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4. Timor Sacro: una rilettura

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Academic year: 2021

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4. Timor Sacro: una rilettura

L’idea alla base del presente elaborato nasce dall’intento di trattare di Stefano Landi-Pirandello considerandolo come uno scrittore autonomo e indipendente, certo un po’ originale e a tratti prolisso, ma comunque diverso ed emancipato rispetto alla figura del padre Luigi. Questa ipotesi mi è stata suggerita dalla lettura delle recensioni critiche che hanno accompagnato l’uscita del romanzo nel 2011; tuttavia l’analisi approfondita dell’opera e la sua contestualizzazione nella biografia e nella produzione letteraria dell’autore mi hanno portata a trarre conclusioni differenti.

Timor sacro è l’opera più importante di Stefano Pirandello, quella della

maturità creativa alla quale ha affidato tutti i suoi sforzi, di conseguenza anche quella in cui la sua autonomia dovrebbe essere più marcata (si consideri che Pirandello ha ultimato quest’opera poco prima di morire negli anni Settanta, dunque molto dopo la scomparsa del padre). Eppure, al contrario, il romanzo è profondamente dipendente dalla subordinazione spirituale al padre già a partire dal titolo: il “Timor sacro”, infatti, non è altro che il timore reverenziale che il figlio nutre nei confronti del genitore, figura tanto fondamentale quanto soffocante soprattutto dal punto di vista artistico.

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L’intento del seguente capitolo è dunque provare ad analizzare le corrispondenze che hanno portato chi scrive ad ipotizzare che il vero protagonista del romanzo Timor sacro, non sia Simone Gei, né tanto meno Selikdàr Vrioni, bensì Luigi Pirandello, il suo sfaccettato rapporto con il figlio Stefano e più in generale la figura di padre.

La sofferta dipendenza di questo simbiotico rapporto è evidente: sono loro i “due a specchio” di si cui parla nel romanzo, in cui sono presenti diverse figure di padre, per lo più fittizie, ma che nel complesso permettono tutte di ricostruire i differenti aspetti del rapporto tra Stefano e Luigi.

In un’intervista del 2011, la curatrice del romanzo, Sarah Zappulla Muscarà ha affermato che Stefano Pirandello è uno degli scrittori più significativi ed interessanti del Novecento, che la schiacciante presenza dell’opera paterna ed un lungo e colpevole oblio hanno contribuito a relegare in una condizione di marginalità da cui è finalmente emerso grazie alla pubblicazione di Timor Sacro, che ne ha mostrato al meglio l’assoluta autonomia letteraria e l’estro creativo.76

Questo elaborato non intende affatto mettere in discussione l’originalità e le capacità di Stefano Pirandello come autore e drammaturgo, bensì sostenere che Timor sacro non può essere considerato il culmine di

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Intervista realizzata da Simona Lo Iacono nel dicembre 2011 e pubblicata sul blog La poesia e lo spirito.

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quell’emancipazione di Stefano Pirandello dal padre che probabilmente egli non ha mai raggiunto.

Stefano Landi ha più volte rivendicato la sua autonomia di artista nel tentativo di liberarsi da quell’insopportabile limbo nel quale il genio creativo del padre lo aveva imprigionato, ma il tentativo più evidente del fallimento di questo intento è riscontrabile proprio in Timor sacro; l’intero romanzo è infatti attraversato da un filo conduttore sotteso alla trama principale, costituito dall’analisi del rapporto con il padre condotta attraverso i difficili rapporti familiari dei protagonisti che riecheggiano le vicende personali dei due Pirandello.

Come già osservato in precedenza, i personaggi del romanzo non sono altro che delle sagome vuote che si riempiono di caratteri autobiografici; così se Stefano Pirandello ha affermato di avere peculiarità simili a quelle di Simone, Jacopo e Selikdàr, la nostra analisi tenterà di riempire altre sagome modellandole sulla base di tratti caratteriali che riportano direttamente alla figura di Luigi Pirandello.

Attenendosi rigorosamente alla trama, si può osservare che sia Simone, sia Selikdàr, sentono pesare su di loro il peso di una colpa, di un’azione spregiudicata nei confronti della loro famiglia che contribuirà a distruggere per sempre i rapporti con i loro cari; Selikdàr ritiene di essere in difetto in

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quanto non ha vendicato la morte del padre, preferendo la fuga in Italia e l’inizio di una nuova vita, Simone, dal canto suo, interrompe i rapporti con il proprio genitore a seguito del matrimonio con Lora.

Il vissuto di Stefano Pirandello si discosta dalle vicende di entrambi i suoi personaggi, egli non ha mai interrotto i rapporti con il padre, pur avvertendone spesso il peso, ed è ipotizzabile che nel proprio romanzo abbia deciso di far operare delle scelte ai suoi personaggi che egli non ebbe mai il coraggio di effettuare.

Ma, onde evitare di scavare troppo nel vissuto dell’autore e avanzare ipotesi che non otterranno mai una conferma o una smentita, risulta più opportuno ai fini di questa disamina addentrarsi nel testo per cercare alcune corrispondenze.

Simone Gei è uno scrittore che ha iniziato a scrivere durante la prigionia di guerra proprio come Stefano e come lui ha un padre facoltoso; il padre, Lorenzo Gei, non è uno scrittore, tuttavia è pur sempre un uomo di lettere, un professore, uomo in gamba e preparatissimo, da sempre molto ammirato dal figlio. Il signor Gei sosteneva che Simone dovesse portare a compimento i suoi studi prima di sposarsi e poter sostenere sulle sue spalle il peso di una famiglia, inoltre non aveva mai perso occasione per ricordare

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al figlio di studiare e di non perdere l’abitudine neanche durante gli anni della prigionia di guerra:

«Perché io ti avvisavo quando eri in guerra: l’esercizio! Ti raccomandavo di non perdere l’esercizio agli studi. Che ti sarebbe costato durante le convalescenze? Quando bastava dare anche un solo esame per sessione e prendendo le materie più leggere. E invece no, hai pensato che fosse tuo diritto andartene dietro ai tuoi sogni, i sogni a occhi aperti, svagarsi, Poeta!».77

Come si può osservare, questo passo riecheggia in qualche modo le lunghe lettere che intercorrevano tra Luigi e il figlio durante gli anni della prigionia che quest’ultimo scontò tra Mauthausen e Plan, nelle quali il padre non perdeva occasione di ricordargli l’importanza dell’esercizio, del lavoro e di una cultura solida. Anche Luigi Pirandello auspicava che il primogenito non si dedicasse troppo ad astrazioni quali la filosofia e la poesia ma che seguisse studi più concreti e puntuali. Eppure la vocazione di Stefano era quella di diventare scrittore, proprio come quella di Simone Gei.

Sembra quasi che attraverso i passi del suo romanzo Stefano abbia tentato di impostare quella conversazione che nella realtà avrebbe voluto avere con il padre; scrive infatti:

«Io ho deciso. Mi importa solo questa bassa convenienza, che mi permette di amare, di riamare chi mi ama, e di dedicarmi al durissimo lavoro che scelgo, che si confà con le mie inclinazioni di sempre. E tu non puoi negare che le conoscevi! Ma col tuo ascendente, ti è stato troppo facile ottenere che io non gli dessi credito. Ora basta. Se un’altra volta ti

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dessi retta, non finirei più di rimpiangere di non essermi liberato, ora che posso, e non so quali diverrebbero i miei sentimenti verso di te. Io ti amo, babbo, ma devo vivere. Ti prego».78

A parlare per bocca di Simone in questo passo sembra proprio Stefano Pirandello; Simone riesce a portare a compimento quella svolta, sofferta ma liberatoria, che Stefano non seppe o non volle mai operare.

Nel romanzo a questo intricato rapporto padre-figlio, fa da contraltare quello tra Simone e il figlio primogenito Jacopo. Per certi versi anche questo legame è assolutamente autobiografico in quanto ricalca un altro aspetto della personalità di Luigi Pirandello, quello di padre affettuoso, amorevole e affezionato, che tiene in grande considerazione l’opinione del figlio e che sa riconoscere perfettamente la differenza con gli altri due (seppur amatissimi) figli, i quali, proprio come quelli di Simone, si disinteressavano totalmente dell’attività artistica del padre.

«Lo esasperava la serena indifferenza dei fratelli minori alle passioni dell’ora e verso il lavoro dello scrittore Gei: due veri estranei».79

La coppia Simone-Jacopo porta alla luce l’aspetto positivo del rapporto tra Stefano e Luigi, fatto di chiacchiere, scherzi, fiducia e collaborazione; forse non è un caso il fatto che all’interno di Timor sacro, Jacopo non abbia

78 Ivi, p. 134 79 Ivi, p. 169

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alcuna velleità scrittoria e soprattutto muoia all’età di quattordici anni. Il suo rapporto con il padre rimane positivo e idilliaco poiché non subisce il peso dell’evoluzione, della crescita e delle brame di indipendenza, che probabilmente nell’ottica di Stefano erano la causa del rapporto freddo e conflittuale tra Simone e il padre.

Descrivendo il legame di Simone Gei con i figli (anch’essi tre come quelli di Luigi e dello stesso Stefano) Pirandello intendeva probabilmente mettere in luce anche la distanza tra il suo modo di essere padre e quello del proprio genitore; Stefano considerava la libertà come un elemento portante su cui impostare i rapporti, memore probabilmente dell’”ingombro” costituito dalla propria figura paterna.

«Simone invece era riuscito a lasciare liberi da sé i figli suoi. Che non pensassero tanto a lui, a seguirlo. Più generoso? Più povero? Sapeva ora che quell’umiltà e passione con cui il padre lo supplicava ora di restargli vivo, così commovente e ingenua, così tutta di cuore, di povero padre tutto padre, era soltanto il modo di non aver orrore del suo sentimento vero, vitale, dov’egli certo era oscuramente consapevole che, dopo aver dato e quasi imposto al figlio quella fiducia ch’egli potesse aver vita solo nell’ambito della loro comunione, se egli fosse morto, non soltanto la sua grande forza l’avrebbe lasciato vivo, da solo, ma si sarebbe perfino rinutrito prodigiosamente di questa sventura […] Dalla morte del figlio sarebbe forse nata la sua opera più bella. E pover’uomo non voleva».80

Pirandello, nonostante abbia fatto operare a Simone una scelta totalmente differente dalla sua, carica il personaggio del peso dell’interruzione dei

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rapporti con il genitore. Per liberarsi di questo fardello, nel pieno della maturità, Gei decide di essere “pienamente figlio” e di fare un passo verso il padre freddo e distaccato; in conseguenza di ciò sceglie di interrompere il racconto della vita di Selikdàr, per dedicarsi alla narrazione di una storia della sua famiglia.

«E l’idea era come si è detto che, aiutato da questo mezzo, poi dovesse essere il padre a capire, cioè lui a percorrere la distanza che li separava e a riparare al grande errore che era nato tra loro. Ma era Simone, e non il padre, che s’industriava a scrivere, a ricostruire una stagione passata, a mettere in campo ragioni. Presi nel sortilegio di ore incatenate, nessuno dei due, né Simone né Lora, s’avvedeva che l’idea stessa del libro la diceva lunga su quella soggezione. Un invincibile timor sacro».81

Dunque nel libro è il figlio Simone ad andare incontro al padre perduto, tentando di infrangere un muro fatto di anni di silenzio.

Va tuttavia sottolineato che Stefano Pirandello sceglie di rappresentare nel romanzo un rapporto con il padre che non corrisponde totalmente a quello reale, dunque una rottura fittizia mai avvenuta e una ribellione del figlio che si sottrae al peso e alla soggezione della figura paterna che non gli lascia spazio per vivere e mettere le sue radici nel mondo.

Se è indubbio il fatto che i tratti caratteriali di Stefano sono riscontrabili nella triade Simone- Selikdàr- Jacopo, è necessario sottolineare che la figura del professore Lorenzo Gei e il suo modo di essere padre hanno

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decisamente ben poco a che vedere con la personalità di Luigi Pirandello. Stefano aveva ben presente la storia della sua famiglia e nella stesura del romanzo opera una mescolanza di elementi biografici tratti ora dalla sua storia personale, ora da quella del padre. Sembra in particolar modo ipotizzabile che gli elementi negativi della relazione filiale tra Simone e Lorenzo rispecchino la conflittualità tra Luigi e don Stefano, quelli positivi il rapporto reale tra Stefano e Luigi.

Andrea Camilleri nel suo saggio Biografia del figlio cambiato, descrive Luigi Pirandello come un padre amorevole a cui Stefano e i suoi fratelli devono tutto sia dal punto di vista materiale, sia artistico. Luigi, invece, aveva avuto col proprio padre un pessimo rapporto caratterizzato da incomprensioni, dissapori e profonda diversità, che lo porterà ad erigere tra sé e il genitore «un muro di vetro che non si dissolse mai, anzi crebbe di spessore e di altezza e col passare degli anni divenne alla fine insormontabile»82; Luigi si risolse ad abbattere questo muro simbolico solo in età adulta, durante la malattia e la vecchiaia di don Stefano.

Dar conto seppur brevemente dei pessimi rapporti tra Luigi e il padre, è indispensabile per un’analisi precisa del suo modo di essere genitore in totale contrasto con il comportamento che don Stefano aveva usato nei suoi riguardi. Egli era mosso da un eccesso di zelo nei confronti dei figli, che lo

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spingeva ad interessarsi a qualsiasi aspetto della loro vita privata e lavorativa, ma al contempo a instaurare un gioco continuo di paragoni tra sé e loro. Stefano era una scrittore proprio come lui quindi il confronto sorgeva spontaneo, Fausto invece dipingeva, e paradossalmente l’altra grande passione di Pirandello era proprio la pittura. Fausto, con il suo carattere schivo, tormentato e appartato, aveva capito subito quale rischio comportasse l’ingerenza del padre nella sua arte e se ne era sottratto abilmente; Stefano, invece, soffriva parimenti il peso della figura paterna, ma sentiva anche di non essere capace di separarsi dal genitore, con il quale addirittura visse anche dopo il suo matrimonio.

Questa è un’altra delle differenze fondamentali tra Stefano e il suo personaggio Simone Gei, che riesce ad emanciparsi dall’ingerenza paterna e a condurre un’esistenza autonoma, mentre egli rimane legato al padre non solo professionalmente, ma anche dal punto di vista economico.

Alla luce di queste considerazioni sembra plausibile ritenere che la rottura tra Simone e Lorenzo Gei che Pirandello mette in scena, ricalchi più il conflitto tra Luigi e don Stefano che non il rapporto effettivo con il proprio padre. Luigi non stimava affatto il proprio genitore che riteneva anzi un uomo arido e anaffettivo, Stefano invece era il primo ammiratore del padre,

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del quale riconosceva e subiva il fascino. Non a caso anche Simone Gei stimava profondamente il proprio genitore:

«E come era sempre stato bello anche agli occhi di Simone: quando sgominava nelle discussioni, magro e pallido, i grossi colleghi e qualche serio giovane preparatissimo. Ah, la pazza idea che lo facesse in onore del figlio, sapendo che lui assisteva lì nascosto, incantato!»83

Tra i tanti elementi autobiografici del rapporto tra Luigi e Stefano ravvisabili nel romanzo, si può ipotizzare che anche le riflessioni di Simone Gei a seguito della partenza dei propri figli per la guerra, siano rapportabili ai sentimenti di Stefano e alle motivazioni che lo avevano spinto a partire per il fronte nel momento più cruento del conflitto mondiale. La sua adesione volontaria può essere considerata come un riscatto nei confronti dell’autorità paterna e una critica a quel suo essere chiuso in un mondo immaginario.

Nella parte finale del libro, infatti, si narra della partenza dei figli di Simone Gei, ormai adulti, per combattere in guerra; lo scrittore che preso dall’ansia per le loro vite trascorre le sue giornate alla scrivania, matura in questo contesto una riflessione:

«Ora, col pensiero fisso ai ragazzi lontani, alla loro vita esposta minuto per minuto, Simone si lasciava invadere anche dall’ossessione ch’essi la potessero perdere per colpa

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sua. Che ciò che veramente poteva averli spinti a partire fosse stato, inconscio a loro stessi, il bisogno di un riscatto: redimere nel giro della famiglia col loro sacrificio le debolezze del padre che per esser chiuso nel suo mondo immaginario e anche per quieto vivere aveva accettato o comunque subito e il regime e tante, tante brutture».84

Anche Stefano Pirandello aveva preso le armi per sentirsi autonomo e distaccarsi dal padre, il quale, a sua volta, era uno scrittore immerso in un mondo tutto suo, proprio come Simone Gei; un’ulteriore coincidenza biografica è data dal fatto che il padre avesse «accettato o comunque subito» il regime, come in realtà si trovò a fare Luigi Pirandello.

Nonostante finora ci siamo soffermati sull’analisi di padri con caratteristiche simili a quelle di Luigi Pirandello, all’interno del romanzo è ravvisabile anche una figura paterna lontana dalla storia biografica di Stefano, ovvero quella del padre ideale, incarnata da Emìle Girard, genitore di Lora.

Dalla caratterizzazione che Simone fornisce del suocero non si può fare a meno di notare come egli stimi l’uomo sia per la sua grande intelligenza e cultura (innegabilmente proprie anche a suo padre Lorenzo), sia soprattutto per la libertà su cui basa il rapporto con i figli.

Già durante il primo (disastroso) incontro tra i due futuri consuoceri, durante il quale sarebbe avvenuta la lite tra Simone e suo padre, il carattere

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differente dei due uomini risulta lampante: irruento, negativo e arrabbiato Gei, controllato, garbato e «pieno d’esperienza» Girard.

Durante tutto l’incontro il padre di Lora tenta di svolgere invano la funzione di mediatore; viene infatti descritto come

«Uomo duttile e garbatissimo, capace anche di manifestare quasi da subalterno ma senza piaggerie una riguardosa deferenza verso l’altro padre illustre, l’eminente pensatore invano aveva perorato con maggior tatto e ampiezza di spiegazioni di quanto avesse saputo fare Simone la causa della sua figliola adorata e quella del caro giovane, di cui aveva fatto appena ora la conoscenza ma che già sentiva di amare come un figlio».85

Il signor Girard si era inoltre premurato di difendere strenuamente la figlia, la sua intelligenza e le sue doti esattamente all’opposto di quanto aveva fatto il professor Gei:

«Mentre Emile Girard coraggiosamente portava avanti il suo difficile discorso, Simone sorprese il padre che come per astrarsene s’era messo a guardare in aria tra i palchi dei suoi libri stipati fino al soffitto, dove lo sguardo gli si riconfidava trascorrendo da padrone l’apparato intimidatorio della sua scienza. Ecco perché da un po’ taceva, e il figlio restò umiliato scoprendo che era per la piccineria di lasciar parlare l’altro a posta, senza aprir bocca per non offrirgli più nessun appoggio e vedere quando si sarebbe imbrogliato».86

La descrizione del signor Girard sembra esprimere l’ideale paterno insito nella mente di Stefano Pirandello, quello di un padre schivo, discreto e partecipe solo all’occorrenza nella vita dei figli, che non suscita in loro

85 Ivi, p. 129 86 Ivi, p. 132

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alcuna soggezione. Sentimento di soggezione che Lorenzo Gei era invece capace di suscitare non solo nel figlio, ma di riflesso anche nella nuora:

«Ora lei sapeva tante cose del signor Simone e della sua famiglia, ammessa perfino, un po’ sbalestrata, a gettare uno sguardo sulla soggezione di lui verso il padre. La figura di questo padre, al sentirne tanto magnificare l’altezza spirituale, la intimoriva».87

Nel romanzo, il leitmotiv del “timor sacro” del figlio verso il genitore permane anche se il padre è morto e ne rimane vivo solo il ricordo. È questo il caso di Selikdàr Vrioni e di suo padre, morto, come già visto, quando Selikdàr era ancora un adolescente, la cui memoria non ha mai smesso di tormentarlo a causa di quella sete di vendetta che la madre aveva imposto ad ogni costo al figlio.

Così in Selikdàr la figura del padre genera lo stesso timore reverenziale che Lorenzo Gei suscita in Simone; certo, nel caso dell’albanese esso è veicolato dalla madre e dalle sue lettere, ma si tratta pur sempre di una presenza, o meglio, di un’assenza ingombrante che influenza la vita dell’uomo fino al compimento dell’estremo “matricidio per lettera”. Eliminando dalla sua vita la madre, Selikdàr rimuove di riflesso anche la soggezione nei confronti del padre.

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Dunque Stefano Pirandello offre ai suoi personaggi la possibilità di svincolarsi da figure genitoriali opprimenti e che non permettono ai figli di affermare la propria autonomia. Così, Simone Gei interrompe i rapporti con il padre, e sebbene il finale del libro lasci immaginare un futuro riavvicinamento, al lettore non è dato di averne la certezza; Selikdàr Vrioni sceglie di fuggire dall’Albania, di rifarsi una vita e di porre fine alla faida familiare per mezzo della ricchezza accumulata.

E Stefano Pirandello? Egli sceglie di non scegliere, di rimanere per tutta l’esistenza nell’ombra di un padre con il quale sentiva di avere una grande affinità ma prigioniero della sua subordinazione filiale.

La metafora del prigioniero si addice bene a Stefano: in qualche modo non può uscire dalla sua condizione di figlio, soggiogato dalla grandezza di un’opera che vede nascere e crescere mentre tenta di muovere i primi passi nella stessa direzione e di calcare da autore gli stessi palcoscenici.

Sciascia ricorda che Alberto Savinio, sapendo bene quanto Stefano fosse succube “dell’invadente importanza di Luigi”, lasciò spiritosamente intendere in un suo scritto che per l’autore un padre “non ci voleva”, parodiando il titolo della commedia di Stefano Un padre ci vuole.88

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Possiamo immaginare Stefano come un figlio in cerca di amore, non necessariamente perché questo amore gli fosse venuto a mancare, ma perché le sue manifestazioni sono state spesso arcane, distanti e ingabbiate in sé stesse. La filiazione, infatti, ha regole sue, tiranniche e ancestrali e, in relazione alla storia di Luigi e Stefano Pirandello, si potrebbe quasi affermare che l’uno sia nato destinato al ruolo di padre e l’altro a quello di eterno figlio.

La dipendenza, a volte sofferta, da questo simbiotico rapporto portò Stefano a descrivere la propria posizione avvalendosi dell’assunto “Figlio da sempre, io”, che trova la sua massima esplicazione in una poesia intitolata Giro e compresa nel volume di liriche Le forme:

[…] Figlio da sempre io, io. E, figlio mio, quest’è vero!

per me sei da sempre nato. … Così siano i tuoi per te.

Padre per sempre, io. E, Padre mio, sì, ch’è vero!

a me sei per sempre vivo. … Così sia tuo padre a te. […]89

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Timor sacro dunque è il romanzo della vita di un “figlio sempre figlio”,

combattuto tra fedeltà alla memoria e trasfigurazione letteraria in una combinazione di storia individuale e artificio narrativo, che cerca di affermare la propria identità di uomo e di autore non volendo o non riuscendo a sottrarre sé stesso e la sua opera all’inevitabile confronto con un così grande padre.

Il fatto che in Timor sacro Stefano abbia mescolato frustrazioni, elementi biografici, risentimenti, improvvisi slanci affettivi e disperate ribellioni, conferma l’ipotesi che il romanzo non abbia costituito l’apice dell’agognato affrancamento dal giogo paterno, e avvalora piuttosto la veridicità del titolo dell’ultimo capitolo: “Il libro traversa la vita e va oltre” che sembra condensare in poche parole il lascito testamentario dello scrittore Stefano Pirandello.

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