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"La séparation est un grand océan" Immagini e suoni dell'esilio in Ton beau capitaine di Simone Schwarz-Bart

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1:

1.1 BREVE INTRODUZIONE AL COMMENTO LETTERARIO DI TON BEAU CAPITAINE

Sior capitano aiutaci a attraversare Questo mare contro mano

Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo E questa notte non abbiamo

Governo e parlamento non abbiamo E ragione o sentimento non conosciamo E quando capita ci arrangiamo

Con documenti di seconda mano1

Ton beau capitaine di Simone Schwarz-Bart è un’opera fortemente attuale. Sono passati ventidue anni dalla sua pubblicazione ma le tematiche affrontate - l’esilio, l’immigrazione clandestina, la separazione forzata della coppia, la faticosa ricerca di un’identità - sono oggi di grande interesse anche per noi italiani che viviamo in una terra che da sempre “accoglie” lo straniero.

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III La terra ospitante dell’opera in questione è la Guadalupa della fine degli anni ’80 e lo straniero è un bracciante nero, che vuole sfuggire alla disastrosa situazione politica ed economica della sua isola, Haiti.

Al di là della bella vetrina dalla quale siamo abituati a vedere l’esotica immagine dei Caraibi che ci promette rilassanti vacanze da sogno, queste sperdute isole dell’Atlantico costituiscono un’area geografica molto complessa, un coacervo di culture formatesi in seguito all’incontro di popoli profondamente diversi, ognuno con le sue tradizioni. La creolizzazione caraibica segna la nascita di una comunità eterogenea in un luogo che per più di tre secoli di schiavitù ha accolto dal mare l’esilio forzato di migliaia di schiavi africani e i loro padroni occidentali. È da questi che discende la maggior parte degli abitanti dei Caraibi e molte delle loro espressioni culturali, tradizionali e non, derivano dalle diverse strategie di sopravvivenza ideate sulle piantagioni. Certo, non esistono più le colonie ma esiste purtroppo lo spettro del colonialismo se pensiamo agli ancora forti legami economici e politici tra le potenze occidentali e queste isole, come confermano i recenti scioperi contro il carovita in Guadalupa, una delle regioni d’oltremare della Francia, dove la produzione e la distribuzione delle merci è in mano al governo francese.

Lo spettro del colonialismo si rivela però soprattutto nella grande influenza di una cultura deviante che si è imposta, quella del bianco e della pelle bianca. Gli abitanti dei Caraibi hanno interiorizzato un complesso di inferiorità nei confronti del bianco europeo che si rivela poi capovolto nell’atteggiamento che loro stessi assumono verso lo straniero delle isole

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IV vicine o anche solo di una comunità diversa. Questo è ciò che succede per esempio all’unico protagonista sulla scena di Ton beau capitaine, Wilnor, che essendo uno straniero di Haiti, è guardato con sospetto ed è relegato ai margini della società che lo ha “accolto”.

È proprio in un luogo che riunisce culture composite come i Caraibi che invece l’identità dovrebbe assumere un nuovo significato: essa si esprime qui nell’incontro con l’altro, proprio perché abbraccia l’estraneo riconosciuto come tale.

Ecco come esprime questo concetto il poeta, scrittore e saggista martinicano Edouard Glissant nel suo Poetica della Relazione:

Questa nuova regione del mondo – essa è nuova, per noi, essenzialmente perché vi entriamo tutti insieme, insieme per la prima volta nelle storie dell’umanità, gli ex coloni e gli ex colonizzati, gli ex padroni e gli ex schiavi, gli antichi imperi e le vecchie Compagnie; e non si tratta più né di esplorazioni né di scoperte né di conquiste di territorio, ma di condivisione degli immaginari, in virtù della quale oggi diviniamo che le nostre identità non si appellano più all’identico, ma si riferiscono forse, anche qui per la prima volta, a un accordo di differenze.

La particella elementare dell’identità non la concepiamo più entro lo stesso, ma nel gioco delle differenze, scoprendo con stupore che le nostre identità giocano il gioco delle differenze, tanto almeno quanto riposano sull’immanenza dell’identico. In questa nuova regione del mondo le differenze non contrappongono, raccordano2.

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E. GLISSANT, Poetica della relazione, Quodlibet, Macerata 2007, p. 7. Edouard Glissant ha elaborato insieme a Patrick Chamoiseau et a Raphaël Confiant il concetto di antillanità e creolizzazione.

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V La memoria dell’esilio dal continente africano, il continuo esilio di chi si imbarca in mezzi di fortuna per raggiungere le coste dell’America o delle isole vicine perché lì ha intravisto uno spiraglio di felicità e la ricerca di una propria identità, anche se fragile, senza la sottomissione a nessun modello prestabilito, fanno da sfondo a questo testo concepito per il teatro e forse per questo motivo, ancora più bello e più vivo.

Dopo averlo inserito nel contesto del teatro caraibico francofono, cercherò con il presente lavoro di analizzare il testo di Ton beau capitaine da un punto di vista letterario e stilistico con gli strumenti della critica postcoloniale, e poi di giustificare le scelte che ho adottato nella mia traduzione italiana.

Prima di tutto è però necessario introdurre l’autrice e la sua produzione letteraria.

1.2 CENNI BIOGRAFICI SULL’AUTRICE E SUA PRODUZIONE LETTERARIA

Simone Schwarz-Bart è nata nel 1938 a Petit-Bourg, in Guadalupa, dove vive ancora oggi3. Trascorre un’infanzia serena a contatto con un ambiente rurale dalle credenze popolari e dal ricco patrimonio orale ben radicati.

Studia a Pointe-à-Pitre, a Parigi, poi anche a Dakar. Questa “diaspora” si rifletterà nella sua scrittura che esplora infatti il triangolo immaginario Europa, Africa e Antille. Molto importante, poiché determina l’inizio del

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Cfr. F. F. TOUREH, L’imaginaire dans l’oeuvre de Simone Schwarz-Bart. Approche

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VI suo percorso di scrittrice, è l’incontro a Parigi con il futuro marito André Schwarz-Bart di origine ebraica, che otterrà nel 1959 il prix Goncourt per il romanzo Le Dernier des Justes. È lui che la spinge a scrivere perché è convinto del suo virtuosismo artistico e del suo talento di narratrice.

Prima di lanciarsi in un percorso individuale molto breve (due romanzi e un’opera teatrale) ma particolarmente intriso di mitologia e originale dal punto di vista linguistico, Simone Schwarz-Bart comincia la sua carriera letteraria scrivendo, nel 1967, in collaborazione col marito, Un plat de porc aux bananes vertes. Questo romanzo avrebbe dovuto inaugurare un ciclo storico di sette romanzi intitolato La mulâtresse Solitude, ambizioso progetto che doveva coprire un periodo storico molto lungo, dall’epoca della schiavitù fino alle Antille contemporanee. Tuttavia, per una serie di ragioni, i due autori decidono di scrivere individualmente questa monumentale opera.

È ancora da menzionare la notevole impresa di un’enciclopedia in sette volumi intitolata Hommage à la femme noir che gli Schwarz-Bart hanno scritto a quattro mani e che fa rivivere tutte quelle eroine nere assenti dalla storiografia ufficiale ma che sopravvivono nelle leggende e nei conte creoli.

Un plat de porc aux bananes vertes è dedicato a Aimé Césaire, poeta e scrittore martinicano fondatore del movimento della négritude assieme a Léopold Sédar Senghor, e a Elie Wiesel, scrittore rumeno di cultura ebraica e lingua francese sopravvissuto all’Olocausto: il romanzo si colloca così sotto il segno dell’appartenenza a una doppia minoranza di oppressi, gli antillani esiliati e colonizzati e gli ebrei sterminati. Siamo nella Parigi della seconda metà del XX secolo: un’anziana donna nera, originaria della Martinica, passa gli ultimi anni della sua vita in un ospizio chiamato “Trou”. Attraverso i suoi ricordi e la sua nostalgia, riviviamo l’antico mondo della schiavitù, la miseria di un tempo, le figure della sua infanzia. Pian piano, si erge davanti a noi un personaggio esemplare, la cui esistenza

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VII fu un’instancabile sfida all’oblio, alla vecchiaia, ma soprattutto alla sottomissione spirituale ai bianchi.

In questo romanzo, l’universo meraviglioso dell’isola lontana è opposto a una realtà avvilente ma allo stesso tempo, contiene in germe tutte le contraddizioni della società antillana. Se però qui le Antille sono ancora un punto di riferimento lontano, esse si avvicinano considerevolmente nell’opera individuale di Simone Schwarz-Bart: nei due romanzi successivi a Un plat de porc aux bananes vertes, l’oggetto letterario delle Antille diventa quello della Guadalupa e coincide con l’esperienza intima dell’autrice e con i suoi ricordi d’infanzia. Parallelamente assistiamo a un’evoluzione anche linguistica che va dalla una lingua classica interrotta soltanto da qualche frase in creolo con il solo scopo di veicolare il ricordo, a una lingua originalissima che, come vedremo nell’analisi linguistica di Ton beau capitaine, opera la sintesi tra il francese e il creolo.

Il primo romanzo della produzione individuale è Pluie et vent sur Télumée Miracle pubblicato da Seuil nel 1972. Best-seller della letteratura francofona antillana e postcoloniale in genere, questo libro ci riporta al periodo che segue la schiavitù in Guadalupa. Tre generazioni separano la protagonista, Telumée, da “les temps anciens”, da quel passato di paura e orrore che minaccia costantemente di tornare e invadere il presente. Un presente in cui il nero continua ad essere sfruttato e sottopagato dal bianco.

Il fatalismo e l’immagine del nero sotto i colpi della frusta scolpita nell’inconscio collettivo, aleggiano nelle pagine del romanzo e portano a una visione pessimistica da parte dei personaggi. D’altra parte però, le figure femminili di Telumée, della madre e soprattutto della nonna, sono positive e inclini al coraggio e alla determinazione: per tutta la vita, nonostante i momenti difficili, hanno cercato di trovare un compromesso tra l’accettazione della sofferenza e la gioia di vivere. Da una parte il mito positivo della donna e della vita, dall’altra quello negativo della morte e

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VIII della schiavitù, costituiscono la struttura sotterranea dell’opera. E alla fine la speranza e la vita hanno la meglio.

Più rivolto alla costruzione e al consolidamento di una letteratura antillana scritta è il romanzo del 1979 Ti-Jean L’horizon che, per la sua fonte ispiratrice e il ruolo del suo narratore, si presenta sotto forma di un lungo conte, la prima forma letteraria prodotta dalla cultura delle piantagioni.

Fin dalle sue origini, il conte porta in sé le tracce di altre culture e si riferisce ai miti dei diversi popoli che si sono incontrati nel Nuovo Mondo. Questa intertestualità avvicina il romanzo al mito e gli conferisce il valore di opera fondatrice di una cultura emergente. Poiché infatti uno dei miti più importanti per l’uomo è il mito della sua origine4, l’autrice non si accontenta solo di salvare dall’oblio il patrimonio orale dei conte ma vuole che il suo romanzo abbia il valore di dottrina identitaria per il popolo antillano, emancipandola dai canoni tradizionali della letteratura europea dominante. Se la storia ha distrutto il mito delle origini, questa gente ha bisogno di reinventarlo, di creare un ordine nel caos.

Il protagonista Ti Jean, personaggio ricorrente nei conte dell’Africa, dell’America del nord, dei Caraibi e anche dell’Europa, vuole essere il mediatore tra due gruppi antagonisti all’interno della sua comunità: i discendenti degli schiavi fuggiaschi, ancorati al ricordo del passato e della terra madre, un’Africa idealizzata, e i discendenti degli schiavi che sono rimasti nelle piantagioni e che vivono influenzati dalla modernità. Attraverso i suoi viaggi in Africa e in Europa, la ricerca di un’identità antillana da parte di Ti-Jean si conclude alla fine con il ritorno nella sua isola dove ciò che di meglio può fare è ricostruire il rapporto con il suo popolo cercando di sanare i suoi conflitti interni.

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Cfr. F. TOUREH, L’imaginaire dans l’oeuvre de Simone Schwarz-Bart. Approche

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IX Otto anni dopo l’uscita di Ti Jean l’horizon, les editions du Seuil pubblicano, nel 1987, Ton beau capitaine, unica pièce di Simone Schwarz-Bart. In un solo atto diviso in quattro quadri, l’autrice riesce a parlare sinceramente del “nègre des nègres”, il “moins que rien” spostando il discorso della ricerca dell’identità dal piano mitologico, come in Ti Jean, a quello della sfera personale e privata dello straniero che va a tagliare le canne da zucchero in un posto dove è trattato da diverso, da reietto.

Wilnor Baptiste, come tanti altri, ha lasciato Haiti e ora fa il bracciante agricolo in Guadalupa dove conduce una vita di ristrettezze economiche per poter risparmiare e mandare i soldi a casa. Sua moglie, rimasta ad Haiti, gli invia una cassetta, sorta di lettera moderna e mezzo di comunicazione frequente nella cultura orale dei Caraibi. Dopo tante esitazioni e un lungo tergiversare, alla fine la donna confessa che ha tradito il marito e che è rimasta incinta di un altro uomo, uno che con il suo modo di scherzare e con quel profumo le aveva ricordato l’assente. Il sogno di Wilnor va in frantumi. In un primo momento, preso dalla collera, risponde alla moglie, registrando a sua volta la voce su una cassetta, che anche lui in realtà non le è stato fedele, che in Guadalupa ha tante donne. Poi arriva la verità: non ha mai tradito la moglie, ma è capitato anche a lui di essere ingannato, di vedere la moglie dietro le “loro donne”.

La separazione confonde tutto e tutti e ha costretto Wilnor ad un esilio dove i legami e gli affetti che gli garantiscono almeno un nome, “beau capitaine”, e un posto nel mondo, seppur solo sognato, si affievoliscono a causa della distanza e dell’assenza.

1. 3 IL TEATRO: UN MEZZO PER AFFERMARE UNA PROPRIA IDENTITÀ

Et tu m’as tellement menti,

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X que tu as fini par m’imposer

une image de moi-meme5

Il teatro è per definizione un’arte effimera, un fenomeno circoscritto allo spazio e al tempo della rappresentazione. Questa precarietà insita nella natura del teatro è avvertita ancora di più in una zona come le regioni francofone dei Caraibi, laddove la pratica della scena è caratterizzata dall’assenza di una tradizione di critica del teatro, dall’ instabilità finanziaria e dall’incoerenza dei rapporti con le istituzioni culturali francesi. La fragilità del teatro antillano costituisce un grande paradosso se pensiamo al considerevole peso dell’oralità all’interno di questa cultura: la musica, il carnevale, la gestualità delle coreografie popolari, i riti vudù, i conte, gli indovinelli si sono tramandati fino ad oggi.

Fin dal XVIII secolo, il teatro autoctono popolare ha avuto come rivale il teatro importato dall’Europa e naturalmente ne è uscito perdente. In tutti questi territori, indipendenti e non, abbiamo a che fare con un’acculturazione francese sia sul piano della produzione, dove la tradizione scolastica ha istituzionalizzato lo scritto e non lo spettacolo, sia sul piano della consumazione, dove le compagnie che venivano in tournée dall’Europa hanno soddisfatto e soddisfano ancora le élite piccolo-borghesi. Il problema si complica ulteriormente nei tre D.O.M./R.O.M. francesi dell’atlantico: la Guadalupa, la Martinica e la Guyana (dopo la revisione costituzionale del 2003, a seguito della politica di decentralizzazione del governo francese, questi territori sono diventati Regioni d’oltremare anche se di fatto continuano ad essere chiamati dipartimenti d’oltremare). Qui il concetto di nazione e di teatro nazionale è estremamente ambiguo. Mentre, come spiega Glissant ne Le discours antillais, per le nazioni occidentali il

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XI teatro è l’atto attraverso cui la coscienza collettiva si riflette e contemporaneamente il risultato di un armonioso superamento del folklore di un popolo attraverso una presa di coscienza collettiva6, il teatro nelle regioni caraibiche francofone non può svilupparsi senza prima colmare il vuoto storico che hanno portato la tratta e le deportazioni:

C’est seulement dans la conscience historique et sa fermentation que le passage peut être effectué, des croyances d’avant la coupure aux réalités du déportement à la conscience d’un peuple nouveau7.

Lo schiavo deportato, sradicato, ha vissuto una sorta di depersonalizzazione. Ha vissuto nell’assenza di storia e le tracce della sua antica cultura sono di conseguenza frammentarie, vuotate di significato. Il vuoto storico ha determinato la mancanza di una coscienza collettiva. Perciò, il passaggio da un folkore puramente ornamentale al teatro presuppone l’elaborazione del trauma storico della tratta.

La maturazione di una coscienza storica comincia a partire dagli anni ’60 con lo sviluppo del teatro storico come mezzo per riappropriarsi del proprio passato e per correggere le versioni dei fatti storici, spesso falsate, imposte dalla storiografia ufficiale. È necessario liberarsi di tutte le imposizioni e le maschere dell’Occidente e proprio come il Calibano della sopracitata Une tempête (1969) di Césaire, riscrittura di The Tempest di Shakespeare, ci si vuole sentire finalmente liberi ed essere i protagonisti di una storia da costruire. L’ex-schiavo e il suo colonizzatore devono ormai necessariamente convivere ma da eguali.

Punto di riferimento per questi scrittori è la storia dell’indipendenza di Haiti, la prima colonia a dichiararsi indipendente nel 1804, e i suoi eroi:

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Cfr. E. Glissant, Le Discours antillais, Seuil, Paris 1981, pp…. ? 7

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XII Jean-Jacques Dessalines, Toussaint Louverture et il re Christophe. Tra le tante pièce ispirate a questi personaggi ricordiamo La tragédie du Roi Christophe (1963) di Césaire et Monsieur Toussaint (1986) di Glissant. Un’altra fonte storica da cui si trae ispirazione è la silenziosa rivoluzione nelle Antille contemporanea a quella che si svolgeva nella Francia metropolitana, la ben più nota rivoluzione francese, come per An tan revolysion di Marise Condé (risale a quest’epoca, precisamente nel 1794, la prima abolizione della schiavitù nelle Antille, poi ristabilita da Napoleone nel 1802). Non si tratta però soltanto di commemorazione celebrativa perché queste pièce sono anche strumento di critica politica, un modo per mettere sul banco degli imputati il potere e coloro che ne subiscono l’irresistibile fascino.

Se da una parte la spinta alla ricerca di un’identità si riflette nella volontà di ricostruire una storia e una cultura sulle epopee degli eroi del passato, dall’altra si cerca di fornire uno specchio al pubblico popolare mettendo in scena il suo quotidiano. Questo passo è facilitato dal fatto che tanti aspetti della vita di tutti i giorni sono vissuti teatralmente dalla gente dei Caraibi, dal carnevale, momento in cui ci si esprime liberamente senza divieti come sulla scena del teatro, alle cerimonie vudù, fino alla politica. E poi, anche il presente attuale, essendo tragico, può servire la soggetto drammatico.

Un esempio concreto di questo tipo di produzione è Ton beau capitaine di Simone Schwarz-Bart che mette sulla scena la miseria, i problemi e le difficoltà della gente comune. La riflessione sul dramma dei cosiddetti boat people, i migranti per mare, l’esilio, la relazione sentimentale tra un uomo e una donna divisi dall’oceano della separazione, sono tematiche serie sottese a un modo di presentare la vicenda che a volte stempera la tragicità nel riso, nella danza e nel canto. Questa era la strategia degli schiavi nelle piantagioni, dove si cantava e si danzava per non soccombere ai colpi della frusta e per alleviare la nostalgia della terra lontana. In Ton beau capitaine,

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XIII proprio un oggetto per l’epoca moderno, la cassetta, figura come simbolo dell’antica cultura orale e della condizione di analfabetismo dei boat people: è proprio grazie a questo banale oggetto che i due protagonisti, Wilnor e Marie-Ange, possono comunicare e “accorciare” le distanze.

Anche i drammi che traggono ispirazione dall’attualità sono una forma di resistenza culturale nei confronti del teatro europeo: la teatralizzazione del quotidiano delle società caraibiche come strategia di sopravvivenza nel passato e come celebrazione dei valori umani è una caratteristica specifica di questo tipo di cultura. In generale si può dire che tutto il teatro antillano, sia storico sia non, sia che usi il creolo sia il francese, porta il segno della cultura popolare perché si nutre di un immaginario e una mitologia molto particolari. Inoltre, il ricorso alla danza, alla musica, ai tamburi, al canto e alla gestualità concorrono insieme a creare uno spettacolo totale.

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