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Valutazione dello stato mutazionale dei geni IDH1 e IDH2 nelle neoplasie gliali pediatriche e adulte

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I

NDICE

INTRODUZIONE 3 I GLIOMI 3 Astrocitoma pilocitico 7 Astrocitoma pilomixoide 13

Astrocitoma subependimale a cellule giganti (SEGA) 13

Astrocitoma diffuso 15

Astrocitoma anaplastico 16

Glioblastoma 17

Glioblastoma multiforme classico 19

Glioblastoma a cellule giganti 20

Gliosarcoma 20

Oligodendroglioma e oligoastrocitoma 22

IL SEQUENZIAMENTO 24

Il metodo Sanger 25

FISIOLOGIA DI IDH 27

SCOPO DELLA TESI 31

MATERIALI E METODI 32

PAZIENTI 32

METODI 33

Estrazione e purificazione del DNA 33

PCR e purificazione 34

(3)

3

Valutazione dello stato di metilazione del promotore del gene MGMT 36

Espressione degli enzimi IDH1, IDH2 e IDH1 R132H 37

RISULTATI 39

Sequenziamento dei geni IDH1 e IDH2 39

Valutazione della metilazione del promotore del gene MGMT 44

Follow-up dei pazienti 46

Valutazione dell’espressione proteica di IDH 48

DISCUSSIONE 50

CONCLUSIONI 71

(4)

4

I

NTRODUZIONE

I GLIOMI

I tumori cerebrali, ovvero quei tumori che interessano il Sistema Nervoso Centrale, sono classificati secondo il sistema indicato dalla World Health Organization (Figura 1) (Louis, 2007), principalmente in base al tipo di tessuto in cui si formano.

Una prima sostanziale divisione viene fatta tra tumori primari e metastatici, per separare quei tumori che originano da tessuto cerebrale da quelli che invece si insediano a livello del SNC in seguito alla formazione di metastasi derivanti da tumori sviluppatisi in altre sedi.

I tumori cerebrali primari sono piuttosto rari, rappresentando meno del 2% di tutti i tumori maligni.

Si suddividono essenzialmente in neoplasie gliali e non gliali. I gliomi di per sé rappresentano il 40-50% di tutti tumori primari del SNC. Si suddividono a loro volta in astrocitomi, oligodendrogliomi, oligoastrocitomi e ependimomi. Gli astrocitomi rappresentano il 75% circa di tutti i gliomi.

Il livello di malignità a cui appartengono le varie tipologie viene indicato in base al sistema di gradazione WHO.

I gliomi di grado I sono considerati neoplasie benigne, con basso potenziale replicativo, che evolvono raramente verso neoplasie di grado superiore e possono essere in genere trattati solamente tramite approccio chirurgico. L’astrocitoma pilocitico e l’astrocitoma subependimale a cellule giganti (SEGA) appartengono a questa classe.

I gliomi di grado II sono ancora considerati gliomi di basso grado, ma presentano una crescita di tipo più invasivo e in alcuni casi tendono a progredire verso neoplasie di grado superiore. La variante astrocitoma pilomixoide, l’astrocitoma diffuso, l’oligodendroglioma e l’oligoastrocitoma sono designati come grado II.

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Figura 1. Classificazione dei tumori del Sistema Nervoso Centrale secondo la World Health Organization (WHO) revisionata nel 2007.

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Figura 1 (continua). Classificazione dei tumori del Sistema Nervoso Centrale secondo la World Health Organization (WHO) revisionata nel 2007.

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I gliomi di grado III fanno parte dei gliomi di alto grado e sono considerati come neoplasie maligne. Sono caratterizzati da elevato potere infiltrante e da anaplasia crescente delle cellule che li compongono. Tendono ad andare incontro a progressione neoplastica. La sola resezione chirurgica non è in genere sufficiente come trattamento di tali tumori. I gliomi di questa classe includono gli astrocitomi anaplastici, gli oligodendrogliomi anaplastici e gli oligoastrocitomi anaplastici.

Il IV grado indica il massimo grado di malignità ovvero la forma più aggressiva delle neoplasie, rappresentata nel caso dei gliomi dal glioblastoma multiforme. L’evoluzione della malattia è generalmente molto rapida e la prognosi rimane infausta nonostante l’intervento terapeutico, che di solito è multidisciplinare e prevede chirurgia, chemioterapia e radioterapia.

Astrocitoma pilocitico

Gli astrocitomi pilocitici (Figura 2) sono neoplasie a lenta crescita, generalmente ben delimitate tipiche delle prime due decadi di vita (bambini-giovani adulti).

Rappresentano circa il 5-6% di tutti i gliomi, e da soli rappresentano il 21-23% di tutti i tumori cerebrali pediatrici. Colpiscono in egual misura entrambi i sessi e nel bambino la localizzazione sovratentoriale di elezione è rappresentata dall’ipotalamo- chiasma ottico seguito dal talamo-gangli della base.

Gli astrocitomi pilocitici in età pediatrica, interessando più frequentemente il cervelletto, clinicamente si manifestano soprattutto con cefalea ingravescente, nausea, vomito.

Il coinvolgimento delle vie ottiche determina deficit visivi, tuttavia vi sono lesioni del chiasma diagnosticate così precocemente con la risonanza magnetica, che non giungono a dare alcun sintomo.

Quando sono coinvolti l’ipotalamo e l’ipofisi possono dare segno di sé clinicamente con obesità o diabete insipido. Le lesioni che interessano il talamo in genere si presentano con sintomatologia ostruttiva ed emiparesi per fenomeni compressivi sulla capsula interna. Le lesioni del ponte hanno come conseguenza l’insorgenza di idrocefalo.

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Figura 2. Astrocitoma pilocitico (EE, 10X).

Il quadro istologico classico è rappresentato da un pattern bifasico con una proporzione variabile di tessuto compatto, costituito da cellule bipolari di aspetto piloide (cellule allungate con processi hair-like) con nucleo allungato e fibre di Rosenthal (che non sono né specifiche né indicative di neoplasia) frammisto ad un tessuto più lasso, microcistico, costituito dai cosiddetti astrociti protoplasmatici (cellule rotondeggianti, con processi corti e tozzi, nucleo tondo-ovalare) e gocce ialine o corpi granulari eosinofili , frammisti ai processi astrocitari.

Le cellule piloidi sono fortemente positive alla GFAP, mentre gli astrociti protoplasmatici mostrano solo una debole positività dovuta alla scarsità di fibrille all’interno dei loro processi.

Soprattutto le lesioni cerebellari possono avere nel loro contesto cellule oligodendroglioma-like, sia disposte in lamine che disperse nel parenchima.

Le mitosi sono rare (Mib-1 varia tra lo 0 ed il 3.9% ma in genere è inferiore ad 1%). Possono essere presenti, senza indicare un’evoluzione maligna, anche nuclei pleomorfi ed ipercromatici, proliferazione vascolare di tipo glomeruloide a pareti ialine, necrosi (senza le palizzate) ed infiltrazione delle leptomeningi.

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Poiché tipicamente il decorso è indolente sono frequenti nell’ambito della lesione fenomeni regressivi: pseudoinclusioni nucleo-citoplasmatiche, strutture vascolari ectasiche, a pareti ialine, calcificazioni, necrosi ed infiltrato linfoide, anche con disposizione peri-vascolare.

Le cisti sono frequenti, e sono fattori importanti per inquadrare la lesione come grado I; contengono al loro interno un fluido ricco in fattori che stimolano la proliferazione vascolare.

Gli astrocitomi pilocitici sono un gruppo molto eterogeneo di lesioni con differenze anche sostanziali, infatti, non solo nelle diverse localizzazioni ma anche nell’ambito della stessa lesione spesso convivono più pattern che possono rendere difficile la diagnosi soprattutto per la mancanza di marker specifici di tipo immunoistochimico e molecolare.

Il pattern di crescita è tipicamente non infiltrante, ma da un punto di vista microscopico alcune lesioni sono molto meno definite di quanto non sembri macroscopicamente, tuttavia a differenza degli astrocitomi diffusi, gli astrocitomi pilocitici hanno un aspetto abbastanza solido e non interessano in modo marcato il tessuto sano circostante .

Le lesioni del nervo ottico invece hanno tutte un pattern di crescita meno circoscritto. Oggi alcuni ricercatori propongono di inserire anche una variante “diffusa” di astrocitoma pilocitico.

L’infiltrazione dello spazio subaracnoideo è frequente e caratteristica ma non indice di un comportamento aggressivo, anzi può anche essere un valido aiuto dal punto di vista diagnostico. L’invasione leptomeningea è frequente nei tumori cerebellari e può anche essere presente estensione agli spazi perivascolari.

Ad oggi, per gli astrocitomi pilocitici, sono state identificate numerose alterazioni cromosomiche sia numeriche che strutturali.

Gli astrocitomi pilocitici sporadici (PA) differiscono dal punto di vista clinico e per la storia naturale da quelli che insorgono nel contesto della neurofibromatosi di tipo I (NFI-PA).

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Nello sviluppo degli astrocitomi pilocitici non sembrano rivestire alcun ruolo le mutazioni di TP53 o l’aumentata espressione di PDGF che invece sono eventi precoci e molto comuni nello sviluppo degli astrocitomi diffusi.

Le alterazioni più frequenti coinvolgono il cromosoma 7 (a livello della banda 7q34 con alterazioni del gene BRAF) (Jones, 2008) ed 8 (su cui è stato identificato il gene MATN2) (Qaddoumi, 2009).

La matrillina-2 è una proteina della matrice extracellulare, che ha un ruolo fondamentale nel determinare il microambiente che influenza la crescita, la proliferazione e la differenziazione cellulare.

Questa proteina è sovra-espressa negli astrocitomi pilocitici sporadici rispetto a quelli NF1 correlati, nei sovratentoriali rispetto ai sottotentoriali, e la sua sovra-espressione si associa anche ad un comportamento clinico più aggressivo (elevata incidenza di recidive ed esito infausto).

Anche l’attivazione del gene BRAF (che è un effettore del sistema MAPK), che nella maggior parte dei casi è una duplicazione e in una minoranza consiste in una mutazione attivante, oggi sembra svolgere un ruolo importante nella genesi degli astrocitomi pilocitici sporadici (Horbinski, 2010). Mutazioni del gene BRAF sembrano associarsi maggiormente ad una localizzazione sopratentoriale, a neoplasie recidivanti e agli astrocitomi pilocitici che per la sede di insorgenza vanno incontro ad una asportazione chirurgica incompleta.

Un’altra possibile alterazione genetica negli astrocitomi pilocitici sembrerebbe consistere nell’attivazione del sistema PI3K (fosfatidilinositolo-3 chinasi), che è un sistema di effettori che prevengono l’apoptosi ed influenzano l’adesione cellulare. Il pattern genetico alterato negli astrocitomi pilocitici associati alla neurofibromatosi di tipo 1 è completamente distinto da quello degli astrocitomi pilocitici sporadici.

La neurofibromatosi di tipo I è una malattia autosomica dominante che affligge 1 individuo ogni 3000. I pazienti che ne sono affetti sono maggiormente a rischio di sviluppare tumori del Sistema Nervoso Centrale, in particolare nel 15-20% dei casi sviluppano gliomi delle vie ottiche.

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La perdita di espressione del gene NF1 sul cromosoma 17q è la principale differenza genetica fra forme sporadiche degli astrocitomi pilocitici e forme legate alla NF1 (Wong, 2005).

La neurofibromina, una proteina citoplasmatica che è il prodotto del gene NF1 ed agisce come oncosoppressore, si comporta come regolatore negativo di RAS, esercitando attività GTP-asica su RAS quando questo è legato al GTP, e convertendolo in RAS legato al GDP.

Normalmente RAS, che per esercitare la sua funzione deve trovarsi sulla membrana cellulare, viene attivato da un recettore tirosino-chinasico quale ad es. EGFR.

La perdita di espressione del gene comporta un’attivazione selettiva di RAS con la conseguente attivazione di una serie di sistemi a cascata e di mediatori mitogenici, quali AKT, ERK, RAF, PI3K e uno dei suoi target mTOR (Qaddoumi, 2009; Tatevossian, 2010).

m-TOR è una serina-treonina chinasi coinvolta nella sintesi proteica e nella crescita cellulare che può venire attivata da AKT.

La nuerofibromina attraverso RAS esercita una inibizione negativa dell’attivazione di m-TOR per cui la perdita di espressione di questa comporta l’iperattivazione di m-TOR. (Figura 3).

Gli astrocitomi pilocitici non sono tumori benigni in senso stretto, in quanto spesso l’asportazione chirurgica completa non è attuabile per la sede di insorgenza e proprio in virtù di questo aspetto la permanenza di lesione può avere un’importante ripercussione sulla vita quotidiana dei pazienti. Tuttavia per quanto riguarda il comportamento biologico nel tempo, gli astrocitomi pilocitici in genere rimangono stabili nel tempo o vanno incontro a regressione piuttosto che a progressione, e molto raramente danno metastasi (3-5% dei casi alla presentazione, 7-10% dei casi dopo progressione).

I pochi casi andati incontro a trasformazione maligna erano stati precedentemente irradiati, facendo quindi pensare che le radiazioni possano facilitare la progressione, ma per alcuni autori questo è un fenomeno del tutto indipendente dalla terapia radiante (Broniscer, 2007).

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Figura 3. Vie di trasduzione del segnale innescate dall’attivazione del recettore per l’EGF (Qaddoumi et al. Cancer Biol Ther, 2009).

Sembra che i casi che vanno in contro a trasformazione maligna mostrino una maggiore incidenza di iper-espressione di p53 e una delezione di PTEN (Horbinski, 2010).

Da un punto di vista istologico gli astrocitomi pilocitici progrediti verso la malignità presentano necrosi a palizzate, elevato indice mitotico e proliferazione vascolare ma non vengono considerati glioblastomi quanto piuttosto astrocitomi anaplastici.

Lesioni del cervelletto con una componente solida prevalente sembrano avere un comportamento più aggressivo.

Generalmente gli astrocitomi associati ad NF1 hanno una progressione molto lenta e rimangono stabili per molti anni, e sembrano avere un comportamento meno aggressivo delle lesioni sporadiche.

Per quanto riguarda i fattori biologici e clinici di rischio sono molti gli studi, ma ancora non c’è assolutamente chiarezza. La presenza di indice mitotico elevato associato a necrosi non sembrano essere un fattore prognostico negativo.

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13 Astrocitoma pilomixoide

E’ una neoplasia piloide corrispondente ad un grado WHO II, strettamente correlata all’astrocitoma pilocitico, caratterizzata da una matrice mucoide molto spiccata, dalla disposizione angiocentrica delle cellule piloidi e dall’assenza sia delle fibre di Rosenthal che dei corpi eosinofili.

Rappresenta una neoplasia tipica dei bambini molto piccoli (10 mesi). La distribuzione fra maschi e femmine non mostra sostanziali differenze.

La localizzazione più frequente è rappresentata dalla regione ipotalamo/chiasmatica, ma altre sedi sono rappresentate dal talamo, lobo temporale, cervelletto e midollo spinale. L’aspetto alla risonanza magnetica è di una massa circoscritta, a bordi non ben definiti con un segnale di impregnazione omogeneo. Talvolta può presentarsi già con disseminazione al midollo spinale.

L’aspetto dominante è rappresentato dalla matrice mucoide, da cellule bipolari monomorfe che mostrano preferenzialmente un arrangiamento angiocentrico (formazione di pseudo-rosette). Le cellule possono disporsi anche lungo l’asse maggiore dei vasi.

Possono essere presenti mitosi e rara è la comparsa di necrosi. Il Mib-1 è compreso tra il 2 ed il 20%. La proliferazione vascolare può assumere aspetto glomeruloide associata a degenerazione cistica.

Le cellule neoplastiche mostrano in immunoistochimica una positività forte e diffusa alla GFAP, S-100 ed alla vimentina.

Gli astrocitomi pilomixoidi hanno un comportamento più aggressivo dei pilocitici, mostrando una frequenza più elevata di recidive locali e di diffusione cerebrospinale, ed infatti vengono classificati dal WHO come grado II.

Astrocitoma subependimale a cellule giganti (SEGA)

E’ un tumore benigno, a lenta crescita, che tipicamente insorge a livello della parete dei ventricoli laterali ed in genere si associa alla sclerosi tuberosa (Figura 4).

I SEGA si hanno nel 6-14% dei casi di tumori del sistema nervoso centrale e rappresentano anche uno dei criteri principali di diagnosi di sclerosi tuberosa (Goh, 2004). E’ un tumore tipico delle prime due decadi di vita.

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I sintomi tipici sono legati all’aumento della pressione intracranica e ad un peggioramento dell’epilessia.

Figura 4. Astrocitoma subependimale a cellule giganti (EE, 10X).

In genere sono lesioni circoscritte composte da cellule grandi che ricordano gli astrociti dove possono essere presenti calcificazioni.

Le cellule possono essere grandi, di forma poligonale con abbondante citoplasma chiaro (tipo ghemistociti), oppure più piccole, di forma allungata immerse in una matrice fibrillare.

I nuclei hanno una cromatina finemente granulare, con nucleoli evidenti. Possono esserci anche un discreto polimorfismo nucleare, cellule multinucleate, una vivace attività mitotica, proliferazione vascolare e necrosi senza però che questi aspetti abbiano un significato prognostico (Jozwiak, 2005).

Un aspetto molto caratteristico della lesione è la presenza di un infiltrato linfoide in genere a linfociti T. Altri aspetti molto comuni sono rappresentati dalla formazione di cluster di cellule tumorali e dalla disposizione perivascolare a formare pseudopalizzate. Le cellule sono positive alla proteina S-100 ed alla GFAP.

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Nei casi di SEGA con TSC il tratto genetico principale è rappresentato da alterazioni del locus TSC1 sul cromosoma 9q e del locus TSC2 sul cromosoma 16p (Kim, 2001). Entrambi i geni si comportano come oncosoppressori.

Il complesso TSC1/2 (tuberina/amartina) inattiva Rheb, omologo di RAS, che rappresenta un altro meccanismo di attivazione di mTOR (Figura 3). Gli inibitoti di mTOR, come la rapamicina, sono allo studio sia in trials clinici che preclinici (Sharma, 2004).

Astrocitoma diffuso

L’astrocitoma diffuso è un glioma di basso grado di tipo astrocitario classificato come grado II nel sistema WHO. Si tratta di un tumore ad alta capacità infiltrativa, dai limiti non definiti, che insorge più frequentemente in soggetti giovani adulti, nella terza e quarta decade di vita.

Sono proliferazioni di elementi cellulari che ricapitolano i diversi tipi astrocitari e che per questo possono mostrare differenti aspetti morfologici: astrocitomi fibrillari, protoplasmatici e gemistocitici. Microscopicamente questa tipologia di tumore mostra una bassa densità cellulare, una scarsa necrosi e una rete fibrillare o materiale mucoide basofilo che separa gli elementi cellulari. L’atipia e l’attività mitotica risultano scarse così come la componente vascolare che però rimane variabile.

Gli astrocitomi fibrillari si localizzano nella sostanza bianca emisferica e sono tumori molto infiltranti. Le cellule hanno un nucleo piccolo e sono immerse in un denso tessuto fibrillare. Gli astrocitomi protoplasmatici si localizzano in aree superficiali e mostrano un aspetto macroscopico gelatinoso e molle dovuto alla bassa densità cellulare. Le cellule hanno un nucleo rotondo e sono distribuite tra numerosi microcisti tissutali contenenti di materiale proteinaceo basofilo. Gli astrocitomi gemistocitici sono poco frequenti e sono composti da cellule con ampio citoplasma eosinofilo e un nucleo eccentrico.

Gli approcci terapeutici prevedono la resezione chirurgica, quando possibile senza provocare danni neurologici eccessivi, la radioterapia e la chemioterapia.

Frequentemente si assiste alla progressione di questi tumori verso forme più anaplastiche e maligne, rappresentate dal glioblastoma.

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16 Astrocitoma Anaplastico

L’astrocitoma anaplastico è una patologia maligna di grado III, infiltrante il tessuto circostante, in genere tipico degli adulti. L’incidenza degli astrocitomi anaplastici è lievemente maggiore nel sesso maschile, l’età media più frequentemente colpita è 46 anni.

La sede di insorgenza di elezione è rappresentata dagli emisferi cerebrali. Può insorgere

de novo, rappresentare l’evoluzione di una lesione di grado II ed evolvere in

glioblastoma.

L’aspetto peculiare di queste lesioni è rappresentato dall’incremento della cellularità, con cellule con atipia nucleare, attività mitotica spiccata (Mib-1: 5-10%) e comportamento infiltrante. I nuclei sono pleomorfi, con anisonucleosi marcata, cromatina granulare, dispersa, nucleoli prominenti ed aumentati di numero (Figura 5). Possono essere presenti anche cellule multinucleate e mitosi atipiche. La necrosi è generalmente assente mentre scarsa risulta l’iperplasia dell’endotelio vascolare.

Figura 5. Astrocitoma anaplastico (EE, 20X).

Gli astrocitomi anaplastici con elevata frequenza presentano mutazioni di TP53, LOH 17p (50-60% dei casi). Nel 35-60% dei casi presentano anche LOH 10q e nel 18-23% dei casi mutazioni di PTEN (Kwon, 2008).

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Mentre LOH 22q ha una frequenza simile a quella che si ha negli astrocitomi di basso grado, LOH 19q è molto più frequente negli astrocitomi anaplastici. Le amplificazioni di EGFR invece sono molto rare.

Molti astrocitomi anaplastici derivano da una de differenziazione o degenerazione maligna di un astrocitoma di grado inferiore e mostrano una spiccata tendenza ad evolvere a glioblastoma. L’età avanzata costituisce un fattore prognostico negativo, così come, dal punto di vista delle alterazioni genetiche, l’amplificazione di EGFR (Mizoguchi, 2006).

Glioblastoma Multiforme

Il glioblastoma multiforme rappresenta il 12-15% di tutti i tumori intracranici e il 60-75% di tutti i tumori gliali. Nei paesi occidentali la sua incidenza è pari a 3-4 nuovi casi per 100.000 abitanti/anno.

Può colpire qualsiasi fascia d’età ma tipicamente è una lesione dell’adulto (età media 63 anni), solo 1% dei casi si manifesta sotto i 20 anni ed eccezionali sono i casi congeniti. Il sesso maschile è più colpito.

La sede più frequentemente coinvolta è rappresentata dalla sostanza bianca degli emisferi cerebrali con l’interessamento fronto-temporale.

Sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di lesioni uniche, circa il 10% dei glioblastomi è multicentrico.

Nei bambini le sedi più frequenti sono i gangli della base ed il talamo.

Fattori genetici e fattori ambientali determinano un aumentato rischio di insorgenza di questa neoplasia. Tra i fattori ambientali, le radiazioni ionizzanti, il petrolio e i derivati del petrolio sono quelli per i quali esistono maggiori evidenze di una azione cancerogena a livello del sistema nervoso. Un aumento di incidenza del glioblastoma multiforme è infatti stato segnalato in pazienti sottoposti a terapia radiante per pregressi tumori intracranici e tra i lavoratori delle industrie di raffinazione del petrolio.

In genere la storia clinica di questi pazienti è estremamente breve (tranne che nel caso dei glioblastomi multiformi secondari). I sintomi ed i segni sono comunque legati ad un aumento della pressione intracranica (cefalea, nausea, vomito e papilledema) mentre altri sintomi sono legati a manifestazioni di tipo epilettico. Talvolta quando è coinvolto

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il lobo frontale possono manifestarsi anche sintomi extra-neurologici quali i cambiamenti di personalità.

Come già sostenuto nel 1940 da Scherer tra i glioblastomi multiformi si riconoscono forme primitive originate come tali ab initio e forme secondarie, derivanti da una precedente neoplasia gliale di cui ne rappresenterebbero la tappa finale della progressione neoplastica.

È ormai accertato che le due forme di glioblastoma seguono nella loro insorgenza ed evoluzione un percorso genetico diverso configurandosi così due distinte entità patologiche (Ohgaki, 2007).

Anche l’epidemiologia, la clinica e la prognosi sono differenti nelle due forme di glioblastoma.

Le lesioni primitive rappresentano tuttavia la maggioranza dei glioblastomi. I più colpiti sono i pazienti di età adulta-avanzata (in media 55 anni) la cui sintomatologia clinica di esordio generalmente risale a meno di 3 mesi prima della diagnosi.

Il glioblastoma secondario, al contrario, colpisce più spesso pazienti di età inferiore ai 45 anni ed evolve attraverso un processo di progressione neoplastica che trae le sue radici da un pregresso glioma diffuso di basso grado clinicamente riconosciuto o meno. Tale progressione neoplastica si attua in un arco di tempo variabile da pochi mesi a oltre 10 anni con una media di 4-5 anni. Sembra inoltre più rapida nei pazienti più anziani.

L’aspetto istologico del glioblastoma multiforme (Figura 6) è quanto mai variabile al punto che la natura astrocitaria della lesione non sempre risulta di immediato riconoscimento.

Attualmente, su indicazione della recente classificazione dei tumori del sistema nervoso della WHO vengono riconosciute una forma classica che raggruppa la quasi totalità dei glioblastomi indipendentemente dall’aspetto morfologico, e due varianti più rare rappresentate dal glioblastoma a cellule giganti e il gliosarcoma.

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Figura 6. Glioblastoma multiforme (EE, 10X).

Glioblastoma Multiforme Classico

Generalmente si tratta di tumori riccamente cellulati con numerose mitosi e marcato pleomorfismo. Il glioblastoma multiforme può essere costituito da cellule di piccole dimensioni con citoplasma scarso e nucleo ipercromatico di forma rotondeggiante linfocito-simile o fusata, da cellule giganti epiteliomorfe, stellate con più o meno marcate bizzarrie nucleari o ancora da cellule multinucleate. Talora il glioblastoma mostra una netta prevalenza di solo una di queste tipologie cellulari, altre volte i vari aspetti cellulari possono trovarsi frammisti tra loro. Sul piano morfologico gli aspetti caratterizzanti sono rappresentati dalla necrosi e dalla proliferazione vascolare.

La necrosi è legata sia all’insufficiente apporto ematico al tessuto in rapida crescita che ad eventi trombotici che si realizzano nel tumore. Le aree necrotiche possono essere ampie o limitate. In generale, specie quando sono di piccole dimensioni, mostrano un limite netto verso il tessuto adiacente. In corrispondenza di questo i nuclei delle cellule adiacenti all’area di necrosi si allineano a formare palizzate peri-necrotiche. Queste piccole aree di necrosi con gli adiacenti nuclei orientati parallelamente tra di loro costituiscono caratteristiche strutture nastriformi dal profilo sinuoso. Quando invece la

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necrosi è molto estesa acquista l’aspetto di una grossa area di rammollimento. Talora la necrosi interessa unicamente piccole aree inter-vasali risparmiando le cellule più vicine ai vasi configurandosi aspetti simil papillari o a pseudo-rosetta.

La proliferazione vascolare rappresenta uno degli aspetti peculiari del glioblastoma multiforme e numerosi sono i fattori coinvolti in questa crescita angiogenetica tra i quali: il fattore di crescita legante l’eparina, l’FGF (Fibroblast Growth Factor), l’ECGF (Endotelial Cell Growth Factor), il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor). L’endotelio è iperplastico e le pareti vasali conseguentemente ispessite . I vasi iperplastici costituiscono in maniera caratteristica un fronte di vascolarizzazione alla periferia delle aree di necrosi più estese.

Talora è inoltre possibile osservare un infiltrato infiammatorio linfo-plasmacellulare a manicotto perivasale più evidente ai margini della lesione.

Glioblastoma a cellule giganti

Il glioblastoma a cellule giganti è una variante rara del glioblastoma multiforme rappresentando circa l’1% di tutti i tumori cerebrali e il 5% dei glioblastomi. Esso insorge preferenzialmente nel lobo temporale di soggetti in età più giovanile (età media 42 anni) rispetto al glioblastoma multiforme classico. Rispetto a quest’ultimo, inoltre, si caratterizza per una più lunga sopravvivenza dei soggetti colpiti. Sul piano morfologico il glioblastoma a cellule giganti è costituito da cellule di grossa taglia, spiccatamente pleomorfe e spesso multinucleate nel contesto di una marcata reazione stromale documentata dalla positività per le specifiche colorazioni istochimiche (impregnazione argentica). Le mitosi possono mancare, i fenomeni necrotici sono poco pronunciati e l’iperplasia vascolare generalmente assente. Mutazioni nei geni p53 e PTEN sono frequenti e precoci mentre raramente si documentano iper-espressione di EGFR o delezioni in omozigosi di p16. Questo profilo genetico pone il glioblastoma a cellule giganti in una posizione intermedia tra il glioblastoma primitivo (frequenti mutazioni di PTEN) e il glioblastoma secondario (frequenti mutazioni di p53).

Gliosarcoma

Il gliosarcoma, termine questo introdotto sul finire del XIX secolo da Stroebe, viene così denominato in quanto caratterizzato dalla contemporanea presenza di due fenotipi

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cellulari neoplastici, uno di natura gliale e l’altro a differenziazione mesenchimale. Nel passato si riteneva che la componente mesenchimale traesse origine dalle pareti vasali, tuttavia recenti studi di citogenetica hanno definitivamente accertato che entrambe le componenti sono in realtà di natura gliale.

Il gliosarcoma si localizza di preferenza in corrispondenza dei lobi temporale e frontale. L’età di insorgenza è la stessa del glioblastoma classico, la prognosi, con i limiti legati all’esiguità delle casistiche pubblicate, migliore. Macroscopicamente il gliosarcoma ha colorito grigiastro, consistenza dura e limiti apparentemente ben definiti rispetto al tessuto sano peri-lesionale. Il quadro microscopico è caratterizzato dalla presenza di aree costituite da elementi fusocellulari negativi all’immunoistochimica per la proteina gliofibrillare acida (GFAP) che invece marca positivamente la componente gliale della lesione. Quest’ultima può presentarsi in maniera distinta e separata rispetto alla componente sarcomatosa o insinuarsi in questa in maniera dispersa.

Il profilo genetico del gliosarcoma è simile a quello del classico glioblastoma multiforme ed è lo stesso nelle due componenti neoplastiche a conferma della stessa origine monoclonale di entrambe.

L’approccio terapeutico per i glioblastomi è basato tradizionalmente sull’intervento chirurgico (con la finalità di asportare la massima parte della lesione nel rispetto delle aree critiche dell’encefalo) seguito dalla radioterapia adiuvante.

Buoni risultati si ottengono anche con la somministrazione di farmaci chemioterapici classici (procarbazina, CCNU e vincristiva) mentre gli effetti di farmaci di nuova generazione quali il topotecano, taxolo, temozolomide sono ancora in corso di valutazione.

Alcuni glioblastomi multiformi mostrano tuttavia una maggiore sensibilità alla chemioterapia. Questi glioblastomi si caratterizzano sul piano morfologico per la presenza di diffuse aree a differenziazione oligodendrogliale e sul piano genetico per una elevata incidenza di delezioni a carico dei cromosomi 1p e 19q. Secondo alcuni autori questo gruppo di lesioni potrebbe avere una comune origine oligodendrogliale e, così come gli oligodendrogliomi, mostrare una particolare sensibilità alla chemioterapia. L’individuazione di quei glioblastomi multiformi in cui sia preponderante una

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cellularità di tipo oligodendrogliale e l’individuazione di delezioni dei loci specifici 1p36/1q25 e 19q13/19p13 mediante tecnica FISH (Fluorescence In Situ Hybridization può pertanto selezionare quei pazienti verosimilmente responsivi alla chemioterapia. La prognosi del glioblastoma multiforme, nonostante ogni sforzo terapeutico, è infausta. La sopravvivenza media dei pazienti affetti da questa neoplasia, anche quando l’escissione chirurgica sia stata radicale e siano state somministrate terapie adiuvanti, è di 6-12 mesi.

Oligodendroglioma e oligoastrocitoma

Le neoplasie a base oligodendrogliale sono relativamente poco comuni, rappresentando circa il 5% di tutti i gliomi. Compaiono in adulti di età medio-alta e si localizzano preferenzialmente nella sostanza bianca delle regioni sopratentoriali, specialmente nei lobi frontali.

La sintomatologia tipica è data dalle crisi epilettiche, ma possono presentarsi anche deficit neurologici, vomito, cefalea e gli altri sintomi dovuti a pressione endocranica. Non è rara anche la manifestazione di disturbi della personalità.

L’aspetto macroscopico è quello di una neoformazione infiltrante, molle, rosata e molte volte di aspetto congestizio. I limiti con il tessuto peritumorale sono generalmente sfumati e frequenti sono le calcificazioni intratumorali.

All’analisi istologica (Figura 7) si presenta con una densa proliferazione di cellule piccole, con nuclei isomorfi, rotondi, unici e centrali, di volume omogeneo. Il citoplasma risulta piuttosto sparso e non facilmente identificabile in alcune cellule. Le mitosi sono rare eccetto nelle neoplasie con caratteristiche anapestiche come il pleomorfismo citologico, la proliferazione micro vascolare e le aree necrotiche.

Le perdite alleliche sui cromosomi 1p/19q (spesso associate) sono presenti in circa l’80% degli oligodendrogliomi e sono considerati eventi precoci. La delezione in omozigosi del gene CDKN2A (p16) sul cromosoma 9p avviene in più del 40% degli oligodendrogliomi anaplastici e l’iper-espressione dell’EGFR, non dovuta ad amplificazione genica, è frequente (Kraus, 2001).

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Figura 7. Oligodendroglioma Anaplastico (EE, 4X).

Si distinguono oligodendrogliomi di basso grado (WHO II) e oligodendrogliomi anaplastici (WHO III) in base al grado di densità cellulare, all’atipia, al numero di mitosi e all’estensione della necrosi.

La recidiva è frequente e alcuni casi si disseminano attraverso il liquido cefalorachidiano. La sopravvivenza di 5 anni si attesta intorno al 50% quando si aggiunge la radioterapia alla chirurgia.

Gli oligoastrocitomi, piuttosto rari, sono tumori gliali misti, i quali contengono sia componenti astrocitiche che oligodendrogliali. Possono contenere due aree distinte , una con cellule con caratteristiche tipiche astrocitarie e l’altra con comportamento da oligodendroglioma, oppure possono consistere in cellule che mostrano contemporaneamente caratteristiche di entrambi i tipi cellulari. Analogamente agli oligodendrogliomi, si suddividono in base all’aggressività in oligoastrocitomi grado II WHO, e oligoastrocitomi anaplastici (WHO III).

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SEQUENZIAMENTO DEL DNA

Il sequenziamento è una tecnica che permette di determinare la sequenza lineare formata da basi nucleotidiche che costituiscono la molecola di DNA.

Nel corso degli anni lo sviluppo di tecniche che permettessero di sequenziare il DNA ha offerto la possibilità, in una vasta gamma di applicazioni, di andare incontro a tutta una serie di progressi scientifici, che altrimenti non sarebbero mai stati realizzabili senza l’opportunità di andare a studiare il patrimonio genetico nella sua composizione.

Dalle prime tecniche rudimentali, che prevedevano numerosi passaggi molto laboriosi, e che portavano all’ottenimento di corte sequenze in lunghi tempi di lavorazione, nel corso degli anni si sono sviluppate tecniche sempre più avanzate, più rapide e soprattutto automatizzabili.

Proprio l’automazione e la possibilità di analizzare un elevato numero di sequenze in tempi relativamente brevi con il minimo intervento da parte dell’operatore, ha permesso la diffusione dell’utilizzo di questa tecnica in vari settori, che inizialmente era invece limitato nell’ambito della ricerca scientifica altamente sofisticata.

Attualmente il sequenziamento del DNA può essere utilizzato sempre più frequentemente anche nell’ambito della diagnostica medica e non solo all’interno dei laboratori di ricerca: ad esempio, può essere utilizzato per individuare la presenza di acidi nucleici batterici o virali in diagnostica microbiologica, oppure per la diagnosi e lo studio di malattie genetiche ereditarie, o ancora come supporto diagnostico e prognostico per tutte quelle malattie derivanti o associabili ad alterazioni genetiche acquisite, come ad esempio nei tumori, o anche come supporto terapeutico legato al recentissimo sviluppo della farmacogenetica.

Lo sviluppo dei metodi per la determinazione della sequenza del DNA ha dunque rivoluzionato lo studio del DNA stesso, ma anche di tutte quelle entità biologiche la cui struttura è regolata e determinata dal DNA, ed ha anche permesso la comprensione di numerosi fenomeni, partendo dal presupposto che tutta l’informazione genetica alla base della materia vivente risiede nella specifica successione di basi che compone la molecola di acido nucleico.

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25 Il metodo Sanger

Il metodo sviluppato da Sanger nel 1977 (Sanger, 1977) è conosciuto anche come metodo enzimatico o dei nucleotidi terminatori ed è la base delle tecniche di sequenziamento attuali.

Il termine “enzimatico” si riferisce al fatto che la reazione si basa sull’estensione di un frammento di DNA a partire da un filamento stampo della molecola, utilizzando un primer come innesco e un enzima, la DNA polimerasi, che catalizza la reazione partendo dall’estremità 3’ del primer e incorporando le basi complementari a quelle che formano la sequenza del filamento di DNA target.

La definizione di metodo “di terminazione di catena” o “di nucleotidi terminatori” è dovuta al fatto che nella reazione di sequenziamento vengono utilizzati, insieme ai normali dNTP, dei particolari nucleotidi, i dideossinucleotidi (ddNTP), che, una volta incorporati dalla polimerasi nella molecola di DNA in estensione, bloccano l’ulteriore allungamento del filamento ad opera dell’enzima impedendo l’incorporazione del nucleotide successivo.

Questi particolari nucleotidi sono perfettamente complementari alle basi naturali e presentano un’unica differenza rispetto ad esse, ovvero sono privi del gruppo ossidrilico (-OH) in posizione 3’(Figura 8).

Figura 8. Differenze strutturali tra dideossinucleotidi (a sinistra) e desossinucleotidi (a destra). Il gruppo 3’OH è il gruppo funzionale necessario affinché possa avvenire il legame fosfodiesterico tra l’ultimo nucleotide incorporato nella catena e il nucleotide successivo.

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In pratica la miscela di reazione deve contenere, oltre ai dNTP normali, i ddNTP, la cui quantità presente deve essere in un preciso rapporto con gli altri nucleotidi, in modo che nel corso della reazione si formi una serie di frammenti che terminino con tutte le possibili posizioni dei nucleotidi, in quanto l’incorporazione dei ddNTP al posto dei nucleotidi normali è puramente casuale.

Al termine della reazione di sequenziamento, quindi, il prodotto che si ottiene è una miscela di frammenti di acido nucleico a singolo filamento di varie lunghezze, presentanti tutti la stessa estremità di partenza, che corrisponde all’estremità 5’ del primer usato come innesco per la reazione di polimerizzazione, ma che terminano in punti diversi della sequenza originale. Statisticamente i frammenti formatisi termineranno in ogni possibile punto della catena di acido nucleico e rappresenteranno dunque le posizioni di tutte le basi che compongono la sequenza del frammento di DNA stampo.

Utilizzando un sistema di separazione, come l’elettroforesi capillare, che permetta di discriminare tra frammenti più lunghi l’uno dell’altro di una sola base, è dunque possibile ricostruire l’esatta sequenza della porzione di DNA in analisi, leggendo la sequenza dal frammento più corto a quello più lungo e potendo associare ad ogni frammento la base con cui esso termina, sapendo qual è il tipo di ddNTP che ha causato l’arresto dell’allungamento della catena.

La distinzione tra i quattro ddNTP si basa su un sistema di rivelazione in fluorescenza, basato sull’utilizzo di quattro diversi fluorocromi, ognuno associato ai frammenti terminanti con una specifica base nucleotidica, e riconoscibili tra loro per il tipo di emissione che li caratterizza, specifica per ogni fluorocromo e ben distinguibile da quella degli altri marcatori.

Con la tecnica “dye-terminator” i fluorocromi sono legati ognuno ad un diverso ddNTP e la marcatura viene incorporata nello stesso momento in cui viene provocata l’interruzione dell’estensione della catena di acido nucleico (Prober, 1987). Questo permette di poter eseguire la separazione dei frammenti in un’unica corsa elettroforetica, contenente contemporaneamente tutte e quattro le classi di nucleotidi terminatori (ddATP, ddTTP, ddGTP, ddCTP). Questo perché l’emissione del segnale è legata direttamente alla base che provoca l’arresto della reazione: il ddNTP incorporato

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quindi non solo provoca la formazione del frammento, ma determina anche la specificità del segnale emesso dal frammento stesso e conseguentemente la sua identificazione.

FISIOLOGIA DI IDH

L’enzima isocitrato deidrogenasi (IDH) catalizza la decarbossilazione ossidativa dell’isocitrato (un alcol secondario) ad α-chetoglutarato e CO2, riducendo il NAD+ o il NADP+ a NADH o NADPH, rispettivamente. Il processo prevede l’ossidazione dell’isocitrato ad ossalsuccinato (un chetone), con il NAD(P)H come accettore di elettroni, seguito dalla decarbossilazione dell’ossalsuccinato ad α-chetoglutarato (Figura 9). L’energia libera totale per questa reazione è di -8.4 kJ/mol.

Figura 9. Schema della reazione catalizzata dall’enzima isocitrato deidrogenasi. Si ha prima l’ossidazione dell’isocitrato ad ossalsuccinato con formazione di NADPH; in seguito avviene la decarbossilazione dell’ossalsuccinato ad α-chetoglutarato con liberazione di CO2.

Questa reazione avviene generalmente durante il terzo passaggio del ciclo dell’acido citrico (o di Krebs) ma alcune isoforme enzimatiche presenti nel citosol e nei perossisomi catalizzano la reazione al di fuori del ciclo di Krebs.

La tappa nel ciclo dell’acido citrico dove interviene IDH è una delle reazioni irreversibili di questo ciclo e dunque può essere finemente regolata sia dalla quantità di substrato che di prodotto.

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L’isocitrato deidrogenasi viene stimolata allo stericamente dall’ADP, che aumenta la sua affinità per il substrato. Il legame dell’isocitrato, del NAD+

, del Mg+ e dell’ADP è mutualmente cooperativo. Al contrario, il NADH inibisce l’isocitrato deidrogenasi sostituendosi direttamente al NAD+ sull’enzima; anche l’ATP ha un effetto inibitore. Nell’uomo esistono tre isoforme di isocitrato deidrogenasi: due sono NADP+-dipendenti (IDH1 e IDH2), mentre l’altra (IDH3) è NAD+-dipendente.

IDH1 e IDH2 presentano elevate analogie nella loro sequenza (nell’uomo circa il 70%), catalizzano reazioni reversibili e non hanno modificatori allosterici conosciuti (Reitman, 2010). Queste isocitrato deidrogenasi si strutturano come dimeri e, nello specifico, come omodimeri.

La reazione catalizzata da IDH3 invece è irreversibile ed è regolata da una serie di effettori positivi (calcio, ADP, citrato) e negativi (ATP, NADH, NADPH).

All’interno del genoma umano sono presenti 5 geni che codificano per questi enzimi: il gene IDH1 e il gene IDH2 che codificano per le rispettive isoforme dell’enzima, i geni IDH3A, IDH3B e IDH3G codificano invece per le tre subunità che formano l’isoenzima IDH3.

Il gene IDH1 è localizzato sul cromosoma 2q33.3 e codifica per l’enzima NADP+-dipendente presente nel citoplasma e sui perossisomi (Geisbrecht, 1999).

La proteina IDH1 forma un omodimero asimmetrico con due siti enzimaticamente attivi (Xu, 2004) e il ruolo principale della sua attività sembra essere legato alla produzione di NADPH, richiesto per le reazioni di riduzione e per la sintesi dei lipidi e fondamentale per il controllo cellulare del danno ossidativo.

La partecipazione di IDH1 nella difesa dal danno ossidativo avviene con il rifornimento della cellula di NADPH, il quale è essenziale per la rigenerazione del glutatione ridotto (GSH), che è il principale agente antiossidante presente nelle cellule, e per l’attività del sistema della tioredoxina NADPH-dipendente (Lee, 2002; Kim, 2007).

La struttura della proteina IDH1 comprende un grande dominio, formato dai residui 1-103 e 286-414, un dominio “a gancio” che comprende i residui 137-185, e un piccolo dominio formato dai residui 104-136 e 186-285.

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Figura 10. Struttura del sito attivo di IDH1. In arancio il NADP, in viola l’isocitrato, in blu il Ca2+ (chelato all’isocitrato), in giallo Arg132

, in rosso le interazioni idrofile fra il residuo Arg132 e l’alfa-carbossile dell’isocitrato. Il sito attivo di IDH1 è costituito dal sito di legame per NADP e dal sito di legame per lo ione metallo e l’isocitrato. (Parsons et al. Science, 2008)

L’omodimero contiene due siti attivi asimmetrici, in grado di legare il substrato e il cofattore (Figura 10); ciascun sito è composto da una “tasca” formata da due domini di un monomero e da un solo dominio dell’altro monomero (Reitman, 2010). Durante l’attività catalitica l’enzima può adottare tre conformazioni: una conformazione aperta inattiva, una semi-aperta ed una chiusa, attiva, che forma contemporaneamente complessi con l’isocitrato e il NADP+. Le due subunità di IDH1 cooperano e vanno incontro a mutamenti conformazionali di concerto.

IDH1 nel citoplasma fornisce NADPH in condizioni non favorevoli per la sua generazione attraverso lo shunt degli esoso-monofosfati. Nella parte C-terminale della proteina è contenuta una sequenza riconosciuta dai perossisomi dove IDH1 è l’unica fonte di NADPH, fondamentale per il funzionamento di alcuni enzimi come l’acetil-CoA-riduttasi.

Il gene IDH2 è localizzato sul cromosoma 15q26.1 e codifica per l’isocitrato deidrogenasi NADP+-dipendente mitocondriale.

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Analogamente a IDH1, questo enzima si comporta da omodimero e svolge funzioni simili. In base a studi recenti sembra essere il principale catalizzatore per l’ossidazione dell’isocitrato ad α-chetoglutarato nel ciclo di Krebs (Hartong, 2008).

IDH3A sul cromosoma 15q25.1-q25.2 codifica per la subunità α dell’isocitrato deidrogenasi mitocondriale NAD+-dipendente, IDH3B sul 20p13 per la subunità β e IDH3G sul cromosoma Xq28 per la subunità γ.

IDH3 è un enzima multitetramerico (2α1β1γ), dove le subunità α sono quelle catalitiche, mentre la β e la γ sembrano rivestire un ruolo regolatorio.

IDH3 è l’unico isoenzima che utilizza il NAD+ come coenzima e svolge un ruolo ben definito all’interno del ciclo dell’acido citrico. L’enzima IDH3 è regolato allostericamente e richiede come ione integrato Mg2+ oppure Mn2+. Benché rivesta un ruolo cruciale nel metabolismo cellulare, non è stata rilevata in questa isoforma alcuna mutazione associata a patologie tumorali.

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COPO DELLO STUDIO

Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare mediante PCR (Polymerase Chain

Reaction) e sequenziamento diretto lo stato mutazionale dei geni IDH1 e IDH2 nelle

neoplasie gliali pediatriche e dell’adulto.

Recentemente sono state fatte importanti scoperte nel campo della genetica dei gliomi. Nel 2008, infatti, Parsons studiando i geni coinvolti nella genesi del glioblastoma multiforme dell’adulto ha notato per la prima volta che la mutazione del gene codificante per la forma citosolica dell’isocitrato deidrogenasi (IDH1) mostrava un’associazione significativa con questa neoplasia.

Da questo studio e da quelli successivi è emerso che le mutazioni di IDH1 sono un marker molecolare molto frequente ed altamente selettivo di glioblastoma secondario e dei suoi precursori, e che nei glioblastomi dell’adulto le mutazioni si associano ad una sopravvivenza significativamente più lunga e ad un’età più giovanile.

Questo ci ha spinto a valutare lo stato mutazionale di IDH1e IDH2 nei gliomi in soggetti adulti e pediatrici, tenendo conto del fatto che le casistiche pediatriche sono veramente esigue(Yan, 2009; Balss, 2008; Antonelli, 2010).

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ATERIALI E METODI

PAZIENTI

Nel nostro studio sono stati analizzati 198 campioni fissati in formalina e inclusi in paraffina, prelevati chirurgicamente da lesioni tumorali di pazienti affetti da neoplasia gliale (Tabella 1).

Le età dei pazienti ricoprivano un ampio spettro, andando da 0 a 76 anni, con età media pari a 37,5 e mediana di 38,5 anni, comprendendo quindi pazienti pediatrici, giovani adulti ed adulti.

Sono stati considerati come pediatrici tutti quei pazienti la cui età era compresa tra 0 e 16 anni mentre sono stati considerati come adulti tutti gli altri pazienti. In particolare i soggetti con età compresa tra i 16 e i 40 anni sono stati indicati come “giovani adulti”. I pazienti pediatrici erano 77, rappresentando il 39% del totale dei campioni; 43 erano maschi (56%) e 34 femmine (44%). L’età media era 7,8 anni con una mediana di 7,4 anni. Per i maschi l’età media era inferiore (5,1 anni), mentre per le femmine era di 10,2 anni.

I pazienti adulti inclusi nello studio erano 121 (61% del totale), di cui 22 rientravano nella fascia di giovani adulti, con età comprese tra i 22 e i 39 anni. L’età media dei pazienti adulti era di 57,5 anni, con una mediana di 58,6. Il rapporto tra i sessi vede il 65% di pazienti maschi, con un’età media di 57,9 anni, e il 35% di femmine, con un’età media di 51,2 anni.

L’istotipo delle lesioni analizzate sono riassunte in tabella 1.

Tutti i pazienti pediatrici sono stati operati presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer nel periodo compreso fra il 1999 ed il 2011, mentre circa l’85% dei pazienti adulti sono stati operati presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi negli anni compresi tra il 2001 e il 2011. Il materiale chirurgico è stato sottoposto ad esame istologico ed indagine di biologia molecolare presso il Dipartimento di Area Critica

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Medico-Chirurgica nella Sezione di Anatomia Patologica (Università degli Studi di Firenze).

Patologia WHO Pazienti

adulti

Pazienti pediatrici

Astrocitoma pilocitico I 1 41

Astrocitoma subependimale a cellule giganti I 2 11

Astrocitoma pilomixoide II 0 6

Astrocitoma diffuso II 2 2

Astrocitoma fibrillare III 3 0

Astrocitoma anaplastico III 11 3

Tumore maligno glio-neuronale III 2 0

Oligoastrocitoma II 3 0

Oligodendroglioma II 12 0

Glioblastoma multiforme IV 69 23

Glioblastoma a cellule giganti IV 3 0

Gliosarcoma IV 4 0

Tabella 1. Elenco degli istotipi dei gliomi analizzate nel nostro studio.

METODI

Estrazione e purificazione del DNA

Il DNA da analizzare è stato ottenuto da campioni di tessuto fissati in formalina e inclusi in paraffina. Per ogni campione sono state tagliate al microtomo dalle 3 alle 5 sezioni, in base al contenuto tissutale presente nel materiale, dello spessore di 10 µm ciascuna, le quali sono state raccolte in una provetta da 1,5 ml.

Per poter passare alla fase dell’estrazione del DNA, si è dovuto procedere preventivamente con la sparaffinatura del tessuto. Tale processo consiste di due passaggi in xilene ciascuno di 30 minuti, atti allo scioglimento e alla rimozione della cera, e due passaggi in etanolo assoluto di 15 minuti. Dopo ogni incubazione, i campioni vengono centrifugati per 1 minuto a 13K rpm ed il sovranatante è rimosso senza disturbare il pellet di tessuto sottostante. Per far essiccare il tessuto, i campioni sono inseriti in una centrifuga a vuoto alla temperatura di 60°C per 2 minuti.

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Al termine della sparaffinatura si può procedere con l’estrazione del DNA, che avviene con l’utilizzo del kit commerciale MasterPure™ DNA Purification Kit (Epicentre Biotechnologies, WI - USA) secondo il protocollo indicato dalla ditta produttrice. Brevemente il tessuto viene risospeso in 300 µl di un buffer di digestione con l’aggiunta di 2 µl di proteinasi K, per ogni campione da estrarre. La digestione delle proteine avviene lasciando incubare i campioni con il buffer di digestione in un bagnetto termostatato a 50°C per 16-18 ore. La mattina seguente, le provette prelevate dal bagnetto termostato vengono inserite in un termostato a secco riscaldato a 95°C per 15 minuti, al fine di bloccare l’azione della proteinasi K.

Dopo l’incubazione a caldo over-night, si aggiunge 1µl di RNAsi e si lascia a incubare per 30 minuti in un termostato a 37°C. Dopo un passaggio in ghiaccio per bloccare l’azione della RNAsi, si procede con la precipitazione delle proteine, tramite l’utilizzo di un reagente fornito dal kit, e con la purificazione del DNA estratto attraverso un passaggio in isopropanolo e uno in etanolo al 70%. Il risultato di questa procedura porta all’ottenimento di un piccolo pellet di DNA, il quale viene risospeso con 35 µl di buffer di eluzione o di acqua sterile.

In seguito ad un’ulteriore incubazione in termostato a 37°C per 30 minuti durante il quale il DNA si risospende omogeneamente, si procede con la quantizzazione del DNA per la verifica dell’avvenuta estrazione del DNA e per valutare la quantità di materiale presente: questa è un’informazione necessaria per calcolare la quantità di templato ottimale da aggiungere alla mix della reazione di PCR.

Per la quantizzazione è stato utilizzato uno spettrofotometro (SmartSpec Plus, Biorad, CA - USA), attraverso la lettura dell’assorbanza a 260 nm, specifica per rilevare la concentrazione di dsDNA.

PCR e purificazione

Il DNA estratto è stato sottoposto ad amplificazione mediante PCR per l’ottenimento di un templato idoneo e specifico per la successiva reazione di sequenziamento. La mix per l’amplificazione di entrambi i geni è stata preparata con le seguenti quantità di reagenti per ogni campione da amplificare:

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35  Buffer Taq 1x

 MgCl2 1,25 mM  dNTPs 400 µM

 1,5 U di Taq DNA polimerasi  100 pmol di ciascun primer  H2O sterile per arrivare a volume

Ai 47µl di mix, si aggiungono 3 µl di campione (circa 300 ng), per un volume di reazione totale di 50 µl.

I primer utilizzati, disegnati per delimitare la regione di interesse dei due geni, sono: per IDH1 il primer Forward CGGTCTTCAGAGAAGCCATT e il primer Reverse

CACATTATTGCCAACATGAC; per IDH2 il primer Forward

CCACTATTATCTCTGTCCTC e il Reverse GCTAGGCGAGGAGCTCCAGT.

A causa della diversa composizione dei primer per IDH1 e IDH2, le reazioni sono state eseguite separatamente, secondo due protocolli che differiscono tra loro soltanto per la temperatura di annealing.

La reazione di amplificazione si è svolta tramite la ripetizione di 40 cicli di denaturazione, annealing ed estensione con il termociclatore 2720 Thermal Cycler (Applied Biosystems, USA) in seguito ad un primo passaggio di 5 minuti a 96°C. Ciascun ciclo di reazione si è composto da 30 secondi di denaturazione a 95°C, 25 secondi di annealing a 58°C per IDH1 e 61°C per IDH2, e 40 secondi di estensione a 72°C. In aggiunta è stato eseguito un passaggio di estensione finale a 72°C della durata di 10 minuti.

I prodotti di amplificazione sono stati successivamente purificati con il kit QIAquick® PCR purification kit (Qiagen, Hilden, DE) secondo il protocollo indicato.

Il kit è composto da colonnine (Qiaquick Spin Column) dotate di un filtro selettivo per la purificazione del prodotto di PCR e da una serie di reagenti specifici per la purificazione, il lavaggio e l’eluizione del DNA.

Una volta eseguita la reazione di amplificazione, il DNA estratto rimanente è stato conservato ad una temperatura di -20°C ed eventualmente riutilizzato nel caso si fosse ritenuta necessaria la ripetizione dell’analisi.

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36 Sequenziamento

Una volta purificati, i prodotti di PCR sono stati utilizzati come templato per la reazione di sequenziamento, la quale è stata eseguita utilizzando il BigDye® Terminator v1.1 Cycle Sequencing kit (Applied Biosystems, USA), basato sul principio del cycle sequencing con l’utilizzo di ddNTPs marcati.

Il protocollo indicato dalla ditta produttrice prevede la preparazione per ogni campione di una mix composta da 4 µl di BigDye solution, 2 µl di buffer (forniti entrambi nel kit), 1,6 µl di primer Forward, 9,4 µl di H2O sterili, a cui si aggiungono 3 µl di campione per ottenere un volume totale di reazione di 20 µl.

Il programma prevede la ripetizione di 25 cicli preceduti da un passaggio di 1 minuto a 96°C. I cicli sono composti ognuno da 10 secondi a 96°C per la denaturazione, 5 secondi per l’annealing del primer a 58°C per IDH1 e 61°C per IDH2, e 4 minuti a 60°C per l’estensione.

Il prodotto di questa reazione è stato purificato utilizzando il DyeEx® 2.0 Spin kit (Qiagen, Hilden, DE). Il kit utilizza colonnine contenenti una resina che permette di eluire specificamente i frammenti di DNA prodotti dalla reazione e di eliminare, trattenendoli, gli aggregati di ddNTP non utilizzati che interferirebbero a livello della separazione in elettroforesi capillare.

Successivamente 10 µl di campione purificato sono stati risospesi in formammide pura e incubati per 5 minuti a 95°C per permettere la denaturazione del prodotto di reazione. In seguito ad un passaggio di 5 minuti in ghiaccio, i campioni sono stati caricati sul sequenziatore AbiPrism 310 Genetic Analyzer (Applied Biosystems, USA).

La separazione elettroforetica è avvenuta caricando il capillare con il polimero POP6. I dati così ottenuti sono stati analizzati utilizzando i software Sequencing Analysis 5.2 e Seqscape® 2.5 (Applied Biosystems, USA).

Valutazione dello stato di metilazione del promotore del gene MGMT

Il DNA genomico estratto è trattato per la modificazione chimica con EpiTect® Bisulfite kit (Qiagen, Hilden, DE) in accordo con i protocolli della ditta produttrice. La modificazione chimica, attraverso la reazione con bisolfito di sodio, permette di

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convertire tutte le citosine non metilate a uracile, mentre le 5-metilcitosine rimangono inalterate.

Per l’individuazione del DNA metilato, è stata eseguita una methylation-specific PCR (MSP) per il promotore del gene MGMT (O6-metilguanina-DNA metiltransferasi) usando il kit Ampli-MGMT (Bird, Siena,IT) in accordo con il protocollo della ditta produttrice.

Il kit prevede l’esecuzione di due reazioni di amplificazione separate per ogni campione usando dei primers specifici sia per il DNA metilato sia per il DNA non metilato. La reazione di amplificazione è stata eseguita in un volume finale di 25 µl e le condizioni dei cicli di PCR erano: 95°C per 10 minuti per l’attivazione della Hot Start Taq Polimerasi e poi 40 cicli con le temperature di denaturazione (95°C), di annealing (60°C) e di amplificazione (72°C) mantenute per 40 secondi ciascuna. Infine è stato effettuato un ultimo passaggio di 10 minuti a 72°C.

I controlli positivi, forniti con il kit di amplificazione, e i controlli negativi senza DNA sono stati analizzati per ogni PCR eseguita.

Il prodotto di PCR è stato separato in elettroforesi su gel d’agarosio al 3%, colorato con bromuro di etidio e visualizzato su di un trans-illuminatore ad UV.

Espressione degli enzimi IDH1, IDH2 e IDH R132H

La colorazione immunoistochimica è stata eseguita su sezioni seriali di spessore di 3µm tagliate da tessuti fissati in formalina ed inclusi in paraffina.

Come anticorpi primari sono stati utilizzati un anti-IDH1 (monoclonal antibody, clone 2H9, ABCAM, Cambridge,UK; dilution 1:50), un anti-IDH2 (monoclonal antibody, ABCAM, Cambridge, UK; dilution 1:300) e un anti-IDH1R132H (monoclonal antibody, clone H09, Histonova, Hamburg, Germany; dilution 1:20) che rivela la presenza esclusivamente dell’enzima con la mutazione R132H.

Tutte le sezioni dei tessuti sono state allocate su un coloratore automatico BenchMark ULTRA™ ICH System (Ventana, Tucson, AZ) nel quale sono stati sparaffinati, reidratati e processati sia per il blocco delle per ossidasi endogene sia per lo smascheramento dell’anticorpo. Dopo 60 minuti di pretrattamento con “Cell Conditioner 2” (Ventana, Tucson, AZ) a pH6, i vetrini sono stati incubati con

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38 l’anticorpo anti-IDH1R132H

a 37°C per 32 minuti e successivamente sono stati trattati con “Amplification Kit” (Ventana, Tucson, AZ) per l’amplificazione del segnale; per gli anticopri anti-IDH1 e anti-IDH2 i vetrini hanno subito un pretrattamento di 30 minuti con “Cell Conditioner 1” (Ventana, Tucson, AZ), a pH8 e successivamente sono stati lasciati incubare un ora a temperatura ambiente. Come sistema di rivelazione è stato utilizzato il “ultraView Universal DAB Detection Kit” (Ventana, Tucson, AZ). Una volta completati i passaggi di colorazione, le sezioni di tessuto sono state rimosse dal coloritore e contro colorate con ematossilina. Per IDH1 e IDH2 sono state usate come controlli positivi, delle sezioni di colon umano, mentre per IDH1R132H è stato usato tessuto celebrale.

Un controllo negativo è stato incluso in ciascun ciclo di colorazioni, sostituendo l’anticorpo primario con siero non-immune alla stessa concentrazione. Le sezioni di controllo sono state trattate in parallelo con i campioni nella stessa pro cessazione.

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ISULTATI

Nel nostro studio sono stati analizzati 198 campioni, di cui 77 (39%) appartenevano a pazienti di età inferiore ai 16 anni, 22 campioni (11%) appartenevano a pazienti di età compresa nella fascia d’età tra i 16 e i 40 anni, rappresentando dunque campioni di neoplasie dell’età giovanile, e i restanti 99 campioni (50%) appartenevano a pazienti adulti, di età superiore ai 40 anni.

Tra i campioni studiati, 42 erano astrocitomi pilocitici (22%), 13 SEGA (7%), 6 astrocitomi pilomixoidi (3%), 4 astrocitomi diffusi (2%), 3 astrocitomi fibrillari (2%), 14 astrocitomi anaplastici (7%), 92 glioblastomi multiformi (46%), 4 gliosarcomi (3%), 3 glioblastomi a cellule giganti (2%), 12 oligodendrogliomi (6%), 3 oligoastrocitomi (2%), e 2 tumori maligni glio-neuronali (1%). Nel nostro studio dunque è stato possibile comprendere differenti istotipi di neoplasie gliali, tra i quali quelli tipici dell’età infantile, quelli più frequenti nell’adulto ed alcuni istotipi rari.

Sequenziamento di IDH1 e IDH2

L’estrazione del DNA dai campioni di tessuto inclusi in paraffina, il sequenziamento dei geni IDH1 e IDH2 e la successiva analisi dei dati è avvenuta con successo nella maggior parte dei casi. Soltanto per 5 dei 198 campioni non è stato possibile portare a termine lo studio dello stato mutazionale sia del gene IDH1 che IDH2, in quanto i dati ottenuti non erano interpretabili a causa del fallimento della reazione di sequenziamento. Questo può essere stato dovuto alla presenza di quantità esigue di DNA nel campione, insufficienti per la buona riuscita della reazione di amplificazione, oppure, più probabilmente, ad uno stato di degradazione del DNA causato da un’eccessiva permanenza del campione in formalina al momento della fissazione che ha provocato un danneggiamento delle molecole di acido nucleico. Tutti e cinque i casi corrispondevano a campioni appartenenti a pazienti adulti.

L’identificazione delle mutazioni è avvenuta confrontando le sequenze ottenute dall’analisi dei campioni con le sequenze di riferimento (NCBI Reference Sequence; NG_023319.1 per IDH1; NG_023302.1 per IDH2).

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In questo modo sono state trovate 17 mutazioni in totale (8,5% dei casi analizzati), di cui 14 erano a carico del gene IDH1 e 3 a carico di IDH2 (Tabella 2).

Le mutazioni di tali geni avvengono a livello dell’arginina in posizione 132 in IDH1 e 172 in IDH2. Si tratta di mutazioni puntiformi missenso, in cui la sostituzione di una base nucleotidica con un’altra causa un cambiamento dell’aminoacido codificato da quel codone.

IDH1 IDH2 Patologia Anni Sesso

R132C WT Glioblastoma multiforme 25 M R132H WT Astrocitoma anaplastico 30 M R132H WT Astrocitoma anaplastico 31 M R132H WT Astrocitoma fibrillare 36 F WT R172K Astrocitoma pilocitico 36 F R132S WT Astrocitoma diffuso 41 M R132C WT Oligodendroglioma 44 F R132H WT Oligoastrocitoma 44 M R132H WT Gliosarcoma 52 M R132C WT Oligoastrocitoma 31 M R132H WT Glioblastoma multiforme 34 M R132H WT Oligoastrocitoma 35 M R132C WT Glioblastoma multiforme 29 M R132H WT Astrocitoma anaplastico 27 F

R132S WT Glioblastoma a cellule giganti 24 M WT R172K Oligodendroglioma 26 F WT R172K Oligodendroglioma 30 M

Tabella 2. Mutazioni riscontrate in 17 gliomi su 198 analizzati.

Nel nostro studio abbiamo trovato, a carico del gene IDH1, 8 mutazioni del tipo R132H (47%), dovuta alla sostituzione G>A a livello del nucleotide in posizione 395, che

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provoca la sostituzione dell’arginina con una istidina; 4 mutazioni R132C (24%), dovuta alla sostituzione C>T del nucleotide in posizione 394, che porta alla sostituzione dell’arginina con una cisteina; 2 mutazioni R132S (12%) dovuta alla sostituzione C394A, con la sostituzione dell’arginina con una serina.

Essendo le mutazioni a carico del gene IDH2 molto più rare di quelle di IDH1, le uniche tre mutazioni in IDH2 che abbiamo trovato, erano la R172K, che provoca una sostituzione a livello del nucleotide in posizione 515 del tipo G>A, con sostituzione della lisina con una arginina.

Le mutazioni R132 sono state identificate in un astrocitoma fibrillare, 3 astrocitomi anaplastici, un astrocitoma diffuso, 3 oligoastrocitomi, un gliosarcoma, un glioblastoma a cellule giganti, un oligodendroglioma e 3 glioblastomi multiformi di cui due sicuramente secondari.

La mutazione di IDH2 R172K è stata riscontrata in due oligodendrogliomi e in un astrocitoma pilocitico che, nonostante si tratti di una neoplasia tipica del bambino, era stato diagnosticato in una paziente di 36 anni.

Nessuna mutazione è stata riscontrata nelle neoplasie dell’età infantile.

Nella fascia di età tra i 16 e i 20 anni, che può essere considerata come una fascia borderline, a cavallo tra l’età infantile e quella giovanile e nella quale si possono presentare sia neoplasie pediatriche che dell’adulto, avevamo un solo caso di una paziente di 18 anni affetta da SEGA, nella quale non è stata riscontrata alcuna mutazione. Tutte le lesioni neoplastiche pediatriche presentavano quindi entrambi i geni wild-type.

Tutte le mutazioni sono state riscontrate all’interno di un intervallo di età che va dei 25 ai 52 anni, con un’età media di 33,8 anni.

Per quanto riguarda dunque la distribuzione delle mutazioni dei geni IDH1 e IDH2 (Figura 11), 13 delle mutazioni trovate corrispondevano a pazienti classificati come giovani adulti, con età dunque compresa tra i 16 e i 40 anni. In questo gruppo, le neoplasie in cui è presente la mutazione rappresentano il 59% del totale dei casi.

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