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Tossicodipendenza: correlazione tra psicopatologia specifica e variazioni del proteoma salivare a seguito del trattamento con agonisti oppioidi.

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DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale In Farmacia

TESI DI LAUREA

“TOSSICODIPENDENZA: CORRELAZIONE TRA

PSICOPATOLOGIA SPECIFICA E VARIAZIONI DEL

PROTEOMA SALIVARE A SEGUITO DEL

TRATTAMENTO CON AGONISTI OPPIOIDI”

Relatore:

Prof.ssa Maria Rosa Mazzoni

Correlatore:

Dott. Angelo G. I. Maremmani

Candidato:

Eleonora Campani

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Indice

Introduzione ... 1

1.1 Cenni storici sull’eroina ... 1

1.2 Effetti dell’eroina sull’organismo ... 5

1.2.1 I recettori degli oppioidi ... 5

1.2.2 Effetti fisiologici ... 9

1.2.3 Psicopatologia della dipendenza ... 12

1.3 Come si sviluppa la dipendenza da eroina ... 16

1.3.1 La biochimica della dipendenza ... 16

1.3.2 Altri fattori di rischio... 20

1.3.3 “Craving” o desiderio insaziabile di assumere la sostanza ... 20

1.4 Metodi per il trattamento della dipendenza da eroina ... 22

1.4.1 Trattamento con metadone ... 22

1.4.2 Alternative al metadone ... 26

1.4.3 Possibili trattamenti biologici innovativi ... 29

1.4.4 Utilizzi alternativi degli agonisti oppioidi ... 30

1.5 Funzione e composizione della saliva ... 31

1.5.1Uso della saliva come liquido biologico per la ricerca di biomarcatori ... 35

Scopo della tesi ... 37

Materiali e metodi... 38

3.1 Reclutamento dei pazienti ... 38

3.2 Raccolta delle salive ... 39

3.3 Dosaggio colorimetrico DC Bio-Rad per quantificare le proteine

totali ... 39

3.4 Elettroforesi Bidimensionale (2-DE) ... 41

3.4.2 Isoelettrofocusing ... 43

3.4.3 Equilibratura delle strip per la seconda corsa elettroforetica ... 45

3.4.4 Seconda corsa elettroforetica (SDS-PAGE) ... 46

3.5 Colorazione dei gel col colorante fluorescente [Ru(BPS)₃]Na₄ ... 48

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3.7 Analisi statistica dei risultati ... 49

Risultati e conclusioni ... 50

Bibliografia ... 61

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CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

1.1 Cenni storici sull’eroina

L’eroina fu elaborata dall’azienda farmaceutica tedesca Bayer alla fine dell’Ottocento, dallo stesso gruppo di ricerca che aveva introdotto l’aspirina. Questi ricercatori erano convinti che l’eroina avrebbe dato un prezioso contributo alla medicina come inibitore della tosse per aiutare la respirazione dei pazienti con gravi malattie polmonari. Questa convinzione si riflette nell’origine del nome del farmaco: il termine tedesco “heroisch” significa “eroico”.

L’eroina non fu però una scoperta originale del gruppo Bayer. Augustus Matthiessen, quando fu nominato docente di chimica alla St Mary’s Hospital Medical School di Londra nel 1862, focalizzò la sua ricerca sugli alcaloidi dell’oppio. Dopo la morte di Matthiessen, nel 1874 il suo collaboratore Charles Alder Wright sintetizzò numerosi esteri della morfina, tra cui l’acetilcodeina, l’acetilmorfina e la diacetilmorfina (Figura 1).

Figura 1 - Le strutture molecolari di morfina ed eroina (diacetilmorfina)

Successivamente, nel 1888, il chimico David Dott e il medico Ralph Stockman fecero degli esperimenti sulla diacetilmorfina somministrata ad alcune rane e scoprirono che essa aveva un’azione molto più intensa della morfina. Due anni dopo riferirono alla British Medical Association che la diacetilmorfina non solo era più efficace della morfina nel deprimere il midollo spinale ed il centro del respiro nelle rane e nei conigli, ma che aveva anche un’azione narcotica più debole. Era più probabile inoltre che alte dosi di diacetilmorfina provocassero le convulsioni rispetto alla morfina. Tuttavia, l’argomento principale della loro relazione era l’effetto della struttura chimica del nuovo composto sull’attività farmacologica, mentre non sembravano essere interessati al suo potenziale.

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Solo nel 1898 venne fatto un ulteriore accenno all’attività farmacologica della diacetilmorfina. Joseph von Mering, un medico che sarebbe diventato famoso per la scoperta dei sonniferi barbiturici, avvalorò le scoperte di Stockman e Dott e confermò gli stessi effetti farmacologici nei cani. Tuttavia, continuò a riferire che le sue numerose osservazioni cliniche avevano mostrato che la diacetilmorfina aveva una capacità minore della morfina nel sopprimere la tosse ed era molto meno efficace come analgesico. Durante l’estate precedente, infatti, von Mering aveva testato senza successo la diacetilmorfina su pazienti con un’avanzata tubercolosi polmonare. Sostenne inoltre che la diacetilmorfina cloridrato era inadatta all’uso in clinica a causa della sua instabilità chimica e della sua scarsa solubilità in acqua, tanto da non permettere la formulazione di preparati iniettabili. Von Mering analizzò anche altri oppiacei, tra cui l’etilmorfina, che lo colpì particolarmente per la sua efficacia nell’alleviare la tosse anche in pazienti con tubercolosi polmonare per i quali la codeina si era rivelata inefficace. Nel gennaio 1898, l’azienda Merck mise in commercio l’etilmorfina come inibitore della tosse, acclamandola come rimedio di qualità superiore rispetto alla codeina. Quindi l’etilmorfina fu il primo derivato semi-sintetico della morfina ad essere introdotto in clinica e deve aver influenzato la successiva decisione della Bayer di introdurre l’eroina per scopi clinici simili.

Nel 1894, il reparto di scienze farmaceutiche della Bayer aveva messo in commercio con successo la preparazione Tannigen contro la diarrea. Questo farmaco era un derivato semi-sintetico dell’acido tannico in cui due dei suoi gruppi fenolici erano stati acetilati; la Bayer affermava che l’acetilazione aveva eliminato l’irritazione causata dall’azione astringente dell’acido tannico sui tessuti della bocca e dello stomaco. Arthur Eichengrün, diventato direttore del laboratorio di scienze farmaceutiche della Bayer nel 1895, riprese gli studi sull’acido salicilico, che era già stato modificato e messo in commercio come Salophen, un analgesico antipiretico e antireumatico in cui il gruppo carbossilico era stato mascherato attraverso l’esterificazione con paracetamolo per ridurre l’azione irritante sui tessuti dello stomaco. Il lavoro di Eichengrün era in linea con l’approccio usato nel caso del Tannigen: si voleva sostituire il gruppo fenolico dell’acido salicilico con un gruppo alchilico o acilico. Ci riuscì un assistente di Eichengrün, Felix Hoffmann, che preparò l’acido acetilsalicilico, successivamente messo in commercio come Aspirina.

Hoffmann riportò sul suo quaderno di laboratorio di aver sintetizzato la diacetilmorfina il 21 agosto 1897, due settimane dopo aver sintetizzato l’acido acetilsalicilico. Un’ipotesi ragionevole è che Eichengrün avesse deciso che la morfina doveva essere acetilata per lo

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stesso motivo degli acidi tannico e salicilico, vale a dire per evitare i comuni effetti collaterali di nausea e vomito.

Successivamente Heinrich Dreser, che fu nominato direttore del laboratorio di farmacologia della Bayer nel 1897, cominciò a fare ricerche sulla diacetilmorfina nei conigli, ma presto passò agli esseri umani: il suo interesse principale era accertare il potere della molecola come sostituto della codeina nella tosse grave. Dreser riferì le sue scoperte al Congresso dei Medici e Scienziati Tedeschi a Düsseldorf il 19 settembre 1898: gli studi sui conigli lo avevano convinto che la diacetilmorfina, oltre ad alleviare la tosse, era straordinariamente capace sia di rallentare che di rendere più profonda la respirazione. Accertamenti su volontari e pazienti sembrarono confermare questa scoperta e permisero a Dreser di concludere che il nuovo farmaco sarebbe stato di enorme importanza nelle gravi patologie respiratorie, dal momento che non solo inibiva la tosse, ma poteva anche aiutare a liberare i polmoni dal muco in eccesso.

Convinta del valore del nuovo farmaco, la Bayer registrò il nome “Eroina” nel giugno 1898. Molti medici confermarono entusiasticamente la convinzione dell’azienda che la nuova molecola avesse un’azione altamente specifica come stimolante dei polmoni e venne fatto anche un confronto tra l’azione della digitale sul cuore e dell’eroina sui polmoni, dato che entrambi venivano giudicati come farmaci con un’azione altamente specifica nel rallentare, da una parte, l’attività del loro organo bersaglio, mentre dall’altra ne aumentavano la forza. L’eroina venne messa in commercio nel settembre 1898 (Figura 2).

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Un primo studio clinico negli USA concluse che l’eroina era inferiore alla morfina come analgesico, un’opinione riportata anche nella monografia sull’acetomorfina (il primo nome approvato per l’eroina) nel British Pharmaceutical Codex del 1907. Questo dimostra che da allora l’affermazione di un’azione stimolante sul centro del respiro venne abbandonata, ma solo nel 1911 von Issekutz pubblicò la prova del fatto che Dreser si era sbagliato: l’eroina aveva in realtà effetti inibitori sul sistema respiratorio, quindi la sua azione era qualitativamente simile a quella della morfina, della codeina e dell’etilmorfina. Dal momento che l’eroina è due volte più potente della morfina nel reprimere la tosse, quando fu introdotta per la prima volta le piccole dosi orali raccomandate avevano causato assuefazione solo in pochi pazienti. Però, siccome l’eroina veniva somministrata soprattutto in caso di malattie polmonari croniche, la cura sarebbe stata continua nascondendo così i sintomi dell’astinenza. Di conseguenza, per un po’ di tempo l’eroina si procurò la fama di non dare più assuefazione della codeina. Tuttavia, nell’edizione del 1911 del British Pharmaceutical Codex si osservò che era facile diventare dipendenti dall’eroina quasi quanto dalla morfina.

Il problema della dipendenza diventò un argomento di interesse pubblico negli USA dopo la pubblicazione, nel 1912, di una relazione ad opera di Phillips, un medico che menzionò casi di dipendenza dall’eroina tra persone che avevano inalato la droga. Le persone con questa dipendenza avevano sfruttato l’assenza di qualsiasi legge che limitasse la vendita dell’eroina, che secondo le supposizioni non dava dipendenza. La droga era più facilmente reperibile come farmaco da banco rispetto alla codeina ed era più potente della morfina, cosa che permise alle persone dipendenti di nasconderne piccole quantità che potevano essere inalate, fumate, deglutite o iniettate. Nell’ultimo caso, l’alta solubilità dell’eroina confrontata con quella dei sali della morfina facilitò l’uso della droga. Nel dicembre 1914, il Congresso degli Stati Uniti approvò l’Harrison Act che introdusse controlli federali sui narcotici e limitò il contenuto massimo di eroina nelle specialità farmaceutiche a meno di 10 mg per grammo di prodotto. Sebbene alcuni medici si fossero battuti per mantenere il loro diritto a somministrare l’eroina, la maggior parte smise di prescrivere la droga dopo il 1915, anche se fino al 1924 non fu introdotto un completo divieto. Anche molti altri Paesi decisero di vietare l’uso medico dell’eroina, ma non il Regno Unito, dove in quegli anni non si era verificata un’epidemia di abuso dell’eroina come negli Stati Uniti. Certamente veniva riconosciuta la necessità di prendere precauzioni; infatti l’edizione 1954 del British Pharmaceutical Codex dava un forte

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avvertimento sull’eroina: “Dovrebbe essere usata con molta attenzione e solo quando analgesici o inibitori della tosse meno pericolosi sono risultati insufficienti o inappropriati”. Tuttavia, l’edizione 1963 comprendeva una formulazione analgesica di diacetilmorfina “per iniezione sottocutanea in dosi di 5 o 10 milligrammi per dare sollievo al dolore e all’agitazione nelle fasi terminali di un carcinoma ed altre patologie mortali”; 10 anni dopo si parlava anche di somministrare la diacetilmorfina in combinazione con la cocaina [1].

Alcune ricerche scientifiche hanno dimostrato che, nonostante numerosi programmi sociali, psicologici e medici volti a ridurre il fenomeno dell’abuso delle sostanze, il numero di individui dipendenti dagli oppioidi è in costante aumento in tutto il mondo. Oggi la dipendenza dagli oppioidi viene considerata una crisi globale di salute pubblica e nei Paesi dell’Unione Europea il tasso dei consumatori varia da 1 a 5 ogni 1000 abitanti tra i 15 e i 64 anni [2]. Secondo l’OMS, le morti per overdose da oppioidi sono aumentate da 69.000 nel 2014 a 118.000 nel 2015 [3,4].

1.2 Effetti dell’eroina sull’organismo

1.2.1 I recettori degli oppioidi

L’eroina esercita il suo effetto legandosi ai recettori oppioidi specifici per le morfine endogene o endorfine [5]. I recettori degli oppioidi appartengono alla superfamiglia dei recettori accoppiati alla proteina G (GPCR), che sono di gran lunga i recettori più abbondanti sulla superficie delle cellule e anche i target di circa un terzo dei farmaci approvati e messi in commercio (Figura 3).

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I sottotipi più importanti dei recettori degli oppioidi sono tre, δ, μ e κ, e vengono attivati da peptidi endogeni come le endomorfine, le encefaline e le dinorfine, ma anche da alcaloidi presenti in natura e da ligandi sintetici e semi-sintetici [6]. Sono localizzati sia nel sistema nervoso centrale che in quello periferico, in particolare:

 in aree coinvolte nella trasmissione del dolore, come il talamo, il midollo rostrale-ventromediale (RVM), la sostanza grigia periacqueduttale, il ponte ed il corno dorsale del midollo spinale;

 in aree appartenenti al sistema di ricompensa, come il nucleus accumbens, l’area ventrale tegmentale o la corteccia;

 in altre aree del cervello, come l’ipotalamo, l’amigdala, il pallido ventrale, il globo pallido, il nucleo del rafe, l’ippocampo ed il bulbo olfattivo;

 nei tessuti periferici, come il tratto gastrointestinale e respiratorio (Tabella 1).

Tabella 1 - Funzioni e sito d'azione dei vari tipi di recettori oppioidi

Il legame di un ligando endogeno o esogeno con un recettore oppioide porta sia all’attivazione di una proteina Go/Gi che alla successiva fosforilazione del recettore stesso da parte di una famiglia di chinasi chiamate chinasi dei recettori accoppiati alla proteina G (GRK). Il recettore fosforilato nella regione C-terminale intracellulare è

Recettore oppioide

Sito d’azione Effetti

μ Sistemico Analgesia, euforia, costipazione, depressione respiratoria

Periferico Analgesia, costipazione, ridotta infiammazione δ Sistemico Analgesia, convulsioni, ansia

Periferico Analgesia, costipazione κ Sistemico Analgesia, diuresi, disforia

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capace di interagire con la β-arrestina, che a sua volta può così attivare una cascata di segnalazione intracellulare.

Le proteine G sono formate da tre subunità: α, β e γ. Quando la proteina G non è attivata, la subunità α ha legato il GDP ed interagisce con il complesso eterodimerico βγ. Il legame del ligando al recettore ne stimola l’attivazione attraverso cambiamenti conformazionali che sono responsabili di una più stretta interazione con la proteina G ed in particolare con la subunità α, che a questo punto scambia il GDP con il GTP e così si dissocia dal complesso βγ (Figura 4).

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Le subunità Gαi/o-GTP libere possono modulare l’attività di vari effettori, tra cui inibire l’adenilato ciclasi, attivare il sistema delle ERK/MAP chinasi, chiudere canali per il calcio e far aprire canali del potassio (Tabella 2). Anche il complesso βγ libero è capace di modulare l’attività di numerosi effettori, tra cui attivare la PLC, attivare od inibire isoforme diverse dell’adenilato ciclasi, determinare la chiusura di vari tipi di canali per il calcio ed indurre l’apertura di canali per il potassio (Tabella 2) [7].

La famiglia delle proteine Gαi/Go e delle proteine Gβγ è composta da numerosi sottotipi che hanno diverse localizzazioni tissutali e diverse funzioni, come riportato in Tabella 2.

Tabella 2 - Tabella riassuntiva dei sottotipi delle proteine Gαi/Go e Gβγ, con le loro funzioni ed espressioni

Sottotipo Funzione Espressione

Gαo₁ Gαo₂

↓ adenilato ciclasi, ↓ canali del Ca²⁺, ↑ canali del K⁺

Neuroni, cellule neuroendocrine, astroglia, cuore

Gαi₁₋₃ ↑ attivazione del sistema ERK/MAP chinasi, ↓ adenilato ciclasi, ↓ canali del Ca²⁺, ↑ canali

del K⁺, ↑ GTPasi della tubulina

Neuroni e molti altri tessuti

Gαz ↓ adenilato ciclasi, ↓ canali del Ca²⁺, ↑ canali del K⁺

Piastrine, neuroni, cellule cromaffini surrenali, cellule

neurosecretorie

Gαt₁₋₂ ↑ cGMP-PDE Segmenti esterni dei coni e dei bastoncelli, papille gustative

Gαgust ? Papille gustative del dolce e

dell’amaro, chemorecettori delle vie aeree

Gβ₁₋₅ ↑ PLCβ β₅: neuroni, organi neuroendocrini, retina

Gγ₁₋₁₂ ↓ adenilato ciclasi I, ↑ adenilato ciclasi II-IV-VII, ↑ canali del K⁺,

↓ canali del Ca²⁺ e altre

β₁γ₁: bastoncelli della retina β₃γ₈: coni della retina

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Tutti i sottotipi delle proteine Gαi/Go sono sensibili alla tossina della pertosse, tranne la Gαz; le Gαt₁₋₂ risultano essere sensibili anche alla tossina colerica [9].

Per quanto riguarda l’analgesia, quella data dagli oppioidi è fortemente associata all’attivazione dei recettori μ presenti nel sistema nervoso centrale. A livello sovraspinale, gli analgesici oppioidi stimolano i recettori μ localizzati sugli interneuroni GABA-ergici nel RVM e, di conseguenza, fanno diminuire il rilascio del GABA. Fisiologicamente il GABA, agendo sui recettori GABA-A, inibisce le cellule “OFF” a livello dell’RVM, e questo successivamente fa aumentare il potenziale d’azione. Quando i livelli di GABA si riducono, diminuisce l’inibizione tonica delle cellule “OFF” e il loro segnale inibisce la percezione del dolore nel midollo spinale. Inoltre, l’attivazione dei recettori μ presenti sulle cellule GABA-ergiche “ON” nell’RVM inibisce queste cellule. Quindi, la disinibizione delle cellule “OFF” e la diretta inibizione delle cellule “ON” provoca l’effetto analgesico. A livello spinale, gli effetti analgesici indotti dagli oppioidi sono mediati dall’attivazione dei recettori μ presinaptici localizzati nel corno dorsale del midollo spinale; il loro innesco causa l’iperpolarizzazione della membrana. Queste modificazioni nella polarizzazione della membrana portano all’inibizione del rilascio dei mediatori del dolore come il glutammato, la sostanza P e il peptide collegato al gene della calcitonina (CGRP); di conseguenza, la trasmissione del dolore attraverso la via ascendente appare attenuata [7].

La formazione del complesso arrestina-recettore oppioide porta alla desensibilizzazione del recettore, in quanto previene l’accoppiamento della proteina G e promuove l’internalizzazione del recettore attraverso una via clatrina-dipendente. I recettori oppioidi defosforilati possono essere riciclati e la loro reintegrazione sulla membrana plasmatica ristabilisce la trasduzione del segnale, mentre quelli captati dai lisosomi vengono degradati [8].

1.2.2 Effetti fisiologici

L’eroina, come gli altri oppiacei e oppioidi, fa parte degli inibitori del sistema nervoso centrale. Viene utilizzata sotto forma di sale, in genere il cloridrato solubile in acqua e adatto per l’iniezione. Può essere anche preparata sotto forma di base libera, più adatta al consumo inalatorio. L’eroina, essendo più liposolubile della morfina, attraversa più rapidamente la barriera ematoencefalica ed agisce più velocemente. Di per sé non costituisce un buon agonista dei recettori oppioidi, ma è il precursore per altri oppiacei

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(la morfina e la 6-monoacetilmorfina o 6-MAM) di cui facilita la penetrazione nel cervello. Il rapido aumento delle concentrazioni di questi due oppiacei, in particolare della 6-MAM, nel tessuto nervoso spiega l’effetto più intenso e più gradevole della diacetilmorfina in rapporto alla morfina. L’attivazione dei recettori oppioidi causa una potente analgesia ed euforia. I primi sintomi clinici che si verificano sono una grave miosi e una riduzione della frequenza respiratoria. Gli effetti avversi sono quelli caratteristici degli oppioidi: disforia, nausea e vomito, soprattutto nei soggetti poco esperti. L’appetito diminuisce e la motilità gastro-intestinale si riduce, provocando costipazione. Gli oppiacei stimolano la liberazione di istamina, provocando una sensazione di calore alla pelle e prurito. La temperatura corporea si riduce leggermente, accompagnata da secchezza delle fauci e sudorazione. All’aumentare della dose il soggetto manifesta un rilassamento psicomotorio e una tendenza ad addormentarsi. La frequenza respiratoria, il ritmo cardiaco e la pressione sanguigna diminuiscono gradualmente. La gravità di questi sintomi dipende dalla dose e dalla tolleranza del soggetto; una dose troppo alta può peggiorare la depressione respiratoria fino a provocare un coma mortale [5].

Uno studio proteomico, che ha analizzato il siero di 110 soggetti dipendenti dall’eroina, ha identificato la variazione della concentrazione di alcune proteine: la transtiretina, l’aptoglobina e la catena J delle immunoglobuline (IgJ). Nei pazienti dipendenti dall’eroina i livelli dell’ormone tiroideo tirosina (T4) e del suo trasportatore transtiretina aumentano, turbando quindi la funzionalità della tiroide; l’aptoglobina invece viene collegata positivamente alla dipendenza dall’eroina quando manca completamente nel siero dei soggetti, nei quali frequenza del fenotipo Hp0 è molto più alta (anaptoglobinemia). La scoperta nel siero dei soggetti dipendenti della IgJ dimostra che la dipendenza dall’eroina si correla a modificazioni del sistema immunitario [10]. Un altro studio ha evidenziato che l’assunzione cronica dell’eroina può far alterare i livelli della glicemia, degli elettroliti, delle proteine e dei lipidi nel siero, facendo aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, dell’osteoporosi e di disfunzioni renali ed epatiche. Per esempio i livelli di proteine totali appaiono più bassi, come anche quelli del colesterolo e della glicemia a digiuno. L’ipocolesterolemia osservata nei soggetti dipendenti dall’eroina è stata attribuita alla malnutrizione [11,12]. La diminuzione dei livelli plasmatici di glucosio sembra essere dovuta all’elevata utilizzazione del glucosio e all’inibizione della gluconeogenesi epatica, effetti entrambi dovuti all’attivazione dei recettori oppioidi μ periferici; inoltre potrebbero essere coinvolte anche delle modificazioni epigenetiche dei geni associati al metabolismo del glucosio [13]. Elementi

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come calcio, zinco, ferro, manganese, potassio e cloro diminuiscono in modo significativo nei soggetti dipendenti, come anche il testosterone, l’ormone luteinizzante (LH), l’ormone follicolo-stimolante (FSH) e l’ormone paratiroideo a causa dell’inibizione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi. Il consumo di eroina causa anche iperprolattinemia [14-16].

Le persone che assumono eroina presentano spesso un problema di scarsa massa ossea e, talvolta, di osteoporosi; la diminuzione della massa ossea potrebbe essere allo stesso modo legata allo stile di vita o al consumo cronico di altre sostanze psicoattive come l’alcool, ma è noto che gli oppiacei inibiscono l’attività degli osteoblasti [17,18]. Alcuni ricercatori hanno dimostrato che questi soggetti presentano valori più alti di quei marcatori biochimici che indicano un aumento dell’attività degli osteoclasti, come il β-CTX (marker di riassorbimento osseo) e la fosfatasi alcalina. Questi dati suggeriscono che nei soggetti dipendenti dagli oppioidi aumenta il rimodellamento osseo, in particolare i valori alti di β-CTX indicano un aumento del riassorbimento osseo, mentre valori alti di fosfatasi alcalina e PINP (marker di formazione ossea) indicano che aumenta la produzione ossea. Si può concludere quindi che in questi pazienti esiste un equilibrio dinamico tra distruzione e formazione ossea, ma è l’attivazione concomitante dei due fenomeni che causa uno stress a livello delle ossa ed è il preludio per l’osteoporosi. Inoltre, il fatto che anche i livelli di ormone paratiroideo nei soggetti dipendenti siano significativamente più bassi suggerisce che questo aumentato turnover osseo è indipendente dall’azione del PTH [19].

La maggior parte delle persone dipendenti dall’eroina ha problemi dentali, che possono avere molteplici cause: gli oppioidi diminuiscono la salivazione e questo fa aumentare le carie, i problemi alle gengive e quindi il rischio di caduta dei denti. Tutto ciò è aggravato da una cattiva e irregolare alimentazione e la diminuzione della soglia del dolore a causa del consumo degli oppioidi può ritardare il ricorso alle cure. Una cattiva igiene è evidentemente un fattore aggravante [20].

Gli effetti dell’eroina variano anche in base al metodo di somministrazione. L’utilizzo attraverso la via endovenosa causa i rischi maggiori: la pratica dell’iniezione compromette il sistema venoso e può causare ascessi, setticemia e necrosi [21]. La condivisione del materiale (ago, cotone, filtri, cucchiaio, acqua) può veicolare malattie come l’HIV, l’epatite C, l’epatite B, il tetano o la tubercolosi; le infezioni sono dovute anche al fatto che gli oppioidi hanno proprietà immunomodulatorie e immunosoppressive [22]. I recettori oppioidi sono espressi anche nelle cellule del sistema immunitario e sono

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stati riportati dei potenti effetti immunomodulatori da parte dei loro ligandi naturali e sintetici [23]. Si pensa che l’eroina o i suoi costituenti possano diventare antigeni o formare complessi antigenici con le proteine endogene, quindi ci si può aspettare anche la comparsa di anticorpi diretti verso questi antigeni [24]. I pazienti dipendenti dall’eroina, confrontati con i soggetti sani, hanno mostrato elevate concentrazioni di IgG ed IgM, ridotte concentrazioni di C4 e un aumento dell’incidenza del fattore reumatoide, degli anticorpi anti-β2GP1, degli immunocomplessi circolanti (CIC) e delle crioglobuline [25]. È presente anche un elevato rischio di endocardite a seguito di iniezioni non sterili e gli stessi ricercatori che hanno riscontrato un aumento della transtiretina, dell’aptoglobina e della IgJ nel siero, hanno analizzato delle variazioni nella vitronectina, una proteina che ha un ruolo importante nella formazione degli aggregati piastrinici e che può riflettere la somministrazione intravenosa dell’eroina [10,26]; questo succede perché si formano delle microlesioni sull’endotelio della valvola tricuspide del cuore che portano

all’attivazione delle piastrine [27].

Una seconda tecnica per consumare l’eroina è l’inalazione [28]: l’eroina in polvere, a volte mescolata alla caffeina, viene prima messa su un supporto di alluminio e dopo viene scaldata con la fiamma di un accendino passato sotto l’alluminio. Quando la polvere fonde rilascia un vapore, che l’utilizzatore inala con una cannuccia e che provoca un effetto intenso e immediato. Uno dei vantaggi dell’inalazione è che un iperdosaggio impedisce al soggetto di continuare la somministrazione, limitando in questo modo il rischio di overdose mortale, e riduce anche la trasmissione delle infezioni, anche se l’epatite C potrebbe continuare a essere trasmessa attraverso la condivisione della cannuccia usata per inalare. Alcune analisi non hanno mostrato nemmeno un aggravamento notevole delle condizioni polmonari dei pazienti dopo 12 mesi di trattamento con diacetilmorfina. L’alluminio bruciato che viene inalato durante la somministrazione di diacetilmorfina potrebbe aggravare le condizioni dei pazienti, in particolare a livello neurologico, in quanto l’alluminio è neurotossico [29].

1.2.3 Psicopatologia della dipendenza

Gli studi sui consumatori di eroina elencano spesso delle “comorbidità” psichiatriche, per esempio disturbi della personalità, problemi affettivi, problemi di ansia e depressione, anche se la relazione tra l’abuso di sostanze e altri disturbi psichiatrici è ancora un problema insoluto. I disturbi legati all’abuso di sostanze vengono identificati in base ai

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sintomi principali della dipendenza (continuare ad assumere la droga nonostante le conseguenze, riduzione di altri interessi e attività, appetito patologico, perdita del controllo, ecc.), mentre i sintomi tipicamente collegati alla sfera della comorbidità psichica rappresentano sia le origini che le manifestazioni cliniche dei disturbi da abuso di sostanze e della dipendenza e quindi dovrebbero essere anch’essi incorporati nella loro nosologia. La relazione tra abuso, uso e dipendenza dalla sostanza e altri disturbi psichiatrici è complesso, ma sono possibili quattro spiegazioni:

 la presenza di un disturbo mentale causa o facilita la manifestazione della dipendenza;

 la dipendenza dalla sostanza fa insorgere altri disturbi mentali;

 le cause alla base sia della dipendenza dalla sostanza che dei disturbi mentali sono le stesse;

 fattori legati al campionamento, alla scelta degli strumenti per la diagnosi, alla ricerca e all’analisi possono aver portato ad una stima sbagliata della comorbidità. Le malattie psichiatriche ed i disturbi da uso di sostanze hanno molte caratteristiche in comune; l’abuso di una sostanza può suscitare o anche mascherare una sintomatologia psichiatrica concomitante, ma indipendente. Gli individui mentalmente malati possono ricorrere all’uso di sostanze per attenuare i sintomi psichiatrici o per contrastare gli effetti collaterali dei vari farmaci che vengono loro somministrati. La crisi di astinenza dalla droga può essere un’altra causa di questa psicopatologia [30]. Gli oppiacei di solito generano disturbi dell’umore durante l’intossicazione, mentre il loro utilizzo cronico provoca un crollo dell’attivazione noradrenergica del sistema nervoso centrale. Durante gli episodi maniacali, l’uso della sostanza può dipendere dalla perdita di inibizione, dalla riduzione del giudizio, dall’impulsività o dalla mancanza di attenzione. Altri autori affermano che la labilità dell’umore si sviluppa come conseguenza del neuro-adattamento del sistema nervoso centrale all’esposizione cronica all’eroina. L’ipotesi primaria è che la depressione indotta dall’eroina derivi dalle alterazioni funzionali nel sistema endorfinergico, noradrenergico ed ipofisi-surrene [31]. I disturbi dell’umore possono presentarsi anche durante la disintossicazione da un oppiaceo; sembra che la depressione ricorra più frequentemente tra i pazienti che sono passati attraverso una riduzione graduale del metadone (60%) rispetto a quelli per cui è stato applicato il trattamento di mantenimento con il metadone dopo la cessazione dell’uso di eroina (25%) [32]. La riduzione dell’uso degli oppiacei può quindi indurre l’insorgenza dei disturbi psichiatrici

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quali depressione, ma anche psicosi e mania, cosa che predispone il soggetto al rischio di ricadute nell’uso di eroina [33]. Le sindromi bipolari sono probabilmente i disturbi psichiatrici maggiormente rappresentati tra i pazienti dipendenti dall’eroina [34]. In molti di questi pazienti si possono riscontrare anche i sintomi dell’ansia, anche se è difficile decidere se l’ansia sia di tipo primario o sia secondaria all’uso della sostanza [35]. Alcuni ricercatori hanno sottoposto 1055 pazienti dipendenti dall’eroina al questionario SCL-90 (Symptom Checklist-90, questionario autosomministrato ampiamente utilizzato in psichiatria, non solo per le tossicodipendenze) per evidenziare le loro caratteristiche psicopatologiche ed eventualmente collegarle alla dipendenza:

 il 14,2% di questi pazienti ha mostrato una sintomatologia depressiva caratterizzata da una sensazione di inadeguatezza e di essere intrappolato o catturato;

 il 24,4% aveva sintomi somatici come dolori muscolari, dolori alla schiena, gambe e braccia pesanti, debolezza e stanchezza, perdita della sensibilità, parestesie, ecc.; questi elementi di solito sono anche collegati all’astinenza dagli oppiacei;

 il 19,4% ha mostrato sintomi psicotici che riflettono una sensibilità interpersonale: questi pazienti hanno l’impressione che gli altri li stiano fissando e stiano parlando di loro, che possano fare qualcosa contro di loro o li vogliano sfruttare;

 il 22,3% aveva una sintomatologia tipica di uno stato di panico, che può essere riassunta come agorafobia: paura di uscire da soli, episodi di ansia critica, paura di viaggiare in autobus, treno o metropolitana, sensazioni di svenimento, capogiri e paura di sentirsi male o a disagio davanti ad altre persone;

 il 19,7% ha mostrato la volontà di farsi del male, suicidarsi od essere aggressivi nei confronti degli altri.

Tra le variabili sociodemografiche analizzate, l’unica che ha differenziato in modo significativo i gruppi di pazienti è stata l’età: i tossicodipendenti caratterizzati da sintomi psicotici, volontà di suicidarsi e stati di panico sono più giovani. Le caratteristiche psicopatologiche di questi soggetti non sembrano essere correlati al sesso e anche la durata della dipendenza non differisce tra le varie dimensioni psicopatologiche analizzate [36]. Si è visto poi che la psicopatologia era presente non solo nei soggetti che consumavano attivamente eroina, ma anche in quelli già disintossicati, anche se questi ultimi presentavano dei sintomi molto meno gravi. Comunque l’unico aspetto che ha

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davvero discriminato tra il gruppo dei pazienti disintossicati e quello dei pazienti non disintossicati è stato la sintomatologia somatica [37].

Spesso la dipendenza dalle sostanze e il disturbo da stress post-traumatico o PTSD (post-traumatic stress disorder) coesistono; le accomunano delle anormalità a livello dei neurotrasmettitori, per esempio i bassi livelli plasmatici di serotonina, gli alti livelli plasmatici di catecolamine, un’alterazione simile dell’asse ipotalamo-ipofisario, un’iperattività generalizzata del sistema nervoso simpatico ed infine alterazioni morfologiche e funzionali del sistema nervoso centrale [38,39]. Delle correlazioni così forti suggeriscono l’idea che lo spettro dello PTSD dovrebbe essere considerato come parte integrante della psicopatologia della dipendenza [30]. Il PTSD può causare la dipendenza; è stata postulata un’ipotesi di “auto-medicazione” secondo la quale i soggetti con questo disturbo fanno uso di sostanze per alleviarne i sintomi, sviluppando così una dipendenza [40]. Questa ipotesi è supportata dalla correlazione tra la gravità della dipendenza da eroina e la gravità del PTSD; più i sintomi del PTSD sono gravi, più sostanza viene assunta come auto-medicazione, più grave è la dipendenza da eroina. Il PTSD può anche svilupparsi come conseguenza della dipendenza; uno stile di vita pericoloso causato dalla dipendenza da una sostanza fa aumentare l’esposizione del soggetto ad eventi illegali e traumatici e, quindi, la maggiore probabilità di sviluppare il PTSD [41].

La dipendenza dall’eroina è associata anche a profonde alterazioni nella struttura e nella composizione del cervello [42]. L’abuso cronico di eroina danneggia in modo molto duraturo la funzione cognitiva, altera la funzione del sistema nervoso centrale e colpisce la corteccia prefrontale, l’insula temporale ed il talamo, come anche il nucleus accumbens, l’amigdala e le strutture senso-motorie. Studi con la risonanza magnetica (MRI) hanno inoltre confermato la diminuzione della densità della materia grigia nelle regioni corticali prefrontale e temporale. La materia grigia contiene la maggior parte dei neuroni di tutto il cervello e una riduzione della sua densità può ripercuotersi direttamente sul controllo muscolare, sulla percezione sensoriale, sulla memoria, le emozioni, il linguaggio e le capacità decisionali del cervello [43].

Il cervello dei pazienti morti in seguito a un’overdose da eroina mostra, all’esame autoptico, un edema cerebrale e un aumento del peso dell’organo. È stata notata anche una diminuzione del flusso sanguigno cerebrale, soprattutto nella corteccia frontale e temporale. Studi post-mortem hanno evidenziato che i soggetti dipendenti dall’eroina mostrano un deficit dei recettori α2 adrenergici nella corteccia frontale, nell’ipotalamo e

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nel nucleo caudato. Presentano anche delle alterazioni nella densità corticale delle subunità delle proteine G; nello specifico, è stato evidenziato un aumento significativo dell’immunoreattività per la subunità Gβγ nella corteccia temporale e un aumento della densità della subunità Gα nella corteccia frontale.

Chi assume eroina mostra numerosi deficit cognitivi nei test neuropsicologici e questi deficit riguardano la memoria visiva, la memoria di lavoro, la velocità di elaborazione e la funzione esecutiva [42]. Appaiono alterati anche l’acutezza sensoriale e la risposta agli stimoli, come anche la capacità di giudizio e la concentrazione [5].

1.3 Come si sviluppa la dipendenza da eroina

La dipendenza dagli oppioidi è una condizione cronica e recidivante, caratterizzata da una compulsiva auto-somministrazione della droga nonostante le conseguenze negative. Il 53% degli individui che fanno uso di eroina diventa dipendente, proprio a causa delle proprietà motivazionali positive (euforizzanti) di questa droga [44].

La dipendenza si sviluppa come risultato di una somministrazione a lungo termine di sostanze che hanno un potenziale d’abuso e comprende una dipendenza fisica e/o psicologica. La dipendenza fisica è associata alla formazione di cambiamenti neuroadattativi nel sistema nervoso centrale, sia a livello molecolare che cellulare. La dipendenza psicologica viene definita come uso compulsivo della droga per migliorare la percezione di benessere [7]. La dipendenza dall’eroina si sviluppa più rapidamente dopo l’uso intravenoso [42].

1.3.1 La biochimica della dipendenza

Una così profonda alterazione del comportamento umano da parte di composti chimici relativamente semplici deve aver origine da qualche importante evento biochimico che avviene da qualche parte nell’organismo. Tutte le droghe psicoattive hanno come target il sistema di ricompensa nel cervello e quindi producono le sensazioni positive e le emozioni associate alla dipendenza. Questo sistema si oppone al sistema di anti-ricompensa, che è responsabile dello stress, della disforia e dell’appetito patologico (“craving”) associati all’astinenza. La dipendenza si sviluppa quando avviene un cambiamento nell’omeostasi creata da questi due sistemi nel cervello.

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Durante l’intossicazione acuta la via mesolimbica, che comprende le proiezioni dopaminergiche dall’area ventrale tegmentale (VTA) al nucleus accumbens e alla corteccia frontale, si attiva ed aumenta così il rilascio della dopamina, specialmente nel nucleus accumbens; questo fa scaturire dei sintomi rinforzanti positivi, come l’euforia (Figura 5).

Figura 5 - Struttura del sistema mesolimbico coinvolto nei meccanismi della dipendenza

Sono coinvolti anche altri sistemi di neurotrasmettitori ed ormoni, come gli oppioidi endogeni, il GABA (acido γ-amminobutirrico), il glutammato, il neuropeptide Y ed i glucocorticoidi [46]. L’effetto motivante degli oppioidi è associato anche alla stimolazione dei recettori μ localizzati nei terminali GABA-ergici dell’area ventrale tegmentale; questa stimolazione inibisce il rilascio del GABA, che a sua volta toglie l’inibizione dai neuroni dopaminergici e porta al rilascio della dopamina nel nucleus accumbens [7].

Con il progredire della dipendenza, viene reclutato il sistema di anti-ricompensa attraverso l’amigdala estesa (una macrostruttura costituita da nucleus accumbens, amigdala, ipotalamo e nucleo del letto della stria terminale): questo sistema attiva le vie

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dello stress mediate dall’aumento delle dinorfine, del fattore di rilascio della corticotropina o CRF (corticotropin-releasing factor) e della noradrenalina. Sembra che le dinorfine abbiano un ruolo importante nello sviluppo della disforia, dell’anedonia e del comportamento di ricerca compulsiva della droga. In risposta all’intossicazione acuta, l’eccessiva attivazione dei recettori della dopamina nel nucleus accumbens può far aumentare la produzione delle dinorfine, le quali attraverso i recettori oppioidi κ esercitano un feedback negativo sul rilascio della dopamina nel sistema mesolimbico e sul rilascio del glutammato nel nucleus accumbens. Questo fa sì che il sistema mesolimbico diventi ipodopaminergico e sia sotto-regolato, sviluppando così anedonia e tolleranza agli effetti euforici degli oppioidi. Il sistema di anti-ricompensa è mediato anche dal rilascio del CRF dall’ipotalamo, che di conseguenza porta al rilascio del cortisolo dalle ghiandole surrenali. Questo porta anche ad una risposta noradrenergica da stress (rilascio di noradrenalina dalla midollare del surrene) che è indipendente dall’asse ipotalamo-ipofisi surrene. Anche il rilascio delle dinorfine può essere sotto il controllo del CRF e, viceversa, il rilascio e/o la funzione del CRF può essere controllato dall’attivazione dei recettori κ da parte delle dinorfine [46].

Alcuni autori suggeriscono che la diminuzione delle concentrazioni di dopamina nel sistema mesocorticolimbico ha un ruolo critico nello sviluppo delle crisi di astinenza. Sono coinvolti anche altri neurotrasmettitori e questi cambiamenti sono accompagnati da alterazioni nelle vie di segnalazione intracellulari, come un aumento significativo dei livelli di cAMP e la mancata regolazione della via delle MAP chinasi [7].

La dipendenza fisica si manifesta con i sintomi caratteristici dell’astinenza, che si può sviluppare dopo una brusca cessazione della somministrazione della droga [7]. I sintomi comprendono irritabilità, ansia, apprensione, dolori muscolari e addominali, brividi, nausea, diarrea, sbadigli, lacrimazione, sudorazione, starnuti, rinorrea, debolezza generale ed insonnia. Questi sintomi di solito cominciano dopo 6-12 ore dall’assunzione dell’ultima dose per gli oppioidi con una breve durata d’azione come l’eroina. Dopo aver smesso di assumere un oppioide con una breve emivita i sintomi raggiungono il picco di intensità in due o quattro giorni, poi dopo 7-14 giorni la maggior parte dei segni fisici dell’astinenza non sono più osservabili [47].

La predominanza della via anti-ricompensa può spiegare le emozioni negative, come malessere e disforia, che i soggetti provano durante l’astinenza. L’importanza di questo sistema durante la crisi di astinenza è dimostrata dal fatto che i livelli di cortisolo si abbassano nei pazienti che usano attivamente l’oppioide e poi si alzano in risposta

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all’astinenza dopo aver smesso di assumere la droga. La regolazione errata dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene può persistere anche dopo la fase iniziale dell’astinenza acuta ed uno studio ha dimostrato che i livelli del cortisolo salivare erano significativamente alti nei pazienti in astinenza dipendenti dagli oppioidi rispetto ai controlli [46].

La tolleranza è il secondo parametro della dipendenza fisica dalle sostanze come gli oppioidi e viene definita come il bisogno di aumentare la dose della droga per ottenere lo stesso effetto farmacologico. Per quanto riguarda gli oppioidi, la forma più importante di tolleranza è quella farmacodinamica, che è stata collegata ai cambiamenti neuroadattivi che avvengono dopo un’esposizione prolungata alla droga, compresa l’alterazione della densità dei recettori, dell’accoppiamento di questi con le proteine G e delle vie di trasduzione del segnale. Oggi molti esperimenti collegano i meccanismi della tolleranza alla desensibilizzazione dei recettori oppioidi μ, che si sviluppa direttamente dopo l’esposizione all’oppioide e si inverte rapidamente quando non sono presenti gli agonisti. La desensibilizzazione rapida dipende dall’attività degli ioni potassio e calcio, mentre quella prolungata è collegata all’attività enzimatica. In quest’ultimo caso è stato osservato che, dopo l’esposizione cronica ad un oppioide, i livelli del secondo messaggero cAMP erano elevati; questo, tuttavia, non è dovuto al mancato accoppiamento delle proteine G inibitorie al recettore, bensì potrebbe riflettere un aumento dell’attività dell’adenilato ciclasi, della protein-chinasi A e della proteina che si lega agli elementi di risposta al cAMP sul DNA (CREB). La desensibilizzazione coinvolge comunque le proteine G, in quanto è noto che la subunità Gα-GTP attivata si dissocia dal complesso G, ma anche dal recettore. Inoltre l’interazione/attivazione della β-arrestina da parte del recettore fosforilato interferisce con ogni ulteriore interazione tra recettore e proteina G ed induce direttamente la desensibilizzazione del recettore [7].

Alcuni ricercatori hanno scoperto che la somministrazione cronica dell’eroina e l’astinenza regolano in modo differenziale l’espressione delle neurotrofine BDNF, NT-3 e NT-4 nel nucleus accumbens dei ratti. In particolare, il trattamento cronico con l’eroina ha portato ad una diminuzione significativa del BDNF e della NT-4 rispetto al gruppo di controllo, mentre durante l’astinenza dalla droga c’è stato un aumento importante dei loro livelli. Al contrario, l’esposizione cronica all’eroina ha fatto aumentare l’espressione della NT-3 nei ratti dipendenti dall’eroina ed in astinenza spontanea, mentre i suoi livelli sono diminuiti nei ratti in astinenza indotta dal naloxone. Queste ricerche hanno fornito ulteriori prove del fatto che le neurotrofine sono coinvolte, soprattutto nel nucleus accumbens, nello sviluppo della dipendenza dall’eroina e dell’astinenza, anche se saranno

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necessari ulteriori esperimenti per dimostrarlo ancora meglio [48]. La famiglia delle neurotrofine comprende il fattore di crescita dei nervi (NGF), il fattore neurotrofico cerebrale (BDNF), la neurotrofina 3 (NT-3) e la neurotrofina 4 (NT-4), che sono importanti regolatori della sopravvivenza, dello sviluppo, della funzione e della plasticità neurale [49]; il BDNF è un fattore neurotrofico che, regolando la plasticità sinaptica e la neurogenesi, è coinvolto nella crescita, nella sopravvivenza e nella differenziazione delle cellule [50].

1.3.2 Altri fattori di rischio

Molti fattori sociali, comportamentali e psicologici sono fortemente associati alla dipendenza dall’eroina, come per esempio gli indicatori di uno status socioeconomico basso. Un lavoro non qualificato o uno status di disoccupato sono fortemente predittivi dell’uso e della dipendenza dall’eroina. Anche un livello di educazione basso è un fattore di rischio importante che porta più facilmente all’utilizzo di eroina ed a diventarne dipendenti. Ci sono anche altri fattori più complessi associati in modo significativo al problema della dipendenza, per esempio un contatto sociale prolungato con utilizzatori attivi dell’eroina può determinare un crescente utilizzo della droga anche da parte di altri individui. I figli di genitori dipendenti dagli oppiacei presentano un rischio maggiore di sviluppare una grave psicopatologia (disturbi dell’attenzione, ansia e depressione) ed anche dei problemi a livello scolastico, sociale e familiare. La psicopatologia infantile che si manifesta in questi bambini è stata associata anche al successivo sviluppo di disturbi da uso di sostanze, compresa la dipendenza dagli oppiacei.

L’associazione tra dipendenza, personalità e tratti del temperamento può avere in parte delle basi genetiche. Ovviamente quello che viene ereditato non è la dipendenza di per sé, ma i fattori predisponenti alla vulnerabilità per questo disturbo. La vulnerabilità può essere sostanza-specifica e quindi influenza il metabolismo della droga e l’espressione dei suoi recettori, ma può essere anche condivisa con altri disturbi mentali [44].

1.3.3 “Craving” o desiderio insaziabile di assumere la sostanza

Il “craving” o appetito patologico è il sintomo centrale della dipendenza e può essere definito come il desiderio forte e incontrollabile di assumere una sostanza, un desiderio che, se non soddisfatto, provoca una sofferenza fisica e psicologica. È intenso e spontaneo

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ed è associato all’incapacità di controllare l’urgenza o l’esclusività di questo impulso [51]. Sono stati condotti molti studi per determinare il substrato neurale del “craving”, ma la cascata degli eventi è stata solo in parte delucidata e spiegata (Figura 6) [52].

Figura 6 - Il ciclo degli eventi che portano alla dipendenza da una sostanza come gli oppiacei

Si considera che il “craving” sia costituito da tre componenti principali:

1. “reward craving”, cioè il desiderio di provare gli effetti ricompensanti, stimolanti e migliorativi della sostanza abusata; è più comune nei soggetti che ricercano nuove sensazioni e che sono caratterizzati da impulsività, rabbia e altri disturbi della personalità. Scaturisce da una mancata regolazione dell’equilibrio dopaminergico/oppioidergico, da una personalità in cui si distingue la ricerca di una sensazione di ricompensa o da una combinazione di entrambi i fenomeni; si suppone anche che ci sia un’importante componente genetica;

2. “relief craving”, ovvero il desiderio di ridurre la tensione e l’eccitazione, può derivare sia dalla mancata regolazione dell’equilibrio GABAergico/glutaminergico sia da una personalità caratterizzata dalla reattività allo stress, o da una combinazione di entrambi. È associato a uno stimolo negativo (come stress od ansia) che termina dopo l’assunzione della droga e l’influenza di fattori esterni è maggiore rispetto a quella genetica;

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3. “obsessive craving”, che può essere definito come una perdita di controllo sui pensieri invadenti che riguardano la droga; può nascere sia da un deficit di serotonina sia da una personalità dominata dalla disinibizione, oppure da una combinazione dei due fenomeni [53].

Anche l’appetito patologico per l’eroina ha mostrato delle correlazioni positive con i livelli di cortisolo nel siero e la sua inibizione è da molto tempo l’obiettivo del trattamento della dipendenza dagli oppioidi [54,55]. Le terapie con agonisti oppioidi come metadone e buprenorfina hanno dimostrato di poter normalizzare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e quindi questi due farmaci possono ridurre il “craving” nei soggetti dipendenti [56,57]. Sia per la buprenorfina che per il metadone l’impatto sull’appetito patologico è dose-dipendente, quindi entrambi devono essere dosati attentamente per raggiungere la dose ottimale per ogni paziente [58-60].

1.4 Metodi per il trattamento della dipendenza da eroina

1.4.1 Trattamento con metadone

Il metadone venne sintetizzato come analgesico nel 1942 da alcuni scienziati tedeschi, ma solo nel 1947 arrivò negli Stati Uniti con il nome con cui lo conosciamo oggi. Formulato come cloridrato in polvere, può essere ricostituito per la somministrazione orale, rettale o parenterale. Oltre che come analgesico, dalla metà degli anni ’40 alla metà degli anni ’60 il metadone è stato usato anche nel trattamento delle crisi di astinenza durante la disintossicazione acuta dei pazienti dipendenti dalla morfina e dai suoi analoghi. Nel 1964 Dole e Nyswander introdussero un nuovo approccio per l’uso del metadone nel trattamento e nella riabilitazione delle persone dipendenti dall’eroina e presto estesero il loro programma al trattamento di un grande numero di criminali dipendenti dall’eroina, con quello che oggi è conosciuto come trattamento di mantenimento con il metadone [61,62].

Questa modalità di trattamento implica la somministrazione orale del metadone alla persone dipendenti dall’eroina con un dosaggio che aumenta gradualmente e che di solito parte da una dose di 10-20 mg al giorno per un periodo di diverse settimane, fino a che il paziente non viene stabilizzato con una dose orale giornaliera molto alta, dell’ordine degli 80-120 mg. Il paziente può essere poi mantenuto alla dose giornaliera “stabilizzata” per mesi o anche anni, con misure psichiatriche e/o socialmente riabilitative concomitanti e

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valutazioni periodiche [63]. Dal 1965 l’uso del metadone si è diffuso progressivamente anche in Italia.

È un farmaco basico e lipofilo, che esiste come miscela racemica di due enantiomeri:  R-metadone (isomero L): è un potente agonista dei recettori oppioidi μ e δ; è lo

stereoisomero farmacologicamente attivo e ha approssimativamente il doppio della potenza analgesica della morfina;

 S-metadone (isomero D): è inattivo come agonista dei recettori μ, però è un antagonista non competitivo dell’N-metil-d-aspartato (NMDA) e previene il reuptake della serotonina e della noradrenalina; l’azione sull’NMDA contribuisce agli effetti del metadone sul dolore neuropatico e sull’attenuazione della tolleranza indotta dagli oppioidi (Figura 7) [63,64].

Figura 7 - Le strutture chimiche degli isomeri D e L del metadone

Il metadone è caratterizzato da un’alta variabilità della risposta terapeutica inter-individuale. Dopo la somministrazione orale, il metadone impiega 2,5-3 ore per raggiungere la sua massima concentrazione plasmatica. La sua biodisponibilità è dell’85% e al pH fisiologico l’86% del farmaco è legato alle proteine plasmatiche, in modo predominante alla α1-glicoproteina acida (AAG) che è una proteina della fase acuta e i sui livelli plasmatici fluttuano in base a varie condizioni fisiologiche e patologiche come stress, dipendenza da oppioidi, cancro e la concomitante somministrazione di altri farmaci. L’aumento dei livelli della AAG può proteggere l’individuo dagli effetti tossici di una dose di metadone [64].

Il metadone viene metabolizzato quasi esclusivamente dal fegato ad opera delle citocromi P450 ossidasi di tipo I. La principale trasformazione che subiscono i due enantiomeri del metadone è la demetilazione da parte del CYP3A4. Il prodotto principale di questa

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demetilazione è la 2-etilidina-1,5-dimetil-3,3-difenilpirrolidina (EDDP), che è inattiva, mentre il metadolo e il normetadolo sono due metaboliti minori prodotti in piccole quantità che hanno un’attività farmacologica simile a quella del metadone [64,65]. L’escrezione renale del metadone è variabile e pH-dipendente; a pH maggiore di 6 la clearance renale corrisponde solo al 4% dell’eliminazione totale, mentre a pH minore di 6 il metadone escreto corrisponde approssimativamente al 30% della dose totale somministrata. Nonostante questo, il metadone non si accumula nei pazienti con deficit renali e viene scarsamente rimosso dall’emodialisi. L’escrezione renale del metabolita primario EDDP, invece, non è pH dipendente [64].

I cambiamenti nel metabolismo e nell’eliminazione del metadone sono causati principalmente dall’inibizione o dall’induzione del citocromo P450, con conseguente aumento o diminuzione dei livelli del farmaco nel sangue e nei tessuti. Molti farmaci sono substrati di solo cinque isoenzimi della famiglia della citocromo P450 ossidasi (CYP3A4, 1A2, 2C9, 2C19, 2D6), perciò le interazioni possono aver luogo facilmente. Il CYP3A4 è stato descritto come il principale sottotipo enzimatico coinvolto nel metabolismo del metadone, anche se prove recenti hanno suggerito che anche il CYP2B6 abbia un ruolo importante. Esiste una forte variabilità inter-individuale nell’attività del citocromo P450, che può essere attribuita al polimorfismo genetico come anche all’uso di altri farmaci. Il trattamento di mantenimento col metadone non deve essere interrotto troppo presto; infatti lo scopo è quello di mantenere in terapia i tossicodipendenti per mesi od anche anni. Durante questi lunghi periodi, considerando l’alta comorbidità dei tossicodipendenti, possono diventare necessari dei trattamenti con altri farmaci e ci può essere il rischio di interazioni farmaco-farmaco. Le classi di farmaci che potrebbero essere usati durante il trattamento di mantenimento con metadone e che potrebbero produrre queste interazioni sono le benzodiazepine, gli antidepressivi, gli anticonvulsivanti, gli antibiotici macrolidi e gli antifungini. Il metadone è il trattamento di prima scelta nei i soggetti dipendenti da eroina e positivi all’HIV e quindi le interazioni farmacologiche che possono avere luogo più spesso e che sono più importanti clinicamente sono quelle tra il metadone ed i farmaci antiretrovirali, i quali sono induttori metabolici del CYP3A4. Anche l’alcool, quando viene assunto in modo cronico durante il trattamento di mantenimento con il metadone, può incrementare l’attività del CYP3A4 [65].

Le interazioni possono avvenire anche indipendentemente dal sistema delle citocromo ossidasi; per esempio un aumento dei livelli di AAG può essere una conseguenza della somministrazione concomitante dell’amitriptilina e questo potrebbe far diminuire gli

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effetti analgesici del metadone [66]. Un altro esempio riguarda le benzodiazepine che, se somministrate insieme al metadone, possono aumentare l’attività inibitoria del GABA sul centro del respiro e diminuire quella eccitatoria dell’NMDA, causando anche overdose fatali.

La possibilità che avvengano delle interazioni importanti dal punto di vista clinico quando il metadone viene assunto in concomitanza ad altri farmaci è concreta, quindi i medici devono seguire attentamente questi pazienti per evitare queste situazioni, o almeno per notarle e trattarle in tempo.

Il trattamento di mantenimento con metadone ha due importanti effetti sulle persone dipendenti dall’eroina:

1. un’alta percentuale di questi pazienti sembra essere capace di vivere una vita più produttiva dal punto di vista sociale (mantengono il lavoro, si prendono cura della casa, ecc.) rispetto a quando erano dipendenti dall’eroina;

2. la dose giornaliera di metadone così alta e stabilizzata blocca l’effetto euforico dell’eroina; questo aiuta ad eliminare, negli ex dipendenti, il desiderio di tornare ad assumere la droga.

Una ricerca ha evidenziato che 60 pazienti maschi dipendenti dall’eroina e che stavano subendo il trattamento di mantenimento con il metadone, avevano livelli significativamente alti di BDNF nel siero rispetto a 30 maschi sani. Inoltre gli stessi studiosi hanno osservato che, per quanto riguarda i livelli di tutti i marker di stress ossidativo, non ci sono differenze importanti tra i pazienti dipendenti e in trattamento con il metadone e i controlli sani. Quindi questi risultati suggeriscono che il trattamento di mantenimento con il metadone fa aumentare i livelli di BDNF nei soggetti dipendenti dall’eroina, mentre la riduzione dell’ossidazione rimane in uno stato bilanciamento [67]. È necessario che la somministrazione giornaliera del metadone in una forma non iniettabile sia eseguita alla presenza del medico, del farmacista o dell’infermiere e che una così stretta supervisione venga protratta finché il paziente non mostri aderenza al programma e progressi verso la riabilitazione. La selezione dei pazienti per il trattamento di mantenimento con metadone di solito esclude in modo specifico coloro la cui dipendenza dagli oppiacei è di breve durata (meno di due o tre anni) o di minima entità e dovrebbe escludere le persone sotto i 18 anni di età [64].

Il metadone attualmente è il farmaco preferito per il trattamento della dipendenza da oppioidi; i vantaggi del trattamento sulla salute mentale e fisica dei pazienti e sulla loro integrazione sociale comprendono la riduzione della morbidità e della mortalità,

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l’aumento del tasso di occupazione e la riduzione dell’attività criminale. La sua lunga durata d’azione causa un “blocco narcotico” ed elimina i sintomi dell’astinenza per un massimo di 36 ore; somministrato ad alte dosi, riduce il “craving” per l’eroina e blocca gli effetti dell’eroina iniettata, liberando così il paziente dal giornaliero cercare, comprare e consumare la droga [68-70]. Nell’UE e in molti altri Paesi nel mondo vengono usati clinicamente sia il metadone racemico, costituito da D- e L-metadone, sia il levometadone formato dall’isomero L isolato [71].

Un potenziale problema del trattamento con gli agonisti oppioidi è lo sviluppo della tolleranza ed infatti alcuni pazienti continuano ad usare oppioidi illegali, abbandonano il trattamento o sperimentano i sintomi dell’appetito patologico [72,73].

1.4.2 Alternative al metadone

Fino agli anni ’70, in Inghilterra, prescrivere eroina era il più comune approccio per curare la dipendenza da questa droga. La logica di questa prescrizione era chiara: era una reazione umana verso persone che si trovavano in una situazione difficile. Rimane il presupposto che se si vuole l’eroina, prescriverla in condizioni controllate e a un dosaggio stabile può minimizzare i danni causati dalla dipendenza. Dopo la rapida crescita della dipendenza da eroina in molti Paesi occidentali negli anni ’90, c’è stato un rinnovato interesse nel prescrivere la diamorfina (eroina farmaceutica) per migliorare gli effetti devastanti della dipendenza. L’analisi di una serie di esperimenti randomizzati ha permesso di concludere che, tra le persone che avevano fallito il trattamento con il metadone e continuavano ad utilizzare la droga, l’eroina iniettabile era più efficace nel sopprimere l’uso dell’eroina di strada; l’ipotesi è che l’eroina sia una delle poche cose capaci di motivare alcuni individui che hanno sperimentato un’esclusione sociale lunga e demoralizzante. Il trattamento con l’eroina farmaceutica è altamente strutturato per minimizzare i rischi di overdose e diversione. A causa della sua breve emivita e dei suoi metaboliti attivi, ai soggetti curati con la diamorfina viene fornito anche metadone orale per evitare l’emergenza della crisi di astinenza; con questo accorgimento, il ruolo dell’eroina prescritta è quello di procurare una ricompensa intermittente e questo non sempre deve essere fatto tutti i giorni. Una volta stabilizzati con la dose di eroina (tipicamente 200 mg due volte al giorno, insieme a 80-100 mg di metadone orale) e non usando più la droga di strada, molti pazienti riducono volentieri la frequenza delle iniezioni e il dosaggio dell’eroina [74].

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La buprenorfina è un oppioide semi-sintetico e in clinica viene usata come analgesico e nella terapia di sostituzione per la dipendenza dagli oppioidi (Figura 8).

Figura 8 - Struttura chimica della buprenorfina

È un agonista parziale dei recettori oppioidi μ, quindi produce degli effetti simili a quelli del metadone però ha un margine di sicurezza più ampio. Si lega ai recettori per 40 minuti, cosa che probabilmente contribuisce alla sua prolungata durata d’azione. Questo permette di poterla somministrare in modo efficace meno di una volta al giorno. La buprenorfina subisce un importante effetto di primo passaggio e per questo ha una biodisponibilità orale molto bassa, mentre la sua biodisponibilità sublinguale è abbastanza rilevante da rendere questa una possibile via di somministrazione per il trattamento della dipendenza da oppioidi. Alla formulazione sublinguale di buprenorfina è stato aggiunto il naloxone per ridurre la predisposizione all’abuso del prodotto, ma la sua presenza non sembra influenzare la farmacocinetica della buprenorfina. Anche la buprenorfina viene metabolizzata attraverso una N-dealchilazione mediata dal citocromo P450 ossidasi3A4 [75]. La buprenorfina sublinguale viene prescritta sempre di più alle donne in gravidanza in cura per un problema di dipendenza da oppioidi. Tuttavia è necessario un intervallo di somministrazione della dose più frequente (3-4 volte al giorno) per mantenere i livelli plasmatici di buprenorfina sopra la soglia di 1 ng/ml e quindi evitare i sintomi dell’astinenza e migliorare l’aderenza [76,77]. I neonati esposti agli oppioidi nell’utero manifestano, dopo la nascita, una condizione clinica chiamata sindrome di astinenza neonatale, in cui il bambino manifesta i sintomi dell’astinenza dalla droga. Per evitare questo, le donne in gravidanza dipendenti dagli oppioidi vengono trattate sia con il

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metadone che con la buprenorfina, ma in letteratura è stato dimostrato che la buprenorfina è associata ad un rischio più basso di manifestare la sindrome di astinenza neonatale rispetto al metadone [78-80].

Naloxone e naltrexone, come antagonisti degli oppioidi, invertono e prevengono gli effetti di queste droghe bloccando i recettori μ e causando la comparsa dei sintomi dell’astinenza acuta (Figura 9).

Figura 9 - Strutture chimiche del naloxone e del naltrexone

Questi antagonisti sono molto usati per ottenere una disintossicazione rapida ed ultra-rapida e per facilitare il passaggio dalla dipendenza all’astinenza. Possono essere usati anche per prevenire le ricadute, in quanto l’occupazione dei recettori oppioidi fa diminuire l’efficacia degli oppioidi assunti; questo fa diminuire gli effetti rinforzanti dell’eroina. Il naloxone viene usato più comunemente durante un’overdose da eroina e nel caso di coma e depressione respiratoria indotti dagli oppioidi. È stato inserito nella lista dei farmaci che possono essere somministrati da chiunque in caso di emergenza e viene considerato un farmaco sicuro da usare, anche se può causare dei seri effetti collaterali come edema polmonare, aritmie cardiache, ipertensione e arresto cardiaco [81]. Il naltrexone è strutturalmente e funzionalmente simile al naloxone, ma ha una maggiore biodisponibilità orale e un’emivita biologica più lunga [82]. Tuttavia, questo farmaco fa aumentare le sensazioni negative ed il “craving” attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e la rimozione dell’inibizione tonica da parte degli oppioidi endogeni ed infatti c’è una scarsa aderenza dei pazienti al trattamento col naltrexone orale [83,84].

I pazienti possono beneficiare anche di alcuni interventi non farmacologici, come la terapia cognitivo-comportamentale, gli interventi motivazionali e la gestione delle

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emergenze. Gli interventi motivazionali constano di brevi sessioni nelle quali un consulente aiuta i pazienti a diventare motivati per cambiare il loro comportamento verso la droga. Gli approcci di gestione delle emergenze prevedono delle ricompense dirette (voucher, premi, privilegi speciali) per i pazienti che hanno dei comportamenti desiderabili, come l’astinenza dalla droga. Per quanto riguarda la terapia cognitivo-comportamentale, non è chiaro se essa abbia dei benefici diretti contro il “craving” ed uno studio ha evidenziato che non ci sono differenze significative tra i pazienti curati con buprenorfina e una gestione standard del trattamento e quelli trattati con buprenorfina e sia la terapia cognitivo-comportamentale che la gestione delle emergenze. La pratica della “Mindfulness” (consapevolezza) è stata collegata invece a una riduzione del “craving” nei pazienti dipendenti dalla droga e sembra anche che possa influenzare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e causare dei cambiamenti strutturali nel cervello, come una riduzione della densità della sostanza grigia nell’amigdala ed un aumento della concentrazione di sostanza grigia nell’ippocampo [46].

1.4.3 Possibili trattamenti biologici innovativi

Un approccio nuovo e promettente per curare la dipendenza da una sostanza è l’immunofarmacoterapia, ovvero la vaccinazione contro una droga d’abuso per indurre una risposta anticorpale diretta verso la droga e prevenire che questa entri nel cervello e svolga i suoi effetti psicoattivi. I vaccini contro la dipendenza da eroina, ossicodone, idrocodone e fentanyl hanno già mostrato un grande successo durante le valutazioni precliniche, ma devono ancora entrare a far parte dei trial clinici.

Il concetto di una vaccinazione anti-oppiacei venne dimostrato per la prima volta nel 1974, ma questo argomento riprese un nuovo interesse solo negli anni ’90, quando i vaccini per la cocaina e la nicotina entrarono nei trial clinici. L’utilizzo di una piccola proteina simile agli oppiacei e immunoconiugata stimola la produzione di anticorpi IgG anti-oppiacei e ad alta affinità. Questi anticorpi legano la droga circolante e impediscono così che l’oppiaceo attraversi la barriera ematoencefalica, dove sono localizzati i recettori degli oppioidi μ.

L’approccio è promettente anche perché gli anticorpi che si formano hanno una lunga emivita, cosa che permette al trattamento di essere efficace per mesi. Inoltre, siccome l’immunofarmacoterapia agisce sul sistema immunitario proprio dell’organismo per combattere gli effetti degli oppiacei, gli effetti avversi sono limitati.

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