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Lo studio del benessere organizzativo attraverso il modello Va.rp-m: il caso di un'azienda operante nel settore marittimo dei trasporti.

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PARTE I Il benessere organizzativo

Introduzione……….pag. 3 Capitolo 1 Introduzione socio storica e aspetti giuslavoristici

1.1 Nascita e evoluzione del benessere organizzativo.………...pag. 5 1.2 Dimensioni del benessere organizzativo………....pag. 10 1.3 Indicatori di benessere (e malessere) organizzativo………....pag. 14 1.4 Direttiva ministeriale del 2004……….pag. 20 1.5 Il D.Lgs 81/08……….pag. 25

Capitolo 2 Stress correlato al lavoro e fattori di rischio psicosociali: il modello Va.rp

2.1 Modelli teorici dello stress lavoro-correlato………...pag. 30 2.2 I rischi psico-sociali e loro valutazione: la proposta del modello

Va.rp………...pag. 51 2.3 La prevenzione dei rischi psicosociali attraverso lo strumento

Va.rp……….pag. 63

PARTE II La ricerca empirica Capitolo 3 La ricerca e i risultati

3.1 Lo strumento Va.rp-M………..………pag. 72 3.2 Pianificazione delle analisi dei dati ………..………...pag. 74 3.3 Il campione ………..pag. 75 3.4 Analisi di attendibilità delle scale dello

strumento………pag. 80

3.5 Analisi descrittive……….pag. 82 3.6 Crosstabs………...pag. 83 3.7 Confronto tra media per scala e campione di validazione...pag. 89

Conclusioni……….pag. 90 Appendice……….pag. 93

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Bibliografia………..pag.101

Ringraziamenti

Vorrei ringraziare il Prof. Antonio Aiello per avermi dato la possibilità di utilizzare uno strumento valido e innovativo, per aver messo a disposizione la sua esperienza e i suoi consigli.

Ringrazio inoltre il Dott. Nardella per avermi fornito indicazioni concrete ai fini della ricerca.

Desidero infine ringraziare chi ha creduto nel mio percorso di studi e mi ha sostenuta passo dopo passo fino al traguardo: la mia famiglia e in particolare mio padre Giorgio, mia madre Rossella, mia sorella Nicole e Gian Pietro.

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Introduzione:

Risale al 1994 il D.Lgs. n. 626 avente ad oggetto aspetti importanti in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro per quanto riguarda le misure specifiche da adottare per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in relazione ai fattori di rischio e alla gestione della sicurezza stessa; nella lettura della legge emergono due considerazioni fondamentali.

Nell’ambito di tale normativa si nota innanzitutto l’assenza della parola “infortunio”, sostituita dal termine “rischio” in quanto costrutto che consente di riflettere anticipatamente e di poter intervenire progettualmente sulle determinanti dell’infortunio a differenza del primo che rimanda ad un’immagine di intervento a posteriori.

Inoltre nel D.lgs 626/94 viene posto l’accento sulla definizione più ampia di salute sancita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha espresso il principio secondo la quale la “salute” non va intesa soltanto come un’assenza di malattia, ma come la condizione nella quale si vive in uno stato di complessivo benessere psico-fisico.

La tutela del benessere dei lavoratori e della salute psico-fisica è connessa al miglioramento delle condizioni di lavoro ottenuto attraverso una gestione della sicurezza integrata e condivisa dai lavoratori stessi.

La disponibilità di strumenti sufficientemente strutturati e attendibili è la conditio

sine qua non per realizzare un’adeguata individuazione e classificazione dello

stress e per attuare uno studio e una valutazione opportuna dello stress sul luogo di lavoro.

Il presente lavoro ha come obiettivo lo studio delle fonti di rischio psicosociale rilevate in un contesto di un’azienda di medie dimensioni, operante nel settore

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marittimo dei trasporti. L’indagine si è avvalsa dello strumento di valutazione Va.rp-M (A.Aiello et al., 2012)

L’attenzione è catalizzata sul fenomeno stress in ambito lavorativo ed è suddivisa in una prima parte teorica che tratta della nascita del concetto di benessere organizzativo, delle dimensioni che lo connotano e delle normative che lo regolano (capitolo 1), procedendo poi con una presentazione dei modelli teorici di valutazione dello stress correlato al lavoro giungendo a una trattazione analitica del modello Va.rp (A.Aiello et al, 2012) (Capitolo 2); la tesi riporta nella sua seconda parte contenente la ricerca empirica effettuata attraverso l’applicazione dello strumento psicometrico Va.rp-M nell’ambito dell’azienda marittima dei trasporti (Capitolo 3).

In assenza di rischio psicosociale e di stress correlato al lavoro un soggetto lavoratore operante in condizioni di benessere, percettore di un riconoscimento e di una valorizzazione della propria professionalità e avente l’opportunità di essere partecipe dei processi lavorativi risulterà maggiormente motivato e propenso ad un maggiore impegno nei confronti del proprio lavoro e dell’azienda. Le conseguenze della presenza di benessere organizzativo saranno positive per la produttività e la qualità di servizi e prodotti offerti dall’azienda.

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1. Il benessere organizzativo

«Lo stress non risiede né nella persona né nell’ambiente, ma nella

relazione tra i due. Gli stimoli (cause) e le risposte (conseguenze) sono definiti dalla loro

relazione, inseparabile dal contesto in cui si realizzano»

F. Avallone, 2011

1.1 Nascita e evoluzione del benessere organizzativo

Nell’età industriale le organizzazioni erano strutturate come sistemi meccanicistici volti al conseguimento del miglior risultato. Tuttavia esse si dimostrarono poco attente all’ambiente di lavoro e ancor meno allo stato di salute del lavoratore. In un simile panorama organizzativo il lavoratore veniva considerato come un mero “esecutore di mansioni”.

Il negativo stato del lavoratore nell’età industriale ha comportato ripercussioni anche sulle condizioni dell’organizzazione stessa.

Intorno al 1911, attraverso l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, F.W.Taylor avvalorò la parcellizzazione del lavoro, il tempo e il metodo di lavoro per il raggiungimento della one best way attraverso l’impiego del the right man to the right place segnale di scarsa attenzione al fattore umano. Soltanto negli anni ’30 ha luogo la scoperta della natura sociale del lavoro dovuta a Elton Mayo ideatore del movimento Human

Relations e portavoce della critica alla parcellizzazione del lavoro di

stampo taylorista. Con la nascita del movimento delle Relazioni Umane fu posta in evidenza l’importanza del fattore umano e si abbandonò il

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suddetto approccio meccanicistico e standardizzato delle operazioni e in questa fase si incominciò a parlare dei potenziali danni al benessere dei lavoratori apportati dalla routinizzazione e dalla dequalificazione. «Variabili quali motivazione, alienazione, fenomeni di gruppo, che si

sviluppavano nell’ambiente di lavoro, furono presi in considerazione nella spiegazione delle condizioni di malessere dei lavoratori»

(Avallone, Paplomatas, 2005).

Nel ventennio successivo (anni ’50-’60) si affermò una visione tendenzialmente più attiva del “lavoratore” protagonista dell’ambiente di lavoro. Alcuni aspetti come sicurezza e salute cominciavano a includere settori quali il job design (progettazione delle mansioni), la formazione/addestramento e la selezione dei dipendenti. In questo tipo di studi chiamato Early Ergonomics l’intervento restava catalizzato prettamente sulla cura dell’individuo ma si attribuiva importanza anche alle conseguenze psicosociali (affaticamento, disturbi psicosomatici) (Avallone, Paplomatas, 2005).

Con il verificarsi di molteplici mutamenti storico sociali quali l’evoluzione dinamica dei mercati, l’aumento delle dimensioni organizzative, la complessità delle organizzazioni, i rapidi sviluppi tecnologici e i cambiamenti sociali soprattutto dopo gli anni ’60 e ’70, il benessere organizzativo assunse sempre maggior rilievo.

La risposta ai suddetti mutamenti provenne dall’orientamento di pensiero dell’Organizational Development, movimento che trae origine dagli studi di Elton Mayo e dal contributo metodologico di Kurt Lewin nel suo studio circa l’action research. Molti autori hanno contribuito alla diffusione dell’Organizational Development, French e Bell (1973) lo definiscono come un «intervento a vasto raggio per migliorare i processi

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di soluzione dei problemi e di rinnovamento di un’organizzazione, attraverso un controllo più efficace della cultura organizzativa con l’assistenza di un agente di cambiamento , o catalizzatore, e l’impiego delle teorie e delle tecniche delle scienze umane applicate, inclusa l’action research». L’Organizational Development si diffuse intorno al

1960 ed è stato portavoce di una nuova sfida per la ricerca organizzativa riguardante una diversa impostazione della struttura portante dell’organizzazione pronta al cambiamento di tutto il sistema in relazione a cambiamenti esterni al sistema stesso e capace di catalizzare l’attenzione sulla sicurezza dei propri lavoratori e di far convergere la salute dell’azienda e la salute del lavoratore.

In generale quindi si attribuì al lavoratore un ruolo maggiormente rilevante all’interno dei processi volti a determinare le caratteristiche e il funzionamento di un’organizzazione.

Agli inizi degli anni ’70-’80 si verificò il passaggio da un intervento incentrato sulla cura a uno catalizzato sulla prevenzione e si affinarono le tecniche per migliorare la qualità della sicurezza negli ambienti lavorativi (Health Protection). La sicurezza sui luoghi di lavoro era dunque un principio riconosciuto e di fondamentale importanza che coinvolgeva tutti gli attori dell’ambiente lavorativo (sindacati, gruppi di lavoratori) ed assume così sempre maggiore importanza il “quarto fattore di rischio” ovvero l’influenza sulla salute dei fattori psicologici e sociali e della combinazione ed interazione dei fattori chimici, fisici e biologici (Ilgen, Swisher, 1988).

In particolare negli anni Ottanta vengono introdotti concetti come

Wellness e Occupational Health Promotion (Glasgow, Swisher, 1989)

rendendo esplicita la distinzione tra Health Protection e Health

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possibili dalle minacce alla loro salute (il job design mira a questo scopo), la seconda consiste invece nell’indurre l’individuo a compiere scelte ragionate volte a migliorare la propria salute fisica e mentale (le tecniche di motivazione mirano a questo secondo scopo).

La principale novità consiste nello spostamento dell’attenzione dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie alla conservazione attiva della salute. «Prima di allora infatti, la salute era definita semplicemente

come l’assenza di invalidità o di malattia, mentre da allora in poi è concepita in chiave decisamente più positiva, come l’altro estremo di un continuum al centro del quale si trova l’assenza di invalidità o di malattia» (Avallone, Paplomatas, 2005). In tal modo si può dunque

affermare che ha inizio un settore di intervento volto al miglioramento e alla conservazione di uno stato di benessere fisico e psicologico, secondariamente si guarda alle persone come “custodi” primari della salute per cui l’azione nel contesto di piani d’intervento volto alla

wellness parte proprio dal comportamento delle persone (bere, mangiare,

esercizio fisico, fumo) cercando di cambiare determinate abitudini dannose alla salute sostituendole con comportamenti salutari.

Dalla prima metà del Novecento ebbe inizio un altro orientamento di studio fondamentale per il benessere organizzativo e riguardante il fenomeno dello stress. Il termine stress deriva, da un punto di vista etimologico, dal latino “strictus” che significa stretto, chiuso, compresso. Tale termine era in uso prima ancora di essere utilizzato in ambito scientifico nella comune lingua inglese con il significato di “difficoltà”, “avversità”, “afflizione”. In ambito lavorativo fu adottato successivamente durante prove di collaudo di funi o impianti assumendo così il significato tecnico di tensione o sforzo. (Aiello, Nardella, Deitinger, 2012). La prima definizione del fenomeno proviene da Hans

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Selye che iniziò la sua carriera come ricercatore e successivamente divenne Direttore dell’Istituto di Medicina e Chirurgia sperimentali presso la McGill University di Montreal, (ideatore della GAS, General Adaptation Syndrome come approfondirò più avanti, paragrafo 2.1) e il quale nel 1973 ha descritto il fenomeno stress come risposta dell’organismo in situazioni o stimoli (fisici, biologici o psicosociali) provenienti dall’ambiente esterno di carattere nocivo. Il soggetto che si troverà ad affrontare uno stimolo esterno nocivo riuscirà a superare le difficoltà e ad affrontare i cambiamenti presentati dalla vita quotidiana e sarà proprio grazie a questa risposta che lo stress acquisirà connotati anche positivi, nel caso invece dovesse assumere connotati negativi si potrà definire distress. Con eustress e distress si intendono due tipologie di stress. Il primo si registra quando gli stimoli provenienti dall’esterno sono proporzionali alle capacità di risposta del soggetto, è dunque la risultante dell’energia ben mirata prevede che lo stato di stress si esaurisca nel momento in cui il soggetto raggiunge l’obiettivo. Il secondo, si verifica quando le condizioni di stress permangono anche in assenza di eventi stressanti, è dunque un’alterazione di tipo permanente della risposta.

In ambito lavorativo il fattore stress assume notevole rilevanza e potrebbe essere uno dei fattori che portano il soggetto, in questo caso il lavoratore, ad affrontare situazioni difficili. Una richiesta dall’ambiente troppo forte o ripetuta e prolungata nel tempo potrebbe sfociare in una “cronicizzazione” della risposta data dall’organismo di cui parlava Selye, è necessario dunque che il soggetto lavoratore respiri un benessere organizzativo tale da non sviluppare eccessivo stress che potrebbe comportare a lungo andare la compromissione dello stato di salute e

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pertanto anche un possibile sviluppo di una malattia (ad esempio psicosomatica).

La reazione negativa allo stress può talvolta sfociare in patologie psicosomatiche variabili a seconda delle capacità individuali di coping. ( Paragrafo 2.1)

1.2 Dimensioni del benessere organizzativo

Il costrutto di “benessere organizzativo” designa «l’insieme dei nuclei

culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative» (Avallone,

Paplomatas, 2005).

La salute organizzativa è potenzialmente riscontrabile all’interno di un’organizzazione quando tale organizzazione risulta essere in grado di garantire condizioni di benessere e qualità di vita elevate per i propri dipendenti e per la propria collettività lavorativa.

Il benessere organizzativo è potenzialmente visto, studiato e analizzato come un costrutto articolato in quattordici dimensioni (Avallone, Paplomatas, 2005).

Secondo gli autori un’organizzazione è da considerarsi in buona salute quando risulta capace di:

1. Allestire, creare e garantire un ambiente di lavoro adeguatamente confortevole e accogliente mostrandosi in grado di curare aspetti di funzionalità

riguardanti sia le esigenze lavorative sia quelle dei propri clienti e in grado di favorire l’aspetto estetico dell’ambiente e dovrebbe inoltre garantire un ambiente di lavoro salubre nel rispetto delle regole di igiene fondamentali.

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2. Stabilire obiettivi precisi e chiari, in particolar modo la direzione

strategica dovrebbe mostrarsi in grado di formulare in maniera definita gli obiettivi da perseguire così come lo stile direzionale dovrebbe comunicare tali obiettivi ai dipendenti senza ambiguità ma in maniera chiara e precisa. Inoltre la direzione dovrebbe mostrarsi coerente nei fatti e nella operatività quotidiana circa quanto stabilito, regolamentato, condiviso.

3. Riconoscere e valorizzare le qualità individuali dei propri dipendenti e la diversità degli apporti avanzando richieste al singolo che risultino adeguate rispetto

al ruolo ricoperto e alle qualifiche e competenze del medesimo. È necessario inoltre che l’organizzazione faciliti l’espressione del «saper fare in tutte le sue potenzialità (tecnico-professionale, trasversali, sociali)» (Avallone, Paplomatas, 2005), dovrebbe inoltre garantire una adeguata retribuzione per il lavoro erogato dal dipendente ed infine promuovere lo sviluppo della sfera del “saper fare” riguardante gli aspetti della condivisione, della capacità di aggiornamento e della propensione alla circolazione delle conoscenze messa in atto dal dipendente.

4. Ascoltare attivamente le proposte e le richieste avanzate dai

dipendenti ritenute potenzialmente utili al miglioramento dei processi organizzativi nella definizione degli obiettivi, nell’organizzazione del lavoro e nella definizione delle regole. 5. Rendere disponibili le informazioni. Tutte le informazioni che

rientrano nella sfera lavorativa di competenza devono essere trasmesse agli altri, rese accessibili e note attraverso adeguati strumenti e regole chiare per la diffusione delle informazioni.

6. Gestire la conflittualità tra dipendenti mantenendola entro livelli tollerabili di convivenza. Poiché l’ambiente lavorativo è il luogo delle convivenze non scelte e le persone «all’interno del proprio luogo di lavoro […] normalmente non si scelgono tra loro […]», (Avallone, 2011) esiste una potenziale presenza di situazioni conflittuali e di emarginazione per evitare le quali vengono adottate tecniche di monitoraggio e strategie a sostegno della convivenza sul luogo di lavoro.

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7. Favorire la creazione di un ambiente franco, comunicativo e collaborativo garantendo un’adeguata qualità di comunicazione e di stile di lavoro a livello verticale e orizzontale.

8. Assicurare fluidità operativa e affrontare eventuali problemi evitando un rallentamento del lavoro e procedendo piuttosto verso obiettivi comuni nonostante le avversità.

9. Garantire equità retributiva, equità di assegnazione di responsabilità e di promozione del personale attraverso la definizione di chiari percorsi per responsabilità, carriere, incentivi ecc., resi pubblici e accessibili a tutti.

10. Mantenere tollerabile il livello di stress con riferimento al grado di fatica fisica, mentale e di stress percepita dal lavoratore.

11. Stimolare il senso di utilità sociale nei dipendenti attraverso una continua valorizzazione dell’attività dei medesimi la quale dovrebbe essere ritenuta indispensabile nel complesso processo lavorativo volto al raggiungimento di obiettivi comuni. L’organizzazione dovrebbe quindi salvaguardare «il rapporto funzionale tra

attività dei singoli e obiettivi aziendali» (Avallone, Paplomatas, 2005).

12. Attuare le azioni di prevenzione di infortuni e dei rischi

professionali e quindi assolvere gli obblighi di legge in materia di sicurezza e salute sul

lavoro ponendo questi aspetti come valori fondamentali per la stessa identità e cultura aziendale.

13. Garantire un adeguato livello di tollerabilità dei compiti dei gruppi e dei singoli attraverso una giusta definizione del livello di intensità di lavoro evitando una percezione sbagliata del carico di lavoro da parte del lavoratore.

14. Assicurare un’apertura all’innovazione tecnologica e culturale attraverso una predisposizione al cambiamento considerando l’ambiente esterno come stimolo e risorsa per la propria evoluzione e miglioramento.

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Dimensioni della salute

organizzativa

1. Comfort dell’ambiente di lavoro

2. Chiarezza degli obiettivi

organizzativi

3. Valorizzazione competenze

4. Ascolto attivo

5. Diffusione delle informazioni

6. Gestione conflittualità

7. Creazione ambiente collaborativo

8. Fluidità operativa

9. Equità organizzativa

10. Livelli tollerabili di stress

11. Senso di utilità sociale

12. Sicurezza e prevenzione infortuni

13. Sostenibilità dei compiti

14. Apertura all’innovazione

Figura 1. Diagramma delle dimensioni della salute organizzativa. (Tratto da Aiello et al.,

2012)

1.3 Indicatori di benessere (e malessere) organizzativo

Sulla base delle dimensioni individuate si ipotizzano alcuni indicatori di benessere e malessere organizzativo desumibili dai comportamenti dei soggetti nell’ambiente di lavoro.

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E’ importante ribadire che dal benessere del lavoratore dipende il benessere dell’intera organizzazione, dunque quando i dipendenti vantano uno stato di benessere e controllo di stress l’azienda trarrà da questo ampio beneficio in termini di salute organizzativa.

Gli indicatori positivi riguardano la percezione di vissuti di affettività

lavorativa nell’ambito del proprio ambiente di lavoro e sono riscontrabili

«attraverso segnali soggettivi di benessere» pertanto il soggetto lavoratore esprime benessere a livello individuale sottoforma di:

• soddisfazione nei confronti dell’organizzazione e quindi

gradimento per l’appartenenza ad una organizzazione ritenuta di valore;

• voglia di impegnarsi per l’organizzazione ad esempio fermandosi

in azienda anche oltre gli orari di lavoro stabiliti da contratto;

• sensazione di appartenere ad un team consolidato con obiettivi comuni e percepisce una coesione emotiva all’interno del gruppo al quale appartiene.

Altri indicatori di benessere riguardano:

• la sensazione di quotidiano piacere provato nel recarsi sul luogo

di lavoro;

elevato livello di commitment che provoca la sensazione di legame con l’organizzazione e conduce alla soddisfazione di bisogni personali;

• la fiducia nel cambiamento degli aspetti negativi esistenti, la percezione di attuare un’organizzazione del lavoro vincente;

• il raggiungimento di un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata;

• la soddisfazione verso le relazioni interpersonali sorte sul lavoro;

• la condivisione esplicita dei valori espressi dall’organizzazione;

• percezione di fiducia nelle capacità gestionali e professionali del

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• sensazione di stima nei confronti della dirigenza dell’azienda e quindi «apprezzamento delle qualità umane e morali della dirigenza» (Avallone, Paplomatas, 2005);

• condivisione dell’immagine del management avvertito come un

management molto apprezzato dall’esterno.

Di seguito una tabella riassuntiva degli indicatori positivi di salute organizzativa.

1. Soddisfazione nei confronti

dell'organizzazione

Gradimento per l'appartenenza a un'organizzazione considerata di valore

2. Voglia di impegnarsi per l'organizzazione

Desiderio di lavorare per l'organizzazione anche oltre l'orario richiesto

3. Sensazione di far parte di un team

Percezione di mirare, in piena unione con i propri colleghi, verso un obiettivo. Percezione di aggregazione emotiva nel gruppo

4. Voglia di recarsi al

lavoro Sensazione di piacere nell'andare al lavoro quotidianamente

5. Autorealizzazione Sensazione che, erogando energie nel lavoro per

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personale

6. Convinzione di cambiare le

condizioni negative Fiducia nella capacità dell'organizzazione di migliorare situazioni ed aspetti negativi esistenti

7. Rapporto tra vita lavorativa e vita

privata Adeguato equilibrio tra lavoro e vita privata

8. Relazioni interpersonali

Creazione di relazioni interpersonali soddisfacenti sul luogo di lavoro

9. Risultati e valori

condivisi Condivisione dei risultati ottenuti dall'organizzazione e dei suoi valori

10. Fiducia nel

management Credibilità della dirigenza per quanto riguarda le capacità gestionali e professionali

11. Stima della

dirigenza Riconoscimento delle aualità positive del management a livello umano e morale

12. Apprezzamento dell'immagine del management

Percezione della propria organizzazione come apprezzata dall'esterno

Tab 1. Indicatori di benessere organizzativo (Adattato da Avallone, Bonaretti,

2003)

L’elenco degli indicatori di malessere risulta essere altrettanto numeroso e desumibile anche’esso dai comportamenti tenuti dal soggetto lavoratore nell’ambito dell’organizzazione e fuori da essa. Qualora presenti tali indicatori di malessere l’organizzazione dovrà attuare un piano di interventi ai fini di potenziare il benessere o ristabilirlo nella sua interezza.

Innanzitutto il soggetto lavoratore avverte:

• difficoltà quotidiana nell’andare al lavoro

• esigenza di assentarsi dal lavoro , tale comportamento potrebbe

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prestabilito con assenze dal lavoro più o meno giustificate per cui si verificano assenze dai luoghi di lavoro per periodi più o meno prolungati e comunque sistematici;

• disinteresse per il lavoro che può manifestarsi anche attraverso un comportamento di scarso rispetto delle regole e delle procedure e inoltre può esplicitarsi nel cattivo svolgimento del proprio lavoro;

• desiderio di cambiare lavoro probabilmente dovuto

all’insoddisfazione verso il contesto lavorativo o professionale in cui si è inseriti;

• propensione al pettegolezzo tra colleghi che talvolta può addirittura sostituire la primaria attività lavorativa e per questo motivo costituire un indicatore di malessere organizzativo.

Altri espliciti indicatori di malessere organizzativo presenti a livello individuale con ripercussioni sulla salute dell’intera organizzazione riguardano:

• il sentimento di rancore e rabbia maturato dal soggetto lavoratore

nei confronti della propria organizzazione fino ad esprimere un sentimento di rivalsa,

• un’eccessiva aggressività e nervosismo inabituale dovuto

probabilmente a quei sentimenti di rancore e rabbia di cui sopra;

• disturbi della sfera psicosomatica (sonno, apparato digerente);

• percezione di inutilità della propria attività, per cui il lavoratore non vive il proprio lavoro come utile per se stesso, anzi lo percepisce come vano e privo di valore;

• Sentimento di irrilevanza per cui il soggetto lavoratore percepisce se stesso come sostituibile e quindi poco o non determinante per lo svolgimento della vita lavorativa dell’organizzazione;

• Sensazione di disconoscimento, avvertita dal lavoratore nel momento in cui il proprio lavoro e le proprie capacità non vengono sufficientemente riconosciute e valorizzate dai superiori.

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Quando il malessere è presente a livello di organizzazione lavorativa esso è probabilmente desumibile dai seguenti comportamenti:

• lentezza nelle performance , per cui i tempi per portare a termine

un compito si dilatano talvolta senza percezione del fenomeno;

• ruoli e compiti assegnati poco chiari che danno luogo a confusione organizzativa;

• carente interesse verso la crescita delle proprie conoscenze personali oltre che assenza di proposte e iniziative;

• scarsa partecipazione emotiva nei compiti svolti per cui il lavoratore si attiene in maniera totalmente formale alle regole e procedure previste per lo svolgimento del suo lavoro senza sentirsi coinvolto emotivamente in ciò che sta facendo.

1. Insofferenza

nell'andare al lavoro Difficoltà quotidiana nel recarsi al lavoro

2. Assenteismo Assenze dal luogo di lavoro per periodi sistematici

3. Disinteresse per il lavoro

Bassa motivazione rilevabile dal comportamento di scarso rispetto delle regole e procedure

4. Desiderio di cambiare lavoro

A causa dell'insoddisfazione per il contesto lavorativo il soggetto avverte

necessità di cercare un altro lavoro

5. Pettegolezzo Quando il pettegolezzo raggiunge livelli elevati è considerato indicatore di malessere

6. Risentimento verso

l'organizzazione

Sensazione di rabbia e rancore verso la propria organizzazione e desiderio

di rivalsa

7. Aggressività inabituale e nervosismo

Espressione di aggressività anche solo verbale contrariamente alle abitudini

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8. Sentimento di inutilità

Il soggetto vive la propria attività in maniera negativa percependola come

inutile e vana

9. Sentimento di irrilevanza

Sensazione provata dal lavoratore di essere irrilevante per le dinamiche

aziendali e facilmente sostituibile

10. Sentimento di disconoscimento

Non riconoscimento da parete del lavoratore delle proprie capacità

e del proprio lavoro svolto

11. Lentezza nella prestazione

Dilatazione dei tempi lavorativi senza reale percezione del fenomeno

da parte del soggetto

12. Confusione organizzativa in termini di ruoli, compiti ecc.

Scarsa chiarezza dei ruoli e dei compiti e consapevolezza parziale

del problema

13. Scarsa

proposività a livello

cognitivo Assenza di iniziativa e di desiderio di sviluppo delle conoscenze personali

14. Aderenza formale alle regole e anaffettività

lavorativa

Scarsa partecipazione emotiva alle regole e alle procedure dell'organizzazione e sensazione di lavorare in modo meccanico

Tab. 2. Indicatori di malessere organizzativo (Adattato da Avallone, Bonaretti,

2003)

Nel caso di malessere organizzativo l’organizzazione dovrà intervenire per eliminare la presenza di tali indicatori e ristabilire un pieno regime di benessere organizzativo. Proprio a tal fine sono state emanate norme legislative presentate nei paragrafi successivi.

1.4 Direttiva ministeriale del 24/03/2004

Durante gli anni ’80-‘90 si sviluppò un approccio di intervento all’interno delle organizzazioni maggiormente incentrato sulla prevenzione dei rischi professionali.

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Uno dei più importanti atti legislativi in materia è la Direttiva datata 12 giugno 1989 del Consiglio della Comunità Europea volta all’attuazione di misure aventi come scopo la promozione del miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro1.

Tale direttiva venne accettata in Italia attraverso il D.lgs. 626/1994 dando luogo ad un evidente cambiamento nella legislazione nazionale infatti il decreto ha evidenziato il ruolo centrale del lavoratore all’interno dell’azienda nell’ambito della gestione della tutela della sicurezza e della salute negli ambienti di lavoro2.

Soltanto con il D.lgs. 81/2008 di recepimento dell’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004 può ritenersi effettivo il riconoscimento delle determinanti psicologico-sociali relative alla prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro.

Il meccanismo che in Italia portò alla direttiva ministeriale del 24/03/2004 è costituito da alcune tappe normative che si diramano a partire da uno dei più importanti atti legislativi europei in materia di sicurezza e salute dei lavoratori: la Direttiva del Consiglio della Comunità Europea del 12 giugno 1989 (89/391/CEE) avente ad oggetto l’applicazione di misure finalizzate a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.

Il recepimento in Italia di tale direttiva europea si esplicitò con il D.lgs. 626 del 1994, a livello nazionale con il quale si arrivò ad una importante

1 Direttiva 89/391/CEE: cit. «Il consiglio delle Comunità europee […] ha adottato la presente direttiva: […] articolo 3,

d) Prevenzione: il complesso delle disposizioni o misure prese o previste in tutte le fasi dell’attività nell’impresa per evitare o diminuire i rischi professionali»

2 La legislazione italiana si occupò fin dagli anni ’50-’60 della salute e sicurezza dei lavoratori e attraverso il D.lgs.

626/1994 vengono indivuate le “figure della prevenzione”: Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP), Medico Competente (MC), Rappresentante dei Lavoratori Sicurezza (RLS). Antonio Aiello, Christian Nardella, Patrizia Deitinger, op.cit, p.103

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tappa di svolta rispetto agli approcci in materia degli anni Cinquanta-Sessanta. Innanzitutto il D.lgs. n.626/94 introdusse le “figure della prevenzione” costituite dal Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP), Medico Competente (MC), Rappresentante dei Lavoratori Sicurezza (RLS), e mise al centro dell’attenzione il lavoratore ed il suo ruolo percepito come determinante nella gestione della tutela della sicurezza e della salute negli ambienti di lavoro. Attraverso questo decreto dunque viene riconosciuta la necessità di condivisione da parte dei lavoratori e di integrazione dei medesimi nella gestione della sicurezza e della salute nell’ambiente di lavoro.

In vista di questo decreto legislativo3, il 24 marzo 2004, il Ministero della

Funzione Pubblica emanò, in tema di rischi psicosociali, una specifica direttiva per le pubbliche amministrazioni avente ad oggetto “Misure

finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni”.

Nella premessa si possono individuare gli obiettivi prefissati dal dipartimento della Funzione Pubblica: sostenere la capacità delle amministrazioni pubbliche di attivarsi per la realizzazione del benessere fisico e psicologico delle persone, costruendo ambienti di lavoro e relazioni che contribuiscano a migliorare la qualità della vita dei lavoratori e delle loro prestazioni, raggiungere questi obiettivi è necessario perché il Dipartimento ritiene che « per lo sviluppo e

l’efficienza delle amministrazioni, le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l’apprendimento, l’ergonomia- oltre che la sicurezza- degli

3 In vista inoltre di altre leggi in materia di sicurezza sul lavoro: Statuto dei lavoratori (L.300/1970) recante «Norme

sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento», inoltre D.lgs. n.165/2001 recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche» e, sempre del 2001 la Direttiva ministeriale sulla «Formazione e valorizzazione del personale delle pubbliche amministrazioni» Fonte: http://gazzette.comune.jesi.an.it/2004/80/2.htm

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ambienti di lavoro, costituiscano elementi di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo e dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche».

Altri aspetti fondamentali per la creazione di un benessere organizzativo consistono nella creazione di adeguati contesti organizzativi di scambio, trasparenza e visibilità dei risultati del lavoro. Spazi architettonici idonei alle esigenze dei lavoratori, instaurazione di positivi rapporti tra le persone e sviluppo professionale e creazione di specifiche condizioni in grado di incidere sull’implementazione del sistema sociale interno, delle relazioni interpersonali ed in generale della cultura organizzativa.

Con questa direttiva, il Dipartimento Della Funzione Pubblica ha voluto guidare le amministrazioni pubbliche verso quella che dovrebbe essere la loro priorità: «lo sviluppo delle motivazioni al lavoro spesso trascurato nella tradizionale gestione del personale nelle amministrazioni pubbliche» ed in questo quadro invogliarle ad essere «datori di lavoro esemplari attraverso una rinnovata attenzione ad aspetti non monetari del rapporto di lavoro, consentendo l’avvio di modelli gestionali delle risorse umane diretti a favorire il miglioramento degli ambienti di lavoro, l’aumento dei livelli di produttività nel contesto delle relazioni sindacali».

La Direttiva Ministeriale da contenuto a quanto previsto dal D.lgs. 165 del 30 marzo 2001 (in particolare all’art. 7). Il disegno della direttiva si evince dal punto 2 “Finalità della direttiva” per cui il ministro della Funzione Pubblica si pone l’obiettivo di individuare:

a) le motivazioni per l’adozione di misure finalizzate ad accrescere il benessere organizzativo.

Riguardo a questo aspetto viene specificato che questa direttiva è sorta anche dalla necessità di valutare l’impatto organizzativo delle riforme legislative emanate negli anni passati e di valutare l’impatto delle

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trasformazioni legate all’utilizzo delle nuove tecnologie sul personale delle amministrazioni pubbliche e infine dalla necessità di responsabilizzare la dirigenza sulla efficace gestione delle risorse umane. Pertanto le amministrazioni sono invitate a «migliorare il benessere

all’interno della propria organizzazione rilevando le opinioni dei dipendenti sulle dimensioni che determinano la qualità della vita e delle relazioni nei luoghi di lavoro e realizzando opportune misure di miglioramento per: valorizzare le risorse umane, aumentare la motivazione dei collaboratori, migliorare i rapporti tra dirigenti e operatori, accrescere il senso di appartenenza e di soddisfazione dei lavoratori per la propria amministrazione ; […] realizzare sistemi di comunicazione interna; prevenire i rischi psico-sociali di cui al D.lgs. n.626/1994».

b) Le indicazioni da seguire per accrescere il benessere organizzativo:

I - attenzione al benessere organizzativo come elemento di cambiamento culturale perché la «convivenza organizzativa non può svolgersi soltanto sotto la dimensione del governo gerarchico e delle scansioni procedurali: una variabile altrettanto fondamentale è rappresentata dal sentire individuale e dalle relazioni informali tra le persone che interagiscono nello stesso ambiente di lavoro».

II – L’attenzione alle variabili critiche: caratteristiche ambiente di lavoro, chiarezza obiettivi, riconoscimento e valorizzazione delle competenze, comunicazione e circolazione delle informazioni, prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali, clima relazionale franco e collaborativo, scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi, giustizia organizzativa, apertura all’innovazione, controllo dei livelli fisici concepiti di stanchezza e fisica e mentale nonché di stress, gestione di eventuale conflittualità.

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III – Il processo per la rilevazione e il miglioramento del benessere organizzativo che deve essere seguito dall amministrazioni è diviso in più fasi: individuazione dei ruoli nel processo di rilevazione e miglioramento del benessere; definizione della procedura di rilevazione e di intervento; predisposizione degli strumenti di rilevazione; raccolta dei dati; elaborazione dei dati; restituzione dei risultati; definizione del piano di miglioramento e suo monitoraggio e verifica.

IV - Contenuti e strumenti del piano di miglioramento che può riguardare uno o più aspetti circa la struttura e i ruoli organizzativi, l’innovazione tecnologica, i processi organizzativi, la cultura organizzativa, le politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane, la comunicazione interna ed esterna e la modifica di norme e procedure.

c) Gli strumenti per l’attuazione della direttiva. Ultima finalità

espressa dalla direttiva concerne la disposizione degli strumenti per la sua attuazione e il ministero per la funzione pubblica comunica la realizzazione di un manuale operativo di supporto per la pianificazione del benessere organizzativo da parte delle amministrazioni.

In Italia, Successivamente all’attuazione della Direttiva Ministeriale specifica per le pubbliche amministrazioni, sono state emanate altre leggi in materia di rischi psicosociali, come vedremo di seguito.

1.5 Il D.lgs. 81/2008

Sul piano legislativo nazionale si ebbe un esplicito riconoscimento delle determinanti psicologico-sociali riguardanti la prevenzione della sicurezza e della salute sul lavoro con il recepimento dell’Accordo

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Europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 20044 attraverso il

Decreto legislativo n. 81 del 2008.

Nell’ambito del D.lgs. n. 81 acquista rilevanza il concetto di “salute” derivante dalla definizione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti all’art. 2, lettera o), si legge: «”Salute”: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in uno stato di assenza di malattia o d’infermità». Il disegno della prevenzione della salute e sicurezza si fa più esteso ed articolato, di fatto, sempre all’art.2, lettera p), si specifica: «”sistema di promozione della salute e della sicurezza”: complesso dei soggetti istituzionali che concorrono, con la partecipazione delle parti sociali, alla realizzazione dei programmi di intervento finalizzati a migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori». Nell’articolo 2 assume importanza anche un altro aspetto, quello della responsabilità sociale delle imprese, così definita alla lettera ff): «integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».

Il D.lgs. n.81/2008 catalizza la propria attenzione su un altro aspetto fondamentale in materia di salute e sicurezza sul lavoro: la formazione. Come già avvenuto nel contesto del D-lgs. 626/1994, lo strumento formativo è decisivo per la prevenzione. Nella Sezione I “Misure di

4 Accordo siglato da CES - sindacato Europeo; UNICE-“confindustria europea”; UEAPME - associazione europea

artigianato e PMI; CEEP - associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale. «2. Oggetto. Lo scopo dell’accordo è migliorare la consapevolezza e la comprensione dello stress da lavoro da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti, attirando la loro attenzione sui sintomi che possono indicare l’insorgenza di problemi di stress da lavoro. L’obiettivo di questo accordo è di offrire ai datori di lavoro e ai lavoratori un modello che consenta di individuare e di prevenire o gestire i problemi di stress da lavoro. Il suo scopo non è quello di colpevolizzare (far vergognare) l’individuo rispetto allo stress. Riconoscendo che la sopraffazione e la violenza sul lavoro sono fattori stressogeni potenziali ma che il programma di lavoro 2003-2005 delle parti sociali europee prevede la possibilità di una contrattazione specifica su questi problemi, il presente accordo non riguarda né la violenza sul lavoro, né la sopraffazione sul lavoro, né lo stress post-traumatico».

Fonte: http://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2509:accordo-europeo-8-ottobre-2004-stress-nei-luoghi-di-lavoro&catid=54:2004&Itemid=61

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tutela e obblighi” art. 15 si propone una adeguata «informazione e

formazione per i lavoratori; per dirigenti e i preposti; per i rappresentanti

dei lavoratori per la sicurezza». Inoltre, come già esplicitato nella modifica operata dal D.lgs. 626/1994 (art.8-bis) al D.lgs. n. 195/2003, viene ribadito all’art. 32 che «Per lo svolgimento della funzione di responsabile del servizio prevenzione e protezione (RSPP) […] è necessario possedere un attestato di frequenza, con verifica dell'apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato».

All’articolo 9, comma 2, lettera f) si prospetta una novità applicata dal decreto riguardante, in maniera collegata all’attività di formazione, la «promozione e divulgazione della cultura della salute e della sicurezza del lavoro nei percorsi formativi scolastici, universitari e delle istituzioni del’’alta formazione artistica, musicale e coreutica […]», attraverso tale articolo è possibile diffondere la cultura di salute e sicurezza sul lavoro a tutti i cittadini ed ai “futuri lavoratori”5.

Di particolare interesse risulta la Sezione II del D.lgs. n.81/08 intitolata “Valutazione dei rischi” dove all’art. 28 si fa riferimento all’ ”oggetto” della valutazione dei rischi includendo «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti quelli esposti a rischi particolari tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004»6.

5 P.Deitinger, C,Nardella, R. Bentivegna, M.Ghelli, B. Persechino, S. Iavicoli, “D.lgs. 81/2008: conferme e novità in

tema di stress correlato al lavoro”, Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, volume XXXI- N.2, pag.155. Fonte: http://gimle.fsm.it/

6 Cit. estesa dell’articolo 28: «[…] anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici

impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari […]» Testo integrale D.lgs. 81/08:

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La valutazione dei rischi ha ad oggetto dunque molteplici forme riscontrabili nel contesto dell’organizzazione lavorativa. Tale valutazione dovrebbe avvenire nell’ambito dell’impresa attraverso un circuito permanente in modalità ciclica come si evince dall’art. 29 dove si sottolinea la necessità di rielaborare la valutazione dei rischi «in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. […]».

Nella valutazione dei rischi delineata da questo Decreto legislativo, appare controversa la figura del Medico Competente che, secondo l’art.2, comma 1, lettera h) «collabora, secondo quanto previsto all’articolo 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi[…]», fino a questo punto la figura del Medico Competente pare rivestire un ruolo di collaborazione incondizionata, ma si evince dall’art.29, c.1, che «Il datore di lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento di cui all’art.17, c.1, lettera a) in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, nei casi di cui all’art.41», la collaborazione del medico competente sembrerebbe dunque, a fronte di tale articolo, «subordinata alla sussistenza dei casi in

cui si attua la sorveglianza sanitaria. Pertanto, venedno meno un momento importante quale quello della partecipazione attiva del medico competente alla valutazione del rischio, si svilisce quella competenza specifica e peculiare che avrebbe dovuto contribuire alla valutazione»7 7 Cit. P.Deitinger, C,Nardella, R. Bentivegna, M.Ghelli, B. Persechino, S. Iavicoli, op.cit. , p.155

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Altro aspetto di cui tenere conto nell’ambito del Decreto legislativo n. 81/08 è l’organizzazione del lavoro considerato di primaria importanza per l’attività preventiva8. È necessario dunque specificare quali sono le

misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro come riscontrato nell’art.15 dove alla lettera d) si fa riferimento al «rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo».

All’articolo 6 il D.Lgs. 81/08 istituisce la “Commissione Consultiva Permanente sulla salute e sicurezza sul lavoro” successivamente costituita con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali il 3 dicembre 2008. alla Commissione furono attribuiti diversi compiti e tra questi quello di sviluppare le indicazioni fondamentali per la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato. Il “percorso metodologico” proposto dalla Commissione9 consta di due

principali fasi: una prima fase “Preliminare” e definita “necessaria”, l’altra definita “eventuale” e applicabile in caso di eventuali condizioni di criticità individuate dalla prima fase oppure in caso di interventi a scopo correttivo falliti. In questo senso può essere definita fase “Approfondita”. Tale “percorso metodologico” costituisce un livello “minimo” di attuazione dell’obbligo di valutazione dello stress lavoro-correlato e per questo subentra la necessità di proporre una metodologia nuova come quella del modello Valutazione dei Rischi Psicosociali (Va.Rp) del quale parlerò ampiamente nel capitolo successivo, strumento dotato di un

8 A.Aiello et.al., op.cit, pag. 106

9 “Percorso metodologico” divulgato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso circolare del 18

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percorso valutativo maggiormente articolato in grado di fornire una prospettiva interdisciplinare, condizione necessaria per la valutazione dei rischi psicosociali.

2. Stress correlato al lavoro e fattori di rischio psicosociali

“I rischi psicosociali riguardano quegli aspetti di progettazione, di organizzazione e gestione del lavoro, e i rispettivi contesti ambientali e

sociali, che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici” (Cox e Griffiths, 1995)

2.1 Modelli teorici dello stress lavoro-correlato

Fin dalla prima metà del Novecento il fenomeno dello stress è stato oggetto di studio. Il primo approccio allo stress lavoro correlato fu di tipo medico e quindi fisiologico. Hans Selye ricercatore e poi Direttore dell’Istituto di Medicina e Chirurgia sperimentali presso la McGill

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University di Montreal, nel 1973 definì lo stress come risposta (generale) aspecifica prodotta dall’organismo quando questo deve affrontare situazioni o stimoli ambientali nocivi (fisici, biologici o psicosociali) ed è indipendente dalla natura dello stimolo. In tale ottica lo stress può presentare caratteristiche positive ed essere definito “eustress” poiché grazie a questa risposta da stress l’individuo è in grado di affrontare i cambiamenti e le difficoltà che gli si presentano quotidianamente.

La risposta fisiologica dell’organismo è stata delineata nel 1950 da Hans Seyle attraverso la teoria denominata General Adapatation Syndrome (GAS) strutturata in tre fasi consequenziali:

1. la prima fase definita “di allarme” durante la quale l’organismo

reagisce agli stressors attraverso modificazioni di carattere biochimico-ormonali;

2. la seconda fase “di resistenza” durante la quale si stabilizzano le

difese allertate precedentemente dall’organismo

3. l’ultima fase di “esaurimento” dove, a causa del perdurare degli

agenti stressanti, si esaurisce e viene meno la capacità di difesa e di adattamento prolungato alla situazione permettendo così lo sviluppo di uno stato di “esaurimento funzionale”.

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Fig. 2 Fasi della Sindrome Generale di Adattamento (Selye, 1936)

A livello fisiologico avviene che nella fase iniziale si manifestano reazioni di risposta dovute all’attivazione del sistema nervoso vegetativo e in particolare del sistema nervoso simpatico che «libera adrenalina nelle terminazioni nervose entro i tessuti, provocando una risposta subitanea e breve all’attacco stressante, l’incremento della secrezione surrenale di adrenalina e noradrenalina (catecolamine) rende durevole questa risposta […] Viene così esaltata la capacità reattiva dell’organismo». (Sarchielli, 2003)

Se gli stressors sono molto forti e protratti nel tempo intervengono altri meccanismi dei tre principali sistemi (nervoso, endocrino e/o immunitario) che operano in maniera autonoma oppure aumentano l’insieme sintomatico di patologie già presenti. Sarebbe meglio dunque evitare uno stress intenso o prolungato nel tempo poiché questo potrebbe determinare talvolta anche una malattia specifica nel soggetto. questo potrebbe determinare anche una cronicizzazione della risposta biologica dell’organismo “come conseguenza dell’ipersecrezione di ormoni dal surrene, dall’ipofisi per alterazione dei processi infiammatori e/o per una riduzione delle difese dell’organismo” (Aiello, Nardella, Deitinger, 2012).

Lo stress correlato al lavoro se protratto nel tempo è dunque uno dei fattori che contribuisce allo sviluppo di malattie talvolta in maniera lieve talvolta in maniera decisiva con effetto scatenante dei sintomi della malattia o favorendone il decorso. Nell’ambito degli studi di Seyle vengono distinti due tipologie di stress, uno positivo e uno negativo, in

(32)

quest’ultimo caso si tratta di “distress” reazione allo stress che può sfociare in patologie psicosomatiche a seconda delle capacità individuali di coping.

Successivamente il modello teorico “tecnico” ha catalizzato la propria attenzione sulle caratteristiche ambientali manifestate sotto forma di richieste e di carico di lavoro, in generale tale modello ha prestato attenzione ai vari aspetti che caratterizzano l’ambiente fisico, ai fattori temporali che caratterizzano l’attività, al grado di ambiguità che caratterizza il ruolo ricoperto dal soggetto lavoratore, agli ostacoli nella carriera lavorativa, alle relazioni nel gruppo di lavoro, al rapporto lavoratore-datore.

Progressivamente sono emersi alcuni limiti nell’ambito di questo approccio tecnico poiché si notano evidenti differenze individuali nella risposta agli stressors. Nonostante tali limiti l’approccio teorico ha dato impulso ad una indagine ambientale volta a delineare le caratteristiche della situazione lavorativa che potenzialmente rappresenta fattore di rischio o comporta stati di malessere Dai recenti cambiamenti nelle situazioni lavorative derivano alcuni fattori di stress: “tecnostress” riguardante situazioni di potenziale eccesso di richieste derivanti dall’uso sistematico delle nuove tecnologie che talvolta a causa sei loro continui cambiamenti possono provocare preoccupazione nel lavoratore circa la sua capacità di far fronte alle richieste (Sarchielli, 2003).

L’approccio più recente allo stress correlato al lavoro e più attento alla qualità della relazione persona-ambiente è quello di tipo psicologico. La psicologia ha catalizzato la propria attenzione verso i potenziali rischi ed effetti del lavoro sulle persone, con riferimento sia a rischi fisici per la

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salute o igienico/ambientali derivanti ad esempio dalla manipolazione di sostanze chimiche, sia con riferimento a cause derivanti dal rapporto tra ambiente fisico ed organizzativo. L’attenzione è dunque incentrata sui rischi per la sicurezza e la salute cosiddetti trasversali in quanto influenti sia a livello infortunistico che di salute.

I rischi trasversali si manifestano in maniera non sempre facilmente riscontrabile dall’organizzazione e dal lavoratore che ne subiscono le conseguenze e costituiscono una tipologia di rischi è nuova rispetto a quelle rilevate in precedenza, si tratta infatti non più di rischi fisici o igienico/ambientali ma di rischi definiti “psicosociali” «ascrivibili a rischi derivanti da un’alterazione nelle ottimali interazioni persona-ambiente di tipo psicologico e organizzativo» (Sarchielli, 2003) L’approccio psicologico rappresenta dunque un modello interpretativo in grado di superare e completare gli studi degli approcci precedenti. L’approccio psicologico allo stress lavoro correlato è avvalorato dalla definizione fornita dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro che definisce i rischi psicosociali come «quegli aspetti di progettazione di organizzazione e gestione del lavoro, e i rispettivi contesti ambientali e sociali, che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici» (Cox e Griffiths, 1995), dove il primo concetto riguarda l’organizzazione dell’attività lavorativa individuale ed il secondo riguarda l’organizzazione aziendale. È necessario sottolineare che i rischi psicosociali si manifestano in concreto attraverso fenomeni quali: stress-lavoro correlato, burnout, vessazioni, mobbing.

Molteplici sono i modelli teorici dello stress lavoro correlato delineati dagli psicologi e aventi l’obiettivo di delineare il legame tra i fattori che portano allo stress lavoro correlato ed i potenziali danni riscontrabili nel

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soggetto lavoratore, tenendo conto della sua capacità di coping. Tra i vari modelli risultano di notevole interesse l’approccio internazionale incentrato sullo studio del rapporto tra persona e ambiente di lavoro e l’approccio transazionale attento ai funzionamenti psicologici, sia cognitivi che emotivi, alla base del rapporto suddetto persona-ambiente.

Il modello teorico internazionale ha catalizzato la propria attenzione su fattori legati ad elementi quali il compito e le mansioni caratteristiche di un determinato lavoro. Karasek fu fautore del modello teorico di maggior rilevanza nel contesto dell’approccio internazionale, tale modello è denominato “modello domanda/controllo” (1979) ed individua la causa di stress proprio nel rapporto tra richieste lavorative e controllo delle medesime da parte del soggetto coinvolto, per cui accade che il soggetto percepisca una pressione elevata in termini di richieste di lavoro sia a livello qualitativo, quindi complessità del lavoro da svolgere, sia in termini quantitativi, il soggetto può attutire tale pressione attraverso l’autonomia decisionale nei compiti svolti, quindi la possibilità di controllo sul proprio lavoro può ridurre l’effetto negativo (effetto buffer) della richiesta fungendo così da attenuatore della pressione avvertita. A richiesta elevata dovrebbe corrispondere un controllo elevato per far si che si delinei un effetto di apprendimento tale da ridurre lo stress.

DOMANDA BASSA ALTA CONTROLLO A L BASSO STRAIN LAVORO ATTIVO

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T O B A S S O

Fig. 3 Modello domanda/controllo (Karasek, 1989)

Dagli studi di Karasek emerse inoltre una connessione dello stato di malessere ad un basso livello di soddisfazione (job strain) causato da forte richiesta di lavoro (job demand) e limitato controllo (job control), risultò così inoltre un livello di stress cronico con conseguente rischio cardiovascolare ad un livello maggiormente elevato rispetto alla popolazione.

Successivamente si delineò il modello “demand/control/support, che rispetto al precedente modello aggiunse la dimensione del sostegno sociale (Karasek e Theorell, 1990) applicabile sia sul piano strumentale nel caso di problemi sul lavoro, sia sul piano emotivo nel caso di condivisione dei suddetti problemi con colleghi o superiori. Tale modello dimostrò l’importanza del supporto sociale come modulatore di stress contrariamente ad un isolamento sociale incrementante dello stress. Karasek delineò recentemente (2008) un approccio ancor più adeguato alla valutazione di aspetti psicosociali macro sorti da fenomeni come la globalizzazione e le crisi economiche e produsse un uno strumento attualmente molto diffuso per la valutazione dello stress lavoro correlato, il Job Content Questionnaire (JCQ).

(36)

Un altro modello sviluppato nell’ambito dell’approccio internazionale fu il “Person-Environment Fit” di French e Caplan (1973) e di French, Caplan e Van Harrison (1982), psicologi sociali dell’Institute for Social Research dell’University of Michigan che mutuarono tale modello teorico dalla prospettiva di Lewin Kurt Lewin, psicologo tedesco fautore della Teoria del campo (field theory, 1951) secondo la quale il comportamento di un individuo deriva da un campo di determinanti interdipendenti denominato “spazio sociale” le cui caratteristiche strutturali sono costituite da concetti derivanti dalla topologia e dalla set

theory. (Gabassi, 2005) e sottolinearono l’interazione tra caratteristiche

dell’individuo e ambiente di lavoro e loro conseguente strain (affaticamento) e messa in atto di comportamenti con ricadute sulla salute. Di fondamentale rilevanza per il benessere e la salute delle persone risulta essere l’adattamento (fit) tra i loro stessi valori e necessità e l’ambiente lavorativo.

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ADATTAMENTO OGGETTIVO AMBIENTE OBIETTIVO COPING CARATTERISTICHE PERSONALI PERCEZIONE AMBIENTE DIFESE IMMAGINE DI SE’ ADATTAMENTO SOGGETTIVO

Fig. 4 Modello Persona/Ambiente

(Adattato da Van Harrison & Caplan, 1978)

Il modello “Person-Environment Fit” è lodevole per il fatto di avere bilanciato la valutazione attuata dal soggetto degli eventi fonte di stress con gli aspetti organizzativi del contesto lavorativo e gli aspetti oggettivi delle risorse umane (competenze, attitudini, abilità professionali). Si avrà dunque una situazione organizzativa ottimale nel caso in cui comportamenti, abilità e risorse dei dipendenti coincidono con le richieste provenienti dal lavoro ed inoltre quando l’ambiente di lavoro stesso non si mostra ostile alle necessità dei dipendenti e va incontro alle conoscenze e capacità dei dipendenti.

Eventuali mancanze riguardanti una di queste aree possono costituire fonte di problemi tant’è che «[…] maggiore è la distanza/disadattamento (sia soggettivo che oggettivo) tra le persone e il loro ambiente, maggiore

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è la tensione da gestire, che può essere relativa a problematiche di salute, minore produttività o altri problemi» (Aiello, Nardella, Deitinger, 2012). Tale modello infine considera anche alcuni sistemi di difesa come la negazione, la riconsiderazione di bisogni e coping «adottati per ridurre il disadattamento soggettivo» (Aiello, Nardella, Deitinger, 2012).

Altro modello rilevante nell’approccio interazionale è il cosiddetto modello “Vitamin” di Warr (1987) ritenuto essere uno sviluppo dei concetti basilari del modello “Person-Environment Fit” esso delinea l’ipotesi che certi aspetti del lavoro abbiano sulla salute mentale del lavoratore le stesse conseguenze che le vitamine propagano sul corpo umano. Ad esempio fattori lavorativi come sicurezza, compiti consistenti, adeguata retribuzione portano ad una effetto di costante miglioramento della salute nel lavoratore, questo però avviene soltanto entro un certo limite oltre il quale non vi saranno effetti di alcun tipo, né positivi né negativi. Inoltre certi aspetti del lavoro come eccessivo carico di lavoro, scarso supporto sociale, scarsa autonomia o monotonia nei compiti possono portare effetti negativi così come le vitamine quando non agiscono nel modo adeguato se prese in quantità insufficiente o eccessiva. Il benessere lavorativo per Warr è strutturato su tre

dimensioni: ansia/serenità, malcontento/piacevolezza e

depressione/felicità. Queste tre dimensioni si sviluppano lungo un alternarsi di piacevolezza e spiacevolezza a seconda del livello di attivazione necessario per quello stato. Per esempio lo stato di ansia è spiacevole e richiede alta attivazione, anche la depressione è uno stato spiacevole il quale però, a differenza dello stato di ansia, richiede una bassa attivazione. Condizioni piacevoli come serenità e felicità richiedono diversi stati di attivazione, il primo basso e il secondo alto.

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Tali condizioni mentali dipendono dal ruolo ricoperto dal singolo all’intenro dell’organizzazione lavorativa, chi ricopre nella gerarchia dell’organizzazione posizioni elevate presenterà sentimenti depressivi meno frequentemente rispetto a coloro che ricoprono ruoli gerarchicamente inferiori, tuttavia vivranno con maggiore frequenza lo stato di ansia. In questo modello, come in quelli analizzati precedentemente emerge l’importanza dell’azione moderatrice svolta dalle caratteristiche individuali dei soggetti lavoratori sulle variabili organizzative.

La prospettiva teorica transazionale catalizza la propria attenzione sui meccanismi psicologici che sorgono dall’interazione tra individuo-ambiente di lavoro, spostando dunque l’attenzione dagli aspetti del contenuto del lavoro evidenziati dall’approccio internazionale ai processi cognitivi e alle reazioni emotive dell’individuo nell’ambiente di lavoro. I modelli transazionali considerano lo stress come una rappresentazione di compromessi problematici tra persona e ambiente, lo stress è visto come «uno stato psicologico che coinvolge sia aspetti cognitivi che affettivo/emozionali […] come un fenomeno percettivo derivante dal confronto tra le richieste alla persona provenienti dall’ambiente e la capacità di quest’ultima di fronteggiarle» (Aiello, Nardella, Deitinger, 2012).

Il primo modello teorico appartenente all’approccio transazionale da prendere in esame è quello proposto da Cooper e Marshall (1976) dal quale è stato ideato il questionario di valutazione dello stress lavoro correlato denominato Occupational Stress Indicator (OSI) ampiamente utilizzato dalle aziende.

Figura

Figura 1. Diagramma delle dimensioni della salute organizzativa. (Tratto da Aiello et al.,  2012)
Fig. 4 Modello Persona/Ambiente
Tab. 3 Effetti dello stress sull’individuo.
Fig. 5 Modello dello stress lavorativo, adattato da Cooper (1986)
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