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CAPITOLO 3 BURQA E NIQAB

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CAPITOLO 3

BURQA E NIQAB

3.1 Introduzione

Se, da un lato, per quanto riguarda il velo che non copre completamente il volto, fatta eccezione per Francia e Turchia, l’impostazione seguita dagli Stati europei farebbe pensare ad un privilegio nei confronti di una soluzione caso per caso, evitando di conseguenza interventi generali da parte del legislatore, dall’altro la questione relativa a burqa (e niqab) si presenta senza dubbio con estremi diversi (1).

I legislatori europei hanno mostrato inizialmente un certo disinteresse in proposito, data, nel Vecchio Continente, l’esiguità del fenomeno; tuttavia la sua carica simbolica ha sempre avuto rilievo ed ultimamente proprio i legislatori sembrerebbero aver riscoperto un ruolo più significativo in materia. Resta da segnalare, in via introduttiva, che anche il Canada, noto per essere Paese simbolo delle politiche multiculturaliste, si è trovato ad affrontare la delicatezza di questo tema.

1) Nicola Fiorita, L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul

diritto islamico, II edizione riveduta e ampliata, Firenze University

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Nello scenario comparatistico sta dunque crescendo il numero di interventi volti ad affrontare ed eventualmente risolvere la questione relativa a burqa e niqab (2).

È necessario quindi dedicare la giusta attenzione anche a questo fenomeno, legato, appunto, alla prassi di utilizzare determinati tipi di abito in grado di coprire il volto. Indossare questi caratteristici simboli di fede sembra essere pratica esclusiva della religione islamica, in particolare delle donne islamiche.

Il burqa ed il niqab sono i due indumenti da prendere in considerazione: il primo è presente soprattutto nell’Afghanistan e nel Pakistan nord-occidentale, diffusosi principalmente in seguito all’imposizione nel corso del regime dei Talebani; il secondo, velo nero che nasconde capo e volto lasciando visibili solo gli occhi, è utilizzato in particolar modo nella penisola arabica, generalmente accompagnato da un abito che copre l’intero corpo (abaya).

Il fatto che il viso, conseguentemente all’uso di questi indumenti, risulti in parte o del tutto nascosto, rende, sia il burqa sia il niqab, simboli cui non possono adattarsi semplicemente le soluzioni già elaborate e questo poiché si assiste ad un cambiamento dei principi e degli interessi sottoposti a bilanciamento.

2) Paolo Passaglia, Religione, abbigliamento e diritto: verso l’apertura

di una nuova fase (dall’indumento come “signe religieux” all’indumento come “dissimulation du visage”)?, in Il Foro italiano,

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Proprio riferendoci al burqa ed al niqab, tale bilanciamento tende ad arricchirsi; infatti, solitamente, l’abbigliamento con cui si esprime l’appartenenza ad una religione crea il bisogno di bilanciare, da una parte, la laicità dello Stato e, dall’altra, la libera professione di fede e la libertà personale. Sebbene, inoltre, siano state richiamate anche altre esigenze, generalmente queste hanno avuto minor rilevanza. Infatti, la difesa dell’ordine pubblico è stata ritenuta degna di interesse soltanto occasionalmente (in particolar modo nel senso dell’opportunità di ostacolare la nascita di società parallele). Allo stesso modo la difficoltà di contrapporsi ad una scelta di abbigliamento libera ed autonoma ha ridotto la portata del divieto di discriminazione tra uomini e donne e del principio di uguaglianza.

Cercando proprio il bilanciamento fra queste esigenze, in linea di massima si è scelto di dare maggior rilievo alla libertà religiosa, fatta eccezione per quei casi in cui risultassero da privilegiare altri principi.

Tuttavia, come ricordato sopra, la questione del burqa e del

niqab conduce ad arricchire il bilanciamento; sul piano

individuale rimane la libertà religiosa e personale, ma, dall’altro lato al principio di laicità va accostandosi la protezione dell’ordine pubblico. Quest’ultimo passerebbe da elemento accessorio a fondamentale argine alla libertà individuale, se non altro accettando il fatto che l’ordine pubblico necessiti della riconoscibilità delle persone.

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3.2 L’esperienza canadese

Nel dicembre 2012 la Corte suprema canadese ha espresso la propria posizione a proposito del ricorso di N.S., cittadina di fede musulmana, circa il diritto ad indossare il niqab durante una testimonianza (3).

Il caso è nato nel 2008, quando il giudice per le indagini preliminari dell’Ontario ha dovuto decidere fra la richiesta di N.S. di indossare il velo durante la deposizione e quella della controparte, secondo la quale quell’abbigliamento avrebbe leso il diritto alla difesa. L’interessata aveva denunciato uno zio ed un cugino per stupro e si apprestava a deporre contro i due in sede di

cross–examination proprio di fronte al giudice per le indagini

preliminari; tuttavia, il 10 settembre del 2008 è emersa una richiesta da parte degli accusati per far sì che il giudice imponesse a N.S. di non utilizzare il niqab nella deposizione, dato che tale indumento avrebbe potuto nascondere le espressioni facciali, compromettendo il diritto al “full answer and defense”.

3) Valentina Rita Scotti, Il multiculturalismo canadese e “la prova del

velo”: prime riflessioni sulla pronuncia della Corte suprema canadese nel caso sul niqab, in diritticomparati.it.

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A questo punto, allora, il giudice delle indagini preliminari, al fine di comprendere il significato assegnato all’indumento, ha deciso di effettuare colloquio informale con N.S.; ha stabilito così che la deposizione dovesse essere effettuata senza niqab. Il giudice ha pensato infatti che quanto sostenuto dalla donna (“sentirsi più a proprio agio”, testimoniando con il velo) sommato al fatto che la stessa, per la foto della patente di guida avesse esposto il volto senza niqab, fosse testimonianza del fatto che l’interpretazione di N.S. dell’insegnamento religioso ammettesse eccezioni. Il giudice ha preferito così chiedere alla donna di deporre senza velo, scegliendo di non limitare il diritto alla difesa degli accusati.

Nel novembre 2008, sia con una richiesta di certiorari, che con un originating application for a Charter remedy, N.S. ha fatto ricorso alla Superior Court of Justice, chiedendo che venisse annullato l’ordine del giudice per le indagini preliminari e che la Corte stabilisse il diritto a deporre ed a partecipare al processo portando il niqab. La Superior Court ha annullato l’ingiunzione del giudice per le indagini preliminari, ma ha rimesso a quest’ultimo la decisione finale; era però necessario analizzare più puntualmente e non in modo informale le convinzioni religiose della donna.

N.S. ha fatto allora ricorso alla Court of Appeal for Ontario nel maggio 2009, facendo richiesta di un order, affinché potesse indossare il velo durante le dichiarazioni. Nell’agosto 2009, però, anche la controparte si è rivolta alla Corte; si chiedeva che venisse ripristinata la decisione del giudice per le indagini preliminari.

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La Corte d’Appello dell’Ontario, nel marzo 2011, all’unanimità, ha rinviato ancora una volta la decisione al giudice delle indagini preliminari; alla base della scelta della Corte d’Appello di non pronunciarsi nel merito si trova l’idea che la possibilità di indossare o meno il niqab in un processo o in un’udienza preliminare debba valutarsi tramite un’analisi casistica, non potendosi definire in termini generali. Secondo la Corte d’Appello dell’Ontario, il giudice per le indagini preliminari avrebbe dovuto innanzitutto valutare se la donna considerasse l’utilizzo del velo come un vincolo religioso; poi avrebbe dovuto considerare se il niqab potesse inficiare la testimonianza; infine, se vengono chiamati in causa sia il diritto alla difesa che la libertà religiosa sarebbe stato compito del giudice cercare un compromesso, col fine di salvaguardare i diritti, dovendo dare prevalenza al diritto alla difesa e chiedendo così alla donna di non indossare il velo soltanto nell’impossibilità di bilanciamento.

Come ultima fase della vicenda, nel tentativo di ottenere che le venisse riconosciuto il diritto di indossare il velo durante le testimonianze, c’è stato l’appello di N.S. alla Corte Suprema, che si è pronunciata il 20 dicembre 2012.

La Corte ha chiarito che occorresse stabilire la sincera convinzione di N.S. sul fatto che l’utilizzo del niqab fosse un’ineludibile regola religiosa. Solo partendo da qui sarebbe stato possibile imporre l’assenza del velo qualora, in assenza di alternative, la cosa fosse stata necessaria per tutelare il diritto alla difesa della controparte. Pur non decidendo sul diritto della donna di portare il velo in sede di processo e rimettendo tale decisione al giudice per le indagini preliminari, la Corte ha sommato alle

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considerazioni della Corte d’Appello un altro elemento. Per i giudici supremi il fattore determinante non stava nella forza della convinzione religiosa della donna, ma nella sua sincerità, che non sarebbe venuta meno neanche nel caso di rimozioni del velo precedenti (cosa al contrario ritenuta in passato con richiamo alla foto sulla patente). A questo punto, la Corte ha chiesto al giudice per le indagini preliminari di verificare se, nel presente, il pensiero della donna sul carattere vincolante del niqab dipendesse da una sincera adesione ad un principio religioso; se così fosse stato sarebbe emersa la libertà religiosa ed il bisogno di bilanciamento con il diritto alla difesa degli accusati. La Corte ha anche invitato il giudice per le indagini preliminari a chiedere alle parti coinvolte di presentare soluzioni per una possibile accomodation.

Infine, ribadendo quanto sostenuto nelle precedenti decisioni, la Corte ha messo in luce la propria cognizione circa le conseguenze che avrebbero potuto derivare dalla decisione del giudice per le indagini preliminari; da un lato, l’ordine di non indossare il velo avrebbe potuto scoraggiare le denunce di reati da parte delle donne musulmane, poiché avrebbero visto in questa proibizione un vero e proprio ostacolo al portare avanti le denunce stesse; dall’altro, consentendo la testimonianza con il velo e violando così il diritto alla difesa, avrebbe potuto essere messa in pericolo la credibilità del sistema giudiziario canadese. La Corte ha così invitato il giudice per le indagini preliminari a motivare attentamente la propria decisione sottolineando che questa avrebbe dovuto essere presa valutando gli elementi specifici di ogni caso.

Da quanto esposto emerge che, ancora una volta, uno dei simboli islamici più rappresentativi sta alla base di difficoltà di

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integrazione anche nel sistema multiculturale canadese e non solo, quindi, nei contesti, come quello francese, improntati all’assimilazionismo; testimonianza di questo è stato anche il dibattito che ha riguardato la Provincia del Quebec. Nel marzo 2010, dopo che è stata allontanata da una classe una studentessa che indossava il niqab, il Primo Ministro quebecois Charest ha proposto il Bill 94, nel quale si vietava l’utilizzo di quel tipo di velo, in nome dell’uguaglianza di genere. È nato da qui un energico dibattito che ha coinvolto intensamente la società civile al punto che, nella volontà di non creare spaccature sociali in un momento complicato anche a causa della crescente crisi economica, nel maggio 2010 i lavori in Commissione sono stati sospesi a tempo indefinito ed il Primo Ministro ha dichiarato che, in quel momento, vi fossero istanze più urgenti da discutere prioritariamente.

Il modello del multiculturalismo canadese è stato così disorientato dalla difficoltà di integrare la comunità musulmana; data la mancanza di una giurisprudenza pertinente e di una quantità coerente di ricorsi da parte dei musulmani su temi relativi all’integrazione, alcuni hanno ritenuto necessario proporre delle ipotesi circa il ruolo che il sistema del Canada lascia all’autonomia privata. Se da un lato risulterebbe problematico affermare che i pochi ricorsi possano ricondursi ad una buona integrazione musulmana nel Canada, dall’altro sembrerebbe più credibile che la comunità islamica abbia deciso di avvalersi dei margini di autonomia privata ad essa riservati.

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3.3 La legge francese n. 2010-1192

Altra questione di rilievo riguarda il tema del divieto francese del velo integrale nei luoghi pubblici (4).

La Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla legge francese n. 2010-1192 decidendo che il divieto di coprire il volto in luogo pubblico non viola gli artt. 8 e 9 della Cedu; questa decisione sembra aggiungere un nuovo tassello alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla questione dei simboli religiosi, segnando anche un altro passo della Francia verso una neutralizzazione dello spazio pubblico.

Il caso è emerso in seguito al ricorso di una cittadina francese dalle origini pakistane e di fede sunnita che, a causa della volontà di portare il burqa ed il niqab in pubblico, successivamente all’entrata in vigore della legge ed alle condanne dei giudici, ha deciso di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, allegando violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Cedu) e della libertà di manifestare il proprio credo (art. 9 Cedu). La donna, comunque, non rivendicava il diritto di portare il velo integrale in modo sistematico, in quanto favorevole a mostrare il viso per eventuali controlli ed accertamenti, essendo la sua decisione influenzata dalla volontà di manifestare attraverso il velo le proprie credenze e non dettata da pressioni esterne.

4) Elisa Olivito, Égalité de combat e “vivre ensemble”. La Corte di

Strasburgo e il divieto francese del velo integrale nei luoghi pubblici, in diritticomparati.it.

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Due sono i profili attorno ai quali ha ruotato la decisione della Grande Camera; il primo riguardava la modalità attraverso la quale il legislatore ha scelto di delineare la proibizione di nascondere il volto in pubblico ed il secondo le motivazioni addotte dal Governo per dimostrare la conformità alla Cedu. Per quanto riguarda il primo profilo, la legge n. 2010-1192 è caratterizzata dalla generalità del divieto e dall’apparente neutralità della formulazione; nonostante le varie perplessità ed osservazioni, l’Assemblea nazionale ha alla fine optato per un testo contenente un divieto estremamente generale non caratterizzato da reali esigenze di ordine pubblico, identificazione o accesso a luoghi o servizi, ma consistente nel prevedere che “Nul ne peut, dans l’espace public, porter une tenue destinée à

dissimuler son visage”. Così, ancor più che con la legge n.

2004-228, con la formulazione della legge n. 2010-1192 il legislatore ha provato a difendersi dall’accusa di discriminazione o stigmatizzazione del comportamento di alcuni soggetti. Secondo alcuni, però, basterebbe osservare le eccezioni al divieto per accorgersi che lo schermo risulta debole.

Dato che secondo i giudici di Strasburgo una disposizione come quella francese limita i diritti garantiti dagli artt. 8 e 9 della Cedu, non restava che valutare se le osservazioni del Governo francese fossero conformi ad uno degli scopi sulla base dei quali la Convenzione permette limitazioni ai diritti. La Corte si è qui cimentata in uno scrutinio fondato su due livelli; da un lato le valutazioni delle autorità francesi sono state sottoposte ad un controllo molto incisivo e dall’altro lo scrutinio si è arrestato

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laddove le argomentazioni dello Stato resistente avrebbero avuto la necessità di un maggior approfondimento da parte dei giudici. A parere del Governo la legge n. 2010-1192 ha due obiettivi, ovvero proteggere la pubblica sicurezza ed il rispetto “du socle

minimal des valeurs d’une société démocratique et ouverte”

che si esprime nel rispetto dell’uguaglianza tra uomini e donne, nel rispetto della dignità umana e nell’osservanza dei requisiti basilari richiesti dal “vivre ensemble”.

I profili relativamente ai quali i giudici di Strasburgo hanno aperto ad una valutazione più approfondita di quanto fatto in passato riguardavano il richiamo alle ragioni di pubblica sicurezza, quello all’eguaglianza di genere e quello al rispetto della dignità umana. Per quanto riguarda la pubblica sicurezza, la Corte ha ritenuto che questa rappresentasse un obiettivo legittimo ma che, nel caso in questione, la struttura del divieto fosse tale che la misura non potesse essere ritenuta necessaria per cercare di raggiungere lo scopo, in quanto la legge francese non è costruita in modo tale da far scattare il divieto solamente nel momento in cui sorga il bisogno di identificazione del soggetto, poiché esiste minaccia per la sicurezza o vi sia il pericolo di frode di identità, ma contiene un divieto più generale da considerarsi proporzionato solo quando dovesse emergere una comprovata minaccia alla sicurezza pubblica; ma la cosa non è stata dimostrata da parte della Francia. Per la Corte anche un altro elemento sottolineato dal Governo a difesa del divieto mostrava fragilità: la garanzia del rispetto della eguaglianza tra uomini e donne e della dignità umana.

Per quanto riguarda il primo aspetto, si ha a che fare con una questione spesso alla base di quei provvedimenti legislativi

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attraverso i quali è limitata o eliminata la facoltà di portare il velo nei luoghi pubblici e con una discreta frequenza i Giudici di Strasburgo la hanno fatta propria anche se secondo sfumature eterogenee (Dahlab v. Svizzera e Leyla Sahin v. Turchia). Tuttavia la Corte ha stabilito ora che non potesse essere invocata l’eguaglianza fra i sessi allo scopo di proibire l’utilizzo del velo integrale; in caso contrario, infatti, si sarebbe potuto arrivare al risultato che, per tutelare l’uguaglianza, si potessero “proteggere” gli individui perfino dall’esercizio dei loro diritti e delle loro libertà.

Allo stesso modo, una misura come quella della Francia non era ammissibile neanche invocando il rispetto della dignità umana, non solo perché il velo integrale rappresenta un’identità culturale che contribuisce al pluralismo democratico, ma in particolare perché non ci sono prove che le donne con il viso completamente coperto dal velo vogliano esprimere disprezzo nei confronti degli altri o offenderne la dignità.

Sembrava così che non ci fosse posto per un divieto diffuso come quello francese; tuttavia, proprio a questo punto la Corte ha cambiato rapidamente registro sostenendo che la legge n. 2010-1192 non viola gli artt. 8 e 9 Cedu, in quanto il divieto può ritenersi legittimo e necessario in un sistema democratico, poiché volto ad assicurare le condizioni del “vivre ensemble”.

I giudici hanno seguito così le osservazioni del Governo, per il quale il volto ha molta importanza nell’interazione sociale, dato che le persone nei luoghi pubblici preferiscono non essere esposte a pratiche in grado di intralciare un elemento fondamentale della vita sociale, cioè la capacità di intrattenere relazioni aperte: indossare

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il velo integrale potrebbe violare infatti il diritto altrui di vivere in uno spazio di socializzazione.

Quindi, sebbene la Corte abbia dimostrato di voler allontanare gli stereotipi, nella parte finale pare aver scelto di tornare verso lidi più tranquilli, rifugiandosi nell’ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati. Il concetto di “vivre

ensemble” sarebbe infatti flessibile, variando in base agli Stati

e così la Corte ha preferito arrestarsi accogliendo le spiegazioni addotte dalla Francia.

Non è quindi servito riconoscere che il divieto di indossare il velo integrale produca determinati effetti sulle donne che scelgono di portarlo e che una decisione come quella della Francia sarebbe sproporzionata a parere di diverse organizzazioni internazionali; non è stata neanche sufficiente l’ammissione da parte della Corte del fatto che in tal modo le donne musulmane si trovino di fronte ad un’alternativa tra il rispetto del divieto rinunciando ad esprimere il proprio credo ed il rifiuto di osservarlo andando incontro alla sanzione penale. Neppure riconoscere che un tale divieto potesse limitare l’autonomia delle donne musulmane avrebbe avuto peso.

Ha avuto quindi la meglio il rispetto nei confronti degli Stati contraenti e il loro margine di apprezzamento; secondo alcuni sono stati però lasciati scoperti nodi importanti: innanzitutto, l’eguaglianza di genere. La Corte di Strasburgo sembra rigettare una lettura militante dell’eguaglianza fra i sessi, ma avrebbe finito per sottovalutare gli effetti del divieto sui diritti e sulla vita delle donne di religione musulmana.

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I requisiti basilari del “vivere in società” avrebbero quindi esiti particolari, selezionando coloro che entrano nello spazio pubblico e proteggendo la tranquillità di chi già vi si trovi.

Sebbene nell’opinione dissenziente i giudici abbiano sottolineato che, anche in forza della giurisprudenza CEDU sull’art. 9, non ci sia alcun diritto a non essere turbati da modelli di identità particolarmente distanti da quelli ai quali si è abituati, il risultato della sentenza sembra proprio questo.

Appare dunque riproporsi la divisione tra sfera pubblica e privata, in base alla quale le donne che indossano il velo integrale sono tollerate, a patto che restino all’interno delle mura domestiche, ignorando le possibili controindicazioni provenienti da un divieto simile a quello della legge n. 2010-1192 o dell’omologa legge del Belgio.

3.4 La scelta del Belgio

Occorre ricordare che anche il Belgio ha affrontato questo argomento (5); dopo che la comunità fiamminga ha deciso di proibire la possibilità di indossare il velo all’interno delle scuole e dopo che il Consiglio di Stato ha respinto un ricorso contro tale

5) Nicola Fiorita, L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul

diritto islamico, II edizione riveduta e ampliata, Firenze University

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divieto, anche se per motivi procedurali più che sostanziali, la Commissione interni del Parlamento del Belgio, all’unanimità, ha approvato una proposta di legge avente come obiettivo quello di rendere illegale l’utilizzo del velo integrale in ogni spazio pubblico. Fin dall’inizio si è registrata una mancanza di opposizioni verso tale proposta e già le prime opinioni prevedevano che questa venisse rapidamente approvata da parte del Parlamento belga, arrivando così a dotarsi per primo nel Continente europeo di un’apposita legge riferita al velo integrale nei luoghi pubblici.

3.5 Il Tribunale di Cremona

Infine, richiamando molto sinteticamente, con riferimento all’Italia, una sentenza, possiamo citare la posizione del Tribunale di Cremona (6); quest’ultimo il 27 ottobre del 2008 ha assolto una donna musulmana che era entrata, indossando un burqa che la rendeva irriconoscibile, nell’aula dove si stava svolgendo un processo che vedeva coinvolto il marito. Il Tribunale di Cremona ha chiarito che la rimozione del burqa da parte della donna per il tempo necessario alla sua identificazione escludeva ogni traccia di pericolo, a dimostrazione che all’interno del nostro ordinamento non fosse presente un divieto generale di indossare questo determinato indumento.

6) Nicola Fiorita, L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul

diritto islamico, II edizione riveduta e ampliata, Firenze University

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