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LUCI E OMBRE DELLA EVOLUZIONE NORMATIVA IN MATERIA DI (CONTRATTO A) “PROGETTO”

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V iale B e re n g a rio n . 5 1 4 1 1 21 M o d e n a ( It a ly) T e l. 0 5 9 .2 0 5 6 7 4 2 /5 – F a x 0 5 9 .2 0 5 6 7 43 – S ito ww w.c e rti fic a zi o n e .u n im o re .it ce rtifi ca zi o n e co n tr a tt i@ u n im o re .it ; tir a b o sch i@ u n im o re .i t; fl a via. p a s q u in i@u n im o re .it entro S tu di I nter na zi on al i e C om par ati D E A L O M MIS S IO N E D I C E R T IF IC A Z IO N E @certifica_MO, 21 febbraio 2014

LUCI E OMBRE DELLA EVOLUZIONE

NORMATIVA IN MATERIA DI

(CONTRATTO A) “PROGETTO”

di Gabriele Bubola, Valeria Filippo

“Tagliato il traguardo” dei 10 anni dalla introduzione, per mezzo della Legge Biagi, del “progetto” nelle collaborazioni coordinate e continuative a carattere personale, pare particolarmente sentita l’esigenza di fare ordine su un concetto che, tra interventi normativi, circolari ministeriali e interpretazioni giurisprudenziali, sembra non riuscire ad assestarsi in una concreta applicazione che sia largamente condivisa.

La genesi delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto ha compiuto un passo significativo nell’ottobre 2001, quando fu pubblicato il “Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia.

Proposte per una società attiva e un lavoro di qualità”, il quale conteneva le linee guida di polita del

lavoro cui tendeva il Governo in vista di una radicale rivisitazione dell’intero sistema.

La legge Biagi che seguì era composta di 10 articoli e delegava il Governo ad ampliare il novero delle tipologie contrattuali mediante le quali integrare un’attività lavorativa nell’organizzazione altrui e a disciplinare alcuni tipi negoziali già esistenti. È il caso, appunto, delle collaborazioni coordinate e continuative.

Nella relazione allo schema di decreto delegato, si tracciava poi un punto fermo: la nuova normativa avrebbe dovuto essere “una riforma delle collaborazioni coordinate e continuative” già presenti nel nostro ordinamento, ma spesso utilizzate per eludere la normativa sul lavoro

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farisaica accettazione di questa pratica elusiva” e riportare le “attuali co.co.co. al lavoro subordinato o al lavoro a progetto, forma di lavoro autonomo che non può dare luogo alle facili elusioni riscontrate pena la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempi indeterminato”.

La forma del contratto

L’articolo 62 del d.lgs. n. 276/2003 prevedeva, sempre nella sua originaria impostazione, la forma scritta del contratto con indicazione specifica ad probationem, confermata dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 1/2004) della durata (determinata o determinabile), del corrispettivo (con modalità e tempi di pagamento compresa la disciplina sul rimborso spese), delle forme di coordinamento dell’attività (che non possono essere tali da pregiudicare l’autonomia), e delle eventuali misure a tutela della salute e della sicurezza. L’obbligatorietà della indicazione per iscritto del progetto rappresentava quindi, nel disegno del legislatore, la chiave di volta di tutta la normativa antielusiva. La messa per iscritto del progetto era volta ad individuare, delimitare e predeterminare l’attività del collaboratore con conseguente impossibilità del committente di pretendere dal medesimo l’esecuzione di prestazioni lavorative diverse.

Nel decreto legge n. 76/2013 viene meno l’inciso relativo alla necessaria indicazione degli elementi del contratto a progetto “ai fini della prova”. L’indicazione per iscritto degli elementi essenziali del contratto, quindi, diviene ora costitutiva per i contratti sottoscritti successivamente all’entrata in vigore del c.d. Pacchetto Lavoro.

Le caratteristiche principali del contratto

Entrando nello specifico degli elementi maggiormente significativi e caratterizzanti il contratto a progetto, deve evidenziarsi che, nella sua originaria impostazione, l’art. 61 del d.lgs. n. 276/2003 prevedeva che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., fossero “riconducibili a

uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”. Da una

parte, dunque, si richiamavano, rispetto al precedente istituto, la continuità, la coordinazione e il carattere prevalentemente personale dell’opera; dall’altra, si prevedeva la riconducibilità a un progetto gestito autonomamente, in funzione del risultato e che prescindesse dal tempo impiegato.

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Emergeva quindi l’intento di fissare un modello “a sommatoria”: la nuova figura presentava tutti i caratteri delle già collaudate co.co.co., ma anche la riconducibilità dall’attività a progetti specifici.

In seguito, il Ministero del lavoro, con la circolare n. 1 del 2004, ha provveduto a dare indicazioni in merito alla disciplina sostanziale, specificando che le collaborazioni approntate secondo il modello del legislatore, oltre al requisito del progetto, che costituisce mera modalità organizzativa, restano caratterizzate dall’elemento che le qualifica appunto come collaborazioni, rappresentato dall’autonomia nello svolgimento dell’attività lavorativa dedotta nel contratto e funzionale alla realizzazione del progetto, dal necessario coordinamento con il committente e dalla irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. La circolare prosegue poi definendo i concetti di progetto, programma e fase di esso. In particolare, la circolare precisa che il progetto consiste in una specifica attività produttiva, connessa all’attività principale od accessoria nell’impresa, ma ad essa non coincidente né sovrapposta, collegata ad un risultato finale, con un termine coincidente con il raggiungimento del risultato (determinato o determinabile). Inoltre, chiarisce come il progetto non possa riguardare né la sola descrizione delle attività da svolgere, né l’elenco delle mansioni affidate al collaboratore, mentre le prestazioni elementari, ripetitive e predeterminate sono considerate difficilmente compatibili con il contratto a progetto che, in sostanza, non deve essere utilizzato per una molteplicità di attività generiche.

Risultando perdurante l’utilizzo quantomeno border line delle collaborazioni a progetto, il Legislatore, con la Finanziaria per il 2007, ha dato il via ad un processo di stabilizzazione delle collaborazioni dando l’opportunità ai committenti, che avessero utilizzato contratti di collaborazione a progetto (e non) non genuini, in quanto privi dei requisiti legali e di quegli elementi che provano il carattere autonomo della prestazione, di sanare tali rapporti attraverso la loro trasformazione in contratti di lavoro subordinato. Oltre alla stabilizzazione, la Finanziaria prevedeva, inoltre, la possibilità per le parti sociali di stipulare accordi collettivi con i quali stabilire ulteriori misure e regole finalizzate ad un corretto utilizzo di questa tipologia contrattuale e ad un miglioramento delle rispettive condizioni contrattuali.

Successivamente, il contratto a progetto è tornato sotto la lente d’ingrandimento, dapprima nel Protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, che aumenta i contributi pensionistici per i parasubordinati, denotando l’importanza oramai assodata di tale tipologia contrattuale e, successivamente, per effetto di una capillare indagine ispettiva. Ciò ha portato il Ministero del

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dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003. In tale circolare si legge che, considerati gli esiti dell’attività di vigilanza sul fenomeno in questione, costituisce una priorità del Governo quella di contrastare l’elusione della normativa sulle tutele del lavoro subordinato. Tale circolare è particolarmente incisiva e restrittiva anche e soprattutto in considerazione del fatto che contiene una elencazione di attività che, “per le modalità concrete di esecuzione, risultano difficilmente

inquadrabili nella tipologia contrattuale in esame, e conseguentemente incompatibili con l’attività progettuale”.

Peraltro, gli operatori economici non ebbero neppure il tempo di metabolizzare tale circolare che questa venne espressamente superata (o meglio, rinnegata) da parte del Ministero del Lavoro allorquando, nel settembre 2008, venne emanata la c.d. Direttiva Sacconi; in tale Direttiva, oltre ad invitare gli ispettori alla disapplicazione dell’ultima circolare ministeriale, in quanto contenente una elencazione di attività ed una serie di preclusioni “da ritenersi

complessivamente non coerenti con l’impianto e le finalità della «legge Biagi»”, si dichiara che l’obiettivo

principale è la costruzione di “una innovativa policy per l’ispezione sul lavoro”, intesa a prevenire gli abusi e a sanzionare i fenomeni di irregolarità sostanziale. Con tale Direttiva, il Ministro del Lavoro rileva poi la centralità dell’istituto della “certificazione dei contratti”, posto che gli ispettori sono indirizzati a “concentrare la propria attenzione soltanto sui contratti non certificati”.

L’entrata in vigore della legge n. 92 del 28 giugno 2012, la c.d. Riforma Fornero, rappresenta un importante spartiacque e segna un radicale mutamento dell’istituto, in considerazione dell’uso massiccio di tale forma contrattuale da parte delle aziende in modo spesso improprio, come evidenziato anche dalle molteplici pronunce giurisprudenziali alle quali la legge di riforma si è, di fatto, ispirata.

La nuova disciplina, modificando o sostituendo gran parte degli articoli del decreto legislativo, riconduce la prestazione lavorativa a un progetto specifico (eliminando la possibilità di individuare un programma di lavoro o una fase di esso) determinato dal committente e gestito autonomamente dal collaboratore.

Pertanto, ad oggi e rispetto alla disciplina precedente, il contratto a progetto deve prevedere la puntuale individuazione di uno o più progetti con individuazione del contenuto caratterizzante e la specificazione del risultato finale rispetto al quale la prestazione deve essere finalizzata. Tale risultato finale non può consistere nella riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa, ma deve essere qualcosa di specifico e strettamente riconducibile all’attività in concreto resa dal collaboratore. Inoltre, viene precisato come il progetto non possa comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi.

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Le modifiche normative apportate al contratto a progetto sono state interpretate dal Ministero del Lavoro specificamente attraverso la circolare n. 29 del 11 dicembre 2012, nella quale il Ministero ha fornito alla Direzioni per l’attività ispettiva le prime linee guida operative ritornando nuovamente sui propri passi, ovvero esplicitando nuovamente, a titolo esemplificativo, una serie di attività “difficilmente inquadrabili nell’ambito di un genuino rapporto a

progetto” (quali ad esempio il personale di pulizia, baristi e camerieri, commessi, magazzinieri,

addetti ad attività di segreteria), sulla falsariga di quanto già previsto dalla già richiamata circolare n. 4/2008.

Da ultimo, il decreto legge n. 76 del 2013 (come convertito con modificazioni dalla legge n. 99 del 2013) interviene nuovamente sull’articolo 61, fornendo così la versione ad oggi definitiva dell’articolo. Anzitutto, si prevede che il progetto individuato dalle parti nell’ambito della sottoscrizione di un contratto di collaborazione a progetto non possa comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi. Il Legislatore trasforma l’originaria disgiunzione (introdotta dalla Riforma Fornero) in una congiunzione, allargando quindi lo spettro di contratti a progetto stipulabili (che possono concernere, alternativamente, compiti esecutivi o ripetitivi). Tale modifica è volta a garantire minori limitazioni alla sottoscrizione di contratti a progetto, considerato che i compiti ad esso collegati potranno concernere, alternativamente e diversamente dalla previgente disciplina, attività esecutive, cioè di “mera

attuazione di quanto di volta in volta impartito dal committente”, o compiti ripetitivi, cioè “in cui non siano lasciati margini di autonomia anche operativa al collaboratore”, secondo l’interpretazione

ministeriale di cui alla circolare n. 29 del 2012. Inoltre, il Pacchetto Lavoro prevede una ipotesi di proroga del contratto a progetto (ulteriormente a quella già prevista dall’art. 66, comma 1 del d.lgs. n. 276/2003 relativamente al periodo di gravidanza della collaboratrice) per i contratti di collaborazione che hanno ad oggetto attività di ricerca scientifica. Tale proroga è consentita per il caso di ampliamento dell’attività per temi connessi al tema oggetto del progetto originariamente concordato o per prosecuzione nel tempo, garantendo di fatto l’ultimazione di progetti scientifici già avviati, da parte di chi se ne era fino a quel momento occupato; di per sé l’intervento appare comprensibile e per certi versi condivisibile, sebbene non possa non rilevarsi la sua eccessiva specificità (possibile che la proroga debba essere legittima solamente per le ricerca scientifiche?) e la mancanza di valutazione sistematica dell’istituto.

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Il progetto nelle organizzazioni non governative (ONG/ONLUS), aventi finalità socio/assistenziali e sanitarie e nelle società che operano nel settore commerciale tramite i c.d. promoter

Con specifico riferimento alle organizzazioni non governative (ONG/ONLUS), alle organizzazioni aventi finalità socio/assistenziali e sanitarie ed alle società che operano nel settore commerciale tramite i c.d. promoter è intervenuto, successivamente all’approvazione della Legge n. 92 del 2012, il Ministero del Lavoro con la circolare n. 7 del 20 febbraio 2013, fornendo alcuni chiarimenti.

Tale circolare, oltre a ribadire quanto in precedenza statuito, ha tenuto a chiarire che – nell’ambito delle strutture socio-assistenziali – è possibile individuare “specifici progetti che, pur

contribuendo al raggiungimento dello scopo sociale, se ne distinguono per una puntuale declinazione di elementi specializzanti”. Quindi, l’attività svolta dal collaboratore, se pure necessariamente coincidente e

funzionalmente correlata, nei suoi elementi essenziali, alla finalità sociale dell’organizzazione presso cui il medesimo è chiamato ad operare, non deve coincidere totalmente con la stessa, né ad essa sovrapporsi. Al contrario, tale attività deve essere compiutamente determinata con riguardo agli aspetti specifici, tramite l’individuazione di puntuali progetti che, se pure atti appunto a raggiungere lo scopo sociale, possano distinguersene ed essere finalizzati al conseguimento di un antonomo risultato per mezzo dello svolgimento di un’attività che presenti elevati margini di autodeterminazione, essendo il progetto delimitato in modo specifico a determinati soggetti. A mero titolo esemplificativo, quindi, se l’oggetto sociale di una casa di accoglienza è accogliere i soggetti affetti da dipendenze croniche, il collaboratore dovrà avere un progetto “dedicato” ad un determinato portatore di specifiche esigenze.

A riguardo, molteplici possono essere gli spunti di riflessione. In primo luogo, preme rilevare che la tipologia di attività svolta nelle organizzazioni socio assistenziali richiede continuità di assistenza, talché, nei fatti, il rischio è che in tale ambito l’autonomia del collaboratore si estrinsechi nella mera possibilità di determinare la calendarizzazione delle attività (mensile, settimanale o giornaliera), limitandosi quindi il medesimo a scegliere la fascia oraria in cui rendere la propria prestazione, se pure in accordo con gli altri collaboratori, qualora presenti. Ove ciò in effetti avvenga, la linea di demarcazione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato appare piuttosto attenuata.

Per quanto riguarda le attività rese da società che operano nel settore commerciale tramite i c.d.

promoter, il ministero ha dichiarato che esse difficilmente possono essere compatibili con una

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Nello specifico, per quanto riguarda le ONG, l’Accordo collettivo del 24 aprile 2013 stabilisce che questo dovrà essere funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale “obbiettivamente verificabile” ed inteso come “modificazione della realtà materiale”, oltre a non poter consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente. In un tale contesto è evidente che individuare il progetto significa parcellizzare e settorializzare gli obiettivi in vari autonomi step che corrono paralleli per poi incontrarsi solo al momento del raggiungimento dello scopo finale. Per tale via, l’intento dell’Accordo, solo in parte realizzato, è certamente quello di individuare criteri oggettivi per determinare la prestazione lavorativa nel suo concreto svolgimento e per dare indicazioni agli operatori in merito alle differenti tipologie di progetto realizzabili relativamente al ruolo che il collaboratore è chiamato a svolgere ed alle competenze necessarie per la realizzazione dell’obiettivo atteso. Per tale ragione, l’Accordo individua quattro “moduli funzionali” che identificano altrettante tipologie di progetti. In sostanza, i moduli sarebbero funzionali, per l’appunto, all’individuazione precisa delle differenti competenze di cui necessita il collaboratore per poter svolgere la sua funzione sociale e per poter operare nel relativo ambito di intervento e l’individuazione del modulo, a sua volta funzionale all’instaurarsi della collaborazione, ha la funzione di permettere la corresponsione di un compenso adeguato alle competenze e alle capacità del collaboratore, da un lato, ed alla complessità del progetto affidato, dall’altro, riparametrando il lavoro svolto nelle associazioni del settore attraverso una misurazione che si basi maggiormente sul merito, le qualifiche, le esperienze e le competenze. Ad oggi si registrano due accordi quadro, entrambi del 2013, nel settore delle organizzazioni aventi finalità socio/assistenziali e sanitarie. Uno siglato unicamente dalla UGL e l’altro da CGIL, Cisl e Uil. Per tali settori il progetto dovrà essere caratterizzato da una sua specificità, compiutezza, autonomia ontologica e predeterminatezza del risultato atteso e rappresentare una vera e propria “linea guida” contenente le modalità di esplicitazione dell’obbligazione del collaboratore.

Le presunzioni di subordinazione di cui all’art. 69 d.lgs. n. 276/2003

Come noto, la formulazione dell’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003 (rimasta invariata rispetto a quanto previsto nella versione originaria del 2003) prevede che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto “sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione

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Tale norma, interpretata nel senso dell’introduzione di una presunzione di carattere relativo da parte della circolare n. 1/2004, ha dato luogo a due opposti filoni giurisprudenziali, l’uno aderente alla lettura fornita dal Ministero, e l’altra di segno opposto (ovvero nel senso della natura assoluta della presunzione).

Su tale contrasto è intervenuta la riforma Fornero che, con norma di interpretazione autentica, ha sancito che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale per la validità del rapporto, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Pertanto, tale norma introduce una presunzione assoluta di subordinazione, senza possibilità per il committente di provare la genuinità del rapporto di collaborazione, da applicarsi però solamente per i contratti sottoscritti successivamente all’entrata in vigore della Legge Fornero. Tale limitazione ha creato e sta creando un dubbio interpretativo rilevante in ordine al regime di presunzione da applicarsi ai contratti sottoscritti sino a tale data. L’auspicio è che in questo caso non si formino orientamenti contrapposti, specie in ambito giudiziario (e, sul punto, si evidenzia l’interessante presa di posizione fornita dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 511 del 2013, secondo la quale per il periodo antecedente l’entrata in vigore della Riforma Fornero, si applicherebbe la presunzione di carattere relativo).

Peraltro, la centralità dell’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003 appare evidente laddove si consideri che questo risulterà applicabile, esplicitamente, anche nei casi disciplinati dal successivo art. 69

bis (introdotto proprio dalla Legge Fornero), ovvero nel caso di prestazioni lavorative rese da

soggetto titolare di Partita IVA.

Che la Riforma Fornero sia finalizzata ad una sorta di contenimento della tipologia contrattuale in commento, anche ed indipendentemente dalla sussistenza di un progetto, è dato anche dalla introduzione, all’interno del comma 2 dell’art. 69 del d.lgs. n. 276/2003, di una presunzione, questa volta relativa, di subordinazione, nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente. Si prevede una deroga a tale specifica per le prestazioni di elevata professionalità che possono essere individuate dalla contrattazione collettiva nazionale.

Il caso specifico dei call center in outbound

Per quanto riguarda le attività rese nei call center, pare si sia intervenuti apportando modifiche alla riforma Fornero al fine di “salvare” la possibilità di utilizzo del contratto a progetto nei call

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Deve essere sottolineato che il Ministero del Lavoro, da tempo, si interessa di tale specifico “settore”. Si ricorda, infatti, che il Dicastero aveva già emanato la circolare n. 17 del 2006 proprio relativamente alle collaborazioni a progetto da svolgersi all’interno dei call center, nella quale si è precisato, sin da subito, che “nell’ambito del progetto di lavoro così definito al collaboratore non

può essere richiesta un’attività diversa da quella specificata nel contratto”.

Nello specifico, la circolare, che escludeva la possibilità di stipulare contratti a progetto per le c.d. attività inbound in considerazione del fatto che l’operatore, rispondendo alla chiamata proveniente dall’esterno, si limiterebbe a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche, senza possibilità alcuna di gestione autonoma dei tempi e delle modalità di lavoro, individuava i presupposti per la stipulazione delle co.co.pro., essenzialmente, nei criteri di individuazione e specificazione del progetto, nell’autonomia del collaboratore nella gestione dei tempi di lavoro e nelle modalità di coordinamento consentite tra committente e collaboratore; tali chiarimenti si pongono nell’ottica di delimitare l’utilizzo del lavoro coordinato alle sole prestazioni genuinamente autonome perché effettivamente riconducibili alla realizzazione di un programma o progetto o fasi di esso gestite dal collaboratore in funzione del risultato. L’obiettivo finale deve essere quindi definito in tutti i suoi elementi qualificanti al momento della stipulazione del contratto e che il committente, a differenza del datore di lavoro, non può in seguito variare in modo unilaterale.

In seguito all’entrata in vigore della Riforma Fornero, la legge n. 134 del 7 agosto 2012, (c.d. decreto sviluppo) ha in parte modificato il riformulato articolo 61, integrandolo attraverso l’introduzione della specifica secondo la quale sono escluse dall’obbligo di indicazione del progetto anche le attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center

outbound per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del

corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento.

Tale modifica, nella sostanza, si è resa necessaria in quanto, con le modifiche apportate alla disciplina dalla legge n. 92/2012, sarebbe divenuto impossibile individuare uno specifico progetto, in quanto la maggior parte delle attività rese si sostanzia nella realizzazione di un progetto (a dire il vero meglio forse sarebbe stato meglio parlare di programma di lavoro) che comporta per sua stessa natura attività strettamente attinenti all’oggetto sociale della committente. In altri termini, alla scadenza dei contratti, le committenti si sarebbero trovate di fronte ad un bivio: assumere, cautelativamente, con contratto di lavoro subordinato i lavoratori contrattualizzati a progetto, con conseguente aumento del costo del lavoro, oppure

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delocalizzare. Ed il tentativo di evitare la perdita di migliaia di posti di lavoro è stato proprio alla base dell’intervento effettuato con il decreto sviluppo.

A tal proposito, la circolare del Ministero del Lavoro n. 14/2013 interviene per chiarire la portata di tale esclusione, statuendo che la deroga sia prevista a condizione che il contratto di collaborazione preveda la corresponsione del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale (essendo tale norma di carattere “autorizzatorio”), da un lato e, dall’altro, per interpretare l’inciso “vendita di beni e di servizi” in senso estensivo, ovvero ricomprendendo nell’esclusione sia le attività di vendita di beni che le attività di servizi. Tale interpretazione ha trovato avallo, anzitutto e nuovamente, ma questa volta in modo compiuto, in sede Ministeriale, ovvero all’interno della Nota 12 luglio 2013 nella quale il Ministero si è spinto sino a rilevare che le attività di servizi possono giovarsi della non applicazione dei requisiti dell’art. 61 del d.lgs. n. 276, tra i quali in particolare la sussistenza di un progetto specifico.

Infine, tale interpretazione ha trovato riconoscimento a livello legislativo all’interno del decreto legge n. 76 del 2013 (e successiva legge di conversione n. 99/2013), che, con norma di interpretazione autentica, ha chiarito che l’art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 276/2003 non trova applicazione anche in riferimento alle “attività di servizi” oltre che di “vendita diretta di beni”. Che tale interpretazione, peraltro, fosse tutt’altro che scontata, sino a rendere opportuno un intervento normativo sul punto, appare dimostrato dall’atteggiamento delle parti sociali del settore del recupero dei crediti per via telefonica; infatti, le parti hanno sottoscritto in data 3 dicembre 2012 (antecedentemente, pertanto, alle interpretazioni ministeriali ed al Pacchetto Lavoro) un Protocollo d’Intesa volto a regolare, tra l’altro, l’utilizzo del contratto a progetto da parte delle società aderenti. Ed in tale Protocollo, benché vi sia un fugace richiamo alla disciplina di cui al decreto sviluppo, ovvero alla stretta correlazione tra il recupero crediti stragiudiziale per via telefonica ed attività di “vendita di beni e di servizi”, le parti poi disciplinano le modalità di redazione del contratto di collaborazione nel settore, inclusa la parte relativa al progetto.

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