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1. INTRODUZIONE Per risposta allo stress chirurgico s’intende l’insieme di tutte le variazioni ormonali e metaboliche che conseguono a traumi o ad interventi chirurgici. [1]

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1. INTRODUZIONE

Per risposta allo stress chirurgico s’intende l’insieme di tutte le variazioni ormonali e metaboliche che conseguono a traumi o ad interventi chirurgici. [1] Nel 1932 Cuthbertson descrisse in dettaglio la risposta metabolica al trauma documentando e quantificando la cascata di tutti questi eventi. Dopo gli iniziali lavori sulla risposta allo stress da trauma, l’attenzione è stata rivolta alla risposta allo stress chirurgico.

La risposta allo stress consiste di due componenti che si condizionano vicendevolmente: la risposta endocrina e la risposta metabolica.

Durante gli interventi di chirurgia addominale maggiore è presente, per lo più, uno stato di ipercoagulabilità dovuto, verosimilmente, alla liberazione di sostanze pro-coagulanti in risposta allo stress chirurgico. [2] La tendenza alla ipercoagulabilità sembra essere dovuta ad una aumentata od alterata funzionalità piastrinica, che diviene più evidente in seconda giornata post-operatoria, per raggiungere il picco massimo nel terzo giorno post-operatorio. Ne consegue che complicanze tromboemboliche, quali le trombosi venose profonde (TVP), l’embolia polmonare (EP) e l’infarto del miocardio non siano eventi infrequenti nei pazienti post-chirurgici. [3] Oltre allo stress chirurgico in sé, anche altri fattori favoriscono l’insorgenza di questo tipo di complicanze post-operatorie, in particolare la chirurgia ortopedica, la prolungata immobilizzazione, l’eventuale presenza di neoplasie e, infine, non perché meno importante, l’obesità patologica. Secondo quanto emerso e confermato da studi recentemente condotti, il sovrappeso (BMI ≥25 Kg/m²) e l’obesità (BMI ≥30 Kg/m²) espongono il paziente ad un incremento del rischio tromboembolico rispettivamente del 1,7% e del 2,4%, che raggiungono il 2,5% ed il 3,9% qualora sovrappeso ed obesità interessino la donna nel periodo post-menopausale.

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Analizzando il profilo plasmatico della coagulazione nel paziente in sovrappeso od obeso emergono livelli significativamente più alti rispetto al range di normalità di PAI-1, FVIIIa, antitrombina III (AT III).

Il tromboembolismo venoso è una delle principali cause di morbidità e mortalità in tutti i pazienti sottoposti a procedure chirurgiche; negli Stati Uniti l’embolia polmonare causa, ogni anno, circa 150000 decessi.

Nel paziente sottoposto a chirurgia bariatrica le complicanze tromboemboliche sono la principale causa di morte nel post-operatorio.

La diagnosi di tromboembolismo venoso nel paziente con obesità patologica non è semplice, sia per le difficoltà nella esecuzione di un ottimale esame fisico in relazione alla mole del paziente stesso, sia perché, molto spesso, l’esordio clinico dell’evento tromboembolico è subdolo, cosicché un trombo venoso profondo di piccole dimensioni può rimanere misconosciuto finché non si rende responsabile di embolismo polmonare.

La prevenzione delle complicanze tromboemboliche è quindi di vitale importanza per la riduzione della morbidità e della mortalità post-chirurgiche nel paziente bariatrico.

I protocolli profilattici in tal senso sono svariati e comprendono l’impiego di dispositivi pneumatici per la compressione e decompressione intermittente degli arti inferiori, il bendaggio elastico degli stessi, la mobilizzazione precoce del paziente, la somministrazione di eparina non frazionata o di eparine a basso peso molecolare (LMWH) e, nei casi a maggior rischio, il posizionamento di un filtro cavale in vena cava inferiore.

La comunità scientifica concorda sul fatto che la profilassi sia di importanza vitale; a questo punto è però necessario individuare il regime profilattico ottimale in questa categoria di pazienti.

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2. L’OBESITA’

2.1. Definizione e Parametri Antropometrici

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l'Obesità come "una condizione clinica caratterizzata da un eccessivo peso corporeo, per accumulo di tessuto adiposo, tale da influire negativamente sullo stato di salute dell’individuo fino a determinarne una riduzione della aspettativa di vita". [4] Si tratta di una patologia cronica, evolutiva e recidivante, ad elevata prevalenza e ad eziologia multifattoriale, accompagnata da un aumento del rischio di morbilità e di mortalità.

Nell’uomo normopeso il tessuto adiposo è pari al 15-18% del peso corporeo mentre nella donna ammonta al 20-25%.

L’esatta quantificazione del contenuto di tessuto adiposo nell’organismo è di difficile valutazione e si avvale di alcune metodiche strumentali di misurazione della massa grassa quali la plicometria, la bioimpedenzometria, la densitometria a raggi X a doppio raggio fotonico (DXA) o di sofisticate e costose tecniche di imaging, quali la TC e la RMN. Data l’impossibilità ad usare sistematicamente queste tecniche, spesso si ricorre ad altri metodi basati per lo più su indici facilmente misurabili.

Uno di questi è la comparazione del peso del paziente con il cosiddetto Peso Ideale o Ideal Body Weight (IBW) il cui valore si ricava da apposite tabelle, redatte nel 1983 da una grande compagnia di assicurazione americana, Metropolitan Life Insurance Company, ed è quello a cui corrisponde il più basso rischio di mortalità in relazione a sesso, età, altezza e costituzione fisica. [5]

Altri, più semplicemente, si riferiscono per la misura dell’ IBW al cosiddetto Indice di Broca :

IBW (in Kg) = altezza –X

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X = 105 per adulti di sesso femminile

In clinica, tuttavia, è spesso utilizzata la Formula di Lorentz per la sua maggiore precisione:

IBW Uomini = altezza in cm - [100 - (altezza in cm – 150)/4] IBW Donne = altezza in cm - [100 - (altezza in cm – 150)/2]

i cui valori non si discostano sensibilmente da quelli indicati nelle tabelle assicurative.

Se, invece, si vuol definire l’eccesso di peso si può fare riferimento al Peso Relativo, che è il rapporto tra il peso attuale e il peso ideale ( si parla di obesità per valori >1,1 e di obesità patologica per valori > 2), oppure al più noto e diffuso Body Mass Index o BMI, certamente il parametro antropometrico più utilizzato nella pratica clinica e per studi epidemiologici, che rappresenta il rapporto numerico tra il peso (espresso in Kg) e il quadrato dell’altezza (espressa in m²). :

BMI = peso corporeo (in kg)/ altezza² (in metri) In base a ciò un soggetto si considera:

- sottopeso: BMI < 18,5 Kg/m² - normopeso: BMI fino a 25 Kg/m² - sovrappeso: BMI fra 25 e 29,9 Kg/m² - obesità classe I: BMI fra 30 e 34,9 Kg/m² - obesità classe II: BMI fra 35 e 39,9 Kg/m²

- obesità classe III o obesità patologica: BMI >40 Kg/m²

- obesità classe IV o super-obeso (obesità morbigena): BMI >50 Kg/m² - super-super-obeso: BMI >60 Kg/m²

Occorre considerare che il parametro BMI presenta alcuni limiti, dovuti al fatto che non discrimina l’eccesso ponderale determinato dall’aumento della massa grassa da quello determinato dall’incremento della massa muscolare, come nel caso degli atleti; inoltre non prende in considerazione la diversa distribuzione del tessuto adiposo all’interno dell’organismo.

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Attualmente infatti si ritiene che non solo la quantità di adipe, ma anche la sua localizzazione anatomica siano elementi di fondamentale importanza nel definire il rischio di comorbidità. E’ ormai comprovato che l’obesità di tipo androide, caratterizzata dalla distribuzione endoaddominale del tessuto adiposo, correla maggiormente con l’insorgenza di complicanze metaboliche e cardiovascolari rispetto all’obesità di tipo ginoide, in cui il grasso è localizzato principalmente a livello delle regioni glutee e delle cosce; questo avviene probabilmente a causa di una maggior sensibilità degli adipociti viscerali all’azione degli enzimi lipolitici, per cui elevate quantità di acidi grassi liberi (FFA) si riversano nel circolo portale e raggiungono il fegato dove esercitano effetti metabolici sfavorevoli.

Alla luce di queste considerazioni, è stato introdotto, tra i parametri che delineano la valutazione antropometrica, il WHR (waist to hip ratio) che indica il rapporto tra la circonferenza della vita e la circonferenza dei fianchi e fornisce un’indicazione sulla distribuzione del grasso corporeo. Un WHR superiore al valore di 1,0 nell’uomo e di 0,85 nella donna fornisce una stima indiretta dell’accumulo di adipe a livello viscerale addominale e identifica una fascia di soggetti ad alto rischio di sviluppare comorbidità metaboliche e cardiovascolari. [6]

A questo scopo può essere sufficiente considerare il solo parametro della circonferenza vita, che è risultato correlare positivamente con l’accumulo di adipe addominale. La soglia che deve essere considerata come indicatore dell’aumento del rischio è di 102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna.

2.2. Epidemiologia

La prevalenza dell’obesità è in allarmante, progressivo, aumento in tutto il mondo, tanto da aver raggiunto proporzioni epidemiche nella società

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occidentale (globesity). Secondo i dati pubblicati dall’International Obesity Task Force, oltre 1 miliardo di persone adulte sono in sovrappeso e circa 310 milioni sono obese. Nei bambini/adolescenti le stime rispettive sono di circa 160 e 40 milioni. Circa il 35% degli adulti americani è in sovrappeso e circa il 26% è obeso. L’incidenza dell’obesità tra la popolazione adulta americana è raddoppiata negli ultimi 30 anni e la percentuale di adolescenti in sovrappeso è triplicata nello stesso periodo.

In Europa la prevalenza dell’obesità è aumentata di tre volte nelle ultime due decadi ed è destinata a raddoppiarsi nei prossimi trenta anni se non si interviene efficacemente (Conferenza ministeriale europea per la lotta all’obesità; Istanbul, 2006).

Attualmente si stima che quasi la metà della popolazione sia in sovrappeso; la percentuale dei soggetti francamente obesi, invece, varia dal 10 al 20% negli uomini e dal 15 al 25% nelle donne.

Anche in Italia l’obesità rappresenta un problema sanitario di crescente e pressante gravità. La percentuale di soggetti in sovrappeso è di circa il 35%, con una prevalenza del sesso maschile, mentre la percentuale di soggetti francamente obesi è di circa il 10%, con una piccola prevalenza per il sesso femminile e per le regioni meridionali. L’andamento è in preoccupante aumento se si considera che il numero degli obesi dal 1994 ad oggi è cresciuto del 25%, che ad aumentare non è tanto il numero dei soggetti in sovrappeso quanto quello dei pazienti obesi e che, infine, si registra il record europeo di bambini/adolescenti in sovrappeso (36%) ed obesi (10-15%).

L’ultimo rapporto dell’Istituto Auxologico Italiano, pubblicato nel 2007, indica un ulteriore significativo peggioramento. Il dato più allarmante è costituito dal fatto che in soli 4 anni la popolazione dei soggetti in sovrappeso sia aumentata di circa 6.000.000 di unità. Ad aggravare queste considerazioni, come si è già detto, si aggiunge il dato emergente dagli ambienti pediatrici che indica un notevole incremento dell’obesità nella popolazione giovanile ed infantile. In

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circa 5,5 milioni di pazienti obesi (5 milioni con un B.M.I. compreso tra 30 e 40 Kg/m², 500.000 con un B.M.I. > 40 Kg/m²). Tutto questo si traduce in un enorme impatto sociale, dal momento che l’obesità e le malattie correlate comportano una riduzione della aspettativa di vita ed uno scadimento della qualità della vita stessa, nonchè costi sanitari e sociali, diretti ed indiretti estremamente rilevanti. Di fronte a questa grave e preoccupante emergenza, sono due le priorità assolute: la prevenzione, con la diffusione di nuove abitudini alimentari e di un corretto stile di vita, e la cura efficace e duratura dei casi esistenti, soprattutto di quelli più gravi. [7]

2.3. Etiopatogenesi

L’obesità è una patologia complessa e multifattoriale [6] che si manifesta quando l’introito di energia eccede quello speso per un periodo di tempo prolungato. Comunque questo non vale ugualmente per tutti i soggetti, infatti esiste una predisposizione genetica alla base di quella che viene considerata Obesità familiare. Figli di genitori entrambi obesi presentano un rischio di sviluppare obesità del 70% rispetto a figli di non obesi che presentano un rischio del 20%.

Studi animali del 1994 hanno poi identificato il gene Ob implicato nella sintesi della leptina, proteina implicata nella regolazione della fame e della sazietà. L’appetito è regolato infatti da due nuclei dell’ipotalamo laterale e ventro-mediale chiamate rispettivamente “centro della fame” e “centro della sazietà”(36) che, attraverso segnali a breve e lungo termine mediati da numerosi neurotrasmettitori anabolici e catabolici quali il neuropeptide Y (NPY),

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l’ormone di rilascio corticotropo (CRH), l’ormone stimolante gli α-melanociti (α-MSH), l’ormone concentrante la melanina (MCH) e molti altri, modulano la spesa energetica andando ad attivare il sistema nervoso simpatico sia del tessuto adiposo bruno sia quello di reni e surreni.

Altre importanti cause di obesità sono le influenze etniche, i fattori socio-economici, la terapia farmacologica con corticosteroidi, l’assunzione di anti-depressivi e anti-istaminici nonché i disordini endocrini (morbo di Cushing, ipotiroidismo) e metabolici.

2.4 Fisiopatologia

L’eccesso di peso comporta una vasta gamma di alterazioni di ordine metabolico e funzionale a carico di vari apparati.

2.4.1. Sistema respiratorio

L’obesità si associa ad alcune alterazioni della funzione respiratoria, quali una sindrome restrittiva più o meno severa, aumento del lavoro respiratorio, aumento della ventilazione al minuto e nei casi più gravi presenza della sindrome dell’apnea notturna.

Sindrome restrittiva: dallo studio dei test di funzionalità respiratoria si rileva costantemente una riduzione della capacità funzionale residua (CFR) e della capacità polmonare totale (CPT), attribuibili all’effetto meccanico che la massa adiposa esercita nel torace e nell’addome, limitando le escursioni della parete toracica e del diaframma durante gli atti respiratori. La riduzione della CFR è dovuta ad una consensuale riduzione del volume di riserva espiratoria (VRE) con conservazione del volume residuo (VR). Generalmente oltre al VR anche il volume di espirazione forzato (FEV1) e la capacità vitale forzata (FVC)

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malattia polmonare a carattere ostruttivo. [7] Nei casi più gravi la riduzione della CFR può essere di entità tale da oltrepassare il limite del volume di chiusura alveolare, che rappresenta il momento dell’espirazione in cui i volumi polmonari si riducono a tal punto da provocare il collabimento degli alveoli. Si verifica quindi una precoce chiusura delle piccole vie aeree con conseguente alterazione del rapporto ventilazione/perfusione (VA/Q), aumento del volume di

shunt (fino al 20-25%) e comparsa di ipossiemia arteriosa. [8] E’ stata inoltre riscontrata una riduzione della compliance respiratoria fino al 50% del valore basale [9]: questa modificazione è dovuta in parte alla compressione meccanica, esercitata dal grasso intercostale, peridiaframmatico e addominale, in parte ad una ridotta elasticità del polmone a causa dell’aumento del volume ematico polmonare, secondo quanto riportato nei più recenti studi. [10] La riduzione della compliance polmonare si traduce in un’aumento della rigidità polmonare, che a sua volta si riflette nell’incremento delle resistenze delle vie aeree. [11]

Scambi gassosi: il consumo di O2 e la produzione di CO2 sono aumentati nei

soggetti obesi per l’aumento del metabolismo dovuto alla presenza del tessuto adiposo in eccesso e al lavoro muscolare necessario per sostenerlo. Frequentemente si riscontra una modesta riduzione della PaO2 ed un aumento

della differenza alveolo-arteriosa dell’ossigeno con evidente incremento della frazione di estrazione dell’O2, al fine di mantenere costante il consumo di O2

(VO2). La PaCO2 nei pazienti ben compensati è conservata nel range di

normalità attraverso un aumento della ventilazione minuto. [12, 13] La riduzione della compliance respiratoria totale, l’aumento delle resistenze delle vie aeree e l’aumento delle richieste di O2 comportano un aumento del lavoro

respiratorio, stimato intorno al 30% nei soggetti normocapnici e al 100% in quelli ipercapnici, [11] che si traduce clinicamente in una ventilazione rapida e superficiale con conseguente limitazione della capacità ventilatoria massima e aumento della spesa energetica da parte della muscolatura respiratoria.

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Sindrome dell’apnea notturna: è una grave sindrome disventilatoria che interessa circa il 5% della popolazione obesa [11]; si manifesta clinicamente con episodi intermittenti di cessazione del flusso d’aria attraverso le vie aeree durante il sonno, della durata di almeno 10 secondi con una frequenza di almeno 5 per ora o 30 per notte [3], russa mento, per perdita del tono della muscolatura faringea, e alterazioni del ritmo sonno-veglia con sonnolenza diurna. La patogenesi di questo quadro clinico è legata alla deposizione abnorme di grasso nei tessuti faringei che, protrudendo nel lume delle vie aeree, ne riducono la pervietà. Questa condizione si aggrava particolarmente durante il riposo notturno, quando si ha la fisiologica perdita del tono della muscolatura della faringe con conseguente collasso delle vie aeree superiori e completa occlusione del flusso d’aria. Durante l’episodio apnoico si verificano ipossiemia e ipercapnia che stimolano il sistema reticolare ascendente (SRA) con conseguente risveglio del paziente e ripristino della pervietà delle vie aeree. Questi episodi che tendono a ripetersi ciclicamente per lungo tempo, possono determinare una progressiva desensibilizzazione dei centri respiratori all’ipercapnia, provocando una condizione cronica di ipossiemia. Questo quadro clinico, noto anche come sindrome di Pickwick, può portare a gravi conseguenze fisiopatologiche, come la vasocostrizione polmonare, l’insufficienza cardiaca destra e la policitemia. [2]

2.4.2. Apparato cardiovascolare

Le modificazioni cardiache ed emodinamiche indotte dall’obesità sono conseguenza sia dell’adattamento del sistema cardiovascolare all’eccesso di peso e all’aumento delle richieste metaboliche, sia delle alterazioni anatomiche e strutturali del cuore dovute alla deposizione di tessuto adiposo tra i cardiomiociti che ne compromette la performance elettrica e meccanica. Comprendono:

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aumento del volume ematico: rappresenta una delle più importanti risposte adattative all’aumento delle richieste metaboliche da parte della massa corporea aumentata.

Nel paziente obeso, pur essendo presente una maggior quantità di sangue, il rapporto tra volume ematico e peso corporeo è inferiore rispetto al paziente non obeso (50 ml/Kg vs 70 ml/Kg). [14] Una quota consistente del volume di sangue si distribuisce nel tessuto adiposo e nel territorio splancnico, mentre il flusso renale e cerebrale si mantengono invariati. [15]

Funzione cardiaca: in letteratura è ampiamente riportato che nel paziente obeso si verifica costantemente un incremento dell’output cardiaco (CO) direttamente correlato al sovrappeso. [11]

L’aumento della gittata è determinato dall’incremento dello stroke volume (SV), mentre la frequenza cardiaca rimane sostanzialmente invariata. [16]

Come riportato in diversi studi, CO e SV aumentano in risposta ad un incremento del precarico, dovuto alla presenza di un maggiore volume ematico.[17]

L’aumento del precarico esercita inoltre un maggiore stress parietale ventricolare e provoca, come dimostrato da studi ecocardiografici, il rimodellamento cardiaco con dilatazione e ipertrofia eccentrica delle camere ventricolari, a cui consegue la riduzione della compliance delle stesse e compromissione della funzione cardiaca diastolica; tutto questo si traduce clinicamente in un aumento delle pressioni di riempimento ventricolare e predisposizione allo sviluppo di insufficienza cardiaca congestizia ed edema polmonare acuto.

Dalle valutazioni emodinamiche risulta che i pazienti obesi presentano valori più elevati di pressione venosa centrale (PVC), di pressione arteriosa polmonare media, e di pressione capillare polmonare di incuneamento (PCWP) e

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ponderale. [18] Inoltre l’ipertrofia ventricolare che si sviluppa, oltre a determinare una disfunzione diastolica, provoca anche l’instaurarsi di una disfunzione sistolica, a causa dell’incapacità della parete dilatata di contrarsi adeguatamente. [19]

Ipertensione arteriosa: circa il 50-60% dei soggetti obesi presenta ipertensione arteriosa di grado moderato e il 10% di grado severo. [16]

L’aumento dei valori pressori è da attribuirsi all’integrazione di fattori emodinamici e metabolici. [20] I fattori emodinamici comprendono l’aumento della gittata cardiaca e del volume ematico, mentre i fattori metabolici sono riferibili all’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone e all’iperinsulinemia.

Cardiopatia ischemica: è il risultato di processi aterosclerotici che si verificano frequentemente nei pazienti obesi, soprattutto in quelli affetti da obesità centrale, che associandosi spesso alla presenza di insulino-resistenza, diabete e dislipidemie, ne rappresenta un importante fattore di rischio per la patologia coronarica. [3]

Aritmie cardiache: insorgono molto spesso come complicanza di un quadro cardiaco già compromesso e sono il risultato di numerosi fattori concausali che agiscono in sinergia, quali l’ipertrofia ventricolare, l’ipossiemia, l’aumento delle catecolammine circolanti e l’infiltrazione di tessuto adiposo nel miocardio. [2]

In conclusione la funzione cardiovascolare nei pazienti obesi si presenta seriamente compromessa in tutte le sue componenti e questo rende ragione del fatto che le malattie cardiovascolari rappresentino la principale causa di morbilità e mortalità in questa classe di pazienti (prevalenza del 37% nei soggetti con BMI > 30 Kg/m2). [21]

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Iperinsulinemia e insulinoresistenza si riscontrano costantemente nell’obesità, aumentano con l’aumento del peso e diminuiscono con il dimagramento. La resistenza insulinica è strettamente correlata con i depositi di grasso intraddominale. L'obesità è un importante fattore di rischio per il diabete: infatti oltre l'80% dei pazienti diabetici di tipo 2 è obeso. Il ruolo dell’obesità quale fattore favorente il manifestarsi del diabete mellito di tipo 2 è documentato da diversi studi epidemiologici, trasversali e longitudinali e da osservazioni su gemelli monocoriali. L’obesità può favorire l’insorgenza del diabete riducendo la sensibilità dei tessuti periferici all’insulina; l’insulinoresistenza che ne consegue, con il tempo, può portare all’esaurimento della cellula e quindi a insulinodeficienza. Il calo ponderale e l'esercizio fisico, anche di modesta entità, sono associati con un'aumentata sensibilità all'insulina e spesso migliorano il controllo glicemico nel diabete [3]. L’obesità è lo stato iperinsulinemico per eccellenza. La perdita di peso, attraverso la dieta, la terapia farmacologica o la chirurgia bariatrica, è associata con diminuzioni consensuali dell’insulinoresistenza e dell’iperinsulinemia [3].

2.4.4. Altre patologie

Colelitiasi, steatosi epatica non alcolica, ernia iatale, reflusso gastro-esofageo con esofagite, carcinoma esofageo e ernia inguinale hanno una maggior prevalenza nei pazienti obesi. Per quanto riguarda i disturbi genito-urinari, troviamo un aumento di incontinenza urinaria femminile e calcolosi renale. L'aumento di peso corporeo è associato con irregolarità mestruale, presumibilmente attraverso effetti insulinomediati sulla struma ovarico e l'infertilità è comune. In pazienti obesi vi è un aumento di due volte del rischio di tumori del colon, dell'endometrio, della mammella in postmenopausa, della cervice uterina e della prostata. Artrosi delle grandi e delle piccole articolazioni, sindrome del tunnel carpale, iperuricemia, gotta e lombalgie sono più comuni

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negli obesi. Il rischio di artrosi del ginocchio aumenta del 35% ogni 5 kg di aumento di peso.

2.5. Chirurgia Bariatrica

Bisogna sottolineare come la terapia chirurgica sia l’unica forma di trattamento che consenta la guarigione, duratura ed in un elevatissimo numero di casi, degli obesi gravi e dei superobesi. I più recenti studi, con un follow-up adeguatamente prolungato, hanno dimostrato, nel gruppo trattato chirurgicamente, una significativa riduzione della mortalità, del rischio di sviluppare altre patologie associate, del ricorso a trattamenti terapeutici e dei costi sanitari e sociali, diretti o indiretti.

Attualmente, in Italia, sono circa 1,5 milioni i pazienti che potrebbero giovarsi del notevole e duraturo calo ponderale indotto dalla chirurgia, con notevole riduzione della morbilità e della mortalità proprie dell’obesità e delle malattie correlate, con un notevole miglioramento della qualità della vita e con una notevole riduzione dei costi diretti per la Sanità. Vi sarebbe, inoltre, da considerare e non secondariamente, la notevole riduzione dei costi indiretti, con il pieno recupero dei pazienti ad una normale attività lavorativa, sociale e di relazione nella massima parte dei casi. I costi sanitari dell’obesità e del sovrappeso sono, ormai, più elevati di quelli comportati da fumo, alcolismo e povertà. Le malattie obesità-correlate costituiscono buona parte del carico sanitario del mondo occidentale. Da stime effettuate negli Stati Uniti si è calcolato che negli obesi i costi dei servizi sanitari e farmaceutici sono più alti, rispettivamente, del 36% e del 77% rispetto ai normopeso. In uno studio relativamente recente (2004) si è calcolato che ad ogni unità in più di B.M.I. corrisponde un incremento del 2,3% del costo sanitario totale.

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Vi sono, infatti, una serie di malattie per le quali è stato dimostrato uno stretto rapporto con l’obesità. Tali patologie, eccezion fatta per le neoplastiche, migliorano sostanzialmente e, spesso guariscono completamente, se il paziente riesce a riportare, stabilmente, il proprio peso negli ambiti della normalità o anche se riesce a ridurlo in modo significativo, purché persistente nel tempo. In mancanza di questo, il paziente deve essere necessariamente sottoposto a trattamenti farmacologici per tutta la vita ed a controlli diagnostici e clinici ripetuti, tutti estremamente onerosi per il S.S.N.

Indicazioni alla Chirurgia Bariatrica

Le linee guida consigliate e adottate dalla S.I.C.OB. sono sovrapponibili a quelle internazionalmente codificate ed accettate.

Per i pazienti di età compresa tra i 18 ed i 60 anni (il 97,5% dei pazienti del Registro S.I.C.OB.) le indicazioni sono, quindi, le seguenti:

1. B.M.I. >40 Kg/m²;

2. B.M.I. tra 35 e 40 Kg/m² in presenza di comorbilità che, presumibilmente, possono migliorare o guarire a seguito della notevole e persistente perdita di peso ottenuta con l’intervento (malattie del metabolismo, patologie cardiorespiratorie, gravi malattie articolari, gravi problemi psicologici, ecc.). Per essere candidati all’intervento i pazienti devono avere nella loro storia clinica un fallimento di un corretto trattamento medico (mancato o insufficiente calo ponderale; scarso o mancato mantenimento a lungo termine del calo di peso).

Il merito sostanziale ed incontrovertibile delle linee guida è stato ed è l’introduzione di un criterio di B.M.I. minimo (superiore a 40 Kg/m2 o tra 35 e 40 Kg/m2 in presenza di almeno una comorbilità), al di sotto del quale la terapia chirurgica non dovrebbe, in linea di massima e salvo casi eccezionali, essere presa in considerazione.

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La S.I.C.OB. ha accettato, però, il concetto in base al quale il B.M.I. di riferimento è quello iniziale, nel senso che un calo ponderale ottenuto con un trattamento preoperatorio non rappresenta una controindicazione alla chirurgia bariatrica prevista, anche se il B.M.I. raggiunto è inferiore a quelli canonici, e che la chirurgia bariatrica è altrettanto indicata nei pazienti che hanno avuto un sostanziale calo ponderale in seguito al trattamento conservativo ma che abbiano iniziato a riprendere peso. In buona sostanza, il B.M.I. minimo per essere candidabile alla chirurgia bariatrica non è tanto quello riferito all’atto dell’intervento quanto il massimo raggiunto dal paziente nella sua storia clinica.

Inoltre, anche in Italia si va facendo strada la possibilità, solo, però, per casi selezionati e solo nell’ambito di trial controllati randomizzati, di prendere in considerazione la terapia chirurgica in pazienti con un B.M.I. compreso tra 30 e 35 Kg/m2 ma che abbiano comorbilità o alterate condizioni psico-fisiche che possano migliorare o guarire in virtù del calo ponderale indotto dalla terapia chirurgica. La S.I.C.OB. è, infine, particolarmente attenta alla necessità che il paziente sia ben informato e motivato non solo sull’intervento ma anche sulla necessità di doversi sottoporre a periodici follow-up e di dover seguire scrupolosamente eventuali prescrizioni mediche, integrative o sostitutive, e dietetiche (a seconda dell’intervento effettuato).

Controindicazioni alla chirurgia bariatrica

Le linee guide della S.I.C.OB. (Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle malattie metaboliche), sovrapponibili a linee guida internazionali, individuano controindicazione alla chirurgia bariatrica nei seguenti casi:

- assenza di un periodo di trattamento medico verificabile;

- paziente incapace di partecipare ad un prolungato protocollo di follow-up; - disordini psicotici, depressione severa, disturbi della personalità e del

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meno che non vi siano diverse, specifiche e documentate indicazioni da parte dei suddetti componenti del team);

- alcoolismo e tossicodipendenza;

- malattie correlate a ridotta spettanza di vita;

- pazienti inabili a prendersi cura di se stessi e senza un adeguato supporto familiare e sociale.

Approccio chirurgico

L’approccio chirurgico all'obesità consta di tre diverse tipologie di interventi: Procedure malassorbitive

Procedure restrittive

Bypass gastrico con ricostruzione ad Y secondo Roux.

Attualmente tutte le procedure possono essere effettuate per via laparoscopica.

Procedure malassorbitive

Le procedure malassorbitive si basano sulla modificazione dell'assorbimento intestinale indotto da un by-pass: il paziente si alimenta liberamente, ma il suo intestino non assorbe più di un certo quantitativo di calorie. Questo consente una graduale perdita di peso a scapito però di una situazione di malassorbimento cronico che può rendere necessaria l'assunzione continuativa di sali minerali e vitamine.

Diversione BilioPancreatica:

· Variante Standard di Scopinaro. La BPD si esegue effettuando una resezione gastrica distale (cioè asportando circa i 2/3 dello stomaco compreso il piloro), colecistectomia (per la profilassi della colelitiasii) e diversione biliopancreatica vera e propria, che consiste nella creazione di un doppio condotto intestinale

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· Con Duodenal Switch (variante). In questa tecnica la gastroresezione èverticale invece che orizzontale, con risparmio del piloro.

Procedure restrittive

Le procedure restrittive sono basate sulla riduzione della capacità gastrica e quindi sulla riduzione dell'introito calorico anche per l'insorgenza di un precoce senso di sazietà.

- Bendaggio gastrico regolabile laparoscopico: un nastro di silicone elastomero (biocompatibile) collegato ad un piccolo serbatoio tipo port, si introduce chirurgicamente attorno alla parte più alta dello stomaco, il serbatoio viene posto nello spessore della parete addominale. Lo stomaco assume quindi una forma a "clessidra" con la parte superiore, "tasca gastrica", che è di volume molto ridotto, circa 15-25 ml, mentre la parte di stomaco al di sotto del bendaggio è più ampia. Questo causa un precoce senso di sazietà in quanto è sufficiente una piccola quantità di cibo, per riempire completamente la tasca gastrica.

- gastroplastica verticale

- Sleeve gastrectomy (gastrectomia a manica): è una gastrectomia verticale praticata lungo la grande curvatura, con cui si asporta completamente il fondo gastrico e si ottiene uno stomaco residuo di 60-150 ml. L'integrità della regione antro-pilorica e dell'innervazione vagale viene preservata. Il meccanismo che determina la perdita di peso è legato alla drammatica riduzione della capacità dello stomaco, con precoce senso di sazietà dopo ingestione di piccole quantità di cibo.

Procedure miste

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Il bypass gastrico (eseguito dal 1960) è una procedura mista, nel senso che coniuga un meccanismo malassorbitivo con uno restrittivo.

Nel 1991 è stato definito 'gold standard' della chirurgia bariatrica dal National Institutes of Health Consensus Conference (NIHCC). I primi approcci laparoscopici risalgono al 1990. Successivamente numerosi studi hanno dimostrato essere paragonabile alla tecnica open come risultati, ma più sicuro, grazie a un minore aumento della pressione addominale e a una minor incidenza di atelectasie segmentarie e di ipossemia postoperatoria (Nguyen, 2000 and 2001), a patto che venga effettuato da un chirurgo con alle spalle almeno 50-150 interventi di questo tipo.

Tecnica chirurgica

La tecnica chirurgica consiste nel creare una piccola sacca prossimale isolata della capacità di 20 cc. circa, la confezione di una gastrodigiunostomia antecolica e di una entero-enterostomia su ansa alla Roux. Il paziente viene posto in posizione anti-trendelemburg di circa 20 gradi a gambe divaricate e, previa induzione del pneumoperitoneo attraverso ago di Verres, si posizionano sei trocar da 10 mm di diametro dei quali 1 ombelicale, 1 sottoxifoideo, 1 sottocostale destro e 3 sotto l'arcata costale di sinistra. Il primo tempo operatorio prevede la creazione della tasca gastrica isolata di circa 20 cc. Si utilizzano più cariche di una suturatrice lineare da 45 mm in grado di sezionare lo stomaco. Si identifica il Treitz e si procede alla misurazione di 50 cm di digiuno in corrispondenza del quale si seziona l'ansa ed il suo meso con suturatrice lineare (2 cariche vascolari). Si procede al confezionamento dell'anastomosi tra il moncone gastrico ed il digiuno. L'anastomosi gastro-digiunale può essere effettuata con una suturatrice circolare appositamente modificata o con suturatrice lineare o manualmente. Quindi si completa l'affondamento del cul de sac dell'ansa digiunale mediante suturatrice lineare e materiale riassorbibile e si verifica l'integrità dell'anastomosi mediante test al blu di metilene. Si procede quindi alla misurazione di altri 100 cm di ansa digiunale. A questa

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intestinale utilizzata per confezionare l'anastomosi viene chiusa con sutura continua intracorporea. L'intervento si conclude con il posizionamento di 2 drenaggi, uno para-anastomosi gastro-digiunale e l'altro al piè d'ansa.

Il tasso di mortalità dopo RGB varia da 0,3% a 1% in studi controllati e il tasso di eventi avversi chirurgici, prevedibili e non, è del 18,7%. C'è una diversa incidenza di complicanze tra RGB laparoscopico e RGB Open. I risultati mostrano che i pazienti su cui si è utilizzata la tecnica laparoscopica hanno una ridotta incidenza di splenectomia iatrogena, infezione della ferita, ernia incisionale e mortalità perioperatoria, ma maggiori tassi di occlusione intestinale, ulcera intestinale, rottura anastomotica, tromboembolia polmonare e stenosi dell'anastomosi. Per quanto riguarda, invece, la chirurgia open le complicanze più frequenti sono: infezione della ferita, stenosi dell'anastomosi, occlusione intestinale e laparocele.

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3. L’EMOSTASI

Ai fini della sopravvivenza è essenziale che l’organismo sia capace di controllare il flusso ematico laddove esista una lesione dei vasi. Tale controllo è esercitato dal processo di emostasi che comprende sia la formazione del coagulo che la sua dissoluzione. L’emostasi è stata infatti anche definita come “quel meccanismo fisiologico che mantiene il sangue fluido all’interno dei vasi”.

3.1. La coagulazione

In presenza di una lesione di un vaso sanguigno, vengono messi in atto una serie di meccanismi con il fine di arrestare prima possibile la fuoriuscita di sangue dal vaso; l’arresto viene ottenuto tramite la formazione di un tappo emostatico il quale, una volta riparata la parete del vaso, viene rimosso, ripristinando quindi lo status iniziale. Questa complessa serie di reazioni biochimiche e cellulari, sequenziali e sinergiche, che provvedono alla formazione del tappo emostatico, ad arrestare la perdita ematica, alla riparazione della lesione ed alla rimozione del blocco vengono definite emostasi. E’ possibile suddividere schematicamente il processo emostatico in:

1. fase vascolare 2. fase piastrinica 3. fase plasmatica

Tale suddivisione riflette sostanzialmente i tre meccanismi messi in atto dal nostro organismo per garantire l’emostasi: in pratica, in presenza di un danno vascolare, si osserva innanzitutto una vasocostrizione, cioè un restringimento del lume del vaso, finalizzata a limitare la fuoriuscita di sangue;

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immediatamente viene attivato il sistema di richiamo ed aggregazione delle piastrine, le cellule del sangue specializzate nel ruolo di formazione del tappo emostatico; infine sono attivate una serie di molecole (proteine ed enzimi) che formano un vero e proprio coagulo, consentono la riparazione del vaso e si occupano infine della disgregazione del tappo emostatico, ormai inutile. La fase vascolare dell’emostasi è un primo ed immediato tentativo che il vaso realizza per minimizzare la perdita ematica; la muscolatura liscia che avvolge il vaso sanguigno stimola, in caso di lesione, una immediata vasocostrizione che, in realtà, non riesce di per sé a bloccare in modo efficace la fuoriuscita di sangue. E’ dovuta ad un meccanismo neurogeno riflesso e alla secrezione di fattori locali vasocostrittori (endotelina). L’effetto è transitorio.

Tuttavia, la riduzione del calibro del vaso lesionato è un fenomeno importante, che viene stimolato anche nelle fasi successive (ad esempio le piastrine attivate rilasceranno sostanze in grado di stimolare continuamente la vasocostrizione), e contribuisce in modo sostanziale al processo di arresto del sanguinamento. In ogni caso, la lesione vasale risulta il momento scatenante di tutto il processo emostatico; in particolare, la parete vascolare è ricca di sostanze che, se rilasciate, costituiscono un potente stimolo all’attivazione ed all’aggregazione piastrinica: il fattore di von Willebrand (vWF), il trombossano Aa (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); in opportune condizioni il vaso danneggiato rilascia anche il Fattore Tissutale (TF), un attivatore fondamentale della fase plasmatica.

La fase piastrinica è un momento di grande rilevanza funzionale nel processo emostatico e può essere schematicamente suddivisa in: - adesione delle prime piastrine nel sito danneggiato

- attivazione delle piastrine adese

- rilascio di segnali chimici contenuti nelle piastrine attivate

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- aggregazione piastrinica

L’adesione delle piastrine avviene grazie al loro legame con il collagene (proteina presente nella parete dei vasi che viene esposta in seguito alla lesione) che si realizza tramite un recettore situato sulla membrana delle piastrine stesse, il cosiddetto Ia/IIa. Anche il fattore di von Willebrand (vWF) è importante per l’adesione piastrinica: il vWF funge da ponte molecolare, legando con una parte della molecola il collagene e con un’altra parte un recettore presente sulla membrana delle piastrine (il recettore Ib).

Il legame di queste prime piastrine al collagene (tramite il recettore Ia/IIa) ed al vWF (che a sua volta fa da ponte per l’ulteriore legame al collagene) provoca una deformazione della struttura tridimensionale delle piastrine; tale modificazione facilita l’ulteriore aggregazione delle piastrine tra loro e, soprattutto, stimola la cosiddetta reazione di rilascio.

La reazione di rilascio consiste sostanzialmente nel rilascio nell’ambiente esterno alle piastrine di alcuni mediatori chimici contenuti all’interno di granuli. I mediatori chimici sono diversi, ma i più importanti dono il trombossano A2 (TxA2) ed il fattore attivante le piastrine (PAF); si tratta di mediatori cosiddetti autocrini, che cioè vengono rilasciati da un tipo cellulare (in questo caso le piastrine) e servono per stimolare lo stesso tipo cellulare. In pratica queste molecole servono ad auto-stimolare le piastrine, amplificando la loro attivazione e la loro aggregazione. Le piastrine così attivate esprimono sulla loro superficie un altro recettore, detto IIb/IIIa il quale lega un’altra molecola presente nel sito danneggiato: il fibrinogeno. Poiché ogni molecola di fibrinogeno può legare due recettori piastrinici IIb/IIIa, questo ulteriore ponte molecolare determina una vera e propria cascata esponenziale di aggregazione di nuove piastrine, che a loro volta vengono attivate, rilasciano i mediatori, esprimono il recettore e si aggregano, in un ciclo che si ripete ed in pochi secondi rallenta fortemente la fuoriuscita del sangue dal vaso danneggiato.

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trasformazione del fibrinogeno (una proteina solubile presente in grandi quantità nel circolo sanguigno) in un coagulo di fibrina, una trama densa di natura proteica che occlude completamente il sito di rottura del vaso. Naturalmente parte importante del fenomeno è rappresentata, a riparazione del vaso avvenuta, dalla successiva rimozione del tappo di fibrina, fenomeno noto come fibrinolisi, che si conclude con il ripristino della situazione iniziale (restitutio ad integrum).

Una serie di meccanismi tiene costantemente sotto controllo questo potente sistema di formazione di tappi coagulativi, per evitare che l’attivazione della coagulazione avvenga quando non ce n’è bisogno, con conseguente formazione di occlusioni di vasi sanguigni.

La fase plasmatica si caratterizza per il suo funzionamento “a cascata”.

Una proteina viene attivata e la sua attivazione determina la trasformazione di una seconda proteina dalla forma inattiva alla forma attiva, a sua volta in grado di attivare una terza proteina e così via. La successione degli eventi è estremamente specifica, per cui la prima proteina non può attivare la terza. La catena di reazioni non avviene in soluzione, ma solo su una superficie, come quella del vaso danneggiato, che fornisce la base di appoggio necessaria per l’incontro di queste proteine e la loro attivazione a cascata.

L’attivazione avviene in presenza di molecole coadiuvanti, dette cofattori, come il Tissue Factor (TF) il quale, in condizioni normali, si trova nella parete dei vasi ma, esposto in seguito a lesione, svolge il suo ruolo di attivatore di un importante passaggio della cascata coagulativa: l’attivazione del fattore VII il quale, attivato, determina l’attivazione del fattore X. Il fattore X attivato, in presenza di calcio e fattore V attivato, trasforma il fattore II (o protrombina) in fattore II attivato (trombina); la trombina è responsabile della trasformazione finale del fibrinogeno in fibrina. E’ prassi comune individuare due cascate di eventi che possono portare alla coagulazione, dette via “intriseca” e via “estrinseca” che convergono poi in una via “comune”, quella che dal fattore X

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l’effettore finale della trasformazione del fibrinogeno in fibrina. Secondo questo schema la via “intrinseca” avverrebbe sostanzialmente in vitro, quando il sangue viene a contatto con una superficie dotata di carica negativa (infatti viene detta anche attivazione attraverso la fase di contatto). Nella via intrinseca il fattore XII attivato attiva il fattore XI, il quale attiva il fattore IX il quale attiva infine il fattore X per confluire nella via comune già descritta sopra. La via estrinseca sarebbe invece la cascata coagulativa che si verifica in vivo, nell’organismo, in cui l’elemento chiave è la tromboplastina, una molecola costituita da una parte proteica (il Tissue Factor) e da una parte lipidica; la tromboplastina, rilasciata dal vaso danneggiato, attiva il fattore VII, il quale attiva il fattore X per convergere quindi nella via comune già descritta. Questa classica suddivisione nelle due cascate coagulative non spiega tuttavia alcune osservazioni come quella che pazienti con carenze congenite di fattore XII non mostrano disordini emorragici mentre, al contrario, difetti nel fattore IX determinano un quadro clinico particolarmente grave, pur trovandosi entrambi i fattori nella stessa linea diretta della cascata coagulativa; questo riscontro può essere spiegato grazie al fatto che il Tissue Factor può attivare esso stesso il fattore IX, saltando così l’attivazione da parte del fattore XII: questa ed altre osservazioni lasciano supporre che le due vie classiche della cascata coagulativa siano in definitiva solo suddivisioni schematiche ma che nella realtà il processo è “interlacciato” a più livelli. In condizioni fisiologiche, dunque, il Tissue Factor attiva il fattore VII il quale, attivato, provvede all’attivazione del fattore IX, il quale attiva il fattore X che, in presenza di fattore V trasforma la protrombina in trombina; l’amplificazione avviene anche grazie al fatto che il fattore VII è in grado di attivare il fattore X e che la trombina è in grado di attivare il fattore VIII (cofattore del IX), il fattore V (cofattore del X) ed il fattore XI che attiva anch’esso il fattore X. La repentina disponibilità di trombina rende, quindi possibile la trasformazione del fibrinogeno in fibrina.

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fibrinogeno. La trasformazione del fibrinogeno nel coagulo di fibrina è un processo in tre tappe: in una prima fase la trombina opera una scissione proteolitica di alcuni segmenti del fibrinogeno, producendo due tipi di frammenti, il fibrinopeptide A ed il fibrinopeptide B e liberando i monomeri di fibrina i quali tendono a polimerizzare tra loro, unirsi cioè in un modo in cui ogni elemento ne lega altri due (seconda fase); in una terza fase il fattore XIII, attivato sempre dalla trombina, si occupa di stabilizzare i monomeri di fibrinogeno unendoli con legami chimici covalenti.

Diverse molecole svolgono anche un ruolo anticoagulante. Innanzitutto la stessa fibrina svolge un ruolo di inattivatore della trombina, quindi, man mano che il tappo coagulativo si forma, aumenta anche lo stimolo allo spegnimento della cascata coagulativa. L’antitrombina è un’altra proteina in grado di inibire la trombina ma anche il fattore X attivato.

Ancora, la proteina C della coagulazione, grazie anche all’intervento della proteina S della coagulazione, è in grado di operare un’inibizione sia sul fattore V attivato che sul fattore VIII. Infine, il TFPI (Tissue Factor Pathway Inibitor) è in grado, legando il fattore X attivato e portandosi nel sito di legame del Tissue Factor per il fattore X, di bloccare il complesso TF-fattore X.

Una volta fermata l’emorragia attraverso la cascata coagulativa, il vaso danneggiato viene riparato; in questa fase un’altra proteina, il plasminogeno, viene trasformato in plasmina per mezzo del cosiddetto fattore tissutale del plasminogeno t-PA. La plasmina è la proteina che degrada il coagulo di fibrina, provvedendo infine al completo ripristino della situazione precedente alla lesione vascolare. Si parla a questo punto di fibrinolisi.

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3.2. La fibrinolisi

Una volta attivato il meccanismo emostatico, è bene che la reazione si limiti all’area lesa iniziale e che cominci la successiva riparazione, con riproliferazione di cellule endoteliali sane.

La digestione del coagulo di fibrina avviene ad opera della plasmina, un enzima che si forma dal plasminogeno, il proenzima inattivo, prevalentemente per azione del t-PA (attivatore tissutale del plasminogeno), che si libera in circolo sotto lo stimolo della trombina e di alcuni eventi fisiologici (occlusione venosa, sostanze vasoattive, esercizio fisico, iperpiressia…).

Il tutto avviene sul coagulo di fibrina, dove il plasminogeno si trova legato mediante recettori ad alta affinità e dove il t-PA si andrà a legare, promuovendo la proteolisi del plasminogeno in plasmina.

Tuttavia, per prevenire una impropria od eccessiva generazione di plasmina, l’endotelio libera anche PAI-1, un inibitore specifico del t-PA, che si combina prontamente con il t-PA stesso; inoltre, l’attivazone del plasminogeno si limita, normalmente, a quello incorporato nel trombo primario. Altri attivatori del plasminogeno sono l’urochinasi, la callicreina ed altri attivatori tissutali endogeni presenti, praticamente, in tutti gli organi ma, in concentrazioni maggiormente significative, nell’utero e nella prostata. I vari attivatori del plasminogeno generano, dunque, plasmina, che provvederà alla progressiva idrolisi del fibrinogeno e della fibrina in piccoli peptidi noti come “prodotti di degradazione della fibrina” (FDP) con conseguente dissoluzione del trombo e ripristino della pervietà del lume vasale.

L’attività proteasica della plasmina non è specifica, essendo in grado di scindere anche altri substrati, quali i fattori V ed VIII. Tuttavia la plasmina, generata ed immessa nella circolazione generale, viene rapidamente inattivata dalla formazione di complessi con l’α2-antiplasmina e poi rapidamente eliminata durante il passaggio attraverso il fegato.

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In conclusione, l’inizio e l’arresto del meccanismo emostatico sono processi essenzialmente del medesimo tipo, che procedono attraverso inerazioni tra fattori procoagulanti e proteolisi. Si tratta, inoltre, di processi unidirezionali per cui l’unico modo per ripristinare i livelli di proteine che vi partecipano è la loro sintesi de novo.

3.3. Le alterazioni dell’emostasi

I disturbi dell’emostasi possono essere suddivisi in due categorie:

- Le malattie da aumentata attività emostatica (TROMBOSI)

- Le malattie da ridotta attività emostatica (MALATTIE EMORRAGICHE)

La trombosi è un processo patologico che consiste nella formazione di una massa semisolida, aderente alla parete vascolare almeno in un punto, detta appunto trombo, formata dai costituenti del sangue all’interno del sistema vascolare, quando il soggetto è in vita. La trombosi può quindi essere considerata, nella maggior parte dei casi, l’estensione patologica dei processi emostatici normali. Dal punto di vista patogenetico, si distinguono tre diverse condizioni che favoriscono la formazione di un trombo:

1. Il danno endoteliale, che comporta l’esposizione del collagene sub-endoteliale, l’adesione piastrinica e l’esposizione del fattore tissutale, che innescano il processo di coagulazione con formazione del trombo (coagulo di sangue). Questa condizione può interessare il cuore in conseguenza di un danno dell’endocardio nell’infarto, la circolazione arteriosa, nel caso di una

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placca ateroma sica ulcerata ed i vasi danneggiati da traumi ed infezioni. È stato inoltre dimostrato che alcuni fattori sono in grado di determinare alterazioni funzionali dell’endotelio, tali da favorire l’interazione piastrine-endotelio, in assenza di un precedente danno endoteliale. Nelle trombosi venose, infine, la parete vascolare si presenta in genere integra da un punto di vista istologico, per cui si ritiene che alcuni fattori estrinseci giochino un ruolo patogenetico determinante nell’insorgenza di tali trombosi (l’attività fibrinolitica rilasciata dalle cellule endoteliali delle vene degli arti inferiori risulta essere minore rispetto a quella delle vene degli altri distretti; una riduzione del tono venoso può essere un fattore patogenetico importante). Tra i fattori lesivi per l’endotelio vanno ricordati, principalmente:

a. La presenza di placche ateromasiche;

b. L’ipercolesterolemia, che danneggia direttamente l’endotelio e promuove l’interazione tra piastrine ed endotelio;

c. L’iperlipidemia, che determina un aumento della presenza di lipidi perossidati a livello sub-endoteliale che stimolano, a loro volta, l’adesione leucocitaria alle cellule endoteliali;

d. Il diabete; l’iperglicemia, infatti, determina, indirettamente, la lesione endoteliale, con aumento del vWF ( fattore di von Willebrand) e ridotta produzione di PGI2 (prostaciclina);

e. L’infiammazione; durante la fase vascolare del processo flogistico, i leucociti aderiscono all’endotelio, vengono attivati e rilasciano metaboliti tossici dell’ossigeno ed enzimi proteolitici, responsabili del danno endoteliale e del distacco delle cellule;

f. Le neoplasie; le cellule neoplastiche possono attivare le piastrine e le proteasi della coagulazione per mezzo della secrezione di sostanze attivanti simili all’adenosin-difosfato ed esprimendo fattore tissutale sulla superficie della membrana esposta. Le risultanti specie attivate in circolo scatenano la formazione del trombo nei siti vulnerabili della stasi vascolare o a livello della

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trombotica includono la leucemia promielocitica e i tumori di polmone, mammella, prostata, tratto gastrointestinale. La malattia metastatica avanzata può indurre una CID.

g. L’iperomociseinemia, che danneggia direttamente l’endotelio;

h. L’azione di agenti esogeni (farmaci, in particolare i contraccettivi orali contenenti estrogeni, mezzi di contrasto, radiazioni);

i. Il fumo, che agisce con meccanismo lesivo sia diretto, dal momento che inibisce la sintesi di prostaciclina e riduce la sintesi di proteina S, sia indiretto, dal momento che i prodotti di combustione del tabacco provocano fenomeni di vescicolazione e desquamazione dell’endotelio;

j. L’azione di endotossine batteriche, che agiscono danneggiando direttamente le cellule endoteliali, attivando la via alternativa del complemento, attivando i macrofagi con conseguente produzione di IL-1, TNF ed IL-6 che potenziano, da parte loro, l’attività protrombogena dell’endotelio, che esita nella esposizione del fattore tissutale (TF) sulla superficie luminale dell’endotelio;

k. Le condizioni che alterano il flusso ematico, quali le stenosi severe, gli aneurismi, le biforcazioni arteriose , l’ipertensione

l. Le condizioni di anossia, che determinano il rigonfiamento ed il successivo allontanamento delle cellule endoteliali. Gli spazi che si creano tra le cellule adiacenti divengono rapidamente siti di adesione piastrinica. L’anossia, inoltre, è un potente attivatore delle cellule endoteliali ed innesca l’espressione di molecole che sbilanciano in senso protrombogeno la “bilancia emostatica endoteliale”;

m. I traumi esterni (calore, ustioni, congelamento) ed i traumi chirurgici; n. I fattori immunitari.

2. Le alterazioni del flusso sanguigno. Il flusso ematico, nei vasi sanguigni segue sanguigni segue le leggi del flusso laminare, secondo le quali, il sangue tende a

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progressivamente inferiore man mano che ci si spinge verso la parete vasale, a contatto con la quale si ha una lamina praticamente statica.

Le alterazioni del flusso laminare, che comportano il contatto delle piastrine con l’endotelio, la mancata diluizione dei fattori della coagulazione attivati, il ritardo nell’afflusso di inibitori della coagulazione oltre alla attivazione delle cellule endoteliali sono imputabili essenzialmente alla stasi ematica (riduzione della velocità del flusso) e al flusso turbolento (variazione della regolarità del flusso). La stasi ematica è importante soprattutto per il compartimento venoso; il rallentamento del flusso sanguigno è il maggior responsabile di trombosi venosa per tutta una serie di fattori: a)il prolungato tempo di contatto delle piastrine e dei fattori della coagulazione con le cellule endoteliali; b)la sofferenza ipossica dell’endotelio, legata ad una maggior estrazione di ossigeno nei capillari congesti con ridotto afflusso di sangue fresco, che induce l’endotelio stesso ad esporre sulla propria superficie il fattore tissutale, e, nel contempo, riduce la disponibilità di trombomodulina e determina rigonfiamento e retrazione delle cellule endoteliali con esposizione del sub-endotelio; c)il minor rilascio di t-PA. La riduzione del flusso ematico può conseguire a cause di ordine generale (insufficienza cardiaca congestizia, policitemia, anemia falciforme, macroglobulinemia di Waldestrom…) o di ordine locale ( varici, prolungata immobilizzazione, stenosi, insufficienza e stenoinsufficienza mitralica…). La turbolenza contribuisce, invece, prevalentemente allo sviluppo dei trombi arteriosi e cardiaci, secondo un meccanismo di danno endoteliale operato dalla formazione di vortici e correnti che vanno in senso contrario al flusso sanguigno e di sacche di stasi. I fenomeni di turbolenza si verificano particolarmente a livello dei punti di biforcazione arteriosa e delle zone di stenosi.

3. Gli stati di ipercoagulabilità, distinguibili a loro volta in primitivi o genetici (mutazioni del fattore V di Leiden, deficit di antitrombina III, difetti della

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a letto, infarto miocardico, danno tissutale in seguito ad interventi chirurgici, traumi od ustioni,cancro, protesi valvolari cardiache…).

Questi tre fattori altro non sono che i costituenti della triade di Virchow (1856). I trombi possono interessare le cavità cardiache, le valvole cardiache, le arterie, le vene ed i capillari e la loro forma e dimensione variano in relazione alla sede. Il trombo è friabile, con superficie irregolare e struttura disomogenea, a differenza del coagulo che invece ha superficie liscia e levigata e consistenza elastica. Molti stimoli lesivi possono produrre danni alla continuità dell’endotelio vascolare determinando l’adesione delle piastrine, con conseguente attivazione, reazione di rilascio del contenuto dei granuli ed aggregazione. Si forma così il trombo bianco, che costituisce la parte iniziale del trombo, formato solo di piastrine. Nel contempo, localmente viene attivato anche il meccanismo della coagulazione (la via intrinseca con attivazione del Sistema Plasmatico Attivabile da Contatto per la presenza di cariche negative nel sotto-endotelio, la via estrinseca per esposizione del fattore tessutale sotto-endoteliale e per espressione del TF da parte dell’endotelio peri-lesionale) perciò, insieme con le piastrine, si troveranno polimeri di fibrina che stabilizzano ulteriormente il trombo bianco. C’è da notare (vedi sotto) che nelle arterie, dove l’azione di dilavamento della corrente sanguigna è particolarmente intensa, e dove la produzione dell’attivatore del plasminogeno di tipo tessutale (tPA) è molto alta per la forte “trazione” esercitata sull’endotelio dalla velocità di scorrimento del sangue, il trombo può rimanere “bianco”, cioè con sola o prevalente componente piastrinica. Quando il reticolo di fibrina è particolarmente stabile e abbondante riuscirà a trattenere globuli rossi e leucociti, formando uno strato rosso (trombo rosso) sovrapposto al trombo bianco. L’alternanza di strati bianchi (prevalenza di piastrine) e di strati rossi (prevalenza di globuli rossi e fibrina) dà luogo al trombo variegato (detto così per la presenza di strie alternanti di due colori, chiamate strie di Zahn, in onore dell’anatomopatologo che le ha descritte per la prima volta). La parte terminale di un grosso trombo si presenta

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variegato dipende dalla localizzazione e dal flusso sanguigno: nelle arterie, dove il flusso è rapido, si verifica una diluizione dei fattori della coagulazione. La coagulazione del sangue è in questo caso “sfavorita” ed il trombo che si forma è costituito prevalentemente da piastrine (trombo bianco). Nelle vene, invece, dove il flusso è lento, si ha un accumulo dei fattori della coagulazione con formazione di fibrina che intrappola i globuli rossi (trombo rosso).

I trombi si possono sviluppare in qualsiasi punto del sistema cardiovascolare: all’interno delle cavità cardiache, sulle cuspidi valvolari, nelle arterie, nelle vene e nei vasi del microcircolo. Tutti i trombi sono adesi in modo solido alla parete cardiaca o dei vasi e presentano forme e dimensioni variabili: da piccole masse vagamente sferiche a strutture allungate in cui si possono distinguere una “testa”, nel punto di origine del trombo, ben adesa alla parete, un “corpo” ed una “coda” libera nel lume del vaso o lassamente attaccata. Nella circolazione arteriosa la coda si forma in senso retrogrado, mentre nelle vene si forma nella stessa direzione del flusso e tende a frammentarsi dando origine ad un embolo. I trombi si distinguono, quindi, in:

 Trombi arteriosi, che si formano, generalmente, su di una superficie endoteliale lesa, sovrapponendosi, più spesso, a lesioni di tipo aterosclerotico ulcerate. Tendono ad accrescersi in maniera retrograda rispetto al punto di attacco. Si presentano come masse compatte, di colore biancastro, per la prevalente od esclusiva componente piastrinica, e tendono a rimanere parietali. I trombi arteriosi delle cavità cardiache e dell’aorta risultano fortemente aderenti alla struttura sottostante, occupano solo una parte del lume vasale (che a questi livelli è molto ampio). All’esame macroscopico e microscopico sono osservabili delle laminazioni, chiamate strie di Zahn, dovute alla alternanza di strati più chiari (piastrine e fibrina) a strati più scuri (globuli rossi) e che permettono di differenziare un trombo da un coagulo postmortale. Il coagulo è gelatinoso, non aderisce alla parete sottostante, ha colore rosso scuro per sedimentazione delle emazie con supernatante giallo. Si tratta per lo

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cerebrali e femorali. Sono aderenti alla parete arteriosa danneggiata, appaiono grigiastri e friabili, mentre, microscopicamente, risultano essere costituiti da piastrine, fibrina, eritrociti e leucociti in via di degenerazione.

 Trombi venosi sono sempre occlusivi e legati alla stasi. Nel 90% dei casi interessano il distretto venoso degli arti inferiori. Macroscopicamente hanno colorito rosso, da cui la denominazione di trombo rosso, in relazione al maggior contenuto microscopico di eritrociti.

I trombi, siano essi arteriosi o venosi, tendono ad accrescersi per progressivo accumulo di quantità crescenti di piastrine e fibrina, fino alla completa occlusione del caso, possono embolizzare, talora dissolversi per opera dell’attività fibrinolitica od organizzarsi e ricanalizzarsi, consentendo in questo modo lo ristabilimento del flusso sanguigno attraverso i canali neoformati. L’azione del trombo può quindi tradursi nella occlusione totale o parziale sia del letto vascolare arterioso (infarto miocardico o cerebrale) che di quello venoso (congestione ed edema nel letto vascolare distalmente all’ostruzione) e, nei casi più gravi, può evolvere in una embolizzazione che interessa, nella maggior parte dei casi il circolo polmonare, con conseguenze ben più drammatiche rispetto alla trombosi venosa. Quest’ultima condizione interessa più frequentemente le vene superficiali ed in particolare la vena safena in presenza di varici, con un quadro clinico caratterizzato da dolore, congestione e rigonfiamento, con scarsa tendenza alla embolizzazione, e le vene profonde della gamba, più spesso le vene poplitee, femorali ed iliache. La trombosi delle vene profonde decorre asintomatica in circa il 50% dei casi; quando presente, la sintomatologia è caratterizzata da dolore ed edema distale; a differenza dei trombi del circolo superficiale, quelli delle vene profonde hanno una spiccata tendenza alla embolizzazione.

La trombosi venosa rappresenta una conseguenza della stasi e della ipercoagulabilità ematiche, condizioni queste che possono essere sostenute da insufficienza cardiaca congestizia, traumi, interventi chirurgici, ustioni e

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dell’attività motoria (quale si verifica anche solo semplicemente nell’età senile), un danno vascolare ed il rilascio di sostanze pro-coagulanti.

3.4. Gli stati di ipercoagulabilità o trombofilia

Per trombofilia si intende la tendenza alla ipercoagulabilità ematica, condizione che predispone quindi al tromboembolismo arterovenoso spesso recidivante, anche in assenza di cause scatenanti evidenti, e che può riconoscere cause congenite o acquisite. La trombofilia è nota anche come stato ipercoagulabile o stato pro-trombotico. Gli episodi trombotici sono più frequenti nel distretto venoso, rispetto a quello arterioso.

A. Trombofilia primaria o congenita.

Questa condizione dipende da difetti che causano una riduzione quantitativa e/o qualitativa dei meccanismi anticoagulanti o fibrinolitici, oppure dalla presenza di particolari varianti molecolari o polimorfismi di alcuni fattori della coagulazione.

Deve essere sospettata in presenza di: - Episodi tromboembolici ricorrenti;

- Esordio in età giovanile (in genere prima dei 45 anni) o in assenza di eventi predisponenti, quali la gravidanza, il puerperio o interventi chirurgici;

- Localizzazione anatomica anomala della trombo-embolia (vene mesenteriche, vena porta, vene cerebrali);

- Anamnesi familiare positiva;

- Episodi tromboembolici in corso di terapia anticoagulante. Le cause di trombofilia primaria possono risiedere:

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1. Nel ridotto controllo dell’emostasi. La regolazione del livello plasmatico dei fattori attivati della coagulazione è operata da vari inibitori fisiologici, il cui deficit può essere alla base dello stato di ipercoagulabilità. Questo deficit può riguardare:

1.1. AT III (antitrombina III): il deficit eterozigote di AT plasmatica è trasmesso in modo autosomico dominante, con una prevalenza di circa lo 0,2-0,4%; nella metà dei casi, il paziente sperimenta episodi trombotici venosi. Lo stato omozigote è incompatibile con la vita.

1.2. Proteina C: il deficit eterozigote della Proteina C plasmatica è trasmesso in modo autosomico dominante, con una prevalenza prossima allo 0,2-0,5%. Circa il 75% di questi soggetti presenta almeno un episodio trombo embolico venoso (nel 50% dei casi dopo i 50 anni). Il deficit omozigote o la doppia eterozigosi si presenta nei neonati sotto forma di porpora fulminans o di CID, e risulta fatale in assenza di terapia sostitutiva ed anticoagulante.

1.3. Proteina S:il deficit eterozigote di proteina S plasmatica è simile al deficit di Proteina C per quanto riguarda la trasmissione genetica, la prevalenza e l’incidenza. Nel sangue, il 60% della Proteina S è complessata alla C4b-binding protein, mentre il restante 40%, che costituisce il cofattore funzionalmente attivo della Proteina C attivata, si trova in forma libera. Il deficit di proteina S può essere di tipo I) quantitativo, di tipo II) funzionale o di tipo III) caratterizzato da una riduzione quantitativa della forma libera in presenza di una quantità normale di Proteina S totale.

1.4. Trombomodulina: in studi recenti è stato dimostrato un deficit congenito di questa proteina coinvolta nel meccanismo di attivazione del complesso Proteina C-Proteina S, pur rimanendo ancora da definire l’eventuale effetto trombogeno di questo difetto.

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