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I principali cambiamenti dell'assetto urbano fra Ottocento e Novecento

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Academic year: 2021

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© BY SIAE, 2017, PER JAN FABRE, JEAN-MICHEL FOLON

HACONTRIBUITOALLADEFINIZIONEEALLAREALIZZAZIONEDELPROGETTOICONOGRAFICO: FRATELLI ALINARI I.D.E.A. S.P.A.

RITA SCARTONI (COORDINAMENTODELPROGETTO);

MARIANNA BELLUMORI, ROSSELLA CARRUS, RAIMONDA GIORGI, ANNA LUCCARINI, EMANUELA SESTI (RICERCAICONOGRAFICAEDIDASCALIE);

ROSSELLA CARRUS, MARIA POSSENTI (BIOGRAFIE);

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CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE VICEPRESIDENTI

MARIO ROMANO NEGRI, GIOVANNI PUGLISI

LUIGI ABETE, PAOLO AIELLI, DOMENICO ARCURI, FRANCO ROSARIO BRESCIA, PIERLUIGI CIOCCA,

DANIELE DI LORETO, MATTEO FABIANI, LUIGI GUIDOBONO CAVALCHINI GAROFOLI,

MONICA MAGGIONI, GIANFRANCO RAGONESI, GIUSEPPE VACCA

DIRETTORE GENERALE MASSIMO BRAY

COMITATO D’ONORE

GIULIANO AMATO, FRANCESCO PAOLO CASAVOLA,

FABIOLA GIANOTTI, TULLIO GREGORY, GIORGIO NAPOLITANO, PIETRO RESCIGNO

CONSIGLIO SCIENTIFICO ENRICO ALLEVA, ANNA AMATI, LINA BOLZONI,

IRENE BOZZONI, GEMMA CALAMANDREI, SILVIA CANDIANI, LUCIANO CANFORA,

ENZO CHELI, MICHELE CILIBERTO, ESTER COEN, ELENA CONTI, SAMANTHA CRISTOFORETTI,

JUAN CARLOS DE MARTIN, LUDOVICO EINAUDI, AMALIA ERCOLI FINZI, LUCIANO FONTANA,

RENZO GATTEGNA, EMMA GIAMMATTEI, CARLO GUELFI, FERNANDO MAZZOCCA,

MARIANA MAZZUCATO, MELANIA G. MAZZUCCO, ALBERTO MELLONI, ALESSANDRO MENDINI,

DANIELE MENOZZI, ENZO MOAVERO MILANESI, CARLO MARIA OSSOLA, MIMMO PALADINO,

GIORGIO PARISI, TERESA PÀROLI, GIANFRANCO PASQUINO, GILLES PECOUT,

ALBERTO QUADRIO CURZIO, GUIDO ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUCA SERIANNI,

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REDAZIONE

Responsabile editoriale

LORETA LUCCHETTI

Cura redazionale e revisione testi

MARIA ISABELLA PESCE; FLAVIA RADETTI

Segreteria

PASQUALINA LEONE

ATTIVITÀ TECNICO-ARTISTICHE E DI PRODUZIONE ART DIRECTOR

GERARDO CASALE

Iconografia

MARINA PARADISI; FABRIZIA DAL FALCO

Produzione industriale

GERARDO CASALE; ANTONELLA BALDINI, GRAZIELLA CAMPUS

Segreteria

CARLA PROIETTI CHECCHI

DIREZIONE EDITORIALE

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FIRENZE

Luoghi, persone, visioni

TOMASO MONTANARI

Introduzione

XIX

L

UOGHI STEFANO BERTOCCI

I principali cambiamenti dell’assetto urbano fra Ottocento e Novecento

3

P

ERSONE SANDRO ROGARI

Le metamorfosi di un paradigma. Firenze dall’Unità d’Italia a oggi

277

GIUSTINA MANICA

Emancipazione di genere e mutamenti sociali a Firenze fra Otto e Novecento

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LUCA CRISCENTI

In strada e in vetrina

533

A

PPARATI Biografie dei fotografi

773

Indice dei nomi e dei luoghi 785

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Ottocento e Novecento

I

l turista che visita Firenze ha l’impressione, camminando per le vie del centro sto-rico, di trovarsi in quella magnifica città medievale-rinascimentale che, negli ultimi due secoli di storia, letteratura e media hanno vividamente scolpito nell’immaginario collettivo. I percorsi maggiormente frequentati dai visitatori, quali piazza della Repubbli-ca, via dei Calzaiuoli, piazza della Signoria e via Por Santa Maria fino a raggiungere Ponte Vecchio, sono in buona parte il frutto di un imponente cambiamento urbanistico avvenuto proprio nel momento in cui si stava costruendo, ad hoc, la romantica idea dello splendore della Firenze dei Medici, di Michelangelo, Leonardo e Masaccio.

Alla ricerca di un’idea di città, oggi estremamente funzionale sotto l’aspetto del successo turistico, tra Ottocento e Novecento il centro urbano fu riadattato alle necessità e al gu-sto dell’epoca. Mentre Firenze era descritta come la capitale della cultura italiana, la culla dell’Umanesimo, la sua immagine si allontanava poco alla volta dall’aspetto che la città stessa aveva nel Medioevo e nel Rinascimento. Non considerando il nucleo urbano come un unico, grande monumento, ma come una sommatoria di singoli edifici e opere d’arte da isolare e valorizzare nel proprio indiscusso splendore, come se non necessitassero del tessuto minore connettivo all’interno del quale erano nati, per tutto il XIX secolo e ancora nei primi decenni del XX, il centro storico subì enormi lacerazioni. Culmine di questi

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interventi furono i lavori per trasformare Firenze nella capitale del nuovo Stato italiano che, a partire dal 1864, la privarono in primo luogo del proprio emblematico limite terri-toriale: le antiche mura.

Città come Roma, Atene, Gerusalemme o Costantinopoli-Istanbul per secoli si sono ritrovate al centro della storia e costituiscono incredibili bacini di sedimentazione delle in-numerevoli attività umane. Segnate da continue stratificazioni, distruzioni e ricostruzioni, sono giunte fino ai nostri giorni confermando una ‘fortuna’ che, dal punto di vista insedia-tivo, ha permesso loro di superare con successo le alterne vicende della storia. Queste città tuttora vive si contrappongono ad altre che, a dispetto della loro grandezza nel passato, non hanno superato la sfida della storia. Soltanto in alcuni casi queste ultime, come ad esempio Pompei o Efeso, non più come centri abitati, ma come siti archeologici, hanno conosciuto, dopo secoli di oblio, un nuovo successo in termini turistici.

Osservando questi luoghi – vivi o morti che siano – possiamo veder emergere nel sot-tosuolo, nelle pietre degli edifici e delle strade, e nelle testimonianze, quando ne esistano, delle fonti documentarie pervenuteci, le tracce di quello che è stato.

Firenze è una delle città fortunate che, al pari di quelle citate in precedenza, sono so-pravvissute al corso della storia: essa si è sempre trovata al centro d’interessi economici e di avvenimenti storici che, coagulati in una ben delineata area geografica dotata di precise caratteristiche orografiche e naturali, ne hanno facilitato la persistenza nel tempo. Tuttavia, le medesime fortunate caratteristiche fisiche che hanno determinato l’origine e il successo storico della città, allo stesso tempo, in più occasioni, hanno messo in crisi la sua crescita e la sua possibilità di sopravvivenza. Strategicamente situata nel fondovalle dell’Arno, il fiume maggiore della Toscana, Firenze è stata posta in pericolo serio e costante dal regime in parte torrentizio di questo fiume che fin dalla primitiva fondazione ha rappresentato – citando il titolo della mostra dedicata alla celebrazione del cinquantesimo anniversario della rovinosa alluvione del 1966 – la sua principale «fonte di prosperità» ma anche «di distruzione».

Tuttavia, anche drammatici eventi quali le frequenti alluvioni hanno dato un impulso al rinnovamento e all’adeguamento alla contemporaneità. Non è un caso che la tragica vi-cenda dell’alluvione del novembre 1966, così come il drammatico abbattimento dei ponti, di Por Santa Maria e di parte dei lungarni durante il Secondo conflitto mondiale, abbiano rappresentato per Firenze delle occasioni per diventare il centro propulsore di attività culturali strettamente legate al restauro e alla valorizzazione dei beni culturali, che ancora oggi la trovano al centro del dibattito politico e culturale italiano.

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La storia di Firenze, come di buona parte delle città sopravvissute allo scorrere del tem-po, si può leggere come un ininterrotto processo di rinnovamento e di adattamento alle mutevoli esigenze politiche, economiche e sociali che si sono susseguite nei secoli.

In quest’ottica si vuole qui delineare, in particolare, grazie alle fotografie stori-che dell’Archivio Alinari, il costante mutamento dell’immagine della città, dalla metà dell’Ottocento, come risultato e riflesso del continuo e sofferto adattamento alla contem-poraneità.

Si rende, tuttavia, necessario ripercorrere le origini della città e le vicende che hanno portato alla formazione della sua struttura urbana e dei suoi luoghi identitari, cardini attor-no a cui hanattor-no ruotato gli imponenti interventi urbanistici del XIX e XX secolo.

‘F

LORENTIA

ROMANA

La colonia romana di Florentia fu fondata, come appare da evidenze archeologiche e dati documentari, fra il 58 e il 59 a.C., a seguito della Lex Iulia Agraria promossa da Giulio Cesare e fu effettivamente completata, nel suo schema di città-colonia, in periodo augu-steo, fra il 30 e il 15 a.C. Come accennato, le origini dell’insediamento sono da individuare soprattutto nella conformazione geologica del sito, collocato in un restringimento del cor-so dell’Arno, tra la collina di Arcetri, a sud, e un terrazzo di sedimenti fluviali, a nord. Il fiume costituiva una barriera per l’attraversamento in direzione nord-sud del lato tirrenico dell’Italia centrale, rappresentando inoltre un primo limite settentrionale dell’antica Etru-ria e, allo stesso tempo, un’importante via d’acqua tra le pianure dell’entroterra e il mare. Le caratteristiche fisico-geologiche dell’area fornivano quindi una grande opportunità per il controllo dell’attraversamento del fiume e la creazione di una ‘stazione fluviale’ tra il Valdarno Superiore e il Valdarno Inferiore.

L’esponenziale crescita d’importanza di Florentia negli equilibri dell’Impero risale al periodo adrianeo, quando fu aperta la via Cassia Nova (123 d.C.), che riduceva di 34 chi-lometri il tragitto da Roma. Questo tracciato, che ricuciva più antichi percorsi viari tra la Valdichiana e il Valdarno tagliando fuori Arezzo, superava l’Arno nei pressi dell’attuale Ponte Vecchio e pose Florentia al centro dei transiti che, attraversando l’Appennino, raggiungevano la Pianura Padana e le aree settentrionali dell’Impero. Fu in questo mo-mento che l’insediamo-mento romano da modesta colonia si trasformò in una città dotata di

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un ricco foro interamente pavimentato in marmo, notevoli complessi termali, un teatro e un anfiteatro di rilevanti dimensioni che poi, in periodo tardo-imperiale, divenne ca-pitale della Tuscia et Umbria.

La struttura di Firenze mostra indelebili segni della matrice romana, chiaramente individuabili nel settore a nord dell’Arno, che raccoglie i monumenti più significativi. Nella cartografia antica, così come nelle fotografie aeree, è possibile riconoscere l’im-pianto cardo-decumanico, a scacchiera, rigorosamente orientato secondo gli assi nord-sud/est-ovest, che aveva il suo centro nell’odierna piazza della Repubblica dove resta, unica superstite dell’antico centro risanato nel XIX secolo, la quattrocentesca Colonna dell’Abbondanza, originariamente sormontata dalla donatelliana statua della Dovizia, poi sostituita nel corso del XVIII secolo da un’opera di medesimo soggetto di Giovan Battista Foggini.

Alcuni tratti della Florentia antica emergono ancora, sporadicamente ma in maniera evidente, nella Firenze moderna: è questo il caso dei resti delle sostruzioni della cavea del teatro, musealizzati nei seminterrati di Palazzo Vecchio. Florentia si rivela anche nelle forme degli edifici di matrice medievale, costruiti sulle massicce murature di fondazione dei principali monumenti romani, il cui piano d’imposta si trova attualmente fra i 3 e i 5 metri al di sotto del livello del piano stradale. I risultati di tale fenomeno sono facilmente riscontrabili presso Santa Croce, in via Torta e in piazza Peruzzi, dove i fabbricati medie-vali e i palazzi che fiancheggiano la strada ricalcano il perimetro ellittico dell’anfiteatro romano. Lo stesso Palazzo Vecchio fonda le sue radici fisiche e la sua autorità politica sui resti del teatro romano, che era stato sfruttato, dopo le invasioni barbariche, anche come fortezza. Il battistero di San Giovanni, erroneamente celebrato dalla letteratura altome-dievale e rinascimentale come autentico reperto della romanità, sorge invece sui resti di una magnifica domus romana di età giulio-claudia, collocata al confine settentrionale della città, scoperta nel 1892.

La Florentia romana, ricordata nel Rinascimento con l’intento di celebrare la nobile origine della città, è riemersa ancora nel corso dei lavori di risanamento del centro storico condotti al termine del XIX secolo, che hanno riportato alla luce l’area del foro con i resti del Tempio di Giove. Tale scoperta, ben documentata da Corinto Corinti (architetto che seguì le operazioni di scavo), attraverso i disegni confluiti poi nelle 100 cartoline realizzate tra il 1923 e il 1928, fu ricoperta dalle fondazioni del nuovo assetto cittadino, mentre al-cuni dei reperti principali furono trasferiti al Museo Archeologico, ‘rimontati’ nel cortile

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dell’edificio alla maniera di rovina romantica secondo il gusto dell’epoca. La valorizza-zione del passato classico di Firenze, evidentemente, non rientrava nei programmi, che prevedevano, invece, di riconfigurare l’immagine della città per soddisfare le esigenze della nuova classe dirigente.

Circa un secolo dopo, tra il 1980 e il 1989, durante i lavori di rifacimento della pavimen-tazione di piazza della Signoria, a pochi metri dal piano stradale sono emersi reperti che testimoniano la presenza di un importante impianto termale e di alcune insulae. Benché anche in quest’occasione il Comune abbia deciso di ricoprire le strutture, la recente muse-alizzazione dei reperti del teatro romano sotto Palazzo Vecchio dimostra una nuova sen-sibilità nei confronti dell’archeologia urbana e soprattutto della ‘riscoperta’ della Firenze romana, fino a quel momento offuscata, anche nella politica culturale e turistica, dalle immagini più eclatanti della Firenze medievale e rinascimentale.

I

CAMBIAMENTIDELLATOPOGRAFIAURBANANEL

M

EDIOEVO

Concluso il periodo di dominazione longobarda, tra l’VIII e il XII secolo, attraverso in-termittenti fasi di espansione, Firenze vide crescere popolosi borghi extraurbani lungo le direttrici della viabilità territoriale romana, seguendo l’asse della via di raccordo con la Cassia Vetus, che entrava in città da est, parallelamente al corso dell’Arno, e usciva a ovest, affiancandosi all’acquedotto che attraversava la piana fiorentina. Le tracce della ri-organizzazione del territorio extraurbano della centuriazione romana, orientata secondo l’orografia del bacino (secundum natura loci), si riconoscono nella conformazione della piana fiorentina tra Firenze, Sesto Fiorentino, Prato e Pistoia.

Dopo la significativa vittoria sulla storica rivale Fiesole, città di origine etrusca posta sul colle omonimo a pochi chilometri del guado d’Arno, nel 1170 il Comune di Firenze (uffi-cialmente nato nel 1138) prese la decisione di costruire la prima cinta muraria con lo scopo di difendere i nuovi borghi extraurbani; questa venne ampliata in più fasi fino a includere, nel decennio 1250-1260, anche i borghi dell’Oltrarno.

Nella topografia urbana si possono ancora leggere con chiarezza le diverse fasi di espan-sione e, in particolar modo, il passaggio dalla conformazione a scacchiera romana, orienta-ta secundum coelum, agli insediamenti di matrice medievale, allineati secondo le differenti direttrici degli antichi borghi.

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A partire dal X e XI secolo, con la grande ripresa economica e politica, nonché de-mografica, cominciarono a sorgere alcuni dei monumenti che rappresentano tasselli fon-damentali nell’immagine di Firenze. Emblematiche espressioni del romanico fiorentino, che si distingue in maniera netta dagli esempi europei dell’epoca, sono le decorazioni in marmo bianco e pietra serpentina verde del battistero di San Giovanni e le chiese dei Santi Apostoli, di San Miniato al Monte e di Santa Reparata, i cui resti sono visitabili sotto all’attuale duomo di Santa Maria del Fiore. Nella città romanica dell’XI secolo, che contava circa 20.000 residenti, comparvero le prime ‘case alte’, talvolta già munite di tor-ri, che avrebbero contraddistinto il profilo urbano tardomedievale. La città era divisa in quartieri (o sestieri) dipendenti dal Comune, ciascuno con una sua speciale giurisdizione e proprie fortificazioni (interne ed esterne). All’interno e al limite di ogni sestiere, le fami-glie nobili costruivano le torri per difendersi, intra moenia, dalle famifami-glie rivali: all’inizio dell’XI secolo ne sono documentate cinque, nel 1180 se ne potevano contare 35. Nella prima rappresentazione conosciuta della città, l’affresco della Madonna della Misericordia nella Loggia del Bigallo, databile alla metà del 1300, il tessuto urbano appare come un compatto agglomerato in cui spiccano, baluardi dell’aristocrazia cittadina e dell’identità di quartiere, le numerose case-torri, già in parte private della parte alta per essere adattate all’uso residenziale.

In una fase di grande crescita economica che vide nascere, all’inizio del XIII secolo, a testimonianza dell’incredibile sviluppo delle attività commerciali, le associazioni cor-porative dell’Arte dei Mercanti, del Cambio, della Lana, di Por Santa Maria – per citare solo le principali – Firenze ebbe un enorme sviluppo demografico e divenne una delle città più popolose d’Europa: nel 1300 contava 100.000 abitanti e poteva competere con Londra e Parigi, le uniche in grado di vantare cifre simili (rispettivamente, circa 50.000 e 200.000 abitanti).

Saturata l’area compresa entro la prima cerchia di mura, il Comune affidò ad Ar-nolfo di Cambio il progetto di una nuova cinta, realizzata tra il 1284 e il 1333, con un perimetro di oltre 8 chilometri, sulla base di ottimistiche previsioni di incremento della popolazione attuate solo nel XIX secolo inoltrato. Tra Duecento e Trecento vennero costruiti quattro ponti in pietra (tra cui il Ponte Nuovo, ovvero l’attuale Ponte Vecchio), orgoglio della città, gli importanti insediamenti degli ordini mendicanti nelle aree perife-riche (Santa Croce, Santa Maria Novella, Santo Spirito, Santa Maria del Carmine, Santa Trinita e San Marco, da cui poi presero vita le omonime chiese trecentesche e

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quattro-centesche), il Palazzo del Capitano del Popolo (dal 1255 sede delle magistrature, poi del Bargello), il Palazzo della Signoria (ora Palazzo Vecchio, i cui lavori iniziarono nel 1298 per sostituire il Bargello come sede del governo), la chiesa di Orsanmichele (1337-50) e la torre campanaria della Badia Fiorentina (1310-30 circa).

Allo stesso tempo, nell’apparentemente inarrestabile processo di crescita, fu avviata l’edificazione del nuovo ambizioso progetto di Arnolfo di Cambio per la chiesa di Santa Maria del Fiore (dal 1293), fiancheggiata dalla splendida torre campanaria di Giotto (ca-pomastro della Fabbrica dal 1334).

D

ALLAFINE DEL

M

EDIOEVO AL

R

INASCIMENTO

La crescita della città subì un’improvvisa battuta d’arresto a seguito della grande alluvio-ne del 1333, del fallimento degli imperi bancari dei Bardi e dei Peruzzi alluvio-nel 1345 – con il conseguente crollo dell’economia fiorentina –, e della peste del 1348, che imperversò in tutta Europa, descritta con grande vividezza nelle novelle del Decameron di Boccaccio. Tale drammatica successione di eventi portò a un repentino spopolamento, per cui parte del territorio cinto dalle mura rimase a destinazione agricola fino al periodo della Restau-razione, com’è possibile vedere nelle rappresentazioni cartografiche e nelle vedute che precedono lo Stato unitario.

Il malcontento popolare generato dalla crisi economica e sociale di questi anni sfociò nel Tumulto dei Ciompi del 1378, risoltosi con la sconfitta del cosiddetto popolo ‘minu-to’ e ‘magro’ (piccola borghesia e proletariato) a favore del ‘popolo grasso’ (rappresen-tanti delle Arti Maggiori) e con l’instaurazione di un governo oligarchico che avrebbe attestato definitivamente la centralità di Firenze su tutta l’area toscana, dall’Appennino al mare. È sotto questo governo che, grazie alla forte ripresa economica che favorì l’af-fermazione del nuovo ceto dei mercanti-imprenditori-capitalisti, ebbe luogo una fiori-tura intellettuale e artistica senza pari nella storia moderna. Firenze divenne la culla di quel movimento culturale che la storiografia ottocentesca ha definito ‘Rinascimento’: l’uomo, posto al centro dell’Universo, fu considerato la creatura chiamata a nobilitare la propria esistenza mediante il sapere, nonché a sperimentare il divino tramite lo studio della natura, considerata il libro aperto dell’opera di Dio. La promozione di questo mo-vimento culturale a fini propagandistici da parte della classe dirigente fiorentina, di cui

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presto i Medici, la maggiore famiglia di banchieri e imprenditori, divennero i principali rappresentanti, favorì un’esplosione delle arti, una ‘rinascita’ dello splendore della clas-sicità, che segnò in maniera indelebile l’immagine della città. Sebbene tra Quattrocento e Cinquecento la topografia di Firenze non sia mutata in maniera significativa, si può dire che la sua immagine urbana sia in buona parte il risultato degli interventi puntuali promossi dalla Repubblica fiorentina, dalle grandi famiglie di mercanti e banchieri e infine dai granduchi medicei.

Tra il 1420 e il 1436, emblema della razionalità e delle infinite possibilità della mente umana, venne costruita la cupola di Santa Maria del Fiore di Filippo Brunelleschi, la più grande in muratura mai realizzata fino ad allora: «Erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani», per citare le parole di Leon Battista Alberti, divenne il simbolo di Firenze e dell’architettura rinascimentale tutta. Brunelleschi fu anche l’artefice degli interventi, concretizzati in buona parte tra il 1420 e il 1450, che rappresentano i punti di riferimento fondamentali dell’architettura primo-rinascimentale. Il progetto di Brunel-leschi per lo Spedale degli Innocenti, con il suo modulare fronte porticato in pietra serena e intonaco bianco – materiali che sarebbero diventati presto il simbolo dell’architettura fiorentina – segnò l’inizio di un rapporto totalmente innovativo tra edificio e spazio urba-no. Negli anni successivi, Brunelleschi progettò gli impianti delle chiese di San Lorenzo e Santo Spirito, completate dopo la sua morte, della Rotonda degli Angeli, portata a termine soltanto nel XX secolo, della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo e della cappella Pazzi di Santa Croce, immagini della nuova architettura, razionale e moderna, derivata dalla rein-terpretazione dei modelli della classicità romana.

Nel corso del Quattrocento vennero restaurate e arricchite quasi tutte le chiese più im-portanti (a titolo esemplificativo si citano San Marco, con il convento realizzato da Miche-lozzo di Bartolomeo, e Santa Maria Novella, con la nuova facciata marmorea progettata da Leon Battista Alberti), mentre le famiglie più ricche costruirono imponenti palazzi che oc-cuparono interi isolati, chiusi, quasi come fortezze intra moenia, all’interno delle massicce facciate bugnate: Palazzo Medici (progettato da Michelozzo di Bartolomeo, iniziato negli anni 1444-46), Palazzo Pitti (iniziato nel 1457), Palazzo Rucellai (progettato da Alberti e realizzato da Bernardo Rossellino tra il 1455 e il 1458), Palazzo Strozzi (iniziato da Giulia-no da Sangallo nel 1489, continuato da Simone del Pollaiuolo, detto il Cronaca, e portato a conclusione da Baccio d’Agnolo nel 1538) e Palazzo Gondi (progettato da Giuliano da Sangallo, iniziato nel 1490).

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La crescita culturale di Firenze culminò nel Quattrocento con la fondazione dell’Acca-demia Neoplatonica di Lorenzo il Magnifico e, a inizio Cinquecento, con la presenza dei tre ‘geni’ del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo e Raffaello. La loro partenza (avve-nuta tra il 1506 e il 1508) segnò tuttavia il passaggio di testimone, come centro propulsore della cultura rinascimentale italiana, alla grande Roma papale di Giulio II e Leone X (al secolo Giovanni de’ Medici).

Nonostante in questi anni il governo della città risultasse formalmente una Repubbli-ca, è possibile affermare che, a partire dal 1434 e per tutto il XV secolo – se si esclude l’interruzione degli anni 1494-98, coincidente con la predicazione del frate domenicano Girolamo Savonarola –, il potere fu saldamente nelle mani della famiglia Medici. Le al-terne vicende, che videro succedersi governi di diversa natura, culminarono con l’assedio del 1530 da parte delle truppe imperiali (epoca in cui Michelangelo lavorò alle fortifica-zioni), seguito dal ritorno, grazie all’apporto delle milizie spagnole, dell’egemonia medicea e dall’instaurazione, nel 1532, con Alessandro de’ Medici, del Ducato di Toscana, che dal 1569, sotto Cosimo I de’ Medici, divenne Granducato di Toscana.

Per tutto il XVI secolo continuò la trasformazione urbana, fatta d’interventi puntuali in aree di grande rilevanza: tra il 1547 e il 1551 venne edificato il Mercato Nuovo (co-munemente chiamato Loggia del Porcellino), nel 1557 Bartolomeo Ammannati (forse su disegno di Michelangelo) ricostruì il Ponte a Santa Trinita, e dal 1560 al 1580, su progetto di Giorgio Vasari, vennero realizzati gli Uffizi, la nuova sede delle magistrature statali. In più fasi erano stati ampliati Palazzo Pitti, nuova residenza dei granduchi medicei, e il giardino di Boboli (a opera di Ammannati e Vasari), nonché Palazzo Vecchio, intensa-mente ristrutturato e collegato, tramite gli Uffizi, a Palazzo Pitti dal Corridoio Vasariano. L’enorme quantità di mutazioni avvenute nella capitale granducale nel corso del Quat-trocento e Cinquecento le conferirono tutti (o quasi) i caratteri che ne hanno garantito nei secoli la fortuna storico-artistica. Le opere di Lorenzo Ghiberti, Donatello, Nanni di Banco, Masaccio, Filippo Lippi, Beato Angelico, Brunelleschi e Leon Battista Alberti nella prima metà del Quattrocento, di Botticelli, Verrocchio, Ghirlandaio, Michelozzo e poi Leonardo, Michelangelo, Raffaello, e infine Andrea del Sarto, Pontormo, Rosso Fio-rentino, Bronzino, Vasari, Benvenuto Cellini, Giambologna, Ammannati e Buontalenti, per citare solo i maggiori, qualificando in maniera unica le strade, le chiese, le gallerie e le collezioni private di mecenati in cerca di affermazione e visibilità, divennero la maggio-re fonte di attrazione, anche turistica, per la città. Sulle opemaggio-re di questi artisti nei secoli

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successivi si è fissata definitivamente l’immagine di Firenze che i viaggiatori romantici francesi, tedeschi e inglesi di fine Settecento e inizio Ottocento descrivono nei loro tac-cuini. Intorno a questo lascito artistico hanno ruotato tutti gli interventi urbani, piccoli e grandi, attraverso i quali la città ha mostrato il grande e talvolta contraddittorio sforzo di adattarsi alla contemporaneità.

I

L DECLINODEI

M

EDICIEL

ASCESADEI

L

ORENA

Il Granducato mediceo, fallita l’impresa di costruire la facciata di Santa Maria del Fiore, di cui rimangono, a preziosa testimonianza, i sette magnifici modelli lignei conservati al Museo dell’Opera del Duomo, non riuscì ad apportare considerevoli modifiche all’immagine della città. A causa della grave crisi economica della prima metà del Seicento – conseguenza delle cattive annate agricole degli anni 1616-21, dell’epidemia di tifo del 1621 e della peste del 1630 –, gli unici interventi veramente significativi realizzati nel corso del XVII secolo furono le cappelle Medicee, mausoleo della famiglia Medici, sul retro di San Lorenzo (1604-1737), la chiesa dei Santi Michele e Gaetano (1604-1701), la Loggia del Grano (1619, G. Parigi), la facciata di Ognissanti (1635-37, M. Nigetti), l’ampliamento di Palazzo Pitti, della piazza antistante e del giardino di Boboli (1618-31, G. e A. Parigi), il complesso di San Firenze (dal 1645). Non ha invece lasciato traccia sull’immagine della città l’ingente investimento di risorse per sorprendenti apparati effimeri, promossi in occasione di matrimoni o ricorrenze dai gran-duchi Ferdinando II e Cosimo III, con lo scopo di mantenere alto il prestigio internazionale. Il barocco interessò soprattutto gli ambienti di rappresentanza degli edifici residenziali, le cappelle e le navate delle fabbriche ecclesiastiche, che in questi anni furono adattate ai gusti dell’epoca, con sontuosi apparati decorativi che non mutarono in maniera evidente il loro aspetto esterno; inoltre, molti di questi interventi furono rimossi tra il XIX e il XX secolo, per riportare alle forme originarie gli edifici di matrice medievale.

Tra Cinquecento e Settecento, le uniche operazioni che modificarono il tessuto medie-vale, senza tuttavia incidere sulla struttura generale della città, furono il complesso vasaria-no degli Uffizi, la fabbrica filippina di San Firenze e il Palazzo Corsini sul Lungarvasaria-no che, a partire dal XVII secolo, aveva occupato, con il suo imponente volume a ferro di cavallo, la vasta area prima sede di più modesti edifici di proprietà delle famiglie Altoviti, Ardighelli, Compagni, Medici, Fagiuoli, Fedini, Strozzi e Corsi.

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Così come le possibilità finanziarie dello Stato granducale furono soffocate dalla parti-colare congiuntura economica di fine Seicento e inizio Settecento, anche la famiglia Medici si andò via via estinguendo. Nonostante il disperato e vano tentativo di Cosimo III di far succedere la figlia Anna Maria Luisa, elettrice Palatina, nella discendenza dinastica, dopo il breve governo di Gian Gastone de’ Medici (1723-37), il Granducato divenne, infatti, appannaggio dei Lorena, il cui governo sarebbe durato, se si esclude la breve parentesi dell’occupazione francese (1799-1814), fino all’annessione della Toscana al Regno d’Italia.

Simbolo del cambio dinastico fu la costruzione dell’arco di trionfo di Porta San Gallo, realizzato nel 1739, su progetto dell’architetto francese Jean-Nicolas Jadot, per l’arrivo di Francesco Stefano di Lorena e della moglie Maria Teresa d’Asburgo.

Ciononostante, la dispersione dell’ingente patrimonio immobiliare, nonché storico-ar-tistico, della famiglia Medici, fino ad allora sostanzialmente indistinto dal patrimonio sta-tale vero e proprio, fu impedita grazie al cosiddetto ‘patto di famiglia’ stipulato a Vienna dall’elettrice Palatina con i Lorena. Venne quindi assicurata la permanenza a Firenze dei tesori della Galleria degli Uffizi, di Palazzo Pitti, del Bargello, della Biblioteca Lauren-ziana, della cappella di San Lorenzo e delle ville medicee: «per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forestieri [...] nulla [sarebbe stato] trasportato e levato fuori della Capitale e dello Stato del Granducato» (REPETTI 1835, p. 241). Il governo lorenese, e in

particolare quello ‘illuminato’ di Pietro Leopoldo (1765-92), portò a un rinnovamento ge-nerale delle strutture amministrative, dell’economia e dell’ambiente culturale toscano, in particolare di quello fiorentino. Si concretizzò in quegli anni un miglioramento dei servizi pubblici (ospedali, scuole, accademie, raccolte museografiche, teatri), dalla ristrutturazio-ne delle fabbriche granducali alla risistemazioristrutturazio-ne della viabilità regionale, all’apertura al pubblico del giardino di Boboli e delle Cascine, senza tuttavia stravolgere, almeno fino agli anni Venti dell’Ottocento, l’immagine della città.

L’occupazione francese, particolarmente sofferta dai fiorentini che, fra l’altro, videro la capitale granducale trasformata in città periferica dell’Impero d’Oltralpe, pur non lasciando segni profondi fu caratterizzata da alcuni aspetti significativi. Tra il 1808 e il 1810 venne attuata la soppressione degli ordini religiosi e il passaggio dei rispettivi patri-moni allo Stato, decisione che si sarebbe rivelata di particolare importanza negli sviluppi urbanistici, in quanto i complessi ecclesiastici maggiori vennero destinati spesso a servizi di pubblica utilità, mentre il patrimonio minore fu in buona parte disperso in proprietà private. Inoltre, gli anni di governo di Elisa Bonaparte Baciocchi (1809-14), sorella di

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Napoleone, si distinsero per un certo rinnovamento culturale, grazie a una corte locale formata da artisti che portarono il gusto neoclassico di matrice europea allora dominan-te sulla scena archidominan-tettonica e artistica di Parigi. In questo periodo, per la prima volta da quasi due secoli, vennero ideati grandi progetti, perlopiù non realizzati, per l’ammoder-namento della città: l’ampliamento di via dei Calzaiuoli e piazza del Duomo, ideato da Giuseppe Del Rosso nel 1811, e il piano urbanistico per il Foro Napoleonico, finalizzato a sviluppare quelle aree disponibili all’interno del circuito murario, nella parte setten-trionale della città, dove sarebbero poi stati effettivamente realizzati i nuovi quartieri di Barbano e del Maglio.

Le riforme leopoldine e i progetti urbanistici francesi lasciarono la città invariata rispet-to a quella medicea, come risulta dalle guide dell’epoca e dalle rappresentazioni icono-grafiche e cartoicono-grafiche. Un viaggiatore romantico francese, Étienne-Jean Delécluze, così descrisse, nel 1823, il suo incontro con la capitale granducale:

Vi sono momenti in cui, rinchiuso in queste grandi chiese, tra questi antichi palazzi, sotto le volte dei portici, mi credo decisamente un uomo del tredicesimo o quattordicesimo secolo. L’aria che si respira, i luoghi che si vedono, tutto contribuisce a modificare il pensiero, a far dimenticare le abitudini più famigliari, e spesso mi sveglio stupito di non incontrare il gonfaloniere e il suo seguito, un Uberti o un Buondelmonte, Masaccio o Michelangelo. È certo che la storia si aggira per le strade di questo paese (DELÉCLUZE [1823] 1993, p. 44).

Anche agli occhi di un attento osservatore come Stendhal l’aspetto di Firenze era stato «fortunatamente» salvato dall’architettura moderna, conservando invece «la bella armo-nia» degli alti ideali medievali e rinascimentali:

Fortunatamente per la bellezza di Firenze, i suoi abitanti perdettero con la libertà l’energia necessaria per innalzare dei grandi edifici. Così l’occhio non è disturbato qui da quelle indegne facciate alla Piermarini, e nulla turba la bella armonia di quelle strade dove si respira l’ideale del Medioevo. In venti punti di Firenze, per esempio scendendo dal Ponte della Trinità e passando davanti a Palazzo Strozzi, il viaggiatore può credersi nel 1500 (STENDHAL 1826, p. 107).

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Le descrizioni e le fantasie della letteratura influirono moltissimo non soltanto sulla mentalità dei turisti borghesi del XIX secolo, agli albori del turismo di massa, ma anche e soprattutto sulla natura dei luoghi, inducendo le amministrazioni cittadine ad assecon-dare e potenziare quelle stesse immagini: la città venne così modellandosi e adattandosi all’iconico e fittizio aspetto di quella medievale e rinascimentale descritto dai viaggiatori romantici di fine XVIII e inizio XIX secolo.

Se, da una parte, la conservazione dei caratteri della Firenze medicea era motivo di ammirazione da parte dei visitatori, dall’altra, la città mostrava di essere inesorabilmente invecchiata nelle strutture e nei servizi che si andavano addensando intra moenia. Partico-larmente significativa, a questo proposito, la testimonianza di Giacomo Leopardi in una lettera a Pietro Giordani: «[...] questi viottoli che si chiamano strade mi affogano, questo sudiciume universale mi ammorba» (DETTI 1970, pp. 25-26).

Testimonianze di questo tipo, riportate con continuità non soltanto nelle parole di chi per la prima volta visitava la città, ma anche sui quotidiani locali, influenzarono i grandi interventi urbanistici che presto, in nome d’intenti igienico-sanitari, avrebbero mutato de-finitivamente l’immagine di Firenze.

P

ERMANENZEDICARATTERI ARCHITETTONICI

:

L

IMMAGINEDELLACITTÀ ALL

EPOCADELLA

R

ESTAURAZIONE

Come appariva quindi Firenze all’alba del XIX secolo? Si può dire che ben poco era mu-tato negli ultimi due secoli. Osservandola a distanza, dalle colline circostanti, era ancora chiusa dentro le mura, attorniata da un ampio territorio a destinazione agricola che, a trat-ti, occupava anche vasti spazi interni alla cinta muraria. L’espansione extraurbana era stata bruscamente interrotta dall’assedio del 1530, durante il quale i pochi borghi che si erano formati tra Medioevo e primo Rinascimento nella campagna limitrofa erano stati comple-tamente rasi al suolo, insieme a ville, palazzi e alle rovine dell’antico acquedotto romano (visibili anche nella pianta di Firenze del quattrocentesco Codice Vaticano Urbinate 277), che attraversava la pianura a nord-ovest della città.

Il tessuto urbano rimaneva dunque, agli inizi del XIX secolo, perlopiù composto da un dedalo di strette vie, connesse tra loro da un altrettanto intricato sviluppo di vicoli – ‘chias-si’, come si chiamano a Firenze le strade buie di ridotte dimensioni –, piazzette interne e

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‘volte’ (strade coperte o semplici passaggi che attraversano i fabbricati posti lungo una via principale); mentre l’Oltrarno, che si sviluppava lungo le pendici del monte alle Croci e del Belvedere, era caratterizzato da rampe e ‘coste’ che salivano, tortuose, il fianco delle alture a sud della città incluse nel circuito delle mura. Circa una settantina di esse è sopravvissuta nella toponomastica.

Il confronto tra le fotografie del centro storico precedenti i grandi interventi di risana-mento ottocenteschi e le ambientazioni di dipinti quattrocenteschi di ambito fiorentino mostra che l’aspetto generale della città era cambiato ben poco negli ultimi quattro secoli. Nei cicli pittorici della cappella Brancacci nella chiesa del Carmine, così come in quelli della cappella Sassetti in Santa Trinita, si possono infatti riscontrare caratteri architettonici che persistevano ancora nell’ultimo decennio del XIX secolo, come è possibile vedere nel-le fotografie del Mercato Vecchio e dell’antico ghetto ebraico oggi distrutti.

Gli edifici fiorentini, se si eccettuano le emergenze monumentali caratterizzate da fronti bugnati, avevano facciate con grandi superfici intonacate nei toni dal bianco natu-rale al rosato, come appare da una delle fotografie Alinari del Mercato Vecchio colorata ad acquerello per documentare i cromatismi. Le finestre erano generalmente ad arco a tutto sesto o ribassato, delimitate da conci o semplici cornici in pietra, oppure architra-vate con finiture molto semplici; loggiati con colonne e architravi in legno a sostenere direttamente la copertura con ampio aggetto di gronda comparivano, a partire dal Quat-trocento, ai piani alti degli edifici. I pianoterra e i mezzanini avevano, per questioni di sicurezza, grate in ferro, mentre i portali dei palazzi, solitamente di grandi dimensioni, preferibilmente ad arco a tutto sesto o a sesto ribassato, erano in legno con lacunari rin-forzati da chiodature, ma si potevano trovare anche portali architravati con un’apertura sovrapporta dotata di grata. I serramenti erano costituiti da portelloni in legno che si aprivano all’interno e, all’esterno, impannate a tenda o su telai, in epoca successiva so-stituite da telai con vetri. Sulle facciate comparivano spesso elementi in ferro battuto: ai pianoterra anelli, alcune volte arricchiti da porta-torce, ai piani alti sostegni per i pali in legno sui quali venivano tesi panni o tende. Alla base dei palazzi, in prossimità degli in-gressi, erano spesso posti ampi sedili in pietra o in legno. Gli ‘sporti’, strutture aggettanti sostenute da mensole e puntoni, inizialmente nate dal tamponamento di balconi, era-no diventati, a partire dal XIII-XIV secolo, un tema progettuale ricorrente dell’edilizia minore e signorile (come il Palazzo dell’Antella e il Palazzo Cocchi-Donati in piazza di Santa Croce, opere rispettivamente di Giulio Parigi e Giuliano da Sangallo) e

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continua-vano a rappresentare, agli inizi dell’Ottocento, un elemento caratterizzante gran parte dei prospetti dei fabbricati che fronteggiavano l’Arno: dalle botteghe di Ponte Vecchio al retro degli edifici lungo borgo San Iacopo.

I

NCREMENTODEMOGRAFICOEINTERVENTIDEL PRIMO

O

TTOCENTO

Agli inizi del XIX secolo, nell’apparente immobilità della società che trovava un riflesso, almeno in superficie, nell’immutata immagine urbana, si attestava un crescente incremento demografico. Nonostante la rivoluzione industriale non avesse ancora coinvolto intensa-mente Firenze – a differenza di quanto era avvenuto nelle principali città europee –, tra il 1833 e il 1849 la popolazione passò da 96.000 a circa 110.000 abitanti. La città, poco alla volta, cresceva al suo interno senza riuscire, per mancanza di un’adeguata pianificazione urbana, ad aprirsi: non era in grado di rispondere all’urgenza abitativa dei ceti sociali più umili, né alla crescente esigenza di rappresentatività della borghesia cittadina. L’inedita abbondanza di piccoli interventi che investì tutti i quartieri nella prima metà del secolo altro non fu che lo specchio di tali necessità unite al bisogno, sentito dalla classe dirigente, di inserire Firenze in una prospettiva internazionale e di portarla, gradualmente, a livelli di sviluppo paragonabili a quelli delle città europee.

In risposta all’incremento demografico, furono realizzate nuove costruzioni, soprae-levazioni e ampliamenti, mentre le classi più agiate adeguarono i propri spazi di rappre-sentanza con interventi di accorpamento, facendo ridisegnare le facciate e ‘riducendo’ gli interni, come mostrano il progetto di Pasquale Poccianti per la nuova facciata neoclassica della Villa di Poggio Imperiale, completata nei primi anni Venti, e la costruzione del Pa-lazzo Borghese, opera neoclassica di Gaetano Baccani, realizzata nel 1821 accorpando un intero isolato di via del Proconsolo.

A tutto ciò fece riscontro l’amministrazione comunale, che promosse solo piccole ope-razioni di risanamento, sistemazioni di piazze, allargamenti e prolungamenti di strade a scopi edilizi.

Nel 1847 il sindaco Vincenzo Peruzzi così rifletteva su un aspetto critico particolar-mente sentito fin dai tempi dell’occupazione francese: «la città difetta sopra ogni altra cosa di strade spaziose, nelle quali possano liberamente e senza pericolo muoversi le carrozze, le vetture e tanti altri grandiosi mezzi di trasporto che ogni dì più aumentano

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l’ingombro delle pubbliche vie» (Firenze nel periodo della Restaurazione (1814-1859) 1987, p. 22). Firenze si doveva adattare alla contemporaneità: il suo tessuto medievale necessitava di un rinnovamento, di strade più ampie e spazi rappresentativi. La diffu-sione del colera nel 1835 infondeva ancora nell’amministrazione comunale il timore che la conformazione della città potesse favorire un’epidemia di ben altra portata e, d’altro canto, forniva anche un adeguato alibi per intervenire indiscriminatamente sui quartieri che presentavano maggiori criticità.

I primi interventi risalgono agli anni che vanno dal 1826 al 1830, quando venne prolun-gata fino alle mura via Larga, oggi via Cavour, e regolarizzato il lato meridionale di piazza del Duomo con la costruzione, su progetto di Baccani, del Palazzo dei Canonici, che pre-sentava un prospetto unitario e monumentale lungo il fianco di Santa Maria del Fiore e faceva degnamente emergere la mole della cupola e il bel campanile di Giotto.

Intanto, negli stessi anni, Luigi Cambray Digny, direttore dello scrittoio delle Fabbri-che Regie, aveva iniziato a studiare un intervento di risanamento di via dei Calzaiuoli, Fabbri-che collegando direttamente le due principali piazze cittadine – Signoria e del Duomo – rap-presentava, con il suo restringimento tra la chiesa di Orsanmichele e il Duomo, uno dei nodi di maggiore criticità del tessuto urbano. Il progetto, consegnato al Comune nel 1826, rispondeva alle sentite necessità di agevolare il traffico e uniformare le facciate medievali in nome del decoro che una strada di tale importanza richiedeva, ma rimase fermo fino a quando, tra il 1841 e il 1844, si arrivò a un compromesso tra interesse pubblico e privato, rinunciando alla soluzione porticata inizialmente prevista. La demolizione di ampie sezio-ni dei fabbricati affacciati sulla via comportò la prima sigsezio-nificativa perdita di importanti edifici del centro medievale fiorentino: per far spazio ai semplici e rigorosi fronti unitari di stampo neoclassico, furono sacrificati infatti monumenti come la torre degli Adimari che, fronteggiando la Loggia del Bigallo, costituiva uno degli elementi caratteristici del lato meridionale di piazza del Duomo.

Nel 1864 Telemaco Bonaiuti portò a termine il rifacimento del quattrocentesco Palazzo Corsi Tornabuoni, con lo scopo di allargare l’ultimo tratto dell’attuale via dei Tornabuoni – da Palazzo Strozzi alla chiesa dei Santi Michele e Gaetano –, creando uno spazio di ri-spetto anche per il fronte settentrionale di Palazzo Strozzi. Molti dei criteri che guidarono questo progetto caratterizzarono anche il risanamento del centro fiorentino del XIX seco-lo: il fronte, nonostante l’edificio rappresentasse uno dei più importanti palazzi signorili della città, venne arretrato di circa 6 metri, lasciando posto a un’anonima facciata regolare

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di stampo neoclassico allineata al filo stradale segnato da Palazzo Strozzi e, soprattutto, fu smontata e ricostruita all’angolo di via dei Corsi, completamente decontestualizzata, la ‘preziosa’ Loggia del Cigoli, eretta nel 1608 all’angolo tra le vie Tornabuoni e Strozzi per dialogare con il massiccio volume di Palazzo Strozzi e come fondale monumentale alla fine dell’allora via dei Legnaiuoli e all’inizio di via dei Tornabuoni.

È evidente che questa operazione non aveva alcuna finalità igienico-sanitaria, come in-vece sarebbe stato per il risanamento del Mercato Vecchio iniziato pochi anni più tardi: lo scopo principale era quello di creare uno spazio più ampio e decoroso che rappresentasse la borghesia cittadina. Il Palazzo Tornabuoni venne sacrificato in nome del più celebre Palazzo Strozzi che, agli occhi dell’amministrazione comunale, era ‘soffocato’ dal volume dell’edificio adiacente. Soltanto l’emergenza monumentale della Loggia del Cigoli merita-va di essere consermerita-vata e, per questo, spostata in un contesto completamente diverso che la privò di significato riducendola a mero arredo urbano.

Lo stesso atteggiamento, in scala ben più ampia si trova, ad esempio, nei progetti di Luigi Del Sarto, fortunatamente non realizzati, per la pianificazione del centro cittadi-no con l’Unità d’Italia: nelle vedute a volo d’uccello che prefiguravacittadi-no lo sventramento – dalla colonna di Santa Trinita fino a Santa Croce – soltanto i monumenti celebrati dal-le guide, conservati come reliquie del passato, trovavano spazio nella rappresentazione della città; il tessuto connettivo urbano era progettato e illustrato in maniera uniforme e apparentemente senza personalità. Lo spazio compreso tra le emergenze monumentali si mostrava, in questi disegni, completamente privo di valore e, per questo, così come il fronte di Palazzo Tornabuoni, sacrificabile, senza molti rimpianti, in nome del mag-giore decoro urbano.

In quest’ottica, tra il 1860 e il 1861, fu realizzato anche l’allargamento di via dell’Ori-uolo – precedentemente denominata via Buia per la sua modesta larghezza – per ottenere uno scorcio prospettico sul campanile di Giotto e sulla cupola del Brunelleschi. Sempre con l’intento di isolare ed enfatizzare le emergenze monumentali, nel 1847 era stata libera-ta dalle case popolari l’abside di Sanlibera-ta Maria Novella, creando così un decoroso contral-tare alla stazione Maria Antonia (ora Santa Maria Novella), inaugurata l’anno successivo, e tra il 1859 e il 1862 erano stati realizzati gli allargamenti di via dei Cerretani e di via dei Cenni (trasformata in via dei Panzani) ed era iniziata la costruzione di via Nazionale – legata all’intervento del nuovo quartiere di Barbano – per fornire collegamenti diretti e sufficientemente ampi con la stazione ferroviaria Maria Antonia.

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In quegli anni fu anche riaperta la Porta di San Miniato, murata dal 1580, per riconnet-tere con la città la scalinata che conduceva al monte alle Croci e a San Miniato, segnale, questo, dell’inizio di un nuovo rapporto con le colline e preludio di quelle passeggiate extraurbane che sarebbero state realizzate alcuni anni dopo, con enfasi dichiaratamente paesaggistica, attraverso il piano di ampliamento della città ideato da Giuseppe Poggi.

L

EGRANDIINNOVAZIONICITTADINE

:

I PONTIIN FERROELAFERROVIA

Mentre erano in corso i primi interventi di risanamento del centro storico, complice anche l’istituzione nel 1834, da parte di Leopoldo II, delle Reali Fonderie di Follonica, vennero realizzate opere destinate a mutare in maniera decisiva i collegamenti cittadini: furono infatti costruiti due ponti in ferro sull’Arno, che connettevano i percorsi extraurbani a est e a ovest della città con la linea ferroviaria.

I ponti gemelli di San Ferdinando e San Leopoldo, realizzati nel 1836-37 dai francesi Marc e Jules Séguin, segnarono l’introduzione a Firenze della moderna tecnologia delle co-struzioni metalliche e rappresentarono una novità per il sistema della viabilità. Erano costi-tuiti da una struttura strallata, sostenuta da coppie di obelischi sormontati da statue di leoni accovacciati (le statue, sopravvissute ai ponti, furono ricollocate di fronte alla Villa di Poggio Imperiale e al parco delle Cascine). Collocati rispettivamente a monte e a valle della città, al di fuori della cinta muraria, permettevano di attraversare il fiume senza dover entrare nell’agglomerato urbano e si raccordavano con la viabilità regionale: con Pisa, Prato e Pistoia a valle, con Arezzo e Roma a est e a sud.

Tra il 1838 e il 1848, su iniziativa privata ma con il benestare del granduca Leopoldo II, fu poi costruita la Leopolda, la seconda linea ferroviaria in Italia, che collegava Firenze con Pisa e Livorno, ovvero il maggior porto della Toscana con le due principali città del Granducato. La stazione fu realizzata nel 1847 appena fuori dalle mura, nell’area adiacente Porta al Prato, e il successo fu tale che nel 1847, quando ancora era in corso d’opera, fu dato inizio ai lavori per una seconda stazione, la Maria Antonia, punto di arrivo della linea Firenze-Prato-Pistoia inaugurata l’anno successivo. Quest’ultima terminava dietro l’abside di Santa Maria Novella, sul luogo della attuale stazione centrale. Dopo un paio di anni iniziò la costruzione di una terza linea, la Firenze-Arezzo-Roma, ultimata nel 1866, che originariamente aveva il suo terminale nell’area all’incrocio tra viale Mazzini e i viali di

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cir-convallazione ed era quindi collegata, tramite un ‘laccio ferroviario’ che tuttora rappresenta uno dei punti più critici dell’urbanistica cittadina, con la Maria Antonia, che nel 1860 era stata raccordata anche alla Leopolda.

I

NUOVI QUARTIERI

: B

ARBANO

, C

ASCINE

, M

AGLIO

, M

ATTONAIA

I ponti di ferro e le stazioni ferroviarie, in particolare la Maria Antonia, che negli anni Sessanta dell’Ottocento era ormai il terminale principale della città, influenzarono in ma-niera decisiva lo sviluppo urbanistico. A partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento, infatti, furono progettate, per la prima volta negli ultimi cinque secoli di storia cittadina, delle espansioni urbane dettate da precise pianificazioni: il quartiere di Barbano e il quartiere delle Cascine.

Barbano si sviluppava all’interno del perimetro delle mura medievali, nella parte set-tentrionale della città, sul luogo del fallito progetto del Foro Napoleonico, tra i Camal-doli di San Lorenzo, una delle aree popolari più povere, e la Fortezza da Basso. Dopo un lungo periodo di gestazione il progetto, che interessava l’area degli orti dei Gondi, detti di Barbano, e prevedeva inizialmente la «costruzione di n. 53 case da poveri capaci di n. 318 famiglie in una strada da aprirsi in Firenze sulla linea di via degli Arazzieri al Bastione di S. Paolo», venne ultimato nel 1847. La relazione tecnica, allegata nel 1837 alla prima stesura, riassume molte delle motivazioni e delle preoccupazioni della classe dirigente fiorentina, non soltanto per Barbano, ma anche per tutti i maggiori interventi urbanistici di questi anni:

La popolazione cresce notabilmente in Firenze ogni anno, e come suol sempre accadere aumenta specialmente nella classe indigente. Le case da poveri sono intanto diminuite poiché le piccole case sono state riunite insieme e ridotte a migliori e più ampi quartieri per delle famiglie più agiate. I proletari, che non possono sostenere pigioni gravose vivono ammassati con scandalo alla morale e al buon costume, e molti stanno in luoghi malsani. [...] costruire case da poveri sarebbe dunque: 1° un soddisfare ad un bisogno della crescente popolazione; 2° un migliorare l’esistenza presente e futura sia pel lato morale, che fisico, che economico, ed industriale (CORSANI 1995, p. 9).

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L’architetto Francesco Leoni, incaricato da un gruppo di imprenditori edili, la Società di Capimastri, aveva quindi concepito il progetto con (apparenti) motivazioni filantro-piche, subito abbandonate quando la borghesia individuò nel quartiere la sistemazione di rappresentanza che il tessuto medievale non era stato in grado di fornire negli anni precedenti. Come scrisse un cronista negli anni Settanta dell’Ottocento, il quartiere «pare fatto apposta per accogliere la borghesia grassa e rotonda e ha nel suo centro una piazza vastissima, quella dell’Indipendenza, circondata da comodi sedili di pietra e, or volge, se non erro, poco più di un anno da una piantagione che, quantunque adolescente, ormai le dà parvenza di pubblico giardino» (CAPIZUCCHI 1871, p. 9).

La forma quadrangolare della piazza, matrice del quartiere, con l’ampia area centrale adibita a verde e gli edifici neoclassici, s’ispirava in maniera evidente alle squares inglesi e rappresentava un tipo di sistemazione urbanistica di grande novità a Firenze. Essa si po-neva in continuità, a oriente, con il sistema di piazza San Marco e piazza dell’Annunziata attraverso il prolungamento e l’allargamento di via degli Arazzieri, tagliando via Santa Reparata e via San Zanobi, mentre l’asse maggiore si distribuiva parallelamente alle vie dei Camaldoli di San Lorenzo, costituendo una maglia di isolati rettangolari a scacchiera. Caso isolato di architettura religiosa in questo periodo, fra il 1847 e il 1863 venne realizzata la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria (rimasta incompiuta).

Il quartiere delle Cascine rappresentò invece la prima significativa espansione urbana al di fuori della cinta muraria, attuata secondo un preciso programma urbanistico.

La zona era delimitata dal torrente Mugnone – affluente dell’Arno che spesso esondava nei terreni adiacenti, come dimostra il toponimo ‘Visarno’ –, dalle mura, che da Porta al Prato piegavano in direzione sud-est raggiungendo l’Arno all’altezza della Pescaia di Santa Rosa e correvano parallelamente all’attuale zona del Prato (alla quale si accedeva tramite la Postierla detta ‘della Mulina’), e dal fosso Macinante, che prendeva acqua dalla Pescaia di Santa Rosa; per l’abbondanza d’acqua vi si trovavano orti e giardini, come quello della Vagaloggia, sede, all’inizio dell’Ottocento, di bagni per le classi meno abbienti.

La particolare posizione tra le mura, lo stradone esterno e l’Arno conferiva grande in-teresse all’area per la pianificazione della città: già durante la dominazione francese, nella striscia di terreno anticamente chiamata ‘Sardinia’, subito fuori Porta San Frediano, era stato previsto il tracciato del nuovo lungarno destro, che avrebbe collegato con una piace-vole passeggiata il principale parco cittadino, le Cascine, con il centro di Firenze. Il sito si trovava inoltre a brevissima distanza dalle maggiori infrastrutture costruite in quegli anni:

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il Ponte San Leopoldo, la stazione Leopolda e la stazione Maria Antonia. Nella memoria in cui nel 1847 il gonfaloniere Vincenzo Peruzzi esponeva i bisogni della città risultano chiare le enormi potenzialità dell’area:

Emerge a senso mio la imperiosa necessità di creare un accesso nuovo e diretto alle Cascine lasciando la porta al Prato per le vetture che si recano alla stazione della strada ferrata, e per i barrocci provenienti dalla strada regia pratese. Questo accesso diretto non può meglio né più facilmente ottenersi che con la prosecuzione del lung’Arno la cui utilità era riconosciuta fin dai tempi della dominazione francese. [...] ora che col crescere della popolazione di Firenze è raddoppiato il prezzo delle case, né mancano gli speculatori per l’edificazione di nuove fabbriche, sarebbe grave errore di uniformare le nostre idee a quelli dei tempi passati [ovvero di fermare il Lungarno all’altezza di Ognissanti, come previsto in un precedente progetto primo-ottocentesco] (CORSANI 1987, p. 22).

E ancora:

Gli abitanti di un paese [con un intervento in quest’area] potranno facilmente intervenire alle feste degli altri; né saranno rare le occasioni nelle quali la capitale si vedrà inondata da molte migliaia di persone, che percorreranno principalmente le strade conducenti dalle stazioni delle strade ferrate al centro e viceversa, o dal centro ai luoghi dei pubblici passeggi e spettacoli (ibid.).

Al di là della curiosa necessità di sapore borghese di fornire adeguati viali di transito per i ‘villici del contado’ venuti nella capitale granducale per feste, pubblici passeggi e spettacoli (necessità peraltro equiparata, senza troppi scrupoli, al bisogno di offrire case alla popolazione indigente), si possono leggere tra le righe le principali motivazioni di un intervento nell’area della Sardinia. Su sollecitazione di Peruzzi fu quindi dato l’incarico all’ingegnere del circondario Flaminio Chiesi, già impegnato per il quartiere di Barbano e per via dei Calzaiuoli, di realizzare un progetto per le Cascine che prevedesse un lungarno da Ponte alla Carraia al Ponte San Leopoldo, diviso in tre tratti, e una lottizzazione della striscia di terreno compresa tra le mura urbane e il fiume in quattro grandi isolati delimitati da tre vie longitudinali e tre trasversali.

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Dopo un breve momento di ripensamento, dovuto alla morte di Vincenzo Peruzzi e ai disordini interni (e soprattutto esterni) al Granducato, nel 1848-49 si cominciò a demolire il bastione presso la porticciola senza ancora aver stabilito in maniera definiti-va quale dovesse essere la conformazione urbanistica dell’area: per la prima volta, con quest’intervento, si abbatteva un tratto delle mura urbane. Nel 1853 l’ingegnere Fede-rico Gatteschi consegnò un nuovo progetto costituito da una scacchiera, che fondava la gerarchia del suolo da edificare sulla maggiore o minore distanza dall’Arno. Tra il 1856 e il 1859 fu portata a termine la demolizione delle mura e della porticciola, furono traccia-te le strade, costruiti il lungarno Nuovo (ora Vespucci) e la barriera per la cinta daziaria. A dispetto dei presunti intenti filantropici propugnati timidamente da Peruzzi nel 1847, il quartiere era chiaramente destinato all’uso residenziale delle classi medio-alte, non riusciva a risolvere il raccordo parco-città e non s’integrava, come si può vedere ancora, con il tessuto edilizio esistente. Gli edifici privati furono realizzati in più fasi fino almeno agli anni Settanta dell’Ottocento, con una decisa accelerazione dopo l’elezione di Firen-ze a capitale del Regno d’Italia.

Mentre erano ancora in corso i lavori per Barbano e le Cascine prese il via anche la pro-gettazione dei quartieri del Maglio e della Mattonaia, che per molti aspetti appartengono ancora allo spirito leopoldino di Barbano e delle Cascine, benché siano stati realizzati a partire dal 1860.

A essi furono riservate aree interne alle mura, principalmente a destinazione agricola, che in base ai progetti, redatti dall’ingegnere comunale Luigi Del Sarto, furono divise in ampi lotti quadrangolari allineati alla viabilità esistente.

La Mattonaia, che prendeva il nome dalle fornaci per la fabbricazione di laterizi concen-trate nell’area, si trovava nel quadrante orientale della città, tra Porta alla Croce, Sant’Am-brogio, Borgo Pinti e le mura. Il nuovo quartiere fu sviluppato intorno a una grande piazza rettangolare – l’attuale piazza d’Azeglio – che occupava un intero isolato e che, come piaz-za dell’Indipendenpiaz-za, era chiaramente ispirata alle squares inglesi, con un ampio giardino centrale, circondato in origine da una cancellata, a disposizione degli abitanti.

Nel quartiere del Maglio, compreso tra le mura e le attuali vie Micheli, Lamarmora e Capponi (allora via del Maglio e di San Sebastiano) fu invece realizzato solo un pic-colo slargo triangolare di risulta a ridosso delle mura e, per regolarizzare gli isolati, fu sacrificata una porzione del monastero del Maglio, allora già riconvertito, su progetto di Giuseppe Martelli (1838) in ospedale militare (ora sede del Centro militare di Medicina

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legale e del Museo della Sanità militare). Anche in questo caso, i nuovi quartieri non fu-rono destinati alla popolazione indigente e a ospitare ‘case da poveri’: essi rispondevano chiaramente alla necessità della classe borghese di insediarsi in un’area interna alle mura lasciando un segno tangibile nel cuore della città. Ne è chiara testimonianza il carattere delle architetture, a uso esclusivamente abitativo, e la presenza di teatri, costruiti prima che fossero ultimati gli edifici residenziali ed evidentemente non destinati alle classi meno agiate.

Nel 1852 fu infatti realizzato a Barbano, a pochi passi da piazza dell’Indipendenza e dalla chiesa di Santa Caterina – nell’attuale via Poggi – il primo Politeama Fiorentino, demolito tuttavia già nel 1861-62, quando fu costruito nel quartiere delle Cascine, su progetto di Telemaco Bonaiuti, il più grande Politeama Fiorentino Vittorio Emanuele II. Il Teatro della Pergola, a breve distanza dai quartieri del Maglio e della Mattonaia e fino a quel momento il più importante della città, nel 1855 fu sottoposto a un massiccio intervento di restauro a opera di Baccani, che riconfigurò ingresso, vestibolo e interno. Nel cuore della Mattonaia, affacciato su piazza d’Azeglio, venne inoltre costruito, tra il 1865 e il 1869, su progetto di Gustavo Mariani, il Teatro Principe Umberto, distrutto da un incendio nel 1889.

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ANUOVAEDILIZIA

L’edilizia promossa nei quartieri di Barbano, Cascine, Maglio e Mattonaia ricalcava in buona parte la tendenza che nel corso del primo Ottocento si era attestata in tutto il Granducato: un classicismo accademico semplificato, che si allontanava dalle esasperate sperimentazioni tecnologiche realizzate in quegli anni in Francia e in Inghilterra e cercava invece di integrare le novità della scienza edificatoria ai caratteri dell’architettura toscana. Gli architetti fiorentini, consapevoli delle tendenze d’Oltralpe, si facevano quindi portavo-ce di una precisa identità toscana con la quale si ponevano in continuità. Essi si riferivano alla tradizione rinascimentale e anche alle soluzioni formali adottate successivamente nei palazzi di Bernardo Buontalenti e Gherardo Silvani o nel Casino di Livia in piazza San Marco. Gli edifici presentavano grandi superfici intonacate, aperture con cornici, timpani e coronamenti desunti dall’architettura toscana, angolari in bugnato e cornici marcapiano, nonché gronde aggettanti.

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Si rifuggiva generalmente dall’impiego degli ordini, utilizzati soltanto per gli edifici monumentali, di cui sono emblematici esempi il fronte principale di Palazzo Borghese in via Ghibellina, realizzato da Baccani nell’ambito della ristrutturazione dell’edificio pree-sistente (1821-25), la Loggia Reale sul Prato (1821-30, su progetto di L. Cambray Digny e G. Martelli) e, alle Cascine, la Villa Favard (1857) e il Palazzo Calcagnini (1857-60), entrambi di Poggi. I pianoterra erano caratterizzati da finti bugnati realizzati con l’into-naco, in rilievo oppure graffiti, e finestre inginocchiate con o senza grate, anche nelle più semplici forme michelangiolesche di Palazzo Medici; i portali erano preferibilmente ad arco, in bugnato o con cornici modanate, ma sempre riferibili agli esempi dei maggiori palazzi fiorentini, mentre più raramente presentavano soluzioni architravate coronate da frammenti di trabeazione, con o senza frontone. Il tratto di novità si limitava all’inseri-mento delle persiane in legno per la protezione delle grandi finestre vetrate.

Su iniziativa privata, o in seguito a interventi di pianificazione urbana, molti edifici medievali furono modificati e allineati alle nuove tendenze architettoniche della capitale granducale. Per dotare le finestre di più moderni e funzionali infissi vetrati, di serramenti e persiane – che sostituivano gli antichi portelloni interni e i vecchi telai con impannate prima, e vetri poi –, furono tamponate o ridotte le grandi finestre ad arco dei palazzi si-gnorili e dell’edilizia minore, mentre uno spesso strato d’intonaco rese omogenee le fac-ciate nascondendo i ‘segni’ della città medievale. Gli interventi di restauro della prima metà del Novecento, in particolare durante il fascismo, avrebbero portato alla riscoperta di questi brani medievali, che, stonacati, tuttora caratterizzano il fronte di molti edifici del centro storico.

Questo classicismo di matrice toscana, austero e rigoroso, divenne il linguaggio architet-tonico ufficiale della borghesia dalla prima metà del XIX secolo fino al trasferimento della capitale, conquistando poco alla volta sempre più spazio all’interno del tessuto cittadino.

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A CITTÀEILFIUME

Altro segno della progressiva trasformazione in chiave borghese della città è il tentativo, portato avanti per tutto il XIX secolo e anche oltre, di instaurare un nuovo tipo di rap-porto con il fiume. Citando le parole di Gabriella Orefice, «le demolizioni, l’apertura di nuovi tracciati stradali, i lavori edilizi, i progetti di abbellimento, fossero essi proposti o

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realizzati, seguirono tutti una stessa logica: negare la natura del fiume, troppo contrad-dittoria e problematica, per costruire un’immagine diversa e rassicurante, più aderente alle esigenze e alle aspettative della nuova classe dirigente e della restaurata casa lore-nese» (OREFICE 1995, p. 31). Il paesaggio che si affacciava sull’Arno a inizio Ottocento

era il riflesso di una realtà economica e sociale composita: rotoni di mulini, tendoni e steccati che coprivano e delimitavano bagni pubblici e privati, porticciole medievali a stretto contatto con le sontuose facciate di palazzi signorili come il Corsini o l’Accia-iuoli. Questi ultimi, aperti in un diretto dialogo con l’Arno, fronteggiavano i compatti prospetti tergali dell’Oltrarno che, come fortezze, negavano invece ogni rapporto col fiume. Un forte contrasto emergeva anche osservando le sontuose carrozze che transi-tavano sul lungarno tra Ponte Vecchio e Ponte alla Carraia, mentre tintori, lavandaie e renaioli svolgevano il loro faticoso lavoro sulle rive del fiume. Tale aspetto, di con-traddittoria e pittoresca vitalità, per quanto affascinasse i viaggiatori romantici d’inizio Ottocento, «urtava la sensibilità degli amministratori e dell’imprenditoria locale» ed è per questo che fin dal periodo francese furono proposti interventi di risanamento delle aree adiacenti il fiume e la costruzione di nuove strade che lo fiancheggiassero. Primo intervento significativo in questa direzione fu l’abbattimento, nel 1823-24, dell’Arco dei Pizzicotti, addossato a Palazzo Spini in prossimità di Ponte a Santa Trinita, e il restauro, in stile, delle rimanenze, su progetto di Cambray Digny e Bartolomeo Silvestri. Esso è assimilabile all’eliminazione delle superfetazioni e alle rettifiche stradali realizzate in questo periodo ed è un chiaro segno di apertura verso il fiume e della necessità di fornire adeguata dignità ai fronti su esso affacciati. Nello stesso spirito si pongono i progetti, non realizzati, di Giuseppe Casini, del 1842, e di Giuseppe Martelli, del 1856-57, per il restauro di Ponte Vecchio: in essi, i tratti più pittoreschi e irregolari del monumento, che tuttora ne sanciscono la fortuna, venivano eliminati in nome di una necessità di decoro fortemente sentita dall’amministrazione comunale.

L’entusiasmo dimostrato da quest’ultima nel ricercare un nuovo rapporto città-fiume, enfatizzato dalla realizzazione dei ponti in ferro, fu momentaneamente raffreddato dalla disastrosa alluvione del 1844, che distrusse il Ponte San Ferdinando (ricostruito, nella stessa forma, nel 1852). L’imponente mole di lavori legati all’Arno e alla rete idrauli-ca, intrapresa con l’elezione a capitale, rispose alla sentita necessità di «fare [Firenze] dall’acque sicura», ovvero evitare che si ripetesse una tragica situazione come quella verificatasi nel 1844.

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Tra i progetti presentati per il quartiere delle Cascine dopo l’alluvione, vanno ricordate le proposte del 1855, mai concretizzatesi, per la realizzazione di grandi bagni pubblici sull’Arno che avrebbero occupato un’ampia area del quartiere. Con esse si voleva risolvere il problema costituito dai numerosi bagni pubblici già presenti di cui i più famosi, oltre a quello della Vagaloggia, erano quello presso la Mulina di San Niccolò, quello della ‘buca di cento’ – che si trovava sotto Ponte alle Grazie davanti a Palazzo Torrigiani –, quello del ‘Fischiaio’, quello delle Mulina dei Renai e infine quello ‘dei mattoni rossi’, presso la Zec-ca Vecchia. Al di là delle questioni sanitarie, i bagni avevano dimensioni diverse ed erano destinati sia alle classi povere sia a quelle agiate e rovinavano con la loro configurazione disordinata, fatta di steccati, teloni, scalette e pali in legno, l’immagine di ‘pulizia’ e decoro che si stava cercando di dare alla città. Anche il successivo progetto di Poggi per Firenze capitale prevedeva un grande bagno pubblico come terminazione del parterre di piazza Beccaria, per sostituire questo obsoleto e poco igienico sistema di servizi.

Tra il 1855 e il 1860 fu poi abbattuto il tiratoio di Piazza d’Arno, detto anche delle Grazie. Baluardo delle fortune dell’industria tessile della Firenze medievale e simbolo del rapporto produttivo tra città e fiume, era un edificio di grandi dimensioni, di pianta rettangolare, con un basamento bugnato sormontato da una complessa struttura aperta in legno, su cui venivano stese le stoffe ad asciugare. Alla metà dell’Ottocento conserva-va ancora le sue antiche e anacronistiche funzioni ed era utilizzato per la fabbricazione e la lavorazione dei panni che necessitavano dell’acqua del fiume, raggiungibile tramite la porticciola d’Arno, detta anche delle Travi perché attraverso di essa era introdotto in città il legname da costruzione proveniente dalla Vallombrosa e dal Casentino. Le suppliche dei numerosi lavoratori per conservare l’edificio non furono ascoltate: per la sua ampia volumetria, la posizione strategica nel centro cittadino, lo «sconveniente disordine delle pezze variopinte tese ad asciugare al sole» e il pericolo d’incendio che la struttura in legno comportava, il tiratoio fu abbattuto, insieme alla porticciola, per far posto all’insipido palazzo neoclassico destinato alla Borsa Merci, realizzato tra il 1858 e il 1860 su progetto di Michelangelo Maiorfi.

Oltre che nell’aspetto esteriore, la città cambiò anche nelle funzioni interne. Decisiva a questo proposito fu la soppressione degli ordini monastici durante l’occupazione fran-cese della Toscana. Con l’ordinanza del 29 aprile 1808 tutti gli istituti di vita consacrata, tranne quello degli Scolopi, quello dei Minori e quelli che apportavano un contributo alla vita civile – come stabilimenti di carità, ospedali e scuole – furono aboliti e le proprietà in

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