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L'etimologia come strumento di indagine filosofica nei dialoghi di Platone

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Academic year: 2021

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(1)

Ai miei genitori,

che hanno costruito con me questo percorso,

seguendomi con amore e dedizione…

A Francesco,

che mi ha sempre supportato nei momenti

più bui…

(2)

Sommario

Introduzione………..3

Cap. I Analisi delle etimologie importanti presenti nei dialoghi………..8

I. 1 Ἔρως………...8 I. 2 Ἀλήθεια………...18 I. 3 Εὐδαιμονία………...36 Ι. 4 Παράδειγμα……….53 Ι. 5 Σῶμα………...66 I. 6 Ἅιδης………...88 Conclusioni………...109 Bibliografia………...110

(3)

Introduzione

E’ nota l’importanza che l’etimologia riveste nell’ambito della cultura intellettuale greca. Essa sin dagli albori della produzione letteraria costituisce un mezzo che, se correttamente usato, permette di giungere a un’esatta comprensione del reale. Questa credenza che poggia sull’arcaica indistinzione delle tre dimensioni logica, ontologica e linguistica ha reso l’etimologia nella cultura antica un importante strumento epistemologico in grado di rivelare attraverso l’indagine delle parole e le connessioni tra le parole la verità sulla realtà e sulle connessioni tra i suoi elementi. Si tratta di un modo di riflettere sulla lingua le cui tracce si ritrovano in gran parte della produzione letteraria dell’età arcaica e classica: è attestata sin dai poemi omerici in Esiodo, in Archiloco, in Teognide, nei tragici, in Aristofane configurandosi ora come un gioco linguistico ora come un procedimento derivativo che individua le componenti del termine sottoposto a interpretazione. Sia che esso costituisca un puro divertissement sia che si configuri come un tentativo più serio di penetrare il reale poggia sempre sull’originaria consapevolezza che la lingua stia nella sua forza originaria in una relazione stretta con l’essenza della cosa e permetta a quest’essenza di rivelarsi. Ben presto la spiegazione etimologica, grazie al potere che le viene riconosciuto, diventa uno strumento importante di indagine filosofica in grado di fornire risposte circa il reale. Eraclito è il primo in cui la parola acquista - per usare la felice definizione di Diels1- «philosophischen Wert». Ovvero egli è il primo a portare nell’orizzonte della conoscenza filosofica lo stretto legame tra il nome e la cosa: il pensatore crede in un’ ὀρθότης naturale dei nomi e per questo partecipa all’antico gusto delle ricerche etimologiche che nella pratica del filosofo diventano tentativi fatti in tutta serietà di penetrare l’ἔτυμον della cosa, cioè quel che è verace, la verità-realtà che è inerente a un tempo stesso nelle cose e nelle parole. Ovviamente l’uso che egli fa dell’etimologia è strettamente legato alla sua

1

H. Diels, Die Anfänge der Philologie bei den Griechen, «Neue Jahrb. Phil.» 25 (1910), pp. 1-25; p. 1.

(4)

concezione della realtà come unione di tensioni opposte e a partire da ciò l’ὀρθότης di ogni nome può consistere solo nella sua corrispondenza alla indicata realtà della cosa, alla sua costitutiva coincidentia oppositorum. La visione di Eraclito circa il linguaggio coincideva con la credenza dell’esistenza di un linguaggio corretto secondo natura. Questa posizione, in particolare con lo sviluppo della riflessione presocratica, si vedrà opposta a quella che considera la relazione tra linguaggio e realtà un rapporto basato solo su una convenzione creata dall’uomo. Questo punto di vista frutto della riflessione di Parmenide, Empedocle, Anassagora e Democrito non porterà comunque a un totale disinteresse per l’etimologia. Essa continuerà ad essere usata con la differenza che non servirà più come un indicatore di ogni connessione naturale e necessaria tra nomi e cose, bensì verrà usata per mostrare l’originale, autentico, significato della parola. Con l’avvento della riflessione sofistica si impone sempre di più l’idea che il linguaggio sia una sistema di invenzione umana basato solamente sulla convenzione. Una voce fuori dal coro in questo senso è quella di Prodico che, nelle sue riflessioni sopra la lingua e in particolare sull’uso dei sinonimi, intende dimostrare che il linguaggio è in grado di riflettere chiaramente le strutture della realtà: le parole differiscono l’una dall’altra e le differenze sono basate sull’importante fatto che ogni parola ha il suo nominatum. Anche se due parole designano lo stesso oggetto non sono mai equivalenti perché si riferiscono a diversi aspetti di quell’oggetto. Ogni incoerenza osservata nel sistema lessicale (sinonimia) è frutto del cattivo uso che le persone fanno delle parole, il quale a sua volta dipende dal fatto che il vero significato delle parole si è perso nei vari passaggi di tempo. Per stabilire il significato originario mezzo di estrema efficacia è ancora l’etimologia.

Summa teorica in cui le posizioni del linguaggio secondo natura e del linguaggio come creazione convenzionale dell’uomo vengono discusse è il Cratilo di Platone. Questo, che può essere considerato il primo lavoro di linguistica greca a trattare il problema del linguaggio in modo sistematico, come il sottotitolo dell’opera mostra “περὶ ὀνομάτων ὀρθότητος”, tratta appunto della correttezza dei nomi circa la loro possibilità o meno di riflettere le strutture della realtà. Le conclusioni a cui giunge Platone dopo un dibattito con i maggiori rappresentanti delle due correnti Cratilo ed Ermogene, caratterizzato anche da una lunghissima esposizione

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etimologica volta a mostrare sul campo il funzionamento di questo strumento, esprimono la concezione del filosofo circa il linguaggio, che egli fonda principalmente sull’ontologia. Per Platone è immediatamente evidente che esista un’altra realtà al di fuori del nome; è la realtà stessa delle cose a cui i nomi si riferiscono. Bisogna infatti che esista una natura al di fuori del nome perché esista una reale nominabilità. Senza questa natura, senza quest’essenza, rimarrebbe inutile nominare, giacché non si dovrebbe indicare nulla con il nome, perché non ci sarebbe nulla da indicare.

Platone altrove però non si esime dall’usare questo strumento, dai caratteri altamente tradizionali, anche lì dove il contesto non richiede in modo specifico una riflessione sulla lingua, allo scopo di fare emergere un significato che sia coerente con le sue dottrine, ora riutilizzando spiegazioni linguistiche già note che vengono opportunamente reinterpretate ora creando accostamenti totalmente arbitrari frutto della fantasia del filosofo ma che egli usa con straordinaria consapevolezza. Essi, lungi dall’essere semplici giochi di parole si presentano come tentativi fatti in tutta serietà di mostrare come la lingua sia depositaria di una verità filosofica fondamentale e come una sua indagine ci possa permettere di riportare alla luce il significato più autentico dei termini sottoposti a interpretazione.

Il valore che le etimologie rivestono nei dialoghi platonici era stato già notato da Classen2. Lo studioso in un lavoro particolarmente ampio si è occupato dell’importanza che l’interpretazione linguistica possiede nell’opera platonica. Classen, con questa espressione, si riferisce non solo all’uso dell’etimologia bensì in modo molto più generale alla capacità platonica di creare espressioni filosofiche a partire da termini di uso comune. Per far ciò, come spiega lo studioso, nel corso della sua opera, Platone si serve di diversi mezzi, di cui la spiegazione etimologica e la metafora sono solo alcuni. A volte infatti è l’argomentazione stessa che porta a riformulare e a connotare in senso diverso concetti con un significato in origine meno specifico o comunque di alcuna importanza filosofica. Così lo studioso si concentra

2

C. J. Classen, Sprachliche Deutung als Triebkraft platonischer und sokratischer Philosophie, «ZETEMATA» 22 (1959).

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nel considerare diversi casi in cui la reinterpretazione di termini ma anche di intere frasi costituisce un momento da un lato distruttivo, in quanto ha la funzione di confutare e di far irritare l’interlocutore nei dialoghi, dall’altro lato costruttivo in quanto permette di conferire a un’espressione un nuovo significato di notevole importanza dal punto di vista filosofico. Dopo l’opera di Classen, che nell’ambito degli studi circa l’importanza dell’interpretazione linguistica e di conseguenza etimologica in Platone, costituisce sicuramente un lavoro pioneristico di indubbio valore, pochi sono i contributi che hanno dedicato particolare attenzione allo studio delle etimologie nei dialoghi platonici, secondo un’ottica di inquadramento globale che ne valutasse la portata. Si segnala Ferrante3 che in un articolo dedicato esclusivamente alle etimologie dei dialoghi, elenca numerose spiegazioni linguistiche, che vengono divise per opera. Lo studioso che non si preoccupa di distinguere tra i puri giochi di parole e le etimologie che costituiscono un approfondimento in senso filosofico si esprime spesso in termini che sottolineano la loro arbitrarietà dal punto di vista linguistico, un’arbitrarietà che, sempre a parere di Ferrante, sembra scomparire nei dialoghi del terzo periodo, dove le etimologie sono più sobrie e meno fantasiose e dove è possibile ravvisare una coerenza con il principio delle idee. Infine un contributo utile alla valutazione delle etimologie nel contesto dei dialoghi è data dall’appendice che Heitsch4 ha inserito nel suo commento al Fedro, volta a fare luce sulle etimologie presenti nel dialogo oggetto del suo studio. Esse vengono considerate nella loro diversità e considerate in base alla loro ragione d’essere all’interno del testo filosofico. Vi sono giochi di parole fini a se stessi, etimologie note sin dall’antichità e riproposte allo stesso modo, accostamenti verbali in grado di far emergere un nuovo significato che si sovrappone a quello tradizionale ed infine spiegazioni linguistiche di importanza fondamentale dal punto di vista filosofico.

Il mio lavoro intende inserirsi nel panorama degli studi sull’argomento, con lo scopo di chiarire in che modo Platone si serva di questo processo linguistico come

3

D. Ferrante, Le etimologie nei dialoghi di Platone, «Rend. Ist. Lomb. Cl. di Lett.» 98 (1964), pp. 164-170.

4

Platon Werke. Bd. III, 4: Phaidros, Übersetzung und Kommentar von E. Heitsch, Göttingen 1993, 2. Erweiterte Auflage 1997, pp. 241-247.

(7)

strumento di indagine della realtà. Per far ciò ho scelto di studiare le etimologie che mostrassero con maggiore evidenza l’impegno che il filosofo profonde nello spiegare dal punto di vista linguistico termini che costituiscono concetti chiave nell’ambito della sue dottrine. Ho così trattato le etimologie singolarmente, considerandole nella loro diversa capacità di inserirsi nel testo filosofico e ponendo particolare attenzione alla diversità di forme e di funzioni con cui Platone si serve di questo mezzo per approfondire aspetti del suo pensiero.

(8)

Capitolo I

Analisi delle etimologie importanti presenti nei dialoghi

I. 1 Ἔρως

La frequenza e la facilità con cui Platone inserisce etimologie nel Fedro è stata notata da numerosi studiosi5, molte di queste sono evidenti e sono esplicitamente sottolineate da Platone, altre invece sono state proposte dagli stessi commentatori6 e sono state spesso oggetto di ampli dibattiti. Esse inoltre presentano forma, carattere e scopi diversi:

1) molte volte si presentano come semplici accostamenti in cui la pura assonanza sembra la sola ragione e scopo degli stessi: si pensi all’accostamento a Phaedr. 252e1 tra Διὸς e δῖόν τινα quando Socrate esprime la convinzione che “chi fa parte delle schiera di Zeus cerca come amante uno che nell’anima sia simile a Zeus”. 2) altre si tratta di giochi di parole che conferiscono tramite una giustapposizione verbale un significato particolare a un termine tradizionale, in Phaedr. 249c7-8 una sapiente costruzione stilistica accosta i termini τελέους τελετὰς τελούμενος e τέλεος e gioca sull’affinità etimologica tra τελετή (iniziazione) e τέλεος (perfetto), affinità che si riassume nel participio τελούμενος (perfetto/iniziato) senza che vi sia una soddisfacente possibilità di traduzione.

3) altre vere e proprie etimologie tradizionali, conosciute sin dall'antichità, che spiegano nomi di divinità o di esseri mitici; un esempio fra tutti può essere offerto dalle etimologie dei nomi delle muse Tersicore, Erato, Calliope e Urania a Phaedr.

5

Per una raccolta completa vd. Platon Werke. Bd. III, 4: Phaidros, Übersetzung und Kommentar von E. Heitsch, op. cit, pp. 141-147.

6

Vd. la proposta di recente fatta da Sansone in D. Sansone, An ingenious etymology in Plato, Phaedrus 266d7-9, «CQ» 57 (2007), pp. 753-758, il quale vede un gioco linguistico tra προοίμιον e

(9)

259c6-d7, nomi che vengono fatti derivare dagli ambiti di giurisdizione ad esse assegnati e le cui spiegazioni etimologiche si trovano già in Hes. Th. vv. 36-39. 4) altre ancora etimologie che risultano fondamentali sul piano esegetico-filosofico. Nel Fedro una della più importanti da questo punto di vista è quella di Eros che qui tratteremo in un’ottica di approfondimento.

L’etimologia di ἔρως in Platone si trova anche nel Cratilo, e avremo modo di analizzarla, ma sicuramente la spiegazione linguistica che risulta più interessante al fine della comprensione della teoria platonica dell’amore è quella che compare nel Fedro. Qui preme notare, in via preliminare, l’atteggiamento dei personaggi nei confronti delle spiegazioni dei nomi: nessuno pone in dubbio il procedimento etimologico, anzi le etimologie spesso corroborano a pieno le teorie sviluppate nel dialogo e approfondiscono il senso dei concetti in esso espressi.

Il tema principale del Fedro è stato sin dall’antichità motivo di dibattito. Già Ermia di Alessandria raccoglieva opinioni disparate: περὶ ἔρωτος, περὶ ῥητορικῆς,

περὶ τἀγαθοῦ, περὶ ψυχῆς, περὶ πρώτου καλοῦ. E il commentatore stesso, dopo aver

segnalato come tutti questi temi si riferissero solo a una parte del dialogo, non a questo nella sua totalità, alla fine segnala che il dialogo è περὶ τοῦ παντοδαποῦ

καλοῦ.7

Tuttora l’opera si mostra agli studiosi come portatrice di temi fondamentali per il pensiero platonico e aperto è il dibattito sulla definizione dell’oggetto principale. I temi principali sono senza dubbio a) la definizione di un corretto uso della retorica e il passaggio da una retorica abituale a una retorica ideale o filosofica che altro non è che la dialettica definita in 264e-266b b) il tema dell’ἔρως inquadrato nell’orizzonte più ampio e sviluppato in parallelo alla dottrina dell’anima, frangente in cui affiorano anche le idee, elemento centrale della speculazione platonica.

Si sa in quali circostanze Socrate è portato, nel Fedro a disquisire sull’Amore. Fedro gli ha appena letto un discorso nel quale Lisia si è proposto di provare che è meglio accordare i propri favori a colui che non ama piuttosto che a colui che è innamorato. Ma, poiché Socrate non ha affatto condiviso l’ammirazione di Fedro per questo discorso e si è persino vantato di saper fare, sullo stesso argomento, un

7

Interessante notare che il titolo noto a Diogene Laerzio (Diog. Laert. III. 58) fosse Φαῖδρος ἢ περὶ

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discorso non inferiore a quello di Lisia, Fedro lo incita a farlo e Socrate finisce per cedere alle sue insistenze.

Inizia così il primo discorso di Socrate che si propone di definire la natura e il potere di ἔρως (237c-238c). Esso comincia con una necessità ben precisa: quella di definire l’oggetto del proprio discorso, momento preliminare di fondamentale importanza se non si vuole incorrere nello sbaglio di non intendersi con sé stessi, né gli uni con gli altri (237c5). Così viene data una prima definizione di Amore: ἔρως è un tipo di desiderio (ἐπιθυμία), ma anche quelli che non amano hanno il desiderio del bello. Da questo nasce il bisogno di distinguere tra chi ama e chi non ama. Attraverso l’impiego del metodo della διαίρεσις, delineato più avanti in 265e1-3, Socrate considera che vi sono due principi che guidano la condotta dell’uomo, uno è innato ed è il desiderio dei piaceri, l’altro è acquisito ed è un giudizio ( δόξα), accompagnato dalla tendenza verso ciò che giudichiamo migliore. A volte questi due principi sono in armonia, altre volte si genera un dissenso tra di loro e ora prevale uno, ora prevale l’altro. Quando trionfa il giudizio che mediante la ragione ci porta al bene, allora l’anima tende verso la temperanza (σωφροσύνη). Se, invece, il desiderio che ci trascina in modo irrazionale ai piaceri prevale e trionfa sulla concezione dell’ottimo, questa supremazia viene chiamata intemperanza (ὕβρις). Ma l’intemperanza ha molte forme e molti nomi: desiderio intemperante del cibo o ingordigia, desiderio intemperante del bere o ubriachezza. In questa cornice viene data la definizione di ἔρως accompagnata dalla spiegazione etimologica del termine.

Phaedr. 238b5-c4: Il desiderio irrazionale, che prende il predominio sulla opinione di ciò che è retto, che è spinto al piacere della bellezza e che è vigorosamente rafforzato (ἐρρωμένως ῥωσθεῖσα) da altri desideri, suoi parenti, che hanno come oggetto la bellezza dei corpi, e che riesce vittorioso nella sua condotta, ha assunto la sua denominazione (ἐπωνυμίαν) proprio da quella forza (αὐτῆς τῆς ῥώμης) ed è stato chiamato amore (ἔρως).

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La spiegazione etimologica è sapientemente preparata dal punto di vista stilistico, infatti la proporzione tra le parti all’interno del periodo viene sacrificata per amore di una pregnante brevità alla fine, effetto che viene volutamente ottenuto attraverso un periodo particolarmente lungo costituito da una sequenza di frasi participiali e che termina con una proposizione principale di sole due parole ἔρως

ἐκλήθη8 .

Dal punto di vista contenutistico, con questa interpretazione fantasiosa della costituzione dei termini, Platone interpreta il termine ἔρως come derivato etimologicamente da ῥώμη, basandosi sulla radice ρω. Ma il gioco etimologico non si ferma qui, infatti ἔρως viene richiamato fonicamente anche da altri due termini

ἐρρωμένως ῥωσθεῖσα esprimenti il concetto di forza e che contengono l’elemento

comune ρω. Reale9 nota appunto come questi termini contribuiscano a mettere in evidenza «quella forza di Eros nella sua possente dinamica “arrotante”, da cui deriverebbe il nome di Ἔρως».

Di certo l’etimologia non può essere intesa seriamente10, ma questo nulla toglie al reale spessore semantico della definizione che trae dalla spiegazione della parola un maggiore approfondimento filosofico. Come Heitsch11 in proposito mette in evidenza:

Spiel und Ernst, reine Willkür und wirkliche Einsicht in etymologische Beziehungen stehen unvermittelt nebeneinander. Insofern ist ein Prinzip, dem Platon hier folgt, nicht zu erkennen. Doch ist deshalb, was er hier tut, insgesamt nicht sinnlos. […] Zweifellos hat Ἔρως mit ῥώμη etymologisch nichts zu tun; doch als ebenso sicher darf gelten, daß Liebe eine gewaltige Kraft ist: Offenbar ist diese Aussage, die der angeblichen Etymologie abgewonnen wird, nicht abwegig.

8

Cfr. A commentary on the Phaedrus of Plato by G. J. De Vries, Amsterdam 1969, p. 88.

9

Platone, Fedro, a cura di G. Reale, testo critico di J. Burnet, Fondazione Lorenzo Valla 1998, p. 196.

10

Platone, Fedro, traduzione di P. Pucci, introduzione e note di B. Centrone, Roma-Bari 1998, pp. 139-140.

11

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Sembra inoltre che un precedente di questa etimologia, anche se si tratta d una semplice allusione, si possa trovare in Isocrate, in Hel. 55 τῶν καλῶν ἔρως ἡμῖν

ἐγγίγνεται, τοσούτῳ μείζω τοῦ βοὺλεσθαι ῥώμην ἔχων, ὅσῳ περ καὶ τὸ πρᾶγμα κρεῖττόν ἐστιν12

il quale nell’encomio all’eroina evidenzia quale potere abbia la bellezza e quali forti desideri sia in grado di suscitare.

Appare opportuno in questo frangente fare menzione dell’etimologia di ἔρως presente nel Cratilo. Essa si trova nel famoso “sciame etimologico”, nel complesso delle spiegazioni di termini “etici”, subito dopo l’interpretazione di πόθος:

Crat. 420a-b: Eros (ἔρως) poi è amore che fluisce dentro dal di fuori (εἰσρεῖ ἔξωθεν) nell’anima; e perché questo flusso (ῥοὴ) non è proprio di chi l’ha, ma introdottovisi attraverso gli occhi, perciò dal fluir dentro( ἐσρεῖν), in antico fu detto esros (ἔσρος

τό γε παλαιὸν ἐκαλεῖτο) - usavano allora l’o in cambio dell’ō – e si dice oggidì erōs

per la sostituzione dell’ō all’o

.

A differenza dell’etimologia del Fedro che non fa riferimento a concezioni mobilistiche ma che interpreta l’amore come una forza e in cui l’assonanza con ρω sembra ribadire fonicamente l’associazione, qui l’amore è qualcosa di esterno che penetra nell’anima tramite gli occhi. A partire da ἐσρεῖν esso anticamente aveva denominazione ἔσρος. Questo termine che non risulta attestato in nessun altro luogo, quasi sicuramente un’invenzione platonica ad hoc, contiene l’elemento -ro- che in

12

Y. Chitchaline “ Οὐδὲ γὰρ οὐδὲ τὸν σὸν ἑταῖρον δεῖ παρελθεῖν (Phdr. 278e)”, in L. Rossetti, Understanding the Phaedrus. Proceedings of the II Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin, 1992, p. 227.

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questo stesso dialogo come lettera indica il movimento (Crat. 426c1-2: Πρῶτον μὲς

τοίνυν τὸ ῥῶ ἔμοιγε φαίνεται ὥσπερ ὅργανον εἶναι πάσης τῆς κινήσεως)13

Considerato il carattere dell’opera e il dibattito antico quanto moderno che verte sulla attendibilità e sulla serietà delle etimologie, giochi di parole tra cui serpeggia l’ironia divertita e sottile di Socrate, sembra comunque più opportuno focalizzare l’attenzione sull’etimologia presente nel Fedro allo scopo di capire quanto possa influire la spiegazione della parola sulla teoria dell’eros platonico14.

Tornando al suddetto dialogo infatti possiamo subito notare un parallelismo tra i due principi sopra delineati e la metafora posteriore dei due cavalli, docile uno e ostinato l’altro (264b2-4). Socrate segnala indirettamente che questo primo tipo di eros non ha le caratteristiche del giudizio e della moderazione, si tratta al contrario di un desiderio innato e irrazionale. Questo tipo di eros trova la sua ubicazione corrispondente nella parte inferiore dell’anima, simbolizzata dal secondo destriero.

La definizione che ne viene data, suggellata dall’etimologia, costituisce uno dei modi di intendere l’amore nell’ambito della concezione platonica, e si completerà nel secondo discorso di Socrate.

Il primo discorso si interrompe repentinamente e Fedro, notando l’incompletezza del discorso, osserva come egli credesse che fosse solo a metà e che avrebbe continuato a parlare a lungo a proposito di chi non è innamorato (241d4-7). In questo modo l’interlocutore di Socrate contribuisce a delimitare le parti del dialogo e a segnalare nuovi itinerari al suo interno; Fedro sollecita Socrate a completarlo ma questi vuole allontanarsi e resiste alle insistenze di Fedro che cerca di prolungare il colloquio, quando, improvvisamente, sente quel segnale divino che di solito lo avverte e lo trattiene nel momento in cui sta per prendere qualche decisione: gli è parso di udire una voce che gli proibiva di andarsene prima di aver espiato la colpa commessa. Egli pronuncia così il suo secondo discorso considerato dallo stesso come una palinodia, ossia un nuovo canto in onore a Eros in espiazione al primo discorso.

13

Vd. anche Crat. 426d3-e6, 434c10-d6.

14

Per una panoramica sugli studi e sui dibattiti attuali riguardo la considerazione delle etimologie del Cratilo vd. D. Sedley, Plato’s Cratylus, Cambridge 2003.

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Questo comincia, come il primo, in modo dialettico, a stabilire l’ipotesi che l’amore è una divina pazzia (θεία μανία). Il resto del discorso, incluso il mito dell’anima costituisce una dimostrazione di questa ipotesi (245b7-c1). Questa viene metaforicamente paragonata a una biga alata le cui forze - la pariglia alata e il suo auriga - prefigurano la tripartizione dell’anima (razionale, passionale e volitiva). L’anima che riesce a contemplare la Verità dà la vita a un uomo. Se l’anima non ha solo intravisto rapidamente le cose di questo mondo superiore e se non si è lasciata corrompere in questo mondo dall’ingiustizia allora può, tramite il ricordo, risalire per mezzo delle cose terrene copie delle idee, alle realtà superiori. La Bellezza possiede la caratteristica di essere la realtà più percepibile. Essa, incarnata in un volto d’apparenza divino, immagine fedele della stessa, oppure in un corpo ben fatto, viene contemplata dall’anima preda di un delirio divino. Le emanazioni della bellezza penetrano attraverso gli occhi fino all’anima, la riscaldano e riattivano così le virtù delle ali, sciogliendo ciò che, chiudendo i pori, impediva con la sua durezza alle gemme delle ali di schiudersi e di spuntare. Ali che inaridiscono quando la bellezza si allontana. L’anima trova pace solo alla vicinanza dell’amato.

L’amore viene considerato in questo discorso come una fonte di ispirazione che conduce alla filosofia. E questa dimensione filosofica dell’amore viene definita attraverso la seconda etimologia di questo termine che si trova nel Fedro.

Phaedr. 252b8-9: Lui appunto i mortali lo chiamano Eros che vola (Ἔρωτα

ποτηνόν). Ma gli immortali Pteros (Πτέρωτα), perché costringe a mettere le ali (διὰ πτεροφύτορ’ ἀνάγκην).

L’etimologia è realizzata da un gioco di assonanze tra Ἔρωτα (amore all’accusativo) e Πτέρωτα, nome di invenzione platonica ricavato dal sostantivo

πτερόν (ala) e spiegato a sua volta dal termine πτεροφύτορα (che fa crescere le ali)15 .

15

(15)

La spiegazione si colloca nell’ambito di due esametri probabilmente di creazione platonica16 e si basa sulla differenza di denominazione data dagli uomini e dagli dei. Ovviamente il nome corretto è quello dato dagli dei che sono in grado di conoscere quello che gli uomini ignorano17. Infatti Eros, essendo un dio, fa rinascere le ali affinchè l’anima possa ascendere il più possibile il mondo sopraceleste e osservare le Forme intellegibili. Sebbene “l’amante delle cose belle” alla reminiscenza della Bellezza vera metta le ali e le senta sbattere, ardendo dal desiderio di prendere il volo, tuttavia non può farlo se non dopo un periodo di diecimila anni.

Come possiamo osservare, il Fedro amplia, con la descrizione parallela dell’amore e dell’anima, il quadro espositivo del Simposio, dove Socrate riferisce in forma di mito ciò che ha appreso da Diotima di Mantinea riguardo alla natura di Eros: questo è un δαίμων, un essere intermedio tra l’uomo e la divinità, in quanto possiede una natura “sintetica”. E’ nato da Poros (Risorsa) e da Penia (Povertà), duplice parentela che gli conferisce queste due caratteristiche: saper escogitare per ottenere sempre quello che vuole, pur rimanendo sempre una forza insoddisfatta18.

Entrambi i dialoghi rivelano la duplice dimensione di Amore ovviamente sotto due punti di vista diversi; questo è tale quale è stato indicato nel Simposio, ma anche come viene mostrato nel Fedro. Qui infatti le due etimologie illustrano la natura d Eros e il suo legame all’anima in un duplice modo: l’amore definito come desiderio e come amore fisico, che ha come oggetto l’amore dei corpi e la cui caratteristica principale è la forza e l’amore divino definito come quello che conferisce le ali e che ha come obiettivo, attraverso l’entusiasmo, che si genera dalla visione del bello, la ricerca della verità e del bene.

16

Quasi tutti gli studiosi son convinti si tratti di un’invenzione platonica, vd. Platone, Fedro, a cura di G. Reale, testo critico di J. Burnet, cit., p. 227 e Platone, Fedro, traduzione di P. Pucci, introduzione e note di B. Centrone, cit., p.151 per un’interpretazione secondo questa linea; G. L. Huxley, A poem of the Homeridae, « Gr. Rom. Byz. St.» 3 (1960), p. 29 per un’interpretazione che attribuisce questi versi agli Omeridi di Chio.

17

In Crat. 391d-e Socrate analizzando la duplice denominazione divina e umana data a un solo soggetto giunge alla conclusione che gli dei conoscono i nomi secondo natura quindi il nome che essi danno è quello corretto.

18

Invece, Socrate nel Fedro ritiene che Eros sia figlio di Afrodite e che sia un dio o qualcosa di divino. Però quest’ultima genealogia è quanto trasmette la tradizione, come sottolinea l’interlocutore.

(16)

L’importanza delle etimologie dal punto di vista esegetico-filosofico è stata compresa anche dai commentatori neoplatonici. Ermia in corrispondenza della prima etimologia di Eros scrive così:

Herm., In Phaedr. 238c 24-32: Ὡρίσατο τήν οὐσίαν τοῦ ὡς πάθους ἔρωτος ἐν ἕξει αὐτὸν θέμενος καὶ πάθει ἐπιθυμίας οὐ πάσης, ἀλλὰ σωμάτων, καὶ οὐδὲ σώματοσ ἁπλῶς, ἀλλὰ κάλλους σωματικοῦ, προσθεὶς καὶ τὸν τρόπον, ὅτι ἐρρωμένως καὶ σφοδρῶς ἐπιθυμοῦσα. Οὗτος οὖν ὁ ἀκόλαστος καὶ πατητικὸς. ἔρως. Ὡρίσεται δὲ ἑξῆς καὶ τὸν λογικὸν ἔρωτα τὸν ἐν τῇ λογικῇ ψυχῇ, πτέρωτα αὐτὸν καλῶν παρὰ τὸ πτεροῦν καὶ ἀνάγειν τήν ψυχήν. Ἔπειτα τελευταῖον καὶ αὐτὸν τὸν θεὸν ἔρωτα ἐτυμολογήσει παρὰ τὸ εἴρειν καὶ δεσμεῖν τὰ δεύτερα τοῖς προτέροις, καὶ τὴν μεσότητα αὐτοῦ παριστάς ὅτι δεσμός ἐστι τῶν πάντων καὶ συναφή.

Ermia distingue tra amore sfrenato e passionale (ἀκόλαστος καὶ πατητικὸς) contrapposti all’amore razionale (τὸν λογικὸν ἔρωτα) che Platone chiama Pteros per il fatto che dà le ali ed eleva l’anima. Inoltre sottolinea come Platone abbia voluto dare le etimologie di eros allo scopo di legare e unire l’inferiore al superiore, avendo esso una natura sintetica e mediatrice.

Proclo, a sua volta, dà un’interpretazione delle etimologie in modo coerente a come le intendono gli studiosi moderni19 e in riferimento alla seconda etimologia considera come si chiami ποτηνός l’amore a cui partecipano i mortali, Pteros quello divino e impartecipabile. Solo l’ultimo nome permette di arrivare al dio, posto che attraverso l’etimologia sappiamo che Pteros unifica in se stesso, a differenza del primo, l’essenza e l’attività del dio.

In sintesi, possiamo dire che non esiste un solo tipo di amore o per lo meno non esiste come realtà statica; esso, in quanto forza che tiene unito il mondo, può

19

(17)

essere visto come una scala che deve condurre l’uomo dal desiderio della bellezza dei corpi, gradino al quale si fermano i più, a quello della bellezza dell’anima fino a giungere al Bene. L’amore occupa nella teoria della conoscenza un posto estremamente rilevante e nel Fedro esso viene presentato come funzione essenziale per l’anima, condizione per la reminiscenza. Tramite le emanazioni della bellezza che penetrano fino all’anima, l’amore è capace di risvegliare i ricordi assopiti e di farci risalire mediante essi alla Bellezza vera.

Colui che ama pieno di questa mania divina si chiama ἐραστής. E Socrate non si lascia sfuggire l’occasione per fornire una spiegazione etimologica di questo termine, così importante nella definizione dell’uomo preso da quello che egli ritiene sia il quarto tipo di delirio.

Phaedr. 249e1-5: Quel delirio, dico, che è la più nobile forma (ἀρίστη) di tutti i deliri divini, e procede da ciò che è più nobile (ἐξ ἀριστῶν) tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino ed ami la bellezza (ὁ

ἐρῶν τῶν καλῶν), è chiamato amatore (ἐραστής)20 .

Heitsch21 nota in proposito come «Die Beste (ἀρίστη) aller Verzückungen und aus bestem Anlaß (ἐξ ἀριστῶν) ist die Liebe; und daher wird denn auch, wer das Schöne Begehrt mit einem Wort Bezeichnet, das (ἐραστής) lautet und, wie Sokrates zu verstehen gibt, eine Kombination ist von ἐρᾶν und ἀρίστη». Anche la condizione dell’uomo soggetto a questa mania divina viene definita mediante l’utilizzo di una spiegazione linguistica. Egli è ἐραστής in quanto ama secondo la forma più nobile tra tutti i deliri divini. Oggetto del suo amore è la bellezza, la cui percezione gli potrà permettere, tramite il ricordo, di raggiungere la contemplazione delle Idee.

Anche in questo caso fare l’etimologia di un nome significa ritrovare, insito già nella lingua, quanto c’è di più vero e di più alto.

20

Risulta particolarmente difficile tradurre ἐραστής in modo soddisfacente, tale che possa esprimere la derivazione da ἐρᾶν ed ἀρίστη. Io mi sono attenuta alla traduzione di Pucci (Platone, Fedro, traduzione di P. Pucci, introduzione e note di B. Centrone, cit.)

21

(18)

In conclusione, possiamo dire che le etimologie di Eros presenti nel dialogo, rimandando all’idea di un linguaggio originario dai caratteri ignoti, la cui scoperta ci può permettere di conoscere la reale natura e il corretto significato dei termini oggi usati, permettono a Platone di dare nuova forza alla sua teoria della conoscenza e di trasformare il mito di Eros in strumento filosofico per i suoi scopi. Si tratta ovviamente solo di un impulso, ma di certo di notevole valore se si considera la disposizione testuale delle due spiegazioni linguistiche. Entrambe vengono date quando si vuole definire o caratterizzare il tipo di amore e la sua qualità principale. L’eros della prima etimologia ha come caratteristica principale quella della forza e si esprime nel desiderio fisico, quello della seconda etimologia invece si configura come una scoperta concessa a pochi. Non tutti possono sapere la verità, l’essenza e l’attività del dio è preclusa ai più che non sanno il vero significato del suo nome. Egli è colui che dà le ali, che può permettere all’uomo di innalzarsi fino alla contemplazione delle idee, mezzo per il raggiungimento di tutto ciò: la bellezza. Si tratta di una etimologia estremamente invocativa che racchiude in sé - quasi una verità esoterica - parte di ciò che Platone vuole esprimere in merito alla natura di Eros.

Ι

. 2 Ἀλήθεια

L’etimologia di ἀλήθεια ha in Platone un’importanza particolare. Essa infatti, come avremo modo di considerare, ci consente di prendere ad esame le varie sfumature di significato connesse col termine e di scoprire quanto fosse percepita dal filosofo e già prima di lui la presenza di diverse componenti semantiche etimologicamente connesse con la parola usata per esprimere la verità.

Essa non si trova espressa in maniera esplicita, ovvero non viene accompagnata da termini che rendano chiara la derivazione etimologica di ἀλήθεια

(19)

dalle espressioni che sono ad essa connesse; bensì l’associazione tra la parola usata per “verità” e i termini che ci permettono di scoprire la semantica insita in essa avviene solo in maniera allusiva attraverso accostamenti di tipo assonantico, che per la pregnanza assunta in determinati contesti, ma anche per il gioco di richiami sia intra- che intertestuali che a volte si ingenera tra le espressioni coinvolte nel gioco linguistico, non possono essere casuali. L’etimologia a cui Platone fa riferimento è quella ormai ritenuta tradizionale e oggi generalmente accettata anche dal punto di vista linguistico22 concordemente con la visione Heideggeriana, che sebbene non totalmente accettabile nelle sue implicazioni semantiche e filosofiche fornisce una interpretazione del nome coerente con le posizioni odierne. Essa spiega ἀλήθεια come formazione composta da α privativo e da derivati di λανθάνω secondo una interpretazione che come avremo modo di osservare risulta presente anche nelle coscienze dei Greci prima di Platone. Vedremo con quali implicazioni essa venga utilizzata da Platone e quale significato emerge dalla connessione tra il termine per verità e la sua etimologia originaria, che il filosofo usa con straordinaria consapevolezza.

Il primo passo di notevole interesse per la considerazione dell’etimologia è Phaedr. 248b6-c7.

Nel mito della biga alata viene spiegata la ragione per cui le anime possono perdere le ali. Queste sono l’unico mezzo che permette loro di elevarsi, di percorrere la volta celeste in tutta la sua estensione e di contemplare le idee (246d6). Esse sono nutrite da elementi di natura divina, quali la bellezza, la sapienza, il bene e quanto ha una natura analoga. Ora per alimentarsi le anime devono risalire alla sommità del cielo. I carri degli dei, trainati da buoni cavalli non hanno difficoltà a raggiungere la vetta celeste; esse infatti riescono a contemplare ciò che si trova al di fuori del cielo (247c1), ovvero le idee, di cui l’anima degli dei si nutre e gode, finchè non abbia compiuto il ciclo e il moto circolare non la riporti al punto di partenza. Le anime diverse da quelle degli dei, non hanno questa sorte, in quanto strattonate dalla forza del cavallo cattivo. Alcune riescono a scorgere a stento le cose che esistono, altre a

22

(20)

vedere solo parzialmente, altre ancora non sono in grado di vedere nulla. C’è una ragione se esse si affannano così tanto:

Phaedr. 248b6-c7: Tanta pena allo scopo di vedere dove si trova la pianura della verità (τὸ ἀληθείας πεδίον), perché proprio nel prato che si stende nella pianura (λειμῶνος) c’è il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima, e di questo cibo, grazie alla quale si mantiene leggera, si nutre la natura dell’anima. La legge di Adrastea è la seguente, l’anima che, al seguito di un dio, abbia visto qualche verità, rimarrà illesa fino alla successiva rotazione e, se ci riesce sempre, si manterrà per sempre immune dai danni. Se, invece, non sia stata in grado di tener dietro al dio, non sia riuscita a vedere, sia incorsa in qualche disgrazia e ricolma di oblio e di malvagità (λήθη καὶ κακία), si sia appesantita, abbia perduto le ali e sia precipitata sulla terra, allora è legge che, nella prima generazione, non germogli in nessuna natura animale.

L’anima che è riuscita a nutrirsi del cibo divino presente nella ἀληθείας

πεδίον riesce a elevarsi leggera con le ali e a conservarle intatte fino alla rotazione

successiva, se invece appesantita da λήθη καὶ κακία non è stata in grado di contemplare le verità assolute perde le ali e si incarna a seguito della sua caduta. La connessione su base etimologica che si può scorgere tra τὸ ἀληθείας πεδίον e la

λήθη, allusivamente accostate a breve distanza, trova un chiaro riscontro in un passo

della Repubblica (621a2-b1). Qui proprio alla fine del mito di Er viene mostrato il percorso che le anime devono compiere dopo aver scelto quale sarà la loro vita. Esse si recano dapprima da Lachesi che le fornisce del demone guardiano della loro vita e garante della realizzazione delle loro scelte. Poi guidate da questo Essere le anime giungono da Cloto che sanziona il destino che hanno scelto dopo il sorteggio, da Atropo che con la sua filatura rende immutabile la trama del destino e oltrepassano il trono di Necessità. Infine compiono un ultimo passaggio obbligatorio prima di rinascere:

(21)

Resp. 621a2-b1: … tutte insieme si incamminavano verso la pianura dell’oblio (τὸ

τῆς Λήθης πεδίον) in un calore tremendo e soffocante: era nuda di alberi e di tutto

quanto la terra produce. Quando ormai si faceva sera, essere si riparavano presso il fiume Amelete, la cui acqua nessun vaso può trattenere. A tutte era dunque imposto di bere una certa misura dell’acqua; man mano che ognuna beveva dimenticava tutto (ἐπιλανθάνεσθαι).

Nella τῆς Λήθης πεδίον le anime prima di incarnarsi bevono l’acqua del fiume Amelete per dimenticare (ἐπιλανθάνεσθαι) le vicende dell’aldilà. E’ evidente la contrapposizione tra la ἀληθείας πεδίον del Fedro e la τῆς Λήθης πεδίον presente in questo passo, una opposizione che poggia sulla connessione etimologica tra i due termini ἀλήθεια e λήθη.

La pianura dell’oblio in realtà non è una creazione platonica, essa trova già menzione nelle Rane di Aristofane (v. 186) come parte della topografia dell’aldilà. Diverso il discorso per la pianura della verità platonica. Rankin23 a questo proposito nota come in ambito orfico vi siano testi che menzionano la presenza di una fonte di

λήθη opposta a quella di μνημοσύνη24

e che Platone probabilmente avendo in mente questa connessione avesse posto τὸ ἀληθείας πεδίον al posto di un’espressione che sebbene non attestata sarebbe dovuta essere μνημοσύνης πεδίον, usando così sulla base dell’associazione etimologica un termine più adatto ai suoi scopi. Tὸ ἀληθείας

πεδίον inoltre ricorre anche in fonti di influenza platonica. Si ritrova nello

pseudo-platonico Assioco (371c2) dove con questa espressione si indica il luogo in cui si riuniscono le anime per essere giudicate da Minosse e Radamanto e viene usata anche dal filosofo neo-platonico Ierocle di Alessandria (Hierocles ad. c. aur. 24) il quale menziona una ἀληθείας λειμών proprio mentre sta prendendo in

23

H. D. Rankin, Ἀ-ΛΗΘΕΙΑ in Plato, «Glotta» 41 (1963), pp. 51-54.

24

(22)

considerazione alcuni versi di Empedocle (31B121 D-K) sull’aldilà in cui si parla di un prato della cecità e dell’errore: Ἄτης λειμών25.

Appare così evidente che Platone ha consapevolmente mutuato dei termini che provengono dalla topografia escatologica classica apportando delle modifiche nell’uso delle espressioni tradizionali, allo scopo di adattare elementi già noti alle proprie dottrine. Per far ciò si è avvalso della connessione etimologica tra ἀλήθεια e

λήθη, e ha contrapposto la pianura dell’oblio a quella della verità dove le anime nella

loro vita ultraterrena contemplano le idee, facendo così emergere un nuovo significato sempre nel solco della tradizione.

Un altro passo in cui si può scorgere una consapevole connessione etimologica tra ἀλήθεια e derivati di λανθάνω senza che essa venga comunque esplicitata è Phaed. 64a10-b4.

Platone presentando la concezione della vita del filosofo come preparazione alla morte mostra l’intenzione di spiegare ai suoi allievi che hanno espresso dei dubbi circa la desiderabilità di questo evento perché la morte non sia da temere bensì da aspettare nella speranza che per il filosofo nell’aldilà ci sono premi grandissimi. Socrate così esordisce mostrando quanto sia incompreso il vero scopo della vita del filosofo:

Phaed. 64a10-b4: Probabilmente ad altri sfugge (λεληθέναι) che quanti vengono a contatto con la filosofia non si occupano che di morire e della condizione che si raggiunge dopo morti. E, dunque sarebbe ben strano che quanti per tutta la vita hanno desiderato morire, quando poi essa giunga, si addolorassero proprio di ciò che hanno, per tanto tempo, desiderato e cercato. Simmia sorrise e disse “per Giove, Socrate, io non ne avevo voglia invece tu mi hai fatto ridere. Credo infatti che i più a sentir questo penserebbero che ciò è ben detto proprio nei confronti dei filosofi - e i nostri concittadini sarebbero interamente d’accordo con te - che davvero essi siano come dei morti e che essi sono invece ben consapevoli (οὐ λελήθασιν) del fatto che i

25

Empedocles B121: … ἀτερπέα χῶρον/ἔνθα φόνος τε κότος τε καὶ ἅλλων ἔθνεα Κηρῶν/αὐχμηραί

(23)

filosofi sono degni di subire questa sorte. E costoro direbbero il vero, Simmia, eccezion fatta per la loro dichiarazione di consapevolezza (ἀληθῆ γ’ ἂν λέγοιεν, ᾦ

Σιμμία, πλήν γε τοῦ σφᾶς μὴ λεληθέναι), perché ad essi sfugge (λέληθεν) in che

senso i filosofi siano come dei morti e siano degni di questa sorte.

All’affermazione di Platone circa il fatto che ad altri sfugge (λεληθέναι) che lo scopo della vita del filosofo è la morte, Simmia risponde che la maggior parte delle persone in realtà gli darebbero ragione anzi direbbero che ad essi non sfugge (οὐ λελήθασιν) che essi sono degni di subire questa sorte. Ma sebbene dicono il vero (ἀληθῆ), non è accettabile questa loro consapevolezza (μὴ λεληθέναι), in quanto in realtà rimangono all’oscuro (λέληθεν) circa il reale significato della loro affermazione. L’assonanza che si realizza dall’insistita ripetizione di ἀλήθεια e di

λανθάνω in questo senso non può essere affatto casuale, infatti tramite il gioco che si

attua tra i termini che esprimono in questo passo la verità (ἀλήθεια) che gli uomini comuni credono di possedere e quanto in realtà sfugge (λέληθεν) alla loro comprensione sebbene essi ritengano di essere in possesso di tutte le implicazioni (οὐ

λελήθασιν) che le loro affermazioni comportano, Platone vuole evidentemente

sottolineare la contraddizione che sorge in coloro che credono di avere il possesso della verità ma che in realtà sono all’oscuro del reale senso in cui ciò che sostengono è vero. Essi posseggono una verità che non è verità proprio nel senso che abbiamo visto e Platone esprime questa tensione attraverso una sapiente costruzione stilistica in cui viene messo in atto un complicato gioco linguistico che ha lo scopo di far risaltare le implicazioni semantiche dei termini in esso interessati.

Un altro passo in cui si può scorgere un’associazione etimologica simile a quelle appena considerate è Phil. 63d4-e7.

Socrate indagando quale tipo di conoscenza e di piacere sono ammissibili in una buona vita immagina che νοῦς e φρόνησις siano personificate e li interroga sulla loro necessità di mescolarsi a qualcuno tra i piaceri e se oltre ai piaceri veri hanno bisogno anche di quelli più grandi e più intensi:

(24)

Phil. 63d4-e7: E in che modo Socrate? direbbero probabilmente, tali piaceri comportano per noi innumerevoli ostacoli, turbano le anime in cui noi siamo mediante folli godimenti e dapprima ci impediscono di sorgere in un’anima e quando i nostri figli in quell’anima siano nati, come accade per lo più, totalmente li distruggono, ingenerando l’oblio (λήθη) di loro mediante un continuo trascurarli. Ma quei piaceri veri (ἀληθεῖς) e puri di cui parlavi devi ritenerli nostri, direi, familiari, ed oltre a questi piaceri della salute e della temperanza e così anche tutti i piaceri che sono compagni alla virtù nel suo complesso quasi seguissero una dea e ad essa tengono dietro in tutte le sue manifestazioni; questi mescola a noi.

La risposta di Mente e Intelligenza esprime la necessità di accantonare i piaceri grandi e intensi, falsi piaceri i quali distruggono i loro figli generando λήθη. Un oblio che invece non ha origine dai piaceri considerati ἀληθεῖς, il cui attributo se analizzato su base etimologica porta insita questa implicazione semantica, ovvero “l’assenza di dimenticanza”. D’altronde una conferma della possibilità di questa analisi del termine attraverso la scomposizione del termine nelle sue componenti contenutistiche sembra possa essere accettata proprio sulla base della contrapposizione a breve di stanza con la λήθη connessa ai falsi piaceri.

In Platone vi sono molti altri passi in cui è possibile scorgere un accostamento tra ἀλήθεια e forme che si ricollegano a λανθάνω. Si tratta di associazioni che sebbene non possano essere ignorate per la vicinanza dei termini interessati, sembrano più semplici giochi di parole che espressioni in grado di ampliare il portato semantico del brano in cui esse risultano inserite.

Ritengo comunque opportuno riportare i passi, soprattutto in considerazione del fatto che, sebbene non si possa andare oltre la semplice constatazione, essi testimoniano ulteriormente in Platone l’utilizzo più o meno consapevole e più o meno interessato dell’etimologia originaria.

(25)

Si tratta di Ap. 17a2-3: … Quanto a me parlavano così persuasivamente che per poco non mi hanno fatto dimenticare (ἐπελαθόμην) di me stesso. Eppure non hanno detto praticamente nella di vero (ἀληθές).

Crit.51a6-8: … e saresti uno che veramente (τῇ ἀληθείᾳ) si cura della virtù? O con tutta la tua sapienza non ti rendi conto (λεληθέν)) che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti i suoi antenati.

Prot. 339d3-4: … costui (Simonide) afferma che sia difficile diventare un uomo buono veramente (ἀληθείᾳ), ma poco più avanti, procedendo nella poesia, se ne dimentica (ἐπελάθετο).

Phil. 52b4: tu dici la verità (ἀληθῆ) che l’oblio (λήθη ) della conoscenza non genera in noi dolore.

In tutti i passi riportati, sia in quelli in cui è possibile scorgere con chiarezza un uso consapevole della connessione etimologica tra ἀλήθεια e derivati di λανθάνω, associazione non fine a se stessa ma che porta a un approfondimento filosofico circa le concezioni legate ai termini interessati, sia in quelli dove l’accostamento pur essendo con ogni probabilità intenzionale non porta a un significativo ampliamento del portato semantico delle espressioni, ci mostrano come in Platone non si trovi mai un’etimologia esplicita di ἀλήθεια secondo la spiegazione fino ad adesso presa in considerazione.

L’unico caso in cui il filosofo etimologizza il termine in modo esplicito e consapevole infatti propone una spiegazione del termine molto diversa da quella appena presa ad esame. Il dialogo in cui essa si colloca è il Cratilo, qui Platone nello sciame etimologico, nel complesso delle spiegazioni di termini “etici”, subito dopo l’interpretazione di ὄνομα, spiega così ἀλήθεια:

(26)

Crat. 421b1-3: La verità (ἡ δ’ ἀλήθεια) poi è pure un nome somigliante agli altri , perché pare che con questo vocabolo “verità” (τῇ ἀληθείᾳ) sia indicato il divino moto dell’essere come un’agitazione divina (ὡς θεία ἄλη).

L’etimologia qui proposta, come notiamo, comporta una considerazione delle componenti che formano la parola in modo totalmente differente, essa infatti vedendo nel nome una locuzione contratta divide in due parti quasi uguali ἀλή-θεια e capovolge così le componenti che ha ottenuto separandole (θεία ἄλη). La spiegazione per quanto ingegnosa è assolutamente fantasiosa26 e probabilmente inventata da Platone ad hoc allo scopo di fornire un’interpretazione che fosse coerente con le intenzioni del dialogo in cui è inserita. Come dice Rankin27, in riferimento al differente uso platonico delle due etimologie:

Plato seems almost selfconsciously to have set aside for the purpose of the Cratylus the ἀ/ληθ- analysis, and to have produced a new one which suited the emphasis upon the κίνησις that characterises his later work and also fitted in with the influences of the ῥέοντες that permeates the Cratylus. The ἀ/ληθ-“etymology” is more suitable to the mysterious unveiling of truth in the terms of mystery religious cult; it is more concerned with the ψυχή as an individual in relation to this unveiling of the truth; it is less “physicalist and “objective” than θεία ἄλη.

Stessa idea viene espressa anche da Caterina Licciardi28 che sottolineando come l’etimologia platonica sia un puro divertissement all’insegna del mobilismo nota inoltre riguardo all’aggettivo θεία come l’etimologia di θεοὶ nel medesimo dialogo (397d3-4) faccia derivare il nome dal termine usato per indicare il correre

θεῖν. La spiegazione di ἀλή-θεια farebbe così doppiamente appello al mobilismo.

26

Preme notare che ἄλη è una parola poetica attestata in Il. XXI v. 284; Aesch. Ag. v. 187; Eur. Med. V. 275.

27

H. D. Rankin, Ἀ-ΛΗΘΕΙΑ in Plato, op. cit., p. 53.

28

Platone, Cratilo, introduzione e note di Caterina Licciardi, trad. it. di Emidio Martini, Milano 2006, pp. 200-201 n. 137.

(27)

Considerato il carattere del dialogo e l’incertezza espressa dagli studiosi circa la serietà con cui Platone interpreta i nomi nello sciame etimologico, a cui ho più volte fatto accenno nel corso del mio lavoro e che ci porta a considerare con estrema cautela le etimologie presenti in questo dialogo, mi trovo d’accordo con la maggior parte degli studiosi nel ritenere che questa etimologia non sia affatto intesa seriamente.

Dopo Platone abbiamo un caso in cui la connessione etimologica tra ἀλήθεια e le forme di λανθάνω viene resa in maniera esplicita. Si tratta di un passo di Sesto Empirico (AM 8.8.3-9.1) il quale cita Enesidemo e riferisce il suo pensiero circa il significato di ἀλήθεια.

Sext. Emp. AM 8.8.3-9.1: Enesidemo sostiene esserci una differenza nelle cose che appaiono e afferma che di queste alcune appaiono a tutti in comune, altre separatamente a una persona, e di queste quelle che appaiono a tutti in comune sono vere, quelle che non sono così sono false; per cui ciò che non sfugge (μὴ λῆθον) alla conoscenza cοmune è detto, per derivazione (φερωνύμως), vero (ἀληθές).

Enesidemo nel chiarire cosa per lui è vero, fa una distinzione tra le cose che appaiono: tra di esse alcune si mostrano solo ad alcuni, altre si mostrano a tutti, solo se c’è consenso universale circa l’apparenza questa è vera altrimenti se questa viene percepita “privatamente” ovvero non da tutti allora essa è falsa. Enesidemo dopo aver chiarito cosa per lui è vero e cosa è falso, per comprovare ulteriormente il valore delle sue affermazioni dà la spiegazione etimologica del termine. Essa non è più un semplice gioco linguistico: vero (ἀληθές) infatti è detto per derivazione (φερωνύμως) ciò che non sfugge (μὴ λῆθον) alla conoscenza comune. Attraverso il processo linguistico di derivazione viene trovato già insito nella lingua in forma di nucleo concettuale quanto prima teorizzato, confermando così la validità di tesi che non sono affatto arbitrarie ma sono rivelate dalla stessa semantica prima nascosta della parola etimologizzata.

(28)

E’ utile a questo proposito fare menzione di altre due fonti in cui è possibile trovare la spiegazione di ἀλήθεια secondo un’interpretazione che condivide la connessione etimologica fin qui considerata. Si tratta di Plutarch. Fragm. 215g. 32-322 (Damasc. In Phaedonem 281, 1): Ὅτι καὶ ἡ ἀλήθεια τὸ ὄνομα δηλοῖ λήθης

ἐκβολὴν εἶναι τὴν ἐπιστήμην, ὅ ἐστιν ἀνάμνησις; Fragm. 217i. 20-21(Damasc. In

Phaedonem 28,16) Εἰ ἡ ἀλήθεια κατ’ ἀφαίρεσιν τῆς λήθης ἔντευξις τοῦ ὄντος ἐστίν.

λογιστικὴ ἡ ἐπιχείρησις e infine di Hesych. Lex. Alpha. 2924: ἀληθής·δικαία ἢ δίκαιος. ἢ μνήμων, κατὰ στέρησιν τῆς λήθης.

In tutti questi passi appare evidente che la spiegazione di ἀλήθεια poggia sulla connessione etimologica con λήθη nel senso di oblio, dimenticanza.

L’etimologia di ἀλήθεια però non si trova solo in Platone e in suoi successori, essa infatti sebbene non in maniera esplicita risulta attestata già prima di Platone. In questo senso risulta utile il lavoro di Heitsch29 il quale ha cercato di dimostrare come già prima del filosofo la semantica negativa di ἀλήθεια fosse chiara nelle coscienze dei greci e a questo scopo ha riportato alcuni brani che mostrassero la presenza di un accostamento allusivo tra il termine usato per indicare la verità ed espressioni che si richiamassero al suo contenuto semantico30.

Il passo più significativo in questo senso è senza dubbio Hes. Th. vv. 233-236: Ponto generò Nereo, sincero e verace (ἀληθέα)/ il più vecchio dei figli; per questo lo chiamano vecchio/perché non inganna ed è benigno; né il diritto/dimentica (λήθεται) e sa giusti e buoni pensieri.

Qui sembra non casuale l’accostamento tra l’epiteto di Nereo che ne evidenzia la veridicità, ovvero la capacità di dire cose vere e il suo atteggiamento che non è dimentico del diritto.

Un altro passo importante proprio per la vicinanza dei termini è anche Eur. IT. vv. 1024-1027: Or. E che cosa, se mi nasconderai nel tempio di nascosto? Iph. Così che noi possiamo trarre vantaggio dal buio e fuggire? Or. La notte è dei ladri, la

29

E. Heitsch, Die nicht-philosophische “aletheia”, «Hermes» 90 (1962), pp. 24-33.

30

Una prova secondo Heitsch del fatto che i greci già prima di Platone usassero ἀλήθεια con consapevolezza delle sue componenti semantiche è data dall’evidenza che in nessun passo si trova l’espressione ἀλήθειαλανθάνει, che se tradotta in modo usuale non comporta problemi (la verità che

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luce della verità (ἀληθείας). Iph. Dentro ci sono guardie sacre a cui non sfuggiremo (οὐ λήσομεν)31.

Dopo aver preso consapevolezza della presenza in Platone della spiegazione linguistica di ἀλήθεια anche grazie alla considerazione di passi sia antecedenti che successivi al filosofo, i quali ci garantiscono la possibilità di una interpretazione del termine in questo senso, risulta fondamentale soffermarsi sul significato preciso del verbo λανθάνω32 allo scopo di capire con chiarezza qual è il portato semantico che la parola etimologizzata possiede soprattutto in riferimento ai passi platonici di nostro interesse.

Il senso primario di λανθάνω è quello di “non passare inosservato”, “non sfuggire all’attenzione” in riferimento a qualcosa che pur potendo essere notata non viene percepita dal soggetto. E’ evidente che trattandosi di qualcosa che “passa inosservato”, la sua mancata percezione non è oggettiva, non è impedita da fattori esterni che negano che esso venga notato, l’unica variabile da cui dipende è il soggetto interessato a cui qualcosa sfugge o non sfugge. Questo significa che il verbo implica necessariamente la presenza di un soggetto ed esso dal punto di vista semantico può essere o colui che sfugge all’attenzione oppure colui al quale qualcosa sfugge. In particolare in questo secondo caso, ovvero se il soggetto è colui al quale qualcosa passa inosservato, il verbo assume un significato assai prossimo a quello di “dimenticare, omettere, trascurare”. In quanto se a me sfugge qualcosa perché ho dimenticato di richiamarla all’attenzione allora ho commesso un’omissione. Ora questa omissione può essere qualcosa che è momentaneamente sfuggito alla memoria, oppure qualcosa che non si ha più presente nella coscienza in modo permanente e proprio in questo senso si può parlare propriamente di dimenticare, obliare.

31

Per gli altri passi vedi E. Heitsch, Die nicht-philosophische “aletheia”, op. cit., pp. 26-28.

32

Estremamente utile è a questo riguardo B. Centrone, L’etimologia di ἀλήθεια e la concezione platonica della verità, in Dignum laude virum: studi di cultura classica e musica offerti a Franco Serpa, a cura di Francesca Bottari… [et al.], Trieste 2011, pp. 91-104 dove l’analisi semantica di

λανθάνω permette di affrontare sotto una nuova luce la questione heideggeriana circa l’uso platonico

(30)

Esempi molto chiari dei significati fin qui considerati hanno chiara attestazione già in Omero, così nell’Odissea (VIII vv. 93-94) Odisseo alla corte dei Feaci sfugge all’attenzione di tutti fatta eccezione per Alcinoo che si rende conto del suo pianto: “ A tutti gli altri sfuggiva (ἑλάνθανε) che versava lacrime, solo Alcinoo a lui fece attenzione e se ne accorse.” E in un passo dell’Iliade (VI vv. 264-265) Ettore rivolgendosi alla madre rifiuta il vino offertogli con queste parole: “No, non offrirmi il dolce vino, nobile madre, chè non mi privi il corpo di forza, e il vigore io dimentichi (λάθωμαι) ”. Come vediamo il verbo viene usato in entrambi i sensi prima considerati, quello di “sfuggire all’attenzione” e quello di “dimenticare” e il soggetto semantico che compie l’azione (Odisseo nel primo caso, Ettore nel secondo) è sempre il fulcro da cui dipende la possibilità della percezione. In questo senso

λανθάνω si differenzia da κρύπτειν e κρυπτεύειν, verbi che in greco indicano

propriamente il nascondere, il celare senza che sia lasciata alcuna possibilità di percezione.

Se adesso consideriamo l’etimologia di ἀλήθεια in riferimento ai significati fin qui considerati, vediamo come già in Omero questo termine venisse usato non per esprimere semplicemente la corrispondenza di qualcosa con la verità33, ma in un senso più ristretto in cui emerge il portato semantico insito nella parola secondo le considerazioni fin qui fatte. Con questo termine infatti si indicava una descrizione o un resoconto dettagliato, non omissivo, che non si lasciava sfuggire nulla di ciò che veniva detto. Non a caso in Omero ἀλήθεια si accompagna spesso al verbo

καταλέγειν che in greco indica l’enumerazione, la descrizione dettagliata. Un

esempio illuminante si trova nel settimo libro dell’Odissea. Qui Odisseo dopo aver raccontato diremmo per filo e per segno le sue avventure alla corte dei Feaci termina la sua esposizione con le parole “e ti ho detto il vero” (ἀληθείην κατέλεξα v. 297). Ovvero, egli ha fornito una descrizione dettagliata completa, che non omette nulla di ciò che è essenziale per raggiungere la completezza dell’esposizione. Oppure si consideri anche il sesto libro dell’Iliade e in particolare il luogo in cui Ettore, tornato a casa non trova la moglie e chiede notizie di Andromaca alle ancelle. Chiede che esse gli dicano “parole infallibili” (νημερτέα μυθήσασθε v. 376). E la dispensiera

33

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risponde esaudendo la richiesta di Ettore che comanda che “dicano cose vere” (ἀληθέα μυθήσασθαι v. 382) ed espone un resoconto dettagliato delle azioni di Andromaca.

Gli esempi in questo senso sono molteplici, essi ci permettono di fare luce sull’uso particolare di questo termine alle origini, un uso indubbiamente legato al suo significato etimologico. D’altronde il fatto che questo termine non fosse usato per indicare in modo generale la verità viene mostrato dall’esistenza e dall’uso omerico di un'altra famiglia di parole: ἐτεός, ἔτυμος, ἐτήτυμος. Questi termini vengono usati in Omero per esprimere la verità nel suo significato più generale senza implicazioni di altro genere, così ad esempio in un passo famosissimo dell’Odissea in cui Odisseo sotto le spoglie del mendicante racconta a Penelope con grande difficoltà quanto ella gli chiede circa il destino del marito, si dice che l’eroe parlando “diceva molte cose false simili alle vere” (ἴσκε ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν ὁμοῖα v. 203). Qui ciò che è vero viene semplicemente opposto a ciò che è falso e non vi è nulla che ci faccia pensare che sia sottesa una richiesta di completezza o la necessità di un resoconto preciso. Così avviene in tutte le altre occorrenze dei termini suddetti, la cui etimologia ci è tuttora ignota, sebbene sia stato ipotizzato un apparentamento con

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. Una derivazione che, se risultasse corretta, mostrerebbe quella coalescenza originaria che nel pensiero greco arcaico si può cogliere tra essere e verità secondo cui ciò che è e anche ciò che è vero. Tuttavia, è da tener conto che sebbene questo temine porti già insita dal punto di vista linguistico (sempre se si accetta l’etimologia) la connessione con “essere”, è pur vero che esso è comunque testimone di una concezione che vale al di là del singolo termine e della sua etimologia e che fa parte di una struttura di pensiero che opera a prescindere dalla parola usata per indicare la verità. Fatta questa precisazione è bene notare come questi termini che inizialmente indicavano la verità nel suo senso più generale poi siano stati sostituiti in quest’uso da ἀλήθεια che ha perso il suo uso più specifico per assumere quello secondo cui qualcosa corrisponde semplicemente alla realtà; mentre ἔτυμος (e i

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