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Spunti di riflessione su un’etica per il nostro

tempo.

A

LBERTO

S

CERBO

Università di Catanzaro

vol. 1, no. 2, 2015

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Spunti di riflessione su un’etica per il

nostro tempo

A

LBERTO

S

CERBO Università di Catanzaro scerbo@unicz.it ABSTRACT

Faced with the global situation, a progressive narrowing of the space for political action has occurred thereby giving free reign to the motivation to impose of those who command.

The shadows of a diluted system and the expansion of power that masks the real individuals who impose their own will with the concurrent scarcity of counter-weights devised to contain these authoritarian and arbitrary drifts brings to mind the problem of definition of the value base of power. On this topic the underlying approach is in the direction of opposition between proposals that are axiological noncognitivisms and those of perfectionistic visions.

Precisely in the wake of theories that have been directed to a search for formal rules to orient the material actions and for the indication of rational procedures to support collective choices, we have continued refining the theorising of a public ethics that, rising above the limits of a metaphysical direction, defines itself as a constructivist and objectivist proposal. With the declared intention to develop an open strategy of critical and collective comparison so as to determine the morality of an institution, the nucleus of the inquiry concerns the discovery of criteria of justification of the principles and rules that

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govern the public sphere through the formation of a collective agreement defensible through the use of good reasons.

Starting from these premises, A., having retraced critically the various theories about public ethics contained in the works of Bentham, Rawls and Dworkin, calls for a substantial rethinking of the public sphere organisational procedures to cover the way that politics, law and economics intersect. In particular, the need to restore the connection between the right and the good, in the awareness that the procedures cannot in any way disregard contexts and, that is to say, the presence of actual existing ideals and values that characterise each community and also single individuals, verifiable rationally.

The political, legal and economic have no value in themselves or in their reciprocal relationship, but only in connection with that whole that is human.

Keywords: corruption; public ethics; public morality; equality; communitarianism; institutions responsibility; theory of justice; power of individual; democracy rules.

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Spunti di riflessione su un’etica per il nostro tempo

1. Le vicende che stanno infiammando la politica di questo

tempo, con il loro carico di disagio individuale e di insofferenza collettiva, e l’emersione di movimenti di protesta e di forme di resistenza civica stanno rimettendo in discussione gli assetti delle relazioni prodotti dal processo di globalizzazione. Fino a questo momento è stato scontato assumere per inevitabile lo stato di cose esistente e procedere alla ricerca di nuove chiavi concettuali da adattare, in assenza di un’effettiva possibilità di governare la nuova realtà fenomenica. Improvvisamente è rifiorita la riflessione critica sul reale contenuto del presunto “disordine” mondiale, nella consapevolezza che è assolutamente necessario andare oltre la semplice la lettura dei mutamenti intervenuti nella fase più recente della post-modernità, per scoprire il significato autentico di ciò che alberga in profondità e, quindi, travalicare il piano del contingente e del particolare per recuperare la dimensione sostenuta dalla radicale problematicità.

La sensazione più avvertita è stata sicuramente l’incapacità, o forse l’assenza di volontà, di governare le trasformazioni innescate dalla mondializzazione. Di fronte alla realtà globale si è assistito ad progressivo restringimento dello spazio dell’azione politica per lasciare campo libero alla spinta impositiva dei soggetti dominanti. Con l’aggravante di consentire alle regole dell’economia, intese come tutto “ciòche attiene all’area del non politico” (1), di imporsi su ogni altra forma di normatività e di provocare lo sconfinamento “impersonale” del mondo globale, dove ciascuno è ridotto all’indefinitività numerica, priva di ogni connotazione di umanità.

La continua osmosi e lo scambio di posizioni tra vecchie e nuove autorità, che si legano reciprocamente per ragioni di interesse, hanno alimentato sostanziali innovazioni nel gioco della macchina politica, indirizzate verso l’esplosione della teoria della necessità di una estesa, o forse “assoluta” libertà del potere, coincidente, per un verso, con la restrizione o l’interpretazione “utilitaristica” delle regole della democrazia e, per l’altro, con l’oscuramento del diritto o, meno drasticamente, con

(1) Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, Laterza, 2001, p. 75.

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l’uso del tutto asservito degli strumenti giuridici. In questa ottica va letta la teorizzazione di un’idea di democrazia, interna ed esterna, di tipo trasversale, espressiva del processo di mondializzazione (2), ma, di più, la progressiva azione di espropriazione perpetrata nei riguardi degli organismi rappresentativi della “volontà popolare”, finalizzata all’esercizio di un potere privo di limiti ed esente da controlli. In tal modo la carenza o la totale assenza di democrazia non costituiscono più un’eccezione, ma sono diventati il canone principale di funzionamento della politica. Con la conseguenza di azzerare il confronto tra le parti e di annullare ogni possibile processo comunicativo, che rivela, però, come la praticabilità di soluzioni dialogiche è configurabile solamente “in alto”, tra soggetti rivestiti di capacità decisionale, con l’esclusione, invece, di qualsiasi interferenza proveniente “dal basso”.

Le ombre di un sistema diluito ed espanso di potere non ha, perciò, modificato le logiche che presiedono ai rapporti di forza, né ha di fatto allargato i centri di imputazione decisionale, ma, più semplicemente, ha svolto un’azione di mascheramento dei veri soggetti che impongono il proprio volere. E a ciò fa da contraltare la contestuale rarefazione dei contrappesi ideati per contenere le derive autoritarie ed arbitrarie. Con il risultato finale di creare un metodo operativo incentrato sulla giustificazione intrinseca di qualsiasi decisione, che trova, apoditticamente, in un imprecisato altrove la propria ragion d’essere: in un gioco di rinvii che finisce per eludere qualsiasi imputazione di responsabilità politica.

La polverizzazione delle forme della modernità fa intravedere, quindi, il “volto bruto” del potere, che diventa, per un verso, sfuggente e indistinto, e per l’altro tentacolare ed ancor più invasivo. Di fronte alla combinazione di questi fattori, contrastanti e al tempo stesso coincidenti, le molteplici sovranità si prospettano sempre più incombenti e inespugnabili, di modo che tanto i singoli quanto le collettività avvertono il peso, quasi ineluttabile, di un potere del tutto oppressivo, per il quale, come ammonisce Aristotele, tra chi comanda e chi obbedisce si instaura il rapporto che c’è tra il libero e lo schiavo, tra il soggetto e l’oggetto del dominio, tra il fine e lo strumento dell’azione.

(2) D. MOCKLE, Mondialisation et État de Droit, in Mondialisation et État de Droit, a cura di D. MOCKLE, Bruxelles 2002, p. 73.

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I discorsi economici, politici e giuridici sono stati, e sono ancora, improntati su una visione solamente “tecnica” ed “amministrativa”, ormai decaduta in una spirale drammaticamente “contabile”, in cui l’unico interesse che traspare è la determinazione del “come” e del “che cosa” delle azioni umane, senza alcuna proiezione verso la ricerca dell’essenza, rivolta, cioè, alla definizione del “perché” delle cose. Tra gli interstizi delle questioni che attanagliano la collettività compaiono, però, fugaci, lampi di riflessività, che smorzano il flusso accelerato delle attività disperse nella vorticosità dell’istantaneità aproblematica e fanno risaltare la necessità di inquadrare i diversi ambiti operativi, ma anche i loro rapporti reciproci, nella cornice della sfera dell’eticità.

Tale prospettiva richiama immediatamente il problema della definizione dei valori. Sul tema l’approccio di fondo è nel senso della contrapposizione tra proposte di non cognitivismo assiologico e visioni perfezionistiche. Qualche teorico individua, invece, più sottilmente, ma forse anche più genericamente, la distinzione tra una teoria politeistica dei valori, di derivazione weberiana, e un’ottica fondamentalistica, che accomuna tanto i giudizi di valore di discendenza religiosa quanto quelli riferibili a posizioni ideologicamente orientate. Ciò rinvia di necessità alla relazione tra fatti e valori. Ad una concezione divisionistica, che sostiene l’assoluta separazione, si affianca quella naturalistica, che si affida alla conoscenza dei fatti del mondo per individuare uno specifico insieme di beni, capaci, per natura, di determinare un’etica dei fini. Con la conseguenza di configurare il contrasto tra un pluralismo etico, dettato dalla varietà delle preferenze di valore, ed una teoria monistica, incentrata sull’unicità oggettiva del catalogo di valori perseguibili.

Nell’ambito di quest’ultimo modello interviene un’ulteriore specificazione, che può seguire, però, diverse direzioni. Infatti, per un verso è stata posta una mera partizione interna e, perciò, è stata profilata una differenza esclusivamente di grado, tra una teoria “debole”, che privilegia la struttura argomentativa e la formulazione di un complesso razionale di regole procedurali, ed un’altra “forte”, che predetermina i fini delle azioni umane sulla base dei beni indicati dalla natura (3). Non è mancato anche chi ha inteso sceverare la teoria naturalistica da quella più

(3) Così M.LA TORRE, Morale, in Altri seminari di filosofia del diritto, a cura di M. LA TORRE –G.ZANETTI, Soveria Mannelli, 2010, in particolare pp. 24-26.

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propriamente costruttivistica, che ad un sostanziale antinaturalismo accompagna l’idea di un’intersezione tra fatti e valori (4).

Fatto sta che, proprio sulla scia delle teorie che si sono orientate ad una ricerca delle regole formali per indirizzare le azioni materiali e all’indicazione di procedure razionali per supportare le scelte collettive, si è andata affinando la teorizzazione di un’etica pubblica che, superando i limiti di un indirizzo metafisico, si è profilata come una proposta oggettivista e costruttivista. Con il dichiarato intento di elaborare uno schema aperto di confronto critico e collettivo per la determinazione della moralità delle istituzioni. Il nucleo dell’indagine riguarda, così, la scoperta dei criteri di giustificazione dei principi e delle regole che presiedono alla sfera pubblica, attraverso la formazione di un consenso collettivo difendibile mediante il ricorso a buone ragioni.

Questa impostazione costituisce uno degli esiti del processo di secolarizzazione e trova pieno sviluppo soprattutto nel mondo anglosassone, dove il discorso sulla giustizia distributiva si coniuga con le aspirazioni di etica applicata, per pervenire alla formazione di spazi nei quali riporre le procedure più idonee alla configurazione di scelte condivise da imporsi a tutti. Secondo una metodologia fondata sul dialogo e sul confronto dialettico tra le diverse espressioni di etica, in cui l’individualismo di base si riveste di una carica di normatività per innestarsi nell’alveo della comunità e le preferenze personali si intrecciano con le esigenze pubbliche.

2. Le teorie sull’etica pubblica hanno come base essenziale la

distinzione tra la sfera del privato e quella del pubblico, che si profila in seguito all’applicazione del metodo proprio delle scienze allo studio dei fenomeni politici e giuridici e alla conseguente ricostruzione della natura dell’uomo in termini convenzionali. La frantumazione della condizione umana conduce alla distinzione tra l’aspetto teorico e quello pratico, tra la scelta naturalistica e quella volontaristica, ma soprattutto tra il foro dell’interiorità e quello dell’esteriorità. Si comprende, quindi, come il piano della morale occupa uno spazio differente rispetto a quello della politica e del diritto, che risultano, pertanto, connotati da fattori costitutivi diversi e si richiamano a virtù del tutto distinte.

(4) Cfr. S.MAFFETTONE, Verso un’etica pubblica, Edizioni scientifiche italiane, 1984, pp. 27-30.

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L’azione politica, svolta con il contributo delle leggi, non ha bisogno di indicazioni morali per svolgere con profitto il proprio compito nell’interesse della collettività. Il problema sorge, però, nel momento in cui la legislazione non appare più come uno strumento sufficiente e richiede il supporto di regole morali, in grado di orientare la vita pubblica verso il perseguimento del benessere generale. In questo contesto teorico si sviluppa, così, l’etica pubblica, che trova un’espressa concettualizzazione nell’ambito dell’utilitarismo e dell’economia del benessere.

Dall’opera di Bentham discende l’idea centrale che il principio di utilità è alla base delle azioni umane e costituisce il fondamento per la realizzazione di un sistema legislativo razionale indirizzato all’attuazione della felicità. La visione morale che ne scaturisce presenta tutti i contorni tipici della modernità, poiché è impiantata su una componente individualistica e si esplica in un gioco di calcolo. Sotto il primo profilo si sottolinea come la prospettiva di utilità individuale costituisce la premessa, e allo stesso tempo il contenuto, di una nozione a carattere universale, che dal campo soggettivo della “massima felicità per il maggior numero” si innalza al livello oggettivo della “massima quantità di felicità”. Ciò consente una valutazione misurabile della felicità attraverso la somma dei valori dei parametri di riferimento, che favorisce la formazione di un giudizio morale assolutamente preciso ed indiscutibile. Si stemperano, così, i conflitti morali e si fornisce un criterio esteriore, definibile mediante il calcolo numerico e, quindi, dotato di valenza oggettiva, per selezionare e spiegare le azioni politiche e valutare l’attività legislativa.

Il paradigma quantitativo conduce sicuramente a soluzioni espressive di certezza e stabilità, ma così sacrifica, inevitabilmente, i diritti individuali, che acquistano rilievo solamente in funzione di uno scopo collettivo, posto per convenzione in posizione più elevata. Si perviene, perciò, alla riformulazione del canone utilitaristico, soprattutto quando si evidenzia la necessità di considerare il problema morale nei termini di differenza qualitativa tra le preferenze individuali. Si pensa, in tal modo, che la garanzia e la giustificazione dei diritti può essere assicurata solamente attraverso la predisposizione di un codice di regole su cui fondare la correttezza morale di un comportamento. Questo mutamento di direzione apre la strada, però, ad obiezioni di tipo

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intuizionistico, che rilevano la nullificazione della radice utilitaristica, in virtù di un ragionamento distante dalla realtà fattuale e del tutto ripiegato su una matrice assolutistica.

Il superamento dell’utilitarismo costituisce il punto di passaggio per la rappresentazione di un’etica pubblica più conforme ad un ideale di giustizia. Ed infatti il successo di questa formula a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è strettamente legata alle teorie che mirano a coniugare la libertà con l’uguaglianza, ed in particolare a quella di Rawls. Con il volume A Theory of Justice si riafferma il modello contrattualistico, che, riproponendo i canoni elaborati dal giusnaturalismo classico, sviluppa una strategia costruttivistica, diretta alla definizione delle regole di razionalità, capaci di contribuire alla giustificazione delle decisioni pubbliche, in quanto eticamente ragionevoli. Il problema etico si risolve attraverso l’accordo sui principi, che acquista un carattere di oggettività in quanto basato sull’assoluta parità di condizione degli uomini, in virtù di un “velo di ignoranza” che nasconde a tutti le effettive condizioni di vita, ma anche la configurazione della società. Il dialogo aperto e pluralista permette, così, di fissare le regole procedurali necessarie a delineare un assetto politico e istituzionale giusto, poiché si indirizza prioritariamente a garantire l’eguale distribuzione dei beni sociali principali e successivamente a procedere all’equa distribuzione delle risorse. Il criterio del maximin, ovvero della massimizzazione delle posizioni minime, mediante il quale la giustificazione delle ineguaglianze economiche e sociali dipende esclusivamente dal beneficio apportato ai soggetti più svantaggiati, consente di limitare le differenze naturali e di armonizzare anche le diversità di aspettative e di piani di vita.

Rawls fornisce un fondamento morale all’idea di uguaglianza, poiché pone “la propria dottrina sotto il segno di un’altra concezione della razionalità, di tipo kantiano, che sottopone il perseguimento di qualsiasi fine all’osservanza delle regole di correttezza” (5) e, al contempo, indica i criteri di giudizio a cui affidarsi per la valutazione delle azioni pubbliche. Permane in sottofondo un interesse preminente per il tema dei diritti, visto che il progetto di distribuzione delle risorse non è unicamente il risultato di un particolare sistema economico e sociale, ma si connette in modo indissolubile ad un preciso quadro generale di carattere normativo istituzionale.

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Nel libertarismo di Nozick risalta il rilievo attribuito ai diritti, la cui funzione è quella di stabilire “i limiti all’interno dei quali la scelta sociale va fatta, escludendo alcune alternative, fissandone altre, e così via” (6). Ciò discende dall’esaltazione della libertà individuale, in forza della quale nessuno può essere sacrificato per altri, con il conseguente vincolo collaterale per cui è proibita l’aggressione contro altri. Lo Stato, attraverso un graduale processo spontaneo a fasi successive di natura mercantile, acquisisce il compito di protezione e di garanzia della legalità, ma il suo intervento è ridotto al minimo. Questa impostazione sposta la questione morale dall’area pubblica a quella personale, poiché le scelte da compiere riguardano i singoli con le loro vite separate e non coinvolgono in alcuno modo il soggetto pubblico.

Allo Stato è negato, infatti, un qualsiasi compito di redistribuzione delle risorse o di riequilibrio delle condizioni sociali, nella convinzione che in nessun modo si possono imporre ad un individuo sacrifici a beneficio di altri o che qualcuno sia risorsa per gli altri. L’iniziativa privata e la distribuzione delle risorse è affidata al mercato, che riveste, però, un ruolo passivo, di mero spettatore, tant’è che il suo intervento si profila semplicemente in relazione al giudizio di correttezza dell’azione individuale e, di conseguenza, alla giustificazione del processo di redistribuzione delle risorse. L’idea dell’uguaglianza scompare nella visione utopica di una vita all’insegna della piena libertà e del rispetto dei diritti individuali, ma anche di riconoscimento del principio di separatezza delle persone e del valore delle doti naturali di ognuno. Ma così sfumano anche i contorni di un’etica pubblica.

Per uscire da questo imbuto è necessario ricomporre il rapporto tra libertà ed uguaglianza e considerare la prima “un aspetto dell’uguaglianza piuttosto che un ideale politico autonomo potenzialmente in conflitto con essa” (7). La conciliazione di questi due principi, compiuta da Dworkin, passa attraverso due direttrici, una che indica il modo e il grado di tutela dei diritti di libertà in accordo con l’uguaglianza effettivamente raggiunta mediante la distribuzione dei beni, ed un’altra che pone la libertà individuale come condizione indispensabile per la costruzione di un modello sostenibile di uguaglianza distributiva.

(6) R.NOZICK, Utopia, Stato ed Anarchia, Basic Books, 1974, p. 166.

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In virtù di queste premesse, l’uguaglianza non può essere intesa, secondo Dworkin, come uguaglianza di benessere o di opportunità, perché in queste circostanze prevale l’uguale trattamento, che lascia il più ampio spazio alla volontà individuale sul tipo di vita prescelto e si affida ad una specifica idea di benessere come parametro valutativo del successo. Ma non può neanche ripetere la forma dell’uguaglianza delle “capacità” di agire o di esercitare le funzioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, dal momento che l’intervento pubblico dovrebbe orientarsi ad assicurare la riconducibilità delle differenze alle scelte e alle personalità individuali e non alle disponibilità delle risorse personali ed impersonali. E nemmeno può essere posta nei termini unidimensionali di Rawls, che tiene conto esclusivamente dei beni principali, senza riporre alcuna attenzione a tutto il complesso delle condizioni espressive della vita individuale.

Dworkin fonda, così, la propria teoria sul trattamento degli individui da uguali, che meritano medesimo “concern and respect”. Questa premessa costituisce la chiave per la formulazione di un percorso di distribuzione equa delle risorse affidata al mercato sulla base delle preferenze personali in relazione a quelle esterne. Qui si inserisce il ruolo dei diritti e si innesca il piano di intervento per la neutralizzazione degli effetti discendenti dalle posizioni di svantaggio naturali o sociali. Alla comunità politica spetta il compito di limitare le differenze di risorse personali, senza intaccare le differenze di personalità. Si supera, così, il protagonismo rawlsiano del gruppo più svantaggiato per riconquistare, attraverso la valutazione dei diritti individuali, il contributo partecipativo di tutti alla definizione e alla variazione di distribuzione.

La riflessione avviata da Rawls produce, però, anche un cambio di visuale, in considerazione dell’opportunità di inserire il ragionamento politico nel contesto della nuova realtà esistente, che, per gli effetti dei processi di globalizzazione e per la problematizzazione dei rapporti locali, spinge verso la ricerca di una pluralità differenziata di soluzioni in materia di giustizia distributiva. Gli individui non possono essere più considerati isolati, ma come componenti di comunità portatrici di precisi valori ed interessi, ragion per cui il livello di uguaglianza si prospetta maggiore all’interno delle singole comunità piuttosto che nella relazione esterna tra differenti comunità. Il comunitarismo indirizza, perciò, le procedure etiche verso il consolidamento e la tutela dell’apparato

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valorativo dei singoli gruppi, in ragione del principio secondo il quale l’identità pubblica di ogni individuo in quanto persona morale è stabilita in modo univoco e immutabile e definisce in modo esatto il contenuto della concezione del bene.

L’uguaglianza liberale quale criterio di moralità pubblica ha messo in rilievo come la vita buona si connette direttamente alla giustizia della distribuzione delle risorse. In tal modo il riconoscimento del pluralismo etico è fondato sull’assunzione del principio di uguaglianza come base della migliore teoria della giustizia. L’etica pubblica subisce una torsione nel momento in cui si è affacciata nell’arena politica la rivendicazione dei valori identitari e i diritti individuali sono stati correlati agli interessi dei gruppi. Ciò ha calibrato differentemente la questione etica, poiché si è avvertito, e si avverte ancora, lo scontro tra un’ottica globale e uno sguardo locale, ma anche una continua tensione tra una logica di gruppo e una prospettiva individuale, con quanto ne consegue sul piano della tutela dei diritti.

La proiezione verso la costruzione di un’etica pubblica di matrice liberale ad aspirazione universalistica ha prodotto, così, anche una reazione contraria, che ha condotto all’esito più radicale del recupero della dimensione ristretta comunitaria, ma anche ai movimenti di protesta per un ritorno alla “natura” e alla “propria terra” e alle spinte centripete per una riconquista dello spazio pubblico “nazionale”. Sta di fatto che ora bisogna fare i conti anche con le analisi economiche di chi riconosce che tutte le scelte hanno effetto sul comportamento umano effettivo e l’obiettivo finale dell’azione sociale deve essere, al di là di ogni valutazione di mero interesse concreto o di semplice efficienza, la promozione del bene umano (8). Ma anche con chi, dal lato giuridico, finisce per sostenere un’etica pubblica legata ai valori costituzionali, che ingloba per estensione un riferimento forte ai diritti dell’uomo e sfocia infine in un’etica pubblica mondiale ispirata al diritto umanitario dei popoli. E, per finire, con quegli autori che promuovono un’etica essenzialista, che richiede forti decisioni politiche basate su criteri sostantivi e transculturali (9).

(8) Così A.SEN, Etica ed economia, Laterza, 2002.

(9) Come ad esempio M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, 2002.

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3. In questo frangente della storia si avvertono alcuni segnali che

invitano ad un ripensamento sostanziale dei processi organizzativi della sfera pubblica, che investono le modalità di intersecazione di politica, diritto ed economia e provocano ricadute preoccupanti sulle forme delle scelte decisionali. Con una ovvia incidenza sulla struttura ed i contenuti dell’etica pubblica. Non si può sottovalutare, infatti, l’idea tendenziale, che traspare dai comportamenti di chi esercita il potere politico, dell’assoluta discrezionalità delle istituzioni, priva di responsabilità, che spesso rasenta i limiti dell’arbitrarietà, e della completa distanza dalla comunità, di cui neppure vagamente si percepiscono richieste e bisogni. Lo spazio pubblico è vissuto come una sorta di porto franco, dove non hanno ragione di esistere procedure di giustificazione delle azioni e dove vige un codice morale del tutto autonomo, quasi a cristallizzare un’autentica separazione tra etica pubblica e senso dell’eticità.

Il potere costruisce il sistema, lo plasma in relazione ai propri interessi e se ne fa l’unico interprete. In più, la “confusione” che aleggia sul modello multilevel della govenance globale rivela, in realtà, un’accentuata autoreferenzialità, che costituisce al contempo la causa e l’effetto dell’assenza di reale trasparenza, della vaghezza delle forme procedurali, dell’inadeguatezza delle motivazioni a supporto delle scelte decisionali e soprattutto dell’evaporazione di ogni possibilità di intervento esterno. Senza contare, infine, che la discussione pubblica avviene ormai su un piano quasi irreale, orchestrato intorno ad aspetti di “ragioneria” istituzionale e riassunto in termini numerici e formule statistiche, che dimenticano (per disinteresse o per volontà?) i destini sia delle collettività, sia dei gruppi, sia degli individui. Il problema in questo momento non è il bene vivere e neppure il semplice vivere, ma è diventato il sopravvivere. Ma il pubblico sembra non accorgersene. Ed allora anche il programma di etica pubblica finisce per perdere di significato.

Si avverte, pertanto, la necessità di ricomporre il legame tra il giusto e il bene, nella consapevolezza che le procedure non possono in alcun modo prescindere dai contesti e, cioè, dalla presenza di ideali e di valori esistenti di fatto, che connotano ogni comunità ed anche i singoli uomini, verificabili razionalmente. Entrambi i canoni devono rispondere, perciò, contemporaneamente, ai parametri di soggettività ed oggettività, al fine di costruire l’armonia tra individuale ed universale ed impedire la prevalenza tanto della matrice strettamente relativistica quanto di quella

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assolutistica. La lezione sull’etica proveniente dall’antichità può fornire in questo senso un contributo fondamentale, soprattutto perché consente di comprendere come la formulazione delle regole e delle procedure corrette per pervenire alla giustificazione razionale delle decisioni pubbliche può, e deve, ancora costituire la premessa dell’agire pratico, lo strumento di individuazione delle forme indispensabili per lo slancio verso l’in sé delle cose.

Ragionare in termini puramente operativi rischia di far diventare l’etica pubblica un semplice paravento dietro il quale nascondere, magari tra le pieghe di un consenso manipolato o di una condivisione fittizia, la realtà della prevalenza di opinioni soggettive o di decisioni imposte. O ancora una mera cornice concettuale giustificativa di esperimenti giuridici diretti alla composizione di cataloghi di regole e principi con un valore di facciata, esclusivamente declamatorio, privi di incidenza pratica nello svolgimento dell’attività pubblica.

Nella Politica di Aristotele si legge che “la vita migliore per ciascuno, da un punto di vista individuale, e per gli stati, da un punto di vista collettivo, è quella vissuta con la virtù, provvista di mezzi adatti a compiere azioni virtuose” (10), perché soltanto a questa condizione è possibile pensare al particolare in relazione all’universale, guardare agli interessi individuali in combinazione con quelli della collettività, riportare ad unità compositiva le sfere del pubblico e del privato. Non è concepibile, cioè, una vita politica fondata sulla virtù che non sia espressione di un insieme di singoli soggetti virtuosi; e per altro verso non è possibile una virtù personale che non si radichi nella collettività, una morale individuale che non si esprima pienamente nella vita pubblica, dalla quale trae il necessario alimento per la propria compiutezza.

Questo impianto teorico costituisce la condizione della libertà dell’uomo, ma anche il fondamento per un’esistenza proiettata verso l’affermazione del dominio di sé, che non ha una valenza astratta, ma anche un riscontro pratico, dal momento che indica il modo di contenimento delle passioni e i criteri di comportamento. Che risiedono nella ricerca infinita, continua e inarrestabile della “giusta misura”, che non dipende soltanto dalla disposizione secondo retta ragione, ma dalla capacità di rispondere sul piano effettuale alla retta ragione. Tanto che la

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migliore deliberazione è di colui che “seguendo il ragionamento, sa mirare al migliore dei beni realizzabili per l’uomo.(…) La saggezza riguarda l’azione; cosicché essa deve sapere entrambe le cose, l’universale e il particolare, ma soprattutto questo” (11).

La caratteristica del giusto mezzo è rappresentata dalla giustizia, che costituisce la virtù perfetta, perché, essendo un bene altrui, in quanto riguarda gli altri, trascende di necessità il piano individuale per estrinsecarsi in termini relazionali e indirizzarsi al perseguimento del bene comune. La vita politica, e quindi l’azione pubblica, devono essere ispirate all’ideale della giusta misura, che consente di superare i limiti delle posizioni che si sforzano di prospettare equilibrate organizzazioni economiche e razionali sistemi istituzionali, per recuperare la spinta propulsiva di ciò “che è” al di là delle forme.

L’arte della misura, rammenta Platone, si deve distinguere in due parti, l’una che comprende “tutte le arti che misurano il numero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza e lo spessore in rapporto al loro contrario – e l’altra che unisce – tutte quelle che si riferiscono alla giusta misura (…) e a tutte quelle determinazioni che si collocano in mezzo fra i due estremi” (12). Le concezioni operative sollecitate dalle più affermate riflessioni politiche recenti e i risultati pratici realizzati dai soggetti pubblici nella post-modernità hanno delineato una realtà costruita in termini di conteggio e proporzione, secondo la logica del misurare “matematico”.

La politica intesa come intelligenza della giusta misura rivendica, invece, l’attenzione per la scoperta del comune senza annullare le diversità, dell’interesse per il destino della comunità attraverso la valorizzazione delle individualità, della relazione dialettica tra astratto e concreto, della tensione verso l’incontro “problematico” di fatti e valori. Senza volere per questo immaginare formule preconcette o ripiegare su soluzioni perfezioniste, ma con la convinzione dell’uguale necessità di rifuggire da un radicale noncognitivismo etico come dal nichilismo ontologico. Il problema non deriva dal tipo di percorso argomentativo pensato per individuare le ragioni razionali a sostegno di scelte e comportamenti universalizzabili, ma dal bisogno di concetti orientativi,

(11) ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI, 1141 b. (12) PLATONE, Politico, 284 e.

(16)

A.SCERBO, Spunti di riflessione su un’etica per il nostro tempo

LLI, Vol. 1, No. 2, 2015, ISSN: 2421-2695 I. 16

capaci di consentire la mediazione della molteplicità dell’esperienza e sempre suscettibili di apertura al “nuovo”.

Il metro della medietà deve essere sostenuto dall’aspirazione alla scoperta dell’essere, perché “chi si inganna su ciò che è, s’inganna su ciò che è legittimo” (13). Ciò significa che nell’ambito dell’azione politica non bisogna mai perdere di vista la priorità dell’essere dell’uomo, che non costituisce una mera variabile, ma l’obiettivo principale delle scelte pubbliche. Il misurare “metafisico” esalta, e non annulla, il pluralismo e forma l’involucro nel quale trovano residenza le procedure discorsive e le strutture argomentative che presiedono ai processi decisionali. Esprime, in altri termini, ciò che “sta” dietro, e alla radice, di quanto muta e si trasforma e definisce il divenire dialettico dell’esistenza. E consente di comprendere come il politico, il giuridico e l’economico non hanno valore in sé, e neppure nella loro reciproca relazione, ma solamente in connessione con quell’intero che è l’umano.

(13) PLATONE, Minosse, 316 b.

(17)

A.SCERBO, Spunti di riflessione su un’etica per il nostro tempo

LLI, Vol. 1, No. 2, 2015, ISSN: 2421-2695 I. 17

Bibliografia

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