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E. M. Forster e la critica italiana tardo-novecentesca (1985-1999)

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione... 1 Capitolo 1: 1985 ... 3 Capitolo 2: 1986 ... 8 Capitolo 3: 1988 ... 19 Capitolo 4: 1989 ... 23 Capitolo 5: 1990 ... 44 Capitolo 6: 1991 ... 71 Capitolo 7: 1992 ... 78 Capitolo 8: 1993 ... 142 Capitolo 9: 1994 ... 156 Capitolo 10: 1995 ... 166 Capitolo 11: 1998 ... 174 Capitolo 12: 1999 ... 182

Rassegna bibliografica delle opere esaminate ... 188

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Introduzione

La presente tesi vuole essere un tentativo di continuare il percorso di ricognizione compiuto all'interno del saggio e della bibliografia di Patrizia Nerozzi Bellman1, che sarà quindi il punto di partenza del mio lavoro.

L'autrice prende in considerazione una dettagliata bibliografia e analizza la fortuna che Forster ha avuto nel nostro paese dal 1925 al 1975, come fu introdotto e considerato, man mano che le sue opere venivano tradotte e diffuse.

In generale, dice Nerozzi, l'accostamento a quest'autore è stato frammentario e non troppo approfondito; a parlare di lui fu per primo Carlo Linati,2 a seguito della pubblicazione di A Passage to India nel 1924, dopodiché vi furono una serie d'articoli su periodici, capitoli di volumi o saggi monografici (questi ultimi notevolmente inferiori di numero), che hanno appuntato l'attenzione su Forster, senza però un reale approfondimento. Il contributo di Nerozzi è costituito da una prima parte, che è il saggio vero e proprio, e da una seconda parte di bibliografia, ulteriormente articolata in tre sezioni: traduzioni, critica e appendice. L’elenco delle traduzioni, disposte in ordine cronologico, è diviso in “narrativa” e “saggistica.” La parte relativa alla critica, strutturata diacronicamente e in base all'ordine alfabetico dei cognomi degli autori, comprende: critica italiana pubblicata in Italia, critica straniera pubblicata all'estero in italiano, critica straniera pubblicata in Italia in traduzione e critica straniera pubblicata in Italia in originale. Per ultimo, in appendice, troviamo un elenco i testi di Forster in lingua originale, pubblicati in Italia. Questa indagine, ben articolata, conduce l'autrice alla conclusione che, nell’Italia di fine anni ‘70, l'opera di Forster sia comunque conosciuta in maniera sommaria e frammentaria, per cui, secondo Nerozzi, il dibattito è ancora da considerarsi aperto nel nostro ambito nazionale.

Il mio lavoro tiene conto delle indagini di Nerozzi, ma si occupa esclusivamente della critica italiana su Forster nell'arco temporale che va dal 1985 al 1999. I testi critici saranno, quindi, lo strumento per riflettere sull'opera

1 Patrizia Nerozzi Bellman, La fortuna di E.M.Forster in Italia, Saggio e Bibliografia 1925-1979, Bari, Adriatica Editrice, 1980.

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di Forster, con la quale verranno messi a confronto diretto ogni qualvolta sarà necessario, cercando di evidenziare gli aspetti che emergeranno nelle più recenti letture.

Inoltre ho aggiunto, in appendice, dei richiami alla filmografia di più recente apparizione connessa ai romanzi di Forster: A Passage to India (Passaggio in India) del 1984, A Room with a View (Camera con Vista) del 1986, Maurice del 1987, Where Angels Fear to Tread (Monteriano ― Dove gli

angeli temono di mettere il piede) del 1991, sino a Howards End (Casa Howard) del 1992.

Prendendo come esempio il lavoro di Nerozzi, la tesi si struttura in una prima parte, consistente nella trattazione vera e propria dell'argomento, e una parte dedicata alla bibliografia critica italiana e alla filmografia.

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Capitolo 1: 1985

Il saggio di Stefano Gori su Monteriano, del 1985,1 coglie alcuni nodi cruciali del primo romanzo di Forster, mettendo in evidenza gli elementi di antitesi e confronto che si intrecciano nella trama. Il critico parte dalla considerazione che già il titolo, Where Angels Fear to Tread,2 contenga il

senso più profondo dell’intera vicenda, “la quasi impossibile distinzione fra bene e male,” ovvero la difficile demarcazione fra gli angeli e i non-angeli. La sospensione del giudizio, che Forster, secondo Gori, mette in atto, è l’unica risposta possibile in una situazione così complessa, dove i due mondi contrapposti “presentano luci ed ombre,” cosicché elemento fondamentale del romanzo sarebbe l’intelligente ambiguità che Gori, citando Borges, ricorda essere essenziale per qualsiasi creazione letteraria che voglia risultare suggestiva.3 L’ambiguità richiede uno sforzo di comprensione, perché ci pone in maniera inevitabile di fronte a una realtà controversa; è a questo proposito che Gori parla di ironia del titolo, indicativa dello sforzo fallito di connessione, e quindi comprensione, fra i due mondi e le due culture in questione, ovvero l’Inghilterra, con la cittadina di Sawston, e l’Italia con Monteriano. Questo sforzo è rappresentato non solo dal matrimonio di Lilia Herriton e Gino Carella, ma soprattutto dalla successiva e tragica morte del loro bambino, che di questa potenziale connessione era il simbolo principale.

Il luogo della vicenda è l’Italia, da Gori definita come “una sorta di terra ideale e tragica, di waste land del possibile e dell’imprevisto,” nella quale si scorgono segni e simboli di predizione. Nel saggio si parla, infatti, di un “universo di segni e simboli incisi sulla viva terra,” riconducibili sia alla natura, sia ad un mondo mitico e primitivo, che convogliano quell’atmosfera di “tragica e serrata immanenza” indice di una predeterminazione incontrastabile.4 Nell’ambito di questo tessuto simbolico, Gori individua due momenti fondamentali: quello dell’abluzione, nella scena in cui Gino e Miss Abbott lavano il bambino; quello della libagione, quando Gino e Philip bevono

1 Stefano Gori, “Ambiguità e varianti di lettura in Monteriano. Dove gli angeli temono di

mettere il piede, di E.M. Forster”, in Antologia Vieusseux, luglio-settembre 1985, pp. 112-118.

2 In seguito abbreviato WAFT. Si tratta di una citazione di un verso di Alexander Pope: “For fools rush where angels fear to tread” da An Essay on Criticism, 1709.

3 Stefano Gori, op. cit., pp. 112-113. 4 Id., pp. 114-117.

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il latte dopo la colluttazione avvenuta fra loro. Gli elementi simbolici di queste due scene sono, rispettivamente, l’acqua e il latte. La prima rievocherebbe la rinascita. Il lavaggio del corpo o parte di esso è, infatti, un atto di purificazione rituale in molte religioni; nel cattolicesimo il sacerdote, durante la Messa, compie l’atto di lavarsi le mani. Il latte è invece il simbolo del nutrimento e della pacificazione; mangiare assieme è un atto di condivisione e fratellanza e diventa, nel romanzo, “il suggello di una ritrovata, anche se non facile, armonia.” In questo tessuto simbolico e mitico, i riferimenti alla religione cristiana evidenziano, secondo Gori, il tentativo da parte di Forster di “operare una sorta di sincretismo fra la spiritualità pagana, colta nei suoi aspetti più arcaici […]e la ‘ pietas’ cristiana […],” per riuscire a individuare chiavi di interpretazione che trascendano il livello della mimesi sociale. Questa operazione è destinata per il momento a fallire, conclude il critico, ricordando la tragica fine del romanzo, assimilabile al binario epistemico del “not yet…not there;”5 in pratica, si registra qui una risposta negativa all’ “only connect,” principio umanistico forsteriano per eccellenza ( ed epigrafe di Howards End), che affiora in ogni romanzo come ragione della stessa vita.

Il saggio di Gori non si discosta sostanzialmente dalla critica precedente, che aveva dato una lettura dichiaratamente simbolica di questo romanzo; Agostino Lombardo, ad esempio, vede in WAFT “un’azione chiaramente simbolica di una vicenda interiore,” dove “anche il paesaggio, le case, gli oggetti si caricano di suggestioni simboliche.”6 Anche Federica Troisi parla di un profondo significato già insito nel titolo, di origine popiana e intriso di ironia tragica, con la conseguente sospensione di ogni giudizio da parte dell’autore e dei suoi personaggi. 7 Quello che forse Gori vuole fissare in maniera chiara sono i termini di questa simbologia, da estrapolare in ambito sia religioso, sia mitico-primitivo. A mio parere, la Natura è la principale depositaria di questo codice translitterato; Gori, invece, trova maggiori raccordi con certi rituali pagani che condividono aspetti della pietas cristiana, con il suo messaggio di pacificazione e fratellanza. Dal mio punto di vista, anche se non può essere messa in dubbio la presenza dell'elemento cristiano, mediato dalle

5 Id., p. 118.

6 Agostino Lombardo “L’elegia di Forster,” in Ritratto di Enobarbo, Pisa, Nistri-Lischi, 1971, pp. 300-319.

7 Federica Troisi, E.M.Forster e l’Italia, Bari, Adriatica, 1974, p. 46. Sia il contributo di Lombardo, sia quello di Troisi sono segnalati da Nerozzi.

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icone dell'arte rinascimentale e medievale, è soprattutto il richiamo a una Natura mitizzata ad ottenere maggiore spessore. Anche Troisi, del resto, rileva nei racconti di Forster la presenza di una denuncia rivolta alla civiltà industriale, la quale, non senza l'apporto dell'ethos ebraista, avrebbe determinato un pericoloso straniamento dalla sfera dell'energia fisica e dell'istinto. La possibile contro-risposta “a questa società troppo angusta e mortificante” è da rintracciarsi nello sforzo di

ristabilire il contatto con la natura per ricatturare l’equilibrio, che era proprio dell’uomo, già realizzato nel suggestivo mondo della mitologia greca. La rievocazione di quei miti (l’incontro di Eustace con Pan) non è fine a se stessa ma vuole sottolineare l’idea di una visione ‘totale’ negata a coloro che sono condizionati da una società miope.8

Questo richiamo, dal mio punto di vista, è presente non solo nei racconti, ma anche nei romanzi, a cominciare proprio da WAFT, dove i temi dei contributi brevi sono ulteriormente sviluppati.

L’atmosfera che circonda i personaggi inseriti in ambientazioni italiane, nei racconti e nei romanzi, soprattutto WAFT e A Room with a View,9

dovrebbe essere di supporto alla comprensione delle corrispettive vicende umane; anzi, a mio parere, vi si registra spesso l’energia animistica della Natura e del paesaggio, volti ad instaurare una qualche comunicazione con i protagonisti, anche al di fuori dei ‘symbolic moments’ di matrice epifanica. La Natura stimola, suggerisce un comportamento a lei più confacente, e subisce sconvolgimenti quando l’ordine delle cose risulta sovvertito; essa manda anche chiari segnali di negatività, come osserva lo stesso Gori.10 A mio parere, è emblematico l’episodio del rapimento del piccolo ad opera di Harriet, in

WAFT, circostanza di cui molti segni premonitori ci mettono sull’avviso,

suggerendo che qualcosa di tragico sta per succedere: dapprima una pioggia molto fitta inonda la campagna in un pianto silenzioso, il contesto delle osterie stride con i brani di Donizetti, della grande torre si scorge solo la base tappezzata da cartelloni pubblicitari,11 e poi interviene il messaggero incaricato

8 Id., p. 18.

9 In seguito abbreviato RWV. 10 Stefano Gori, op. cit., p. 117.

11 La grande torre diventa, a mio giudizio, simbolo della dualità della vita, in quanto in essa abbiamo la compresenza di qualcosa che tende verso l'alto, oltre la mediocrità e le meschinità

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da Harriet di avvisare Philip riguardo alla partenza repentina. Questo messaggero non riesce neppure a proferir parola, indice che quello che è successo o sta per succedere non può essere espresso verbalmente, perché troppo crudele, fuori dagli schemi naturali. Inoltre, la presenza del bimbo che piange silenziosamente, assimilabile al motivo della pioggia fitta, ci comunica da un lato la sintonia con la Natura, e dall'altro la sconfitta dell’essere umano adulto, chiuso nella sua ottusa incomprensione.

Forster aveva già usato un’immagine simile, nel racconto The Story of

a Panic, nel momento in cui Eustace (il protagonista, che, dopo l’incontro con

Pan, vuole vivere in mezzo alla Natura, dove si sente felice) viene ricondotto, suo malgrado, ad una vita “normale,” prigioniero nel mondo degli adulti: in questo triste frangente, “lacrime silenziose gli inondarono il viso.”12 Anche in questo caso è la Natura stessa che piange, come se Pan vivesse nel corpo di esseri umani non ancora convertiti al conformismo e a un rigore repressivo. Tutto questo non è ovviamente estraneo al mito roussoviano del ‘buon selvaggio,’ di origine preromantica, che individua nei fanciulli o nelle persone meno raffinate ed educate dalla società ‘civile’ coloro che riescono a mantenere uno stretto contatto con la Natura, con la quale si armonizzano, conservando quindi un’innocenza e una bontà d’animo che gli adulti ormai avrebbero perduto e non riuscirebbero più a comprendere. Da questo punto di vista, l’avvicinamento e l’ascolto della Natura eserciterebbero una funzione “salvifica” ristabilendo equilibri spezzati dall’arroganza sociale. Più che di segni incisi sulla viva terra, che veicolano un senso di tragica predeterminazione, come intende Gori, parlerei di segnali della Natura non letti e non interpretati. Nell’ottica forsteriana, gli esseri umani non sono predestinati dalla Natura al fallimento, ma essi stessi ne creano le condizioni attraverso le infide gabbie di una evoluta organizzazione di tipo economico e sociale.

La comprensione della Natura e dei suoi principi di vita semplice e spontanea costituisce per Forster una premessa per giungere alla vera

del quotidiano, e di qualcosa che è ben ancorato a terra, la base materialistica. Non a caso, la base è tappezzata di cartelloni pubblicitari, indice di un'etica competitiva e sicuramente non umanitaria.

12 E. M. Forster, I racconti, Milano, Garzanti (Gli Elefanti), 1991, p. 27. Per L’omnibus

celeste e L’attimo eterno, traduzione dall’inglese di Gabriella Fiori Andreini; per La vita che verrà, traduzione dall’inglese di Marcella Bonsanti.

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conoscenza di se stessi e all'empatia, anche se il ritorno a uno “stato idilliaco” sarà ovviamente impossibile da realizzare alla lettera.

In un saggio del 1987, Thomas Brown13 ha cercato di dimostrare che Forster conosceva bene le opere di Edward Carpenter14 e ne condivideva gli ideali, che proponevano a varie riprese, nei suoi scritti e soprattutto in Towards

Democracy, “an ecstatic vision of escape from the repressed life of Victorian

gentility to physical, emotional and sexual freedom of life lived close to Nature.”15 Carpenter sognava un'esistenza avulsa da costrizioni sociali e sessuali, in cui tutti, uomini e donne, potessero vivere in completa armonia. L’organizzazione sociale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, invece, poggerebbe secondo Carpenter su borghesi ‘ungrown;’16 mentre Forster parla dei ‘middle-class men,’ incapaci di sentimenti sinceri a causa del loro ‘undeveloped heart,’ come risultato di un sistema educativo che non insegna ad esprimere emozioni.17 È allora comprensibile rintracciare nei romanzi forsteriani continui riferimenti alla Natura e agli sfondi mitici come ambienti consoni alla realizzazione piena della propria vita; in WAFT e in RWV è proprio l’ambiente italiano ad assolvere a questo compito, anche se nel primo romanzo Forster non riuscirà, con i protagonisti, a contrastare la società medio-borghese britannica,18 come riuscirà, invece, con Lucy in RWV. Anche nei successivi romanzi i protagonisti riusciranno a trovare nell’ambiente naturale una realizzazione, seppur parziale, di se stessi; succederà così a Margaret Schlegel, la quale, con il ritiro in campagna, a Casa Howard, otterrà una tranquillità temporanea, poiché l’espansione della città incombe minacciosamente sulla scena rurale. La vita dei boschi sarà una via di salvezza per Alec e Maurice, nell’omonimo romanzo Maurice, seppure in qualche modo imposta da una società intollerante e moralista; e, da ultimo, in A Passage to

India, la natura selvaggia e misteriosa della terra indiana avrà sui personaggi

una fortissima influenza su come vivere i sentimenti nei rapporti umani.

13 Thomas Brown, “Edward Carpenter, Forster and the Evolution of A Room with a View”,

English Literature in Transition (1880-1920), 30:3, 1987, pp. 279-300.

14 Scrittore e poeta (1844-1929), militante socialista e uno dei primi attivisti del movimento di liberazione omosessuale.

15 Thomas Brown, op. cit., pp. 279-280. 16 Id., p. 282.

17 E. M. Forster, “Notes on the English Character,” in Abinger Harvest, Harmondsworth, Penguin Books, 1967, p. 13.

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Capitolo 2: 1986

Del 1986 è il volume1 che raccoglie in traduzione i sei romanzi di Forster con la miscellanea di saggi Aspects of the Novel.2 L’Introduzione e lo

schema cronologico sono stati qui curati da Masolino D’Amico, “uno tra gli attenti testimoni-recensori che danno letture valutative nell’ambito della critica del Novecento.”3 In questa sua Introduzione, D’Amico fornisce un quadro piuttosto chiaro, anche se breve, dell’opera di Forster in relazione alla sua biografia e al suo epistolario. La convinzione del critico è che il Forster di maggior rilievo rimanga quello dei “quattro romanzi edoardiani e del suggestivo ritorno, in un clima tanto mutato […], di Passaggio in India”.4

Maurice5 è forse l’unica opera a non destare in maniera particolare il

suo interesse, poiché la ritiene legata esclusivamente a “dissidi interni che agitavano Forster,”6 in un silenzio che avrebbe accompagnato l'autore sino alla composizione dell’ultimo romanzo. Ai lettori dei primi anni ’70 ( il 1971 è l’anno di pubblicazione di Maurice, uscito postumo), “in piena bagarre di «orgoglio omosessuale», M. parve reticente,” annota D’Amico; oggi, invece, lo si può comprendere inserendolo nella realtà storica che l’ha prodotto, e quindi lo si può considerare una “testimonianza preziosa” dell’animo dell’autore, molto discreta quanto concreta nell’esprimere le emozioni che lo avevano percorso. Al pari di M, D’Amico pensa che anche i quattro romanzi edoardiani possano essere maggiormente compresi oggi, nella loro carica innovatrice diversamente calibrata, che non all’epoca della composizione, “quando il tono pacato, l’umorismo preciso e urbano, la nitida descrizione di una società alto borghese nelle sue maniere e nelle sue convenzioni, più che provocare il lettore se lo accattivarono facendo appello alla sua intelligenza.”7

1 Masolino D’Amico (a cura di), E.M.Forster: Romanzi, Milano, Mondadori, 1986, pp. 1868. Il volume contiene le traduzioni dei sei romanzi di Forster: Monteriano, Il cammino più

lungo (traduzione per entrambi di L. Chiarelli), Camera con vista (traduzione di M.

Caramella), Casa Howard (traduzione di P.Campioli), Passaggio in India (traduzione di A. Motti), Maurice (traduzione di M. Bonsanti); la traduzione di Aspetti del romanzo è a cura di C. Pavolini.

2 In seguito abbreviato AN.

3 Alberto Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 167. 4 Masolino D’Amico, op. cit., p. xv.

5 In seguito abbreviato M.

6 Masolino D’Amico, op. cit., p. xv. 7 Id., p. xv.

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D’Amico ritiene, infatti, che l’opera di Forster abbia comunque contribuito ad aprire la strada ad autori come D.H. Lawrence e V. Woolf, che contestarono più esplicitamente la società vittoriana nei suoi pregiudizi morali e schemi assiologici, e cerca di metter in evidenza come Forster, anche se in maniera più pacata e obliqua, sia stato un innovatore sia nella materia trattata, come Lawrence, sia nell’aspetto formale, come Woolf. La materia trattata da Forster, ovvero i vari conflitti sia sociali che culturali, non sono certo facili “temi di conversazione” finalizzati a intrattenere il pubblico di quel periodo; e da un punto di vista formale, anche la “brutalità e secchezza” con la quale il narratore annuncia le morti improvvise dei personaggi, a seguito di descrizioni particolareggiate di elementi secondari, o anche solo la frase iniziale di

Howards End,8 ci fanno intendere, a giudizio di D’Amico, quanto Forster fosse

stato tutt’altro che passivo o ossequioso nell'arte della composizione letteraria. In effetti, la tesi che vedeva in Forster un autore legato ancora profondamente alla tradizione e alieno dai nuovi fermenti delle avanguardie, risultava eccessivamente parziale, come sarebbe stata poco ricettiva la prospettiva della critica italiana sino al 1980, allorché relegava l’autore in una posizione marginale nell’ambito del panorama letterario inglese, come annota Nerozzi a conclusione del suo lavoro.9 D’Amico, invece, sembra riconoscergli un ruolo di tutto rispetto in seno alla letteratura novecentesca, non inferiore ai contemporanei più illustri, ed indica nell' “universalità” e nell'ampiezza di respiro del messaggio forsteriano le ragioni di questa sua lunga sopravvivenza nel fertile terreno letterario.

Per quel che riguarda i romanzi edoardiani, il critico li tratta in maniera sintetica, come è di rigore in una introduzione, mettendo comunque in rilievo le loro caratteristiche peculiari. RWV fu il primo dei romanzi d’ispirazione italiana ad essere concepito, anche se non il primo ad essere pubblicato e, secondo il critico, sarebbe il più sereno nel tono (lo testimonia, se non altro, il lieto fine), tanto che, a suo giudizio, è possibile definirlo una commedia nel cui ambito l’autore “insinua caratteristicamente ambiguità quasi dappertutto, nessun personaggio venendo presentato come totalmente positivo

8 In seguito abbreviato HE. La frase a cui si riferisce è: “ One may as well begin with Helen's letters to her sister.”

9 Patrizia Bellman Nerozzi, La fortuna di E.M. Forster in Italia, Saggio e Bibliografia

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o negativo.”10 Quindi la simmetria dei contrasti che si vengono a creare11 renderebbe più complesso il processo di identificazione e “schieramento” empatico da parte del lettore. D'Amico fa l'esempio di Miss Lavish (“il suo deplorevole romanzaccio ha la funzione positiva di rivelare Lucy a se stessa),” per non parlare di Miss Bartlett, che aveva ostacolato, fin dall'inizio, l'amore di Lucy, e finisce per determinarne la realizzazione. Questo modo di procedere sarebbe riscontrabile in tutta la narrativa forsteriana, come già Gori12 aveva notato per WAFT, l’altro romanzo “italiano.” Assieme all’ambiguità semantica, un' altra caratteristica forsteriana è l’ironia, che, a differenza di Gori, D’Amico non coglie tuttavia in maniera esplicita nel titolo di WAFT, in quanto una chiave di lettura così chiara sarebbe, a suo modo di vedere, poco “forsteriana.” Quel titolo era inoltre stato una scelta obbligata e fatta “a malincuore” da Forster stesso, all'interno di una rosa di proposte che Dent, il suo editore, gli fece all’epoca della pubblicazione. Se il tono sarebbe quello della commedia, il finale si rivela tragico, per cui ciò che emerge è, ancora una volta, l'impossibilità di separare in modo netto bene e male relativamente ai due modi di vita presentati, quello italiano e quello inglese: “sappiamo dove risiedano le simpatie dell’autore, ma egli non si fa illusioni sul conto di nessuno” (in questo, Gori e D’Amico concordano). Un altro elemento importante in questo romanzo, secondo il critico, è il ritratto di Philip, il protagonista, definito “uno dei primi antieroi della narrativa anglosassone”, nel quale possiamo ritrovare “un parziale e impietoso autoritratto dell’autore.” I contemporanei non ebbero la possibilità, secondo il critico, di rendersi conto di questa analogia, ma fecero egualmente congetture interessanti; D’Amico cita, infatti, una recensione dell’epoca, apparsa sul Bookman, che lo definì un libro “astuto”, in grado di dialogare con le “questioni principali della vita.”13

The Longest Journey14 è il romanzo in cui Forster sembra

maggiormente calare la maschera, come confessò lo stesso autore in una prefazione ad una ristampa del 1960, alla quale D’Amico si appella, commentando: “certi difetti […], che riguardano la costruzione, il numero forse

10 Masolino D’Amico, op. cit., p. xvi.

11 D’Amico ne elenca diversi: Italia-Inghilterra, paganesimo-puritanesimo, buon gusto-cattivo gusto, arte vissuta-arte intellettualizzata, sensi-raziocinio.

12 Stefano Gori, op. cit., p. 113. 13 Masolino D’Amico, op. cit., p. xix. 14 In seguito abbreviato LJ.

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eccessivo di morti improvvise, il cambiamento inopinato di tono degli ultimi capitoli, sono lo scotto che Forster non rimpianse di aver pagato in cambio della sensazione di essersi lasciato andare.”15 In effetti, il critico riconosce in

LJ l'impianto di un Bildungsroman, con molti punti di contatto fra la vita del

protagonista, Richie, e quella dell’autore, come già altri studiosi, anche italiani, avevano notato.16 Il contrasto, questa volta, è all’interno della società inglese, nei tre tipi di vita possibile esemplificati dai luoghi del romanzo: Cambridge, Sawston e il Wiltshire. Il profilo di modernità dell'opera è da cogliersi, secondo D'Amico, nell’impossibilità di intravedere una soluzione finale radicata nella “solidarietà virile” fra i due fratelli, Richie e Stephen (“uomo genuino,” quest'ultimo, che catalizza inesorabilmente la fine tragica del protagonista). Questa conclusione collocherebbe la scrittura forsteriana in una “posizione più avanzata e più drastica degli altri due grandi innovatori […] e autori di

Bildungsromane,” ovvero il Joyce del Ritratto dell’artista da giovane e il

Lawrence di Figli e amanti, poiché, a differenza di loro, Forster si pone anche alla fine della storia “la domanda su chi erediterà l’Inghilterra” e lascia la debole speranza di un mondo migliore alla figlia di Stephen, “che verrà allevata a contatto con una natura depositaria dell’autentico spirito del paese.”17

La medesima nota di speranza affidata alle giovanissime generazioni ― il figlio di Helen Schlegel e Leonard Bast, cresciuto in sintonia con i ritmi della natura― è riscontrabile in HE, dove lo scontro essenziale è fra due stili di vita, due culture all’interno della medesima classe alto-borghese britannica: quella rappresentata dai Wilcox, “solidi e concreti,” e quella delle Schlegel, “aperte, liberali e artistiche.” Il “trait d’union” è incarnato da Leonard Bast, il quale rimane tuttavia ai margini per poi scomparire dalla scena. D’Amico è comunque convinto che Forster non fornisca soluzioni “costruttive” nonostante il tentativo di connettere (Only connect è il motto costituente l'epigrafe), di conciliare i conflitti all’interno di quella stessa classe: l'autore, coerentemente alla sua “formazione liberale,” prenderebbe solo atto del problema. Il critico fa

15 Masolino D’Amico, op. cit., pp. xix-xx. 16 Patrizia Bellman Nerozzi, op. cit., pp. 71-74. 17 Masolino D’Amico, op. cit., p. xxi.

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inoltre notare come, alla luce di questo romanzo e del suo substrato simbolico, anche i precedenti possano acquistare “nuove risonanze e nuovi spessori.”18

Continuando il suo percorso cronologico, D’Amico arriva a parlare di

A Passage to India,19 che fu accolto con grande interesse non solo per il lungo

silenzio che lo precedette, ma anche per l’argomento trattato, molto attuale e relativamente poco indagato, ovvero l’India. Senza mai sottovalutare l'idea della presenza di un conflitto senza vincitori né vinti e la rilevanza dell'elemento socio-etnografico, D’Amico sottolinea come tratto rilevante il fatto che gli indiani “sono visti dall’interno con eccellente cognizione di causa.”20

A mio avviso, anche se in misura minore, Forster ha dimostrato altre volte questa capacità “fisionomistico-intuitiva,” come nella descrizione degli italiani in WAFT: pur non essendo mai venuto in contatto diretto con la gente del luogo (nonostante i suoi viaggi in Italia), l'autore dimostra qui di saper calibrare lo stereotipo con la verosimiglianza, anche se con qualche esagerazione folcloristica. Mi riferisco in particolar modo alla descrizione di ciò che succede, dal punto di vista del protagonista, all’arrivo di uno straniero nella cittadina di Monteriano. La realtà che ci viene delineata è, a mio giudizio, iperbolica e pittoresca, con tutte le persone che si affrettano a montare un teatrino per accondiscendere al gusto del turista straniero, ormai abituato ad un certo colore locale. D'altro canto, gli italiani hanno sempre dato una grande importanza all’ospitalità e alla disponibilità nei confronti dello straniero; la nostra spontaneità nei modi e anche il nostro senso di inferiorità, (forse non sempre giustificato) possono aver dato queste impressioni a Forster. Si può scorgere in questo senso una sorta di parallelismo fra gli italiani e gli indiani (perlomeno nella prima metà del Novecento), avendo entrambi questi popoli uno stretto rapporto con la Natura e i suoi ritmi; non a caso, in PI affiora la domanda “how’s one to see the real India? Try seeing Indians,”21 che riecheggia la frase pronunciata da Philip alla partenza di Lilia per l’Italia: “And don’t, let me beg you, go with that awful idea that Italy’s only a museum of antiquities and art. Love and understand the Italians, for the people are more

18 Id., pp. xxii-xxiii. 19 In seguito abbreviato PI.

20 Masolino D’Amico, op.cit., p. xxvi.

21 Edward Morgan Forster, A Passage to India, Harmondsworth, Penguin Books, 1970, p. 27. In seguito tutte le citazioni proverranno da questa edizione.

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marvellous than the land.”22 Il luogo, quindi, si rispecchierebbe nei suoi abitanti, e questo assunto varrebbe ancor di più nei territori in cui la Natura ha un ruolo ancora dominante.

I due personaggi principali di PI, Aziz, il medico indiano, e Fielding, il direttore del college, sono, secondo il critico, molto convincenti, anche se il primo nella sua sventura non raggiunge la grandezza, e il secondo (benché soggetto positivo, uomo di cultura che cerca di metter in pratica le sue idee) alla fine appare sconfitto nel tentativo di ristabilire un clima di reciproca fiducia con gli indiani, in particolar modo con Aziz. La famosa scena nella quale acquisisce valore drammatico la divergenza fra i due personaggi e i due universi culturali viene posta in rilievo da D’Amico: si tratta della cavalcata finale, quando i due amici tentano di abbracciarsi, ma vengono bruscamente separati dai cavalli che si scartano. L'ostacolo posto dagli animali e dagli altri elementi a un ricongiungimento tra individui di fatto separati da un divario culturale e politico pare ancora una volta suggerire la simbiosi esistente fra il popolo indiano e la Natura, la quale, nella sua saggezza, non ritiene ancora maturo il tempo della riconciliazione. L’immagine in questione è proprio quella che chiude il libro:

‘Why can’t we be friends now?’ said the other […] ‘It’s what I want. It’s what you want.’

But the horses didn’t want it – they swerved apart; the earth didn’t want it, sending up rocks through which riders must pass single file; the temple, the tank, the jail, the palace, the birds, the carrion, the Guest House, that came into view as they issued from the gap and saw Mau beneath: they didn’t want it, they said in their hundred voices, ‘No, not yet,’ and the sky said, ‘No, not there.’23

La conclusione è, dal mio punto di vista, quasi ovvia per un romanzo che suggerisce a più riprese la relazione simbolica fra il paesaggio e la popolazione, con una Natura che si confonde molto spesso con gli abitanti, tanto da non distinguere gli uni dall’altra. Si confronti ad esempio questo estratto dal primo capitolo:

22 Edward Morgan Forster, Where Angels Fear to Tread, Harmondsworth, Penguin Books, 1976, p. 19. In seguito tutte le citazioni proverranno da questa edizione.

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The very wood seems made of mud, the inhabitants of mud moving[...]; The toddy palms and neem trees and mangoes and pepul that were hidden behind the bazaars now become visible and in their turn hide the bazaars. They rise from the gardens where ancient tank nourish them, they burst out of stifling purlieus and unconsidered temples. Seeking light and air, and endowed with more strength than man or his works, they soar above the lower deposit to greet one another with branches and beckoning leaves, and to build a city for the birds […];

Only in the south, where a group of fists and fingers are thrust up through the soil, is the endless expanse interrupted. These fists and fingers are the Marabar Hills, containing the extraordinary caves.24

Questa conclusione è giustificata anche nell’ottica dell’autore, ben messa in evidenza da D’Amico, che trova nell'universo magmatico degli indiani un fondo di speranza, una connessione con il cuore e l’istinto. Forster ancora una volta non fornisce una via d’uscita chiara, ma suggerisce il percorso da intraprendere nella speranza di arrivare all’armonia, alla connessione di elementi distanti e superficialmente inconciliabili; egli pare lasciare la parola a una spontanea reattività che solo un popolo legato alla Natura e ai suoi ritmi è capace di mantenere. Questo è reso evidente attraverso il personaggio che in PI mostra maggiori affinità comunicative con gli indiani, ovvero Mrs Moore:

Mrs Moore, whom the club had stupefied, woke up outside. She watched the moon, whose radiance stained with primrose the purple of the surrounding sky. In England the moon had seemed dead and alien; here she was caught in the shawl of night together with earth and all the other stars. A sudden sense of unity, of kinship with the heavenly bodies, passed into the old woman and out, like water through a tank, leaving a strange freshness behind.25

Il sentirsi parte della Natura, dell’Universo, l’accogliere gli stimoli che il luogo naturale può donare, è a mio giudizio la caratteristica primaria di alcuni personaggi forsteriani,26 e rientra in quella predisposizione ideale per cui chi è più aperto a quegli influssi e sa conciliarli con un fondamentale substrato

24 Id., pp. 9-11. 25 Id., p. 30.

26 Vedi ad esempio Mrs Wilcox, Miss Abott, Mr Emerson e George Emerson, solo per citarne alcuni.

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culturale vive più intensamente; non a caso, Mrs Moore è indotta ad adottare un comportamento freddo e distaccato quando è troppo condizionata da un ambiente sociale conformista.

A conclusione di questa panoramica, D’Amico considera Forster non solo un autore divenuto un classico, ma soprattutto un critico e saggista mai ‘caduto nell'oblio:’ ciò riguarda in generale anche la sua produzione postuma, per non parlare delle numerose traduzioni e studi filologici che molti critici contemporanei gli hanno dedicato. I suoi testi narrativi hanno inoltre ispirato altre forme d’arte, come quella moderna del cinema. D’Amico cita a tal proposito le prime due riduzioni cinematografiche: A Passage to India (1984) di David Lean e A Room with a View (1986) di James Ivory.27 La ragione fondamentale che però, secondo il critico, ha permesso a Forster di sopravvivere al suo tempo è il carattere di universalità del suo messaggio: “Forster studia e descrive alcuni tratti fondamentali dell’uomo di ogni tempo e ogni Paese ed è per questo che il suo messaggio continua a dimostrarsi valido anche per la nostra epoca, alla quale a questo punto è lecito prevedere che sopravviverà.”28

Un’ultima considerazione merita il giudizio del critico riguardo ad

AN, opera che egli ritiene “un piccolo autentico classico della provocazione

sommessa.” Tenendo presente ciò che lo stesso Forster ebbe a confessare all’amica Virginia Woolf, riguardo alla sua difficoltà ad affrontare argomenti di critica letteraria, D’Amico considera il volumetto:

« soltanto » la garbata, urbana chiacchierata a braccio di un anziano signore ironico e, dietro l’apparenza svagata, originale non meno che penetrante, il quale avendo scartato a priori, con finta modestia, ogni erudizione e ogni organizzazione storica del suo materiale, avendo rinunciato programmaticamente a qualsivoglia ricerca di influssi, tendenze, periodi e derivazioni, mette insieme i suoi autori in un salotto – […] – e li tratta, come persone vive, con cui, più che di cui, discutere.29

27 Alla data di pubblicazione dell’introduzione di D’Amico sono le uniche due realizzazioni cinematografiche delle attuali cinque. Abbiamo, infatti, nel 1987 Maurice, diretto da James Ivory, nel 1991 Where Angels Fears to Tread, diretto da Charles Sturridge, e nel 1992

Howards End, diretto da James Ivory. Cfr filmografia in appendice.

28 Masolino D’Amico, op.cit., p. xxviii. 29 Id., p. xii.

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Questo è, in effetti, il tono di tutto il libro e la maniera con la quale Forster ha affrontato i vari argomenti è volutamente aliena da tecnicismi; ma ciò non toglie che le sue argomentazioni siano servite anche a critici di professione per le loro riflessioni teoriche. Un esempio è dato dal libro di Franco di Brioschi e Costanzo Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria,30 dove abbiamo, nella parte che ci interessa, un’analisi della struttura e delle forme del racconto, partendo dalla ricerca condotta da Propp sulle fiabe di magia, ovvero da un modello morfologico del racconto secondo le funzioni dei personaggi, per poi arrivare nel capitolo successivo ad altri aspetti costitutivi del racconto, distinguendo la voce, il tempo e il punto di vista. Nella parte riguardante l’analisi del racconto, gli autori mettono dapprima a fuoco la distinzione tra fabula e intreccio, risalente ai formalisti russi, per poi arrivare al modello di Segre, che suggerisce una quadripartizione: discorso, intreccio, fabula e modello narrativo.

Il capitolo che ci riguarda è il successivo, relativo alle tipologie del personaggio; gli autori, infatti, citano subito la definizione che Forster fornisce in AN di Homo Fictus, termine da lui stesso coniato per denominare “la popolazione che abita e vive i romanzi e i racconti in generale.”31 Elencando le varie caratteristiche dell’Homo Fictus rispetto ai cinque grandi elementi principali ( nascita, cibo, sonno, amore, morte) che modellano la vita dell’Homo Sapiens, secondo la descrizione di Forster, gli autori chiariscono che il punto cruciale messo in evidenza in AN è proprio l’esistenza ontologica e irriducibile dell’Homo Sapiens rispetto a quella dell’Homo Fictus, legata strettamente a ciò che è raccontato. Questa differenza, dicono gli autori, è essenziale anche se un po’ elementare e “in ogni caso sottolinea la necessità di parlare […] del sistema dei personaggi rappresentati all’interno dell’opera.”32 Per una loro classificazione, che tenga conto dell’azione svolta all’interno del testo, viene ancora menzionato il lavoro di Forster nella sua distinzione fra due possibili tipi di personaggi in un romanzo: quelli “disegnati” o “ piatti,” e quelli “modellati” o “ a tutto tondo.” I primi si riconoscerebbero perché costruiti su un’unica idea o qualità e possono essere, quindi, definiti con un’unica frase, non cambiano né si evolvono, a differenza di quelli modellati che sono, invece,

30 F. Brioschi, C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato, 1984. 31 Id., p. 186.

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disponibili “per una vita più larga.” La prova certa che siamo in loro presenza è la capacità che hanno di “sorprenderci in modo convincente.”33 Gli autori arrivano alla conclusione che le informazioni fornite da uno scrittore su un dato personaggio sono il punto di partenza per la determinazione del personaggio stesso; siamo poi noi lettori a dargli “corpo.” Il personaggio in definitiva è un “paradigma aperto” che il lettore contribuisce a completare. Il personaggio può diventare, in questo modo, portavoce di vari conflitti “ attraverso i quali noi ci prospettiamo modi di vita e interpretiamo la nostra stessa esperienza.”34

La distinzione fra i due tipi di personaggi operata da Forster, a mio parere, ci consente di leggere e capire con più attenzione i suoi romanzi; credo che anche il lettore meno esperto riuscirebbe ad orientarsi in maniera proficua. Il lavoro di Forster rende, in effetti, più comprensibile e quindi più fruibile una materia complicata come la critica letteraria, partendo da considerazioni di base, importanti anche per critici di professione come Brioschi e Di Girolamo, i quali, per la realizzazione del loro lavoro, hanno fatto riferimento a formulazioni di studiosi come Chatman, Genette, De Benedetti, Segre, solo per citarne alcuni. Il lavoro svolto da Forster risulta soprattutto utile quando si compilano manuali che hanno anche l’obbiettivo di fornire un bagaglio teorico per studenti di materie umanistiche, per i quali si rende necessaria una trattazione il più possibile semplice e diretta, che ponga le basi per un discorso più complesso.

Non a caso, anche D’Amico lo ritiene “lettura d’obbligo per ogni studente di letteratura inglese,”35anche se più come “gioiello” in sé, io credo, che non come affinato strumento teorico per lo studio della letteratura. Quello che ancora per il momento non viene detto esplicitamente, a proposito di AN, è la sua carica innovativa e precorritrice di alcuni cardini della teoria del romanzo, come già lamentava Nerozzi,36 e la sua poca considerazione in ambito letterario come documento che dimostra non solo l'esperienza e la consapevolezza dell’autore, ma anche la sua straordinaria modernità. Forse la stessa sfiducia che Forster aveva nei riguardi della critica letteraria37 è

33 Id., p. 189. 34 Id., p. 190.

35 Masolino D’Amico, op.cit., p. xii. 36 Patrizia Nerozzi Bellman, op.cit., p. 68.

37 In un incontro con Alberto Arbasino (vedi “Il maestro reticente” in Lettere da Londra, Milano, Adelphi, 1997, pp. 37-38; già in Parigi o cara, Milano, 1960) dichiarò la sua sfiducia

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ricambiata con uno scarso riconoscimento delle sue capacità di “analista testuale.”

nella critica letteraria, così motivandola: « […] la critica tende a fare la maliziosa, tante volte senza scopo. Pare soprattutto inutile, insomma. Nei romanzi invece…Ci si scopre.»

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Capitolo 3: 1988

L’Italia ritorna argomento principale nel saggio di Fabio Flego1, lavoro breve e acuto, che analizza più specificamente la funzione del nostro Paese nei primi due romanzi, WAFT e RWV e in alcuni racconti, The Story of a

Panic, The Eternal Moment e The Story of the Siren. Flego parte dal

presupposto che nella vita dell’autore le esperienze maggiormente influenti siano state il periodo di studi a Cambridge e il tour italiano; il periodo universitario pose le basi, rappresentando una “parentesi di libertà e indipendenza,”2 per la successiva maturazione avvenuta in Italia, e quest’ultima “diviene […] il polo su cui misurare l’Inghilterra.”3

Anche per Flego vale la lezione che Forster impartì nel saggio Notes

on the English Character,4 dove risulta palese come il maggior difetto degli

inglesi sia temere e trattenere le emozioni, cosicché l’Italia finisce per oggettivare l’opportunità di vivere liberamente, di riuscire a confessare a se stessi i propri sentimenti e di saperli comunicare agli altri, di “mettere a nudo l’interiorità, i segreti reconditi.”

Questa sua interpretazione mi trova pienamente concorde e trovo inoltre significativo il ruolo che il critico assegna alla Natura, che “tocca l’animo e lo fa vibrare di passione.” Viene data un’ampia sequenza di esempi in nota, ognuno dei quali rappresenta momenti particolarmente coinvolgenti e suggestivi, che vanno dal “senso di stretta della mano-natura” in The Story of a

Panic, al “fascino della natura-mare di viole lungo la strada per Monteriano” in WAFT, al “farsi della sera con i suoi riverberi sul paesaggio circostante” in RWV, solo per citarne alcuni.5 Ciò che ne esce è un quadro decisamente

orientato sul coinvolgimento delle atmosfere naturali, che predispongono gli animi a maggiori aperture anche al di fuori dei ‘symbolic moments.’

Tale modo di intendere l’elemento naturale avvalora la mia tesi, secondo la quale l’intento perseguito da Forster in tutti i suoi romanzi è quello

1 Fabio Flego, “ Il mito italiano di E.M. Forster,” Miscellanea di Studi Sociolinguistici, 2:4 (1988), pp. 107-125.

2 Id., p. 107. 3 Id., p. 109.

4 E. M. Forster, op. cit., p. 13.

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di indicare un percorso di vita che ritorni a considerare la Natura come referente imprescindibile delle nostre emozioni. In effetti, la Natura diventa un vero e proprio personaggio all’interno delle opere forsteriane; essa agisce sui soggetti umani catalizzando metamorfosi di tipo umorale ed emozionale, piuttosto che linguistico.

L’Italia è per Flego il simbolo stesso del ‘concetto di vita,’ e produce un profondo cambiamento in alcuni personaggi chiave; ad esempio, Lucy in

RWV, “da fanciulla timida e schiva” si trasforma in una “donna libera e

matura” attraverso l’acquisizione dell'autoconsapevolezza. Nello stesso romanzo anche Cecyl Vyse si trasforma, secondo il critico, ma avvertendo in sé “irritation” e non “tolerance,” come Lucy, nei confronti della società angusta e opprimente che lo circonda. Su WAFT questo contatto vivificante ha i suoi effetti anche su Philip Herriton, che riesce a riformulare il suo concetto di vita, arricchendolo di aspetti nuovi derivanti dalla riconsiderazione degli elementi spontanei e naturali, nonché dell'amicizia e degli affetti.

Non è solo l’Italia geografica a creare certe atmosfere, ma anche il suo popolo, che per Flego è la chiave di un ulteriore elemento di salvezza: “la terra esprime il modello di comportamento e temperamento del popolo che vi vive.”

Tra la terra e il popolo esisterebbe uno scambio rigenerante, che ha in sé un elemento divino. Per spiegare in maniera più chiara quanto già detto, e per meglio capire la tipologia dello scenario italiano, il critico inserisce due passi tratti da WAFT e RWV, che sono rispettivamente “i preparativi di Monteriano alla notizia dell’arrivo di Philip e la vista fiorentina che affascina Lucy nello spalancare la finestra sull’Arno.”6

Dell’atteggiamento italiano, la scena, in WAFT, mette in risalto quel misto di “curiosity” e “kindness” che accompagna i nuovi arrivi e che Flego analizza anche da un punto di vista linguistico; l’azione, infatti, “è scandita da una serie di how,” atti a ribadire l’atteggiamento di cui sopra. La frenesia e la trepidazione, invece, vengono sottolineate, secondo il critico, “dall’insistenza sul verbo to run che è ripetuto quattro volte.”7

La partecipazione italiana è presente in altre parti del libro: ad esempio, i passanti anonimi che assistono all’incontro fra Gino e l’amico Spiridione creerebbero la medesima atmosfera, un misto di curiosità per ciò

6 Id., p. 111. 7 Id., p. 112.

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che i due amici si confidavano, e condivisione di un certo modo di comportarsi con gli altri e in primo luogo con la propria moglie.

La scena di RWV produce, secondo Flego, l’effetto del “local-color box,” in quanto sarebbe volontà dell’autore, nella ripetizione di “it was

pleasant,” di indirizzare l’attenzione della protagonista sul “blue sky and the

men and women who live under it;” il risultato è la fusione della percezione visiva con quella uditiva nella composizione di un quadro completo e tridimensionale della quotidianità italiana. Per dirla con le parole del critico:

Se pensiamo a Lucy affacciata alla finestra, la pagina stampata acquista allora uno spessore tridimensionale dove i sensi, vista, udito e olfatto, concorrono a rendere completa la forsteriana abilità di osservare il pulsare spontaneo della vita.8

Flego coglie nei giusti termini questa capacità dell’autore di dipingere la cornice italiana: un pullulare di vita e vigore in cui uomini ed elementi naturali verrebbero considerati nella loro totalità. I personaggi italiani sono, in effetti, delle presenze simboliche e Flego mette in risalto in maniera particolare “la schiera di vetturini,” presenti in entrambi i romanzi esaminati; in queste figure è possibile scoprire una funzione simbolica, che diventa “potenziale strumento di salvezza per Lilia durante la passeggiata solitaria […] o mezzo di percezione interiore per Lucy in cerca dei due Reverendi,”9 nella famosa gita a Fiesole.

Flego fa riferimento ad un altro episodio significativo per dipingere “l’italianità,” quando ricorda “la famosa scena dell’opera a teatro” di WAFT, dove affiorano il modo di vivere e la partecipazione degli italiani agli avvenimenti di inizio secolo.

Tutte queste presenze italiane sarebbero unificate da una fondamentale caratteristica, sia in RWV che in WAFT, ovvero quella della ‘divinazione.’ Forster parla di “usual gift of divination”10 e, nell’interpretazione di Flego, l’uso del sostantivo gift sta a significare che “egli lo sente sicuramente non solo

8 Id., p. 113. 9 Id., p. 114.

10 “His fellow passengers had the usual gift of divination, and when Monteriano came they knew he wanted to go there, and dropped him out.” E. M. Forster, WAFT, Harmondsworth, Penguin Books, 1976, p. 33.

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come qualcosa di positivo […], ma soprattutto qualcosa di graziato e di importante assegnato dalla Natura o dal Fato […].”11

A conferma di questa positività, il critico ricorda le parole pronunciate a proposito degli italiani dal Reverendo Beebe, il quale dapprima sostiene che “they see everything,” poi arriva a dire “they foretell our desire,” a testimonianza di una capacità di lettura del pensiero. Questa qualità, secondo Flego, non si impara, ma è “insita nell’animo dell’individuo,” in quanto dono di Dio, ed è la Sua Grazia che porta gli italiani dei romanzi forsteriani a comprendere la giusta direzione o la giusta persona.

Flego conclude il saggio con un’ultima considerazione sull’Italia, vista come luogo della Natura, indice di libertà e vitalità e quindi patria degli “angeli,” contrapposta all’Inghilterra, luogo delle regole e patria dei “burattini.” Per avvalorare questa sua tesi, il critico individua in ciascuno dei due romanzi i personaggi inglesi che nascono burattini e in Italia si trasformano in angeli: Philip in WAFT e Lucy in RWV. Entrambi sono in balia dei burattinai: Mrs Herriton per Philip e Miss Bartlett per Lucy, che, tarpando loro le ali, li condannerebbero ad una vita sterile. I due ragazzi hanno, però, un animo disposto al cambiamento; in loro si agitano sentimenti che devono solo essere scoperti e l’Italia gliene fornisce l’occasione. Gli angeli cominciano quindi ad usare le ali che li conducono, finalmente, alla comprensione del loro cuore:

La divinazione angelica degli italiani, protagonisti o anonime figurine, nella saggezza e felicità che emana dalla loro simbolica semplicità, riverbera il suo effetto su quella “pattuglia di inglesi spauriti e brividenti” in direzione dell’assoluta verità che l’angelo-coscienza-sirena sembra additare a quel bambino-bontà-angelo a cui è demandato il compito di “destroy silence, and save the world.”12

La conclusione, per Flego, è metaforizzata da un palcoscenico su cui le marionette si liberano finalmente dei fili del burattinaio e acquistano la loro autonomia, ritrovando l’anima.

11 Fabio Flego, op.cit., p. 115. 12 Id., p. 117.

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Capitolo 4: 1989

Interessante nelle sue considerazioni finali è la postfazione a Maurice, datata 1989, di Marisa Bulgheroni,1 la quale in principio ritiene l'opera come “la più rischiosa carta romanzesca” giocata da Forster, anche se, a mio modo di vedere, l'autore non si era posto nella condizione di rischiare la sua serenità e fama, vista la decisione di pubblicare il romanzo solo dopo la sua morte.

All'uscita dell'opera i giudizi furono, comunque, controversi in Inghilterra, tracciando una panoramica che andava “da quadro fedele della condizione omosessuale in epoca edoardiana […] a didattica confessione o patetico autoritratto.” Sta di fatto che, secondo Bulgheroni, rimane “la parola ultima” del romanziere, di cui pochi, a suo giudizio, percepirono un effetto voluto di paradosso.

La studiosa individua, in effetti, la presenza di due “libri” all’interno del romanzo: il primo sarebbe quello della vita diurna del protagonista, con i suoi paesaggi suggestivi e poetici, che rimane all’interno di un canone di normalità ben riconoscibile e delimitabile, privo di emozioni vere e forti; l’altro sarebbe quello in cui il visivo si fa visionario con l’irrompere del buio e della forza propulsiva del sogno. Questo secondo libro, definito ‘notturno,’ si cela dietro quello ‘diurno,’ caratterizzato dalle apparenze, le quali vengono poco alla volta erose “fino a che la notte si insedia luminosa nello spazio del giorno.”2

Quest’immagine dei due racconti paralleli, che si contendono il primato della visibilità e dell’autenticità, fornisce una lettura molto appropriata del romanzo, indice di una dualità della vita che rimanda ai grandi temi affrontati da Forster anche negli altri romanzi. Qui il dissidio è fra la vita convenzionale e una che non può essere svelata e condotta in modo aperto.

Il tema fondamentale affrontato, continua Bulgheroni, non è quindi l’omosessualità del protagonista, ma la sua felicità, che non è realizzabile nella società in cui vive; il critico parla, infatti, di “Bildungsroman del corpo che al

1 Marisa Bulgheroni, “Postfazione” a Maurice, Milano, Garzanti, 1989, pp. 319-324. 2 Id., p. 320.

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corpo affida la memoria dell’esperienza e la progettazione del futuro, quasi il «negativo» o il rovescio dei tanti ritratti d’artista del Novecento.”3

Maurice è costretto nella sua scelta omosessuale ad una “radicale invenzione del sé” e, nell’inventarsi “ uno spazio immaginario,” riesce a vivere liberamente le proprie passioni e a “scomparire, vivo, dal libro che porta il suo nome.”4 Questo non succedeva alle adultere dell’ '800, come Madame Bovary e Anna Karenina, che pagarono con il suicidio le loro scelte; e neppure al contemporaneo di Maurice, Von Aschenbach di La morte a Venezia, è permesso di vivere l’infrazione, a causa della sua morte improvvisa.

Sul piano formale questo romanzo è basato sulla dualità, che Bulgheroni ricorda essere il corrispettivo dell’eco in PI; in effetti, Maurice delinea una frattura ben evidente fra l’io interiore e quello esteriore, che conduce “al pericolo della doppiezza” o meglio “all’esigenza individuale dello sdoppiamento.”

Ci troviamo di fronte alla crisi di identità del protagonista, che cerca negli altri un “riflesso illusorio di sé,” un suo alter ego, o doppio, che possa aiutarlo a capirsi e, quindi, a conoscersi meglio. Il nodo cruciale è sempre quello di accettarsi per quello che si è e dichiararsi in piena sincerità agli altri. Accoglie questo suo bisogno Alec, il guardiacaccia, che Bulgheroni non esita a definire “l’amico dei sogni,” poiché risponde al grido disperato di Maurice, durante una notte inquieta. Questo personaggio, per usare le parole della studiosa, è “quasi strappato, forzato all’esistenza” da Maurice, ed in effetti, “poiché è il desiderio inconscio [del protagonista] che l’ha scelto e chiamato, Alec entra nelle pagine del romanzo con l’imperio del divino.”5 Potrebbe, quindi, secondo quanto dice Bulgheroni, essere il corrispettivo degli italiani che avevano la capacità di intuire i desideri più reconditi degli inglesi e di realizzarli, con il cosiddetto potere di divinazione, come lo definisce Flego6 nel suo saggio.

Alec è quindi il mito, la fantasia che si trasforma in realtà e conduce Maurice alla realizzazione del proprio io, anche quello corporeo, e lo porta fuori della realtà, nelle foreste inglesi; queste possono diventare luoghi mitici,

3 Ibidem. 4 Id., p. 321. 5 Id., p. 323.

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dove l’attimo unico della scelta di vita può essere prolungato all’infinito; tale è il potere che secondo Bulgheroni, Forster attribuisce alla “parola narrativa.” Per questo motivo, il critico conclude il saggio assimilando Maurice ai “racconti fantastici degli esordi, scenari di metamorfosi popolati da presenze mitiche,” e, in effetti, “la vita nascosta” del protagonista, che vince sulla storia di superficie, quella ‘diurna,’ diventa mito e non permette il ritorno. Ecco spiegato, secondo Bulgheroni, la ragione del silenzio di Forster dopo la stesura di questo romanzo: “la soglia del mito non si varca due volte.”7

Ciò che distingue questa lettura dalle precedenti8 è la poca attenzione rivolta alla vicenda biografica dell’autore, che sembrava l’unica ragione alla base della genesi del romanzo. Inoltre, assimilare Maurice agli esordi dei racconti fantastici e alla sfera del mito lo conduce fuori degli schemi di una lettura realistica di “tensione sociale” o di “parabola dell’omosessualità.” È indubbio che questi argomenti siano compresi all’interno della storia, ma la sua denuncia sociale è veicolata da Forster parallelamente al bisogno di sogni e di elementi fantastici e utopici, che aiutano a ritrovare la propria serenità. Maurice considera più vera la vita nel mito, avulsa dalla società che l’ha cresciuto, ma non l’ha reso felice; quindi la scelta finale di abbandonare tutto il suo mondo per la realizzazione del sogno, del suo stesso io, è una scelta eroica e positiva, anche se può non avere futuro. Riprendendo un pensiero di Forster, citato anche da Nerozzi,9 possiamo affermare che la felicità può profilarsi e va allora colta al volo; l’unica incertezza rimane la sua durata, per cui non sappiamo quanto possano condividere il loro sentimento i due innamorati. Fondamentale sarebbe, in ogni caso, anelare alla conquista della felicità stessa.

Sempre al 1989 risale un saggio di Franca Bacchiega10 su PI articolantesi in cinque paragrafi che si propongono di studiare il significato profondo del romanzo. Gli elementi messi in luce dalla studiosa genovese si rivelano essenziali per una comprensione adeguata dell'opera, non solo nelle sue implicazioni filosofiche e culturali, ma anche in quelle politiche e religiose.

7 Marisa Bulgheroni, op. cit. p. 324. 8 Patrizia Nerozzi, op. cit. pp. 79-84.

9 Id., p. 94. “Felicità. Sono stato felice per due anni. Può darsi che duri ancora, ma voglio tenerne nota, prima che tutto sia sciupato dalla sofferenza, perché la sofferenza opera sempre allo stesso modo dentro il tessuto della vita: sciupa e straccia le belle trame che ha trovato. Dal 1951 al '53 sono stato felice, e mi piacerebbe ricordare agli altri che a tutti può accadere di esserlo. E' questo il solo messaggio che valga la pena di trasmettere.”

10 Franca Bacchiega, “Passaggio in India di E. M. Forster,” Città di Vita: Bimestrale di

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Bacchiega prende le mosse dall’idea molto diffusa “che PI sia l’espressione di un unico tema,” ovvero “«l’abisso fra il mondo dell’azione e il mondo dell’essere»,” nonché “«il raggiungimento dell’armonia attraverso le due antitesi dell’essere e del non essere, del vero e del falso, del reale e dell’irreale.»”11 Questa opinione, da lei condivisa, le stimola una serie di considerazioni: intanto, l’argomento “India” era molto scottante all’epoca di Forster, “un delicato problema di coscienza,” tanto che PI sarebbe divenuto “un romanzo shake souls,”12 anche se si presentava come un'opera stilisticamente equilibrata. In realtà, la sua impostazione sarebbe solo apparentemente olimpica: Forster, infatti, ci costringerà “a modificare via via il nostro giudizio,” spostando l’angolo di visuale e i punti di riferimento. La trama è molto ricca di azione, ma anche di riflessioni da parte sia inglese sia indiana, con emozioni contrastanti e situazioni che precipitano inaspettatamente. Un aspetto del carattere inglese sul quale Forster insiste, anche in questo romanzo, è quello dell’undeveloped heart; infatti, i britannici “sono descritti come insensibili, chiusi, arroganti,” soprattutto le donne, maggiormente legate al loro prestigio sociale. Non è un caso che a creare confusione e un gran scompiglio nella comunità sia proprio una inglese, ed è sempre lei, Adela Quested, secondo l’arte forsteriana del contrappunto, a subire però “l’impatto con la cultura indiana, nella sua essenza più profonda,” rimanendone travolta.13

Il tema che, come un filo conduttore, percorre tutto il libro è secondo Bacchiega quello della separativeness che caratterizza ogni rapporto umano e diventa fonte di dolore nel momento in cui emerge nelle difficili interazioni fra gli indù e i mussulmani. Questi ultimi sono quelli più presenti e attivi all’interno del romanzo: lo stesso Aziz, uno dei personaggi principali, è mussulmano; Bacchiega lo definisce “maker degli avvenimenti più importanti del romanzo,” ma sono gli indù che pervadono con la loro cultura tutta la storia, legati al silenzio e all’atmosfera meditativa che caratterizza quella terra.

In questo contesto è difficile per un inglese inserirsi agevolmente; troviamo, infatti, un’unica rappresentante della cultura occidentale che riesce ad avvertire l’influsso dell’India e a comprendere le peculiarità più radicate:

11 Id., p. 265. 12 Id., p. 266. 13 Id., p. 267.

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Mrs Moore. Forster, secondo Bacchiega, ci fa intendere in più occasioni che questo personaggio è in grado di percepire e di essere partecipe della cultura e sensibilità indù; il suo soggiorno in India sarà caratterizzato da un crescendo di percezioni e di emozioni molto forti.

Continuando il percorso gnoseologico, Bacchiega cerca di dare un significato ad ognuno dei tre luoghi nei quali si svolge l’azione e che rappresentano anche i tre momenti simbolici del romanzo: la moschea, le grotte di Marabar e il tempio indù. Il primo luogo “è simbolo di separazione a tutti gli effetti,” osserva Bacchiega, soprattutto fra inglesi e mussulmani. Qui Aziz si rifugia, per allontanarsi dagli europei che lo avevano irritato e offeso e, paradossalmente, qui egli incontra Mrs Moore, un’inglese sui generis, simpatica e sensibile tanto da farlo esclamare: “«voi siete un’orientale!»”.14

Le grotte di Marabar sono il luogo dell’avvenimento chiave, volontariamente lasciato dall’autore nel mistero; ciò che intuiamo, dice Bacchiega, sono le voci che si sentono all’interno delle grotte, “di orrore e di disperazione, le voci del negativo, del notturno profondo, del caos.”15

Il terzo luogo è il tempio indù, dove la figura del Prof. Godbole campeggia, diventando sempre più enigmatica quanto immensa e immersa nella vita dello spirito. Bacchiega considera la sua figura di grandissima importanza nell’economia del romanzo, in quanto “ha impersonato […] la vita dello spirito a diversi livelli.”16 Godbole non fa nessuna differenza fra gli esseri viventi e il resto del Creato; ognuno va, infatti, osservato e compreso assieme a tutto ciò che lo circonda, e solo così può essere apprezzato nella sua autenticità e pienezza. Questo personaggio è stato provvido di insegnamenti per tutto il romanzo, ci ha spiegato come il Male ed il Bene siano entrambi aspetti di Dio, ovvero la sua assenza e la sua presenza, e come l’universo sia mistero, non confusione, che attende la venuta di Dio. La celebrazione della nascita di Krishna introduce, secondo Bacchiega, il tema “della universalità dove un dio permea tutto,” cosicché “le voci delle grotte Marabar sono cancellate dalla discesa dell’Infinitive Love;” con questo l’autore suggella il significato di tutta la storia.17 14 Id., p. 269. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Id., p. 270.

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Alle grotte Marabar Bacchiega affida un intero paragrafo, poiché esse rappresentano l’esperienza centrale di tutta la storia e di questa definiscono il senso. Tutto si basa sulla concezione orientale del mondo che Forster, secondo il critico, conosceva bene. Abbiamo quindi grazie all’esperienza vissuta nelle grotte, l’analisi approfondita di una delle due donne inglesi, Mrs Moore, che si ritroverà trasformata, completata nel suo intimo. Il significato delle grotte, suggerisce Bacchiega, corrisponde all’impalpabilità della vera essenza di ognuno di noi; tutto rimane, per questo motivo, misterioso, inesplicabile; lo stesso Forster non riesce con le parole a descrivere cosa rappresentino realmente le Marabar, tantomeno cosa succeda alle persone che vi entrano. Questo perché è difficile rappresentare l’elusività come concetto, nel romanzo lasciato all’immaginazione: Forster presenta le grotte in un crescendo di effetti atti ad aumentare il mistero, il fascino, la loro elusiveness. Bacchiega suppone rappresentino “un qualche principio della realtà cosmica non ancora, […] ben definito,” o almeno così, secondo il critico, sembra suggerire l’autore stesso. Le Marabar “conservano tutta la natura insondabile dei principi universali […], offrendo quello che sembra essere il doppio volto, il doppio significato di tutti i miti universali.”18 Queste grotte hanno, quindi, un significato complesso, poiché possono essere considerate l’anello di congiunzione “fra l’esistere e il non-esistere, fra la separazione e l’unità.” Del resto, ricorda Bacchiega, la grotta in generale ha sempre avuto una duplice valenza: quella di riparo, protezione, e quella di tomba.19 Le grotte di Marabar rappresentano, quindi, il tentativo di unire Materia e Spirito, servono a far comprendere cosa significhi la completezza dell’esistenza, l’alternanza di vita e morte. Mrs Moore arriva a questa conclusione, capisce che tutto è in relazione e che ognuno di noi è una piccola parte dell’universo, privo di senso nella sua singolarità. Questa verità la sconvolge all’inizio, perché mina le sue convinzioni occidentali, dettate dalla sua formazione cristiana, che ora le appare troppo ristretta.

“Tutto esiste, nulla ha valore:” questo è il significato della vita che le grotte ci suggeriscono, e l’esperienza del Nulla è quello che se ne ricava. La sensazione non è gradevole, e lo smarrimento porta inizialmente Mrs Moore a chiudersi al mondo, nel tentativo di ritrovare un proprio equilibrio; secondo Bacchiega il concetto di vuoto suggerito dalle grotte è fondamentale per

18 Id., p. 271. 19 Id., p. 272.

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