio della procedura di adottabilità del figlio, di modo che, se al compimento del sedicesimo anno di età, il genitore naturale decide di non effettuare il riconoscimento, il figlio verrà dichiarato in stato di adottabilità.

Nella seconda delle ipotesi indicate, il riconoscimento è precluso al genitore naturale dal Tribunale per i minorenni; tuttavia tale preclusione è superabile con il compimento dei sedici anni da parte del figlio, che può cos’ esprimere direttamente il proprio assenso al riconoscimento, o, con il raggiungimento della maggiore età,

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111

allorquando egli acquista il diritto di agire autonomamente per far accertare il rapporto di filiazione naturale (art. 270 c.c.).

Ancora non può riconoscere il proprio figlio naturale il genitore legalmente incapace il cui atto, infatti, è impugnabile ai sensi dell’art. 266 c.c.; ma tuttavia, l’incapacità del genitore non può impedire al figlio naturale di agire per far accertare giudizialmente il rapporto di filiazione naturale.

Vi sono infine situazioni in cui il riconoscimento del figlio naturale non è inammissibile ma privo di efficacia; è il caso in cui il figlio ultrasedicenne abbia negato il proprio assenso al riconoscimento (art. 250, co 2, c.c. e art. 45, co 2, D. P. R. 396/2000), quello in cui sia intervenuto nei suoi confronti la dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo (art. 11, co 7, l. adoz),(132)

nonché del riconoscimento del figlio premorto, compiuto in assenza di discendenti legittimi o figli naturali(art. 255 c.c.).

In tali casi, il riconoscimento è ammissibile, anche se improduttivo di effetti e pertanto l’ufficiale giudiziario non potrebbe rifiutare la ricezione del’atto.

Di regola, nei casi in cui il riconoscimento è inammissibile, il rapporto di filiazione naturale no può essere nemmeno accertato in via giudiziale.

(132)

Il riconoscimento diventerà invece retroattivamente inammissibile solo se all’affidatamento preadottivo seguirà la pronuncia di adozione. In argomento, cfr.,M. VALIGIANI, La filiazione non riconoscibile, in M. Sesta; B.Lena; M. VALIGIANI,

Filiazione naturale. Statuto e accertamento,Milano, 2001; sull’ammissibilità del

riconoscimento effettuato dopo la dichiarazione dello stato di adottabilità, v. anche Trib. Min. Bologna, 22 gennaio 1985, in Giust. civ., 1985, I, 2631.

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